Tre capitoli da “Giorni da vivere”

di Lidia Are Caverni

CAP. VIII
 
Arrivò giugno quasi d’un volo. Tina non aveva più unghie e fra poco si sarebbe mangiata anche le punte delle dita. Aveva ritrovato il piacere di studiare e per di più sentiva maturata in sé una volontà nuova che accresceva la capacità di organizzarsi e di approfondire.
La sua casa era diventata un tappeto di libri e di carte, non si preoccupava più di riordinare, le bastava pescare per ritrovare quanto le occorreva, a risistemare avrebbe pensato dopo, prima di partire.
L’isolamento in casa le dava l’esaltante percezione di dipendere esclusivamente da se stessa e rimaneva lunghe ore seduta a segnare appunti e coordinare.

L’Urbanistica era il mondo dell’utopia e dell’immaginario, ma anche del reale ed era entusiasmante ripercorrere progetti e provarne a costruire, spazi colmati da sapienze umane nel raziocinio che consentiva un vivere migliore.
In fondo abitare in un ambiente degradato consentiva stimoli sostitutivi e nelle rare uscite, Tina cancellava come con un tratto di matita le sovrastrutture aberranti per sostituirle con ariosità nuove che l’avvincevano. Era un gioco fantastico che dava il senso di quanto faceva giorno per giorno.
La mancata compiutezza di Mestre forniva propaggini di infinite possibilità.
*Erano le città invisibili a ridisegnare percorsi e forse erano due come Desina, un sogno raggiunto dal mare o dal deserto, non più pullulante di antenne  e di tetti, ma di oasi profumate di datteri.
Forse Marco Polo poteva qui trovare il suo Kublai Kan e cogliere risposte a domande antiche.
Seduta sul balcone, sul gradino, Tina contemplava marmi fittizi incastonati su palazzi che conservavano antiche glorie, scorgeva le pietre di castelli avviluppati in minuscoli giardini.
Il segno della memoria è lento da togliere, per quanto l’incuria umana possa cancellare, qualcosa resta a dare testimonianze di sé, colora anche il superficiale, l’accomodaticcio, fuoriesce in mattoni sconnessi tra modernità allineate, si mostra in brevi piastrelle dimenticate sotto portici che conservano di antico soltanto il nome.
I nomi di quel che più non era: il Parco scomparso, il ponte di campane inesistenti, potevano forse essere fatti di desiderio, di nostalgie mai perdute, nomi suggestivi ed esotici, Zora, Sofronia, città dalle mille forme, attuate nel pensiero.
L’immaginario non ha confini e Tina spaziava fra i progetti dell’attuabile e quelli dell’impossibile, in tramonti di rossi perduti in ovest lontani e mattini folgoranti sugli ori di Venezia.
A volte già calava l’afa opprimente dell’estate, si respiravano miasmi di polveri e di sudori, nel formicolio di attività, resti di scambi contadini mescolati ai fervori del nuovo.
Le lezioni in Facoltà erano finite, doveva solo andare a vedere la data esatta dell’esame.
Non aveva avuto più occasione di vedere Valerio, solo una volta l’aveva scorto da lontano e l’aveva guardata con espressione ostile. Tina si era girata, con una vaga malinconia che la intristì per come degenerano le vicende umane.
Ora costruiva nuovamente la sua esistenza, questo solo contava.
Di quando in quando si concedeva qualche rara sosta e non solo per i suoi fabbisogni personali.
Aveva conosciuto una ragazza che lavorava nell’ufficio di un Commercialista, di poco più giovane di lei e insieme verso sera passeggiavano sul Viale discutendo di mille cose, a volte fermandosi sulle panchine della Rotonda mangiucchiando un gelato.
Teresa non studiava più e forniva saldi obiettivi di praticità quotidiana che Tina, ancora sospesa in una specie di limbo, in un’adolescenza che superava gradatamente e che chissà quando sarebbe terminata, ascoltava con interesse.
Anche Teresa si amministrava da sola, ma aveva il fascino del denaro guadagnato mentre Tina si sentiva tutt’ora in un perenne affidamento finanziario che i genitori non le facevano pesare, ma che a volte le dava guizzi momentanei di ribellione. Percepiva nell’amica una sicurezza che lei trovava solo nello studio, ma di cui gli obiettivi concreti erano ancora lontani.
Teresa raccontava del capo ufficio, dei colleghi, della monotonia di un lavoro sempre uguale, Tina poneva domande e poi taceva, con uno strano senso di rispetto per l’occupazione dell’altra, per quanto così poco gratificante.
Insieme si compensavano, trovavano momenti di autentica amicizia.
Si domandavano come avevano fatto a non conoscersi prima, abitavano a due passi l’una dall’altra e a volte dopo cena, se Tina non aveva da studiare e Teresa non usciva con amici, si trovavano nell’uno o nell’altro appartamento e restavano sedute sul letto a chiacchierare e  ad ascoltare musica.
Teresa abitava anche lei da sola e in qualche momento si dicevano che avrebbero potuto abitare insieme, ma entrambe amavano la propria indipendenza che non avrebbero regalato, neppure per amicizia.
Quando mancavano ormai pochi giorni all’esame, le telefonò Marilena.
Con Marilena non erano proprio amiche, frequentavano entrambe la Facoltà di Architettura, ma Marilena era più avanti nel corso, le mancava sì o no un anno, ma avevano simpatia l’una per l’altra.
A Tina piaceva la franchezza di modi della ragazza, i capelli  lunghi e lisci, un sorriso pronto e cordiale sulle labbra, si salutavano e a volte parlavano insieme.
Le telefonò una sera:
“Vorrei vederti, disse, “potrei venire a trovarti?”
“Certo che puoi, quando vuoi, per lo più sono in casa, sono in ritiro, lo sai”.
“Verrò domani alle tre, se non ti disturbo”.
“Certo che no, ti aspetto”.
Tina non era sorpresa, fra ragazzi le formalità si scavalcano facilmente e l’altra non era un’estranea.
 
