Guerra e pallone

di Francesco Luti

Càpita a tanti non aver mai conosciuto un parente stretto: rinunciare da subito a una pedina del genere; accostumarsi a giocare in inferiorità numerica, a partire dai blocchi un metro indietro; girare per strada con un occhio bendato. Ogni mancanza comporta una penalizzazione. Giancarlo, come milioni di bambini era dunque cresciuto senza il nonno. Un nonno speciale, il suo, Graciliano Vieira, che poco c’entrava con le terre di confine tra Emilia Romagna e Toscana. Eppure a c’era venuto a combatterci una guerra d’altri. Suo nonno e gli altri della Feb, una divisione di fanteria e una minima forza aerea, circa venticinquemila uomini, avevano appreso alla svelta cosa fosse una guerra.

Eppure Giancarlo quel nonno se l’era ricostruito che neanche uno scrittore, o un Geppetto, ci sarebbero riusciti. E quanti trucioli, un truciolo per ogni giorno usurpato non si sa da chi e a chi: da Giancarlo al nonno, o viceversa? Un truciolo per ogni lacrima. Crescere col mito di qualcuno non giova. Per questo mamma e babbo, perché Giancarlo si rivolgeva così a suo padre (siamo in Toscana), avevano cercato non di sedare ma di addolcire la sua curiosità.

D’estate, nei ritorni a Montese, dopo i giochi coi coetanei s’assentava e non era raro vederlo a chiacchiera con Ferruccio Olmi, amico del nonno e tra gli sfollati di Montese ai tempi dell’occupazione nazi-fascista. Ferruccio, poco più che un ragazzino all’epoca, fu tra coloro che presenziarono al posizionamento delle mine tedesche, le schuminen: anticarro e antiuomo. Con altri testimoni era andato a riferire ai genieri americani dov’erano nascoste, e gli statunitensi col metal-detector le fecero in tempo a rimuoverle. Un tipo sveglio che ben presto assurse a memoria storica di Montese. Sussisteva pure una parentela tra Ferruccio e la nonna di Giancarlo; un cugino alla lontana, e fu proprio Ferruccio a introdurre Graciliano in famiglia e agli amici del paese. Per Graciliano, per Miguel Pereira e per i brasiliani insomma, c’era il vantaggio d’essere stati i “liberatori”, e la gente non aveva dimenticato. Ferruccio, il Martini (il cui padre era un personaggio pittoresco), il Fabbri e altri, con Pereira e Graciliano nei pressi di Monte Castello avevano collaborato a rinvenire i corpi assiderati dei soldati brasiliani. Questo aveva consentito che legassero presto e di più con tutti gli abitanti della zona.

Una passione accomunava Ferruccio a Graciliano: il calcio. Negli anni Cinquanta, per un non breve periodo, avevano allenato i ragazzi della squadra locale: Ferruccio come secondo allenatore. Al campo comunale di via Campo del sole, lo stesso dove nella primavera del 1958 s’improvvisò una partitella rimasta nella storia della città di Montese e di cui nessuno, o pochi, tranne chi vi assistette, trascorsi sessant’anni, conserva ricordo. Difficile sapere come accadono per davvero certe cose quando si tramandano generazione dopo generazione. E dall’invenzione di sana pianta, per approssimazioni successive può arrivarsi persino a una versione veritiera dei fatti. Come in questo caso dove il rimescere di bocca in bocca, aveva fatto sì che l’accaduto, pur vero, arrivasse a una compiutezza tale da superare la realtà stessa.

Andò più o meno così. Ferruccio e Graciliano parteciparono all’evento, ma a renderlo unico furono coloro che scesero dalla fiat 600 multipla, antesignana dei monovolumi, col tetto bianco e la pancia azzurra con verniciato sulla portiera, Hotel Mediterraneo, Firenze.

