Storia della colonna infame

 IL MANZONI DI FORTINI (II)

    di Donato Salzarulo

Il seguito della nota manoscritta è dedicato quasi tutto a «quelle centoventi pagine di prosa che si chiamano Storia della colonna infame». (pag. 1796)
La lingua di Fortini è precisa e densa. Il pensiero si organizza sinteticamente intorno ad alcuni nuclei tematici: l’origine e redazione del libretto, la storicità dell’episodio raccontato, il giudizio estremamente positivo espresso sull’opera (“è un capolavoro”), l’originalità e la nitidezza del dettato, la tragicità dell’accaduto e l’insegnamento morale che se ne può trarre, la sua attualità, le contraddizioni del Manzoni. Poco più di due paginette straordinarie per dire della straordinarietà di un’opera e dell’intensità di pensiero e di scrittura di un autore. Meglio non perdersele. Perciò le ripropongo al rallentatore, seguendo passo dopo passo le frasi fortiniane per enuclearne i problemi, farne un elenco e tentarne un primo commento.

1. Origine e redazione della Storia: «Manzoni aveva pensato di farne un capitolo del libro; poi, per motivi di equilibrio, lo separò.» (pag. 1797). All’inizio (1824), infatti, La Colonna Infame era materia del capitolo V, tomo IV, del Fermo e Lucia. Poi Manzoni, ancora in fase di elaborazione dell’abbozzo, giudicandola digressione troppo lunga e fuorviante, decise di toglierla. Destinata ad Appendice dell’edizione “ventisettana” dei Promessi Sposi (1827), non venne pubblicata per ragioni editoriali di proporzione. Giustamente Fortini si limita a questo accenno, data la stringatezza e l’economia di una nota. Il problema, però, è importante e chi intende valutarne la portata può utilmente ricorrere ad una delle varie edizioni in circolazione: ad esempio, quella curata da Carla Riccardi per gli Oscar Mondadori (1984) contenente le due versioni della É importante sia per chi voglia seguire correttamente l’evoluzione del pensiero e della poetica manzoniana, sia per chi voglia capire i gusti e le posizioni successive dei lettori e degli interpreti.

2. Storicità dell’episodio raccontato: «L’episodio è storico. Durante la peste del 1632 si era diffusa l’ossessione degli untori, la gente credeva che dei criminali, istigati dal demonio, spargessero nei luoghi pubblici sostanze capaci di trasmettere la peste. In molte città vi furono processi ed esecuzioni di presunti colpevoli.» (pag. 1797). Fortini scrive 1632. Quasi certamente è una svista. La peste ampiamente descritta nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi Sposi è quella del 1630. Milano fu una delle città più gravemente colpite. Del resto, la data è riportata all’inizio della Storia della colonna infame, nella prima riga dell’Introduzione: «Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste…». Essa è ripetuta nel primo capitolo: «La mattina del 21 giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa…». Al di là delle date, la peste è argomento tragico per eccellenza. Malattia infettiva, originata da un preciso batterio, con un suo periodo di incubazione e delle sue modalità di diffusione, essa è il risultato di un fenomeno naturale (come il morire, purtroppo). Gli esseri umani – ed è proprio la storia a dimostrarlo – non si limitano a queste spiegazioni scientifiche e disincantate. Sono importanti ma non sufficienti. Se ad una persona, infatti, viene diagnosticato un cancro, nove volte su dieci si chiederà: perché proprio a me? Che male ho fatto? Quali peccati ho commesso?… La peste – come il cancro – costringe a tirare in ballo concetti come “colpa”, “destino”, “male” ed “origine del male”, ecc. Quando alcune malattie assumono forme epidemiche, probabilmente nessun illuminismo e nessuna spiegazione razionale potranno scongiurare il diffondersi di credenze (nel demonio o nel dio Apollo lanciatore di dardi pestiferi nel campo acheo), l’apparire di ossessioni sociali e di climi paranoici, l’affannosa ricerca di capri espiatori, la preparazione e celebrazione di sacrifici cerimoniali come la messa a morte degli “untori”. É utile, inoltre, tener presente lo spettro semantico del termine che trasmigra facilmente dal campo medico-scientifico a quello storico-morale: la peste dell’AIDS, ma anche la peste nazista, della corruzione, del terrorismo, della guerra, del pensiero unico liberista, ecc. La nostra sicurezza è soltanto apparente. In realtà siamo sempre minacciati, sempre sull’orlo dell’abisso mortale.