 
* I riferimenti sono tratti da “Le città invisibili” di Italo Calvino
 
 
 
 
 
 
CAP. XI
 
Seduta sul balcone di casa sua, Tina mordicchiava un panino, le gambe ravvolte nella gonna che le era piaciuto di indossare, a segnare uno stacco con i giorni che erano preceduti e che l’avevano vista in eterni calzoni e magliette.
Nel cortile beccavano i piccioni e Tina osservava il consueto spettacolo mentre si radunavano a frotte sotto le sue finestre a raccogliere  briciole o si arrampicavano su per le scale che non conducevano a niente, un poco annerite, di marmo bianco che sfociavano in una porta murata.
“Una scala verso il cielo” pensava a volte “oppure sulle pareti di un castello.” E in realtà il palazzo a cui si appoggiava, era di derivazione veneziana e sul davanti recava lo stemma di San Marco.
Il cortile era sempre deserto, guardato dalle tende increspate della banca, a cui nessuno si affacciava.
“Ci starebbe bene una statua di Marini, i cavalli fusi a confondersi nelle forme umane o una rotondità di Moore, le vedrei solo io e qualche piccione, come averle in casa propria.”
Sul tetto un’altana mostrava vasi di fiori che il custode regolarmente annaffiava, un regalo anch’essi che si manifestava solo a Tina, la quale assaporava così gli esami finiti, nella rilassatezza che segue la tensione del guerriero.
“Mi riposo,” pensava “e mi sta bene”.
L’esame era riuscito, il Professor Poli era venuto a congratularsi personalmente. Le aveva stretto la mano tenendogliela un poco fra le sue e il gesto l’aveva commossa più che si fosse trattato di un amico.
“Il mio esame più conquistato”, considerava ora ripensando alle difficoltà dell’ultimo mese e se ne sentiva orgogliosa e sollevata.
Si stava preparando a partire, due valige già pronte aspettavano ai piedi del letto.
“Dovrai fare da sola”, le aveva detto la madre per telefono. “Non potremo venire a prenderti, tuo padre è molto occupato, se vuoi vengo io, ma se ci riesci è meglio che tu faccia da sola”.
“Mi devo arrangiare, insomma”, rifletté a cornetta abbassata e non se ne rammaricò.
Sarebbe andata col treno e poi da Peschiera in pullman, non era cosa da poco, in fin dei conti, però si stava abituando all’auto gestione e non le dispiaceva.
Sarebbe poi nei prossimi giorni tornata con la macchina a prendere libri e quanto mancava.
Aveva una piccola Fiat Uno che le era stata regalata per i suoi diciotto anni con la quale, quando era a casa, scorrazzava dappertutto e che non si portava a Mestre per non crearsi problemi di parcheggi.
“Ma la bicicletta a settembre me la porto, come ho fatto senza in questi due anni?” Si domandava.
Il giorno prima gliene aveva prestata una Teresa ed erano andate insieme a fare un giro in periferia.
Avevano percorso la strada che da Carpenedo porta al Terraglio, la via per Treviso. Avevano costeggiato il boschetto della Villa Matter che avevano trovato chiuso.