Non era vero che c’era stato lo zampino degli alti ranghi dell’allora CBD, la Conferderação brasileira do desporto, né quello delle autorità diplomatiche che mai seppero. Era bastata una telefonata di Vicente Ítalo Feola, allenatore della Seleção, la nazionale di calcio in tournée in Europa per acclimatarsi, e che di lì a un mese e mezzo avrebbe stravinto i campionati mondiali in Svezia. Il giorno avanti la comitiva era giunta a Firenze con tre ore di treno da Roma, atterrata con un Dc-7 della Panair do Brasil dopo altre venti di volo da Rio con scali a Recife, Dakar e Lisbona.

Venuto a conoscenza che non lontano da Firenze abitava un ex combattente della Feb, proprio a Montese, dalla sua camera affacciata sull’Arno Feola chiamò casa Vieira e, dopo i preliminari di saluto, gli domandò quanto distasse Montese poiché gradiva recarcisi già l’indomani giacché di lì a tre giorni i suoi ragazzi erano impegnati al Comunale di Firenze per affrontare la Fiorentina di Sarti, Magnini, Chiappella, Montuori, Segato e di un altro brasiliano, Julinho, che un paio di settimane prima aveva vinto il primo scudetto della storia viola.

Feola aveva avuto un caro amico tra quei militari, il coraggioso sergente Max Wolff Filho, raggiunto al petto da una mitragliata (la MG 42, la cosiddetta lurdinha, da 1200 colpi al minuto) mentre correva da un punto a un altro della vallata, quand’ormai i giochi erano fatti, e Montese due lune dopo sarebbe stata riconquistata dai brasiliani.

Con Wolff, di padre austriaco (paradosso se si pensa ai natali del Führer, Feola, d’origine italiana e la cui lingua masticava, aveva stretto amicizia negli anni Trenta. Il non ancora commissario tecnico del Brasile, apprese di quella morte da Etelvina Pacheco, la madre di Wolff, che gli mostrò la lettera che il Generale Euclydes Zenobio da Costa comandante il sesto reggimento di fanteria, le aveva spedito da Alessandria. La diceva lunga su chi fosse suo figlio, il secondo sergente Wolff: “Non ebbe pari in fatto di lealtà, attaccamento, coraggio e spirito di sacrificio”, e quella lettera datata 26 di maggio lo aveva accompagnato come un ritornello fino a questo maggio fiorentino.

Feola voleva recarsi a Serretta di Maserno, nei pressi di Montese, nel luogo dove Max era stato colpito e lo avrebbero accompagnato Graciliano e Miguel Pereira come da accordi via cavo. Dall’altro lato dell’apparecchio Graciliano aveva assentito poi Feola volle informarsi se sarebbe stato possibile utilizzare il campo sportivo per una sgambata. “Portiamo noi i palloni…”, aggiunse.

Alle quattro e venti di un lunedì soleggiato di maggio, dalla fiat 600 multipla, oltre all’autista, fuoriuscirono sei persone. Il pingue Feola con non poche difficoltà; il dottor Gosling medico della nazionale brasiliana, il capitano Bellini, il portiere Gilmar, il recifense Vavá, e Mané Garrincha.

Negli anni, Graciliano aveva collezionato ritagli sulle principali squadre di Rio e di San Paolo, articoli che quasi mai accennavano al suo Recife. Però sapeva di Vavá, suo concittadino, attaccante dello Sport Club di Recife che nel 1952, diciottenne era passato al Vasco da Gama, il club carioca dei canottieri. Nei ritagli spiccavano i nomi di Nilton Santos, Didi, Gilmar del Corinthians e Bellini del Vasco. E ora questi ultimi, personificati, scendevano dal pulmino.