3. Cenni brevissimi sui contenuti del libro: «Il libro manzoniano racconta una vicenda di povera gente arrestata, che parla sotto la tortura, accusa altri per salvarsi, coinvolge alte personalità (che, naturalmente, se la caveranno); di giudici ossessionati dalla pubblica opinione che esige vittime; della atroce condanna di innocenti a sei ore di tormenti e di morte cerimoniale. Sul luogo della esecuzione sarà eretta una colonna memoriale dell’infamia. Il libro si conclude con una spietata rassegna critica della ignoranza o viltà di cui dettero prova, nei duecento anni seguenti, gli storici e gli interpreti dell’avvenimento.» (pag. 1797). La sintesi è perfetta. Per non accontentarsi del riassunto stringatissimo di Fortini, non rimane che l’invito ad andare oltre. Recuperare da qualche scaffale la Storia e immergersi nella lettura «d’un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini». (pag. 4)[1]. Il problema è qui: il gran male fatto senza ragione. La peste è una tragedia, un’esperienza possibile. Se il suo arrivo si può attribuire al fato, al destino o alla nostra condizione naturale (l’essere fatti di carne), a chi attribuire, se non agli uomini, il farsi del male senza ragione? Perché, anche dopo la peste, tanta ignoranza e viltà degli interpreti? C’è di che disperare. Tanta è la falsa coscienza che le situazioni pestifere attivano.

4. Giudizio sull’opera e connesse motivazioni: «Il libretto (se si eccettuano alcune pagine di noiosa rassegna delle opinioni giuridiche sull’uso della tortura) è un capolavoro. L’esposizione dei fatti e il commento ideologico e morale sono strettamente connessi. Un senso di tremenda fatalità percorre tutte quelle pagine. La storia delle umili vittime prese nell’orribile ingranaggio della ingiustizia è raccontata con la tecnica classica della Passio Domini Nostri Jesu Christi ossia per “stazioni” successive.» (pag. 1797). Capolavoro. É un giudizio netto quello di Fortini, motivato. In tal modo, egli viene a collocarsi in quella schiera di lettori e critici, di poeti e romanzieri che, prediligendo questo libretto, contribuiscono a interpretare l’opera di Manzoni in maniera più ampia e completa. Il nostro classico non è soltanto l’autore dei Promessi Sposi. Proporre che la Storia venga letta a scuola è pia illusione. Nel biennio molti professori hanno eliminato da anni la lettura di Renzo e Lucia, figurarsi se potranno star dietro alle vicende processuali di Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora. La Storia continuerà a restare un libro in penombra. Ci pone di fronte a problemi e dilemmi che preferiamo rimuovere, occultare, evitare.

5. Originalità e straordinarietà dell’opera sia sul piano degli effetti che della lingua: «E nessun scrittore italiano ha mai saputo raggiungere tali lucidi effetti di atrocità e di pietà, di ferocia e di smarrimento impotente, alternando, alla nitida lingua raziocinante in cui parla l’autore, i frammenti del latino dei cancellieri, le parole in dialetto che la tortura strappa agli imputati.» (pag. 1797). É un giudizio condiviso da altri critici (ad esempio, cfr. Lanfranco Caretti, pag. 90 di «Manzoni. Ideologia e stile», Einaudi, 1972 e 1974).