Avevano quindi girato fino agli ampi prati esterni, in parte coltivati a grano, ormai alto in spiga, in parte a fieno, ricoperto di fiori colorati. Da là erano entrati nel boschetto, ombroso e fresco.
Faceva parte dei residui di un antico bosco planiziale e che, appartenuto fino a pochi anni addietro al proprietario della villa, era stato poi ceduto come suolo pubblico.
Gli alberi alti e fitti formavano un’oasi fra i campi e la strada, ancora fiancheggiata da edifici signorili. Facevano parte delle dimore estive delle famiglie aristocratiche di Venezia che nel caldo soffocante cercavano un po’ di ristoro in quello altrettanto soffocante della terraferma, ma con il vantaggio di spazi verdi e con la non sotto  valutabile soddisfazione di poter dire che andavano “in villa”.
Il boschetto, rinato da ceppi tagliati durante la seconda guerra mondiale, era nuovamente rigoglioso in querce, carpini, faggi che formavano vaste chiome.
Pur nella sua ridotta vastità, i vialetti si intersecavano a formare passeggiate e il fondo elastico ed umido, per la presenza di polle acquifere sotterranee, aderiva al passo di leggere scarpe da ginnastica.
Negli ultimi tempi era purtroppo sottoposto a gimkane di motociclisti e incustodito, frequentato da sbandati.
Tina e Teresa, lasciate le biciclette, avevano proceduto chiacchierando osservando le piccole piante di quercia nate da semi caduti stando attente a non entrare nei cespugli. Sarebbe stato un delizioso luogo di riposo e chiuso dal lato della via, in quel momento lo era.
Il sole del pomeriggio penetrava tra i rami più alti creando giochi di luce e ombra, odori di muschi e di terra bagnata, in qua e là pozze che occorreva aggirare, nell’aria una vaga nebbiolina da foresta equatoriale che garantiva la sussistenza del bosco.
Bighellonarono alquanto facendo tutto il percorso del parco.
Anche Teresa sarebbe fra breve partita.
“Lasciamo le nostre case abbandonate” e risero della propria preoccupazione.
“Speriamo bene che non vengano i ladri”.
“Ruberebbero poco,” disse Tina “tutt’al più qualche libro”.
“E dici niente, con quel che costano”.
“È vero”, ammise Tina, ma in quel momento era piacevole non pensare ai libri. Solo quelli di semplice lettura, allo studio avrebbe pensato a settembre.
I genitori di Teresa abitavano a Cavarzere e ora la figlia tornava là, prima di andare un po’ in vacanza.
Riprese le biciclette, girarono in tondo fino a rientrare nelle strade piene di traffico. Pedalavano lentamente per non tornare troppo presto ritmando i movimenti spostandosi di quando in quando per lasciar passare le macchine riaccostandosi per dirsi qualche parola fino alla prossima strombazzata di clacson.
Provarono un po’ di tristezza:
“Ci rivedremo a settembre”, si dissero prima di salutarsi.
 