Eppoi c’era Garrincha che in nazionale aveva esordito tre anni prima. Di lui sapeva che da bambino aveva patito la poliomelite e gli era rimasta la gamba destra deforme, torta come non se n’era mai vista l’uguale. Il meticcio appariva piccolo al confronto dei giganti Gilmar e Bellini, e quella deformazione lo faceva sembrare inabile al football. Il tempo avrebbe sentenziato che due mondiali vinti dal Brasile si devono a Garrincha; poi si sarebbe conosciuto il declino, le sue doti nascoste che lo facevano inseguire da femmine in ogni luogo (in Svezia, consenziente il padre, incinse una biondina del luogo senza farsi pregare) del viziaccio del bere e del ribere che lo avrebbe traghettato alla morte alla soglia della cinquantesima candelina.

Eccoli a Montese con la tuta verde della seleção con lo scudo della CBD sullo stomaco e le scarpette nere di tela con la suola di gomma. Scesero davanti al Bar Pensione Montese, proprio quello che funse da posto di comando del maggiore Henrique Oest. Sorridenti, soprattutto Mané Garrincha coi piccoli occhi neri dal taglio indio. Tutta Montese si era concessa una giornata di festa poiché arrivavano i brasiliani e per quella gente la parola Brasile, recava in sé una valenza speciale, vero paradigma di libertà.

Un bambino non ci pensò due volte a calciare un suo pallone di cuoio verso il pulmino. Garrincha vi si avventò come fa un cane, con lo stesso istinto per eseguire un numero da circo impossibile da trascrivere un po’ perché erano cose che ‘l tacere è bello.

Graciliano funse da cerimoniere, e richiese pazienza alla piazza: che rincasassero perché prima toccava accompagnare Feola in quel suo giro. Che lasciassero tranquilli i giocatori e si ripresentassero al campo sportivo tra un’ora.

Quando tornarono per prelevare i calciatori dal bar dov’erano per il caffè e gli autografi, la gente era già sulle gradinate. Le donne del paese seguitarono a imbandire la tavolata: ciliegie, fichi, salame, mortadella, pane e tortelli. Ferruccio era rimasto al campo per la vestizione di quella quindicina di volontari per la partitella, perlopiù i componenti della squadra locale, con l’aggiunta di altri venti nomi che avrebbero fatto volentieri una comparsata, allenatori permettendo.

Feola anticipò che avrebbero innanzitutto eseguito un riscaldamento d’una mezza dozzina di giri di campo. I brasiliani sorridenti salutavano la gente assiepata sulle gradinate. Non si sa come erano affluiti anche da altre località limitrofe, e perfino da Porretta Terme dove i soldati nel 1944 avevano disposto i fili telefonici tesi da una casa all’altra. Gli ultimi a sistemarsi si disciplinarono a bordo campo. Arrivò Ferruccio e scaricò la rete dei palloni. Feola fece un cenno di stop a Ferruccio che la posò in un angolo. Ancora non era il momento. Il commissario tecnico impose una serie di esercizi a terra: flessioni e addominali, infine sarebbe toccato agli stiramenti.

Garrincha correva controvoglia e c’era chi tra il pubblico cominciò a dubitare delle sue qualità. Invece stava aspettando slegassero i palloni, e ogni volta che ci passava davanti, gettava uno sguardo da innamorato.

Graciliano fu avvicinato da Feola che lo indusse a scegliere undici giocatori, e che fossero i migliori, poi si sarebbero soddisfatti anche gli altri.

“Perché undici? A voi ne mancano altri sette…”, proruppe Graciliano.

Feola sentenziò dicendo che avrebbero giocato in quattro così sudavano di più…

La formazione brasiliana di quel tardo pomeriggio di maggio a Montese era presto composta: Gilmar in porta, Bellini in difesa, Garrincha a metà campo e Vavá libero di svariare dalla tre quarti in su.

Il primo vero triangolo di quel rimaneggiatissimo Brasile propiziò l’uno a zero. Garrincha con un paio di finte aveva messo a diacere i tre marcatori diretti; poi si era permesso di scartarne altri due, portiere compreso e passeggiare oltre la linea di porta annotando la rete del vantaggio.