 
 
CAP. XXI
 
Con Silvia per mano, Tina saliva lungo la collina.
Il giorno aveva rallentato sensazioni.
Si era alzata come al solito, ristorata. Aveva chiacchierato con la madre e con Marco che, in motorino, si stava accingendo  ad andare a fare i benedetti  acquisti.
Fu occupata, le valige erano quasi pronte e si era preparata quanto voleva portare con sé con precisione.
Nel pomeriggio passò a prendere Silvia, con il progetto di percorrere a piedi il pendio che portava alla sommità del colle per proseguire più oltre, a una seconda sommità da cui si vedeva meglio il panorama.
Durante la notte non aveva poi piovuto e il vento aveva trasportato lontano le nuvole, sicché il cielo si manteneva sgombro e l’aria vagamente frizzante.
Tina aveva voglia di muoversi, si sentiva bene, con una sorta di allegria che le dava la spinta ad agire.
Silvia si mise sulle spalle uno zainetto con l’immancabile merenda camminando le chiese:
“Quando parti?”
“Domenica mattina”, rispose.
“E stai via tutta l’estate?”
Tina fece cenno di sì.
“Anch’io vado via tra qualche giorno. Viene la mia mamma a prendermi”.
La mano di Silvia nella sua non stava ferma, sembrava un uccellino che volesse volare. Tina gliela strinse:
“Ci vedremo, vedrai, tornerai ancora”.
Silvia annuì, poi le domandò del mare:
“Che cosa farai quando sarai là?”
“Andremo in barca a scoprire spiaggette, ci fermeremo nei posti più belli dove non c’è nessuno”.
“E dormirai anche in barca?”
“Dormirò anche in barca e ci faremo da mangiare”.
“Allora hai una barca grande?” Silvia non smetteva più di far domande.
“Non è grandissima, ma ci può stare tutta la mia famiglia e volendo anche qualche amico”.
“E pescherai?”
“Non mi piace pescare, Marco pesca con la fiocina. A me piace andare sotto il mare e i pesci voglio vederli vivi che mi passano vicini”.
Tina rispondeva con pazienza e Silvia era inesauribile:
“Io vado a Rimini”, affermò.
“Ah! È bellissimo e scommetto che ti porterai molte cose per giocare, formine, retini, farai il bagno ai bambolotti”. E continuò a elencare.
Silvia aveva gli occhi che splendevano:
“Ho il secchiello nuovo, il materassino gonfiabile, un salvagente a forma di ochetta e i bracciali. Quest’anno li voglio mettere perché sono grande e voglio imparare a nuotare.”
“Diventerai una nuotatrice e potrai andare sott’acqua anche tu”.
“Certo”.
Tina e Silvia avevano oltrepassato la prima sommità e quando presero a salire per il secondo pendio, la bambina rallentò:
“Fa caldo”, disse.
Era vero, il tratto era tutto scoperto al sole e Tina vedendo le guancette arrossate di Silvia propose:
“Ci fermiamo, se vuoi”.
“No, proseguiamo, se mai ci fermiamo tra un po’”.
Da una borraccetta bevve qualche sorso d’acqua, si sentì in grado di andare oltre.
Tina ora camminava più piano, i piedi di Silvia ogni tanto incespicavano e non voleva stancarla.
Trovarono un tratto in ombra e fu più facile giungere in cima.
Si buttarono entrambe a braccia aperte sul prato:
“Ah! Come si sta bene!” Esclamò Silvia felice.
Rimasero così per un pezzo, rilassate e Tina, infilato in bocca un filo d’erba, contemplò il cielo fino a dove incominciavano le macchie scure degli alberi.
Camminando carponi, quasi non vista, Silvia le si accostò mentre si stava mettendo seduta e appoggiò la testa sul suo grembo.
Tina rimase sorpresa, intenerita e la lasciò fare.
Per un po’ Silvia continuò a parlare, poi le parole divennero un mormorio, si addormentò.
Tina non aveva il coraggio di muoversi per non svegliarla provando il rimorso per averla fatta camminare troppo a lungo.
Osservò il viso della bambina, le sopracciglia aggrottate per quindi distendersi, come se inseguisse pensieri, i piccoli pugni dischiusi.
Guardandola, le parve estremamente lontana.
Dal movimento delle palpebre chiuse capì che sognava. Ma che cosa sognava, dov’era, quali colori o bianchi e neri si muovevano nella sua piccola mente?
Ebbe quasi voglia di svegliarla, perché la vedeva immota, le guance impallidite nel sonno.
Per accertarsi del suo vivere, le passò una mano sul viso, delicatamente e sentì la pelle liscia, un po’ umida verso le tempie.
Silvia sospirò e si mosse continuando a dormire e Tina avvertiva il tepore della sua testa come un fardello.
Le parve che potesse aver freddo e le sfiorò le gambe, le sentì calde e si rese conto che sarebbe stato assurdo, col calore che la terra rimandava.
In fondo, nella pianura, si intravedeva a filo il lago, le innumerevoli balze che conosceva così bene e che pure le sembravano sempre nuove.
Ne considerò i mutamenti che il luglio incominciava ad apportare, con i frutteti scuri e i campi tagliati a mostrare bionde radici.
Silvia respirava lieve, a volte increspando le labbra, sembrava non dovesse svegliarsi mai, sembrava volesse far parte di lei fondersi nella sua stessa corporeità.
La strinse un poco, piano, in un impeto.
La bambina allora aprì gli occhi e si svegliò sorridendo, come se non fosse mai andata via nel sonno.
Si sollevò stiracchiandosi e disse:
“Mi sono addormentata” e rise.
Guardandola Tina si rese conto con dolore che Silvia non poteva sapere ciò che lei aveva provato. Forse tra il sonno e la veglia non c’era stata differenza, i colori erano gli stessi e lei era stata sempre là presente nei suoi giochi.
Silvia infatti si era alzata, era allegra come prima, inconsapevole di altre emozioni se non quelle di esistere, con le sue piccole mani e gli occhi splendenti.
Tina sentì desiderio di tornare, di uscire da un incanto.
Lasciò che Silvia facesse merenda, poi quasi bruscamente disse:
“Vieni, scendiamo”.
Scendendo Tina si ritrovò serena, procedettero a balzelloni scivolando con i piedi sui sassi dei pendii, fino a giungere in fondo, con le scarpe vergognosamente ricoperte di polvere.
Camminarono veloci per arrivar nel tempo stabilito, senza avvertire stanchezza.

 

Descrizione
Un romanzo di formazione che, tra attimi di vita vissuta e paesaggi indimenticabili, segue il percorso di crescita della protagonista, la quale acquisirà coscienza di sé preparandosi a divenire donna. Tina, studentessa di Architettura, è fiera della sua indipendenza e ama gli studi che compie, in cui esprime la sua volontà di affermarsi. Vive da sola a Mestre, città in cui conosce persone che la portano a maturare. Ha un compagno di università, Valerio, con cui ha un’amicizia particolare, ma da cui si allontanerà. Rientrata in famiglia, in un paesino sul monte Baldo, in provincia di Verona, conosce Silvia, una bambina per cui esercita un ruolo quasi materno. La studentessa Tina affronta le varie problematiche con determinazione, guardandosi dentro in modo positivo.

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