Gli undici di Montese si batterono con coraggio. Tirarono anche in porta e Gilmar in un’occasione si oppose a Bonetti, il geometra del comune. Vavá si scatenò dopo una ventina di minuti svegliato dagli urli di Feola che lo aveva visto sbadigliare apertamente. Una tripletta in un quarto d’ora. Si trattava di affondi in velocità che tagliavano il campo in diagonale per ritrovarlo a tu per tu con Mariano Rossi, il portiere di casa all’occasione, ma al secolo custode della scuola materna. Il primo tempo si chiuse sei a zero.

Garrincha non aveva finora esibito la celebre finta con l’accelerazione a destra. Come se Feola gliela avesse proibita… Nell’intervallo Graciliano andò a chiedere lumi e Feola ammise d’essere stato proprio lui a vietarla come si vietano le armi chimiche. Negli ultimi anni dai ritagli di “Placar” che sua sorella gli spediva, Graciliano aveva saputo della finta e con un certo vezzo da giorni non parlava d’altro. Ma visto che Garrincha faceva tutto fuorché fintare, i cittadini di Montese azzardarono fosse una balla del Vieira.

Feola si era giustificato dicendo che “Mané ha quel viziaccio lì, e voglio che impari a penetrare in area all’interno del marcatore, cioè sulla sinistra, per sbilanciarlo e non allontanandosi unicamente sulla destra. È per questo che gli ho proibito quella finta, altrimenti ne avrebbe già eseguite chissà quante.”

Forse per questo Mané non pareva divertirsi. Graciliano sorrise, poi si consultò con Ferruccio e di nuovo rivolto a Feola richiese espressamente una deroga a quel divieto.

Feola acconsentì e andò a parlottare con Garrincha. Gilmar, Bellini e Vavá accettarono il ruolo di spettatori visto che saliva in cattedra la più straordinaria ala destra di tutti i tempi.

Quelle cinque finte gemelle furono eseguite in serie nell’arco di altrettanti minuti, come a non poterne più. Tre delle quali videro come naturale prolungamento tre fucilate di esterno destro. Una finì all’incrocio dei pali, una sotto le gambe di Rossi, e l’ultima tra il palo coperto dal portiere e il portiere stesso, il cosiddetto primo palo.

Mané pareva finalmente contento. Sorrideva di continuo e su quel rostro spiccava l’assenza dei molari alti, i più esterni. Per lui le partite assumevano eguale valenza che fossero con la nazionale, col Botafogo, o in una pelada al paesino d’origine, Pau Grande, nell’entroterra dello stato di Rio.

Fu una giornata memorabile per Montese. La gioia era riaffiorata e i brasiliani ancora una volta ne furono gli artefici.

Due giorni dopo allo stadio di Firenze i giocatori della Fiorentina furono strapazzati dai ragazzi di Feola per zero a quattro. Gol di Altafini, una doppietta, di Garrincha e di Pepe. Due lune dopo ripeterono il risultato contro l’Internazionale.

La notte di Milano, Garrincha non giocò. Qualcuno adesso chiederà: e Pelé? Di lui in Europa non si era ancora sentito parlare. Pelé avrebbe raggiunto i compagni in Svezia, convocato all’ultimo tuffo. Aveva diciassette anni, come tanti tedeschi morti a Montese che appartenevano all’organizzazione giovanile del partito nazista Hitlerjugend, eppure in Svezia il suo apporto fu decisivo e le reti in finale in mondovisione lo incoronarono nuovo re del calcio.

Graciliano e tutta Montese esultarono quella sera di luglio quando Bellini sollevò la Rimet Cup allo stadio di Stoccolma. E nel sorriso tra le lacrime del capitano, qualcuno volle vederci un ghigno a Montese, un ricordo della partitella conclusa a pane e salame. Era stato il vecchio Beppino Martini, ormai ciucco, a leggere sul viso di Bellini quell’omaggio a Montese, lui che quella notte finita a vino e salame coi brasiliani, aveva parafrasato Dante, quello di pape satan aleppe, esclamando: “E come disse il buon Dante, amico nostro, Pane, salame a fette!”

 

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