6. Le esperienze di scrittura che Manzoni ha alle spalle e la sua precisa volontà di far ragionare il lettore: «Manzoni – che aveva alle spalle il cosiddetto romanzo gotico inglese e che non aveva sdegnato, nei Promessi sposi, alcune situazioni sadiche – come quella di Lucia, la vergine contadina abbandonata al potente e feroce Innominato o come gli indugi nella rappresentazione dei cadaveri, che tanto piacquero a Edgar Poe – qui trattiene la sua penna, vuole che il lettore ragioni.» (pag. 1797). Questa volontà del gran lombardo non piace, ad esempio, ad uno scrittore come Sandro Veronesi. Un po’ di anni fa, nel settembre del 1993, introdusse un’edizione della Storia distribuita insieme al quotidiano L’Unità, diretta allora da Veltroni. Era il periodo di “Mani Pulite” e il libretto veniva sbandierato strumentalmente da personaggi di un certo rilievo (sicuramente non poveri cristi come Piazza e Mora) per attribuirsi lo stato di perseguitati innocenti. Veronesi contesta correttamente tale uso della “Colonna infame” (l’opera, infatti, non vuol farci capire soltanto che furono perseguitati ingiustamente degli innocenti) e fornisce al lettore i suggerimenti che ritiene opportuni, fra cui quello di «tenersi distante anche dal narratore, di resistere alle sue lusinghe stilistiche, e alla raffinatissima tecnica retorica con cui finisce per “oggettivizzare” la propria personale posizione.» (pag. VII). Davvero curioso. Manzoni vuole che il lettore ragioni, Veronesi che si abbandoni al fuoco affabulatorio. Però teme che la “lingua raziocinante” della prosa manzoniana risulti, alla fin fine, più raffinata e lusinghiera della «magia del gesto narrativo» in sé. Veronesi confessa di preferire la prima versione della Storia della Colonna Infame alla seconda perché in quest’ultima Manzoni avrebbe disinnescato «la potente carica narrativa contenuta nella sua storia», brutalizzandola a scopi saggistici e facendosi prendere dal «demone dell’anti-romanzo», che «avrebbe in seguito scorrazzato per tutta la tradizione letteraria italiana» (pag. IX). L’anti-romanzo sarebbe quello che Renzo Negri ha definito «racconto-inchiesta»; secondo questo critico, infatti, la Storia della Colonna infame «prefigura il tipo di odierno racconto-inchiesta di ambiente giudiziario, che da Gide a Capote a Sciascia discende da rami ottocenteschi non ancora ben conosciuti. Oggi si potrebbe aggiungere, ed è il collegamento più vero ed emozionante, il  Solženicyn  di Arcipelago Gulag, da lui stesso definito come un ‘saggio di inchiesta narrativa’» (citato in «Il punto su: Manzoni», a cura di E. S. Di Felice, pag. 198-199, Laterza 1989)

7. Il singolo uomo non deve essere spogliato dalla sua libertà morale. Per ognuno di noi esiste una sfera di responsabilità assoluta. Dimostrare la verità di queste affermazioni, ecco qual è il fine di quest’opera. La contraddizione tra il Manzoni stilista e il Manzoni ideologo e filosofo: «Ma quale è il fine di questa sua opera? Afferrate la contraddizione: mentre Manzoni stilista procede con gli strumenti della necessità tragica e quindi dà al lettore il senso della inevitabilità, della caduta verticale verso l’abisso (come, nel romanzo, raccontando la fatale congiura che destinerà al convento e al delitto la figlia dei nobili signori di Monza, Gertrude), Manzoni ideologo e filosofo si oppone alla concezione illuministica che vede in eventi di tal genere solo il risultato del pregiudizio, della superstizione, del fanatismo. Manzoni si rifiuta di spogliare l’uomo della sua libertà morale. Sì che tutto il suo sforzo di dimostrazione è volto a chiarire che, seppure in dipendenza delle condizioni storiche, esiste una sfera di responsabilità assoluta. Nelle peggiori strette del tormento e della tortura resta il dovere di non accusare degli innocenti; il giudice deve rispettare la legge a costo della vita.» (pag. 1797-98). Questo è un punto decisivo. Con la Storia della Colonna Infame, Manzoni non si limita ad offrire alla riflessione dei lettori un caso d’ingiusta persecuzione di poveri innocenti. C’era la peste. C’è stato un gran male fatto da uomini ad altri uomini. Perché? Pietro Verri risponde: perché avevano pregiudizi, erano superstiziosi, c’era la tortura. Manzoni dice: non basta. Anzi, a tirare solo in ballo l’ignoranza dei tempi e la barbarie della giurisprudenza si rischia di farsi un’idea del fatto non solo dimezzata, ma falsa. Come se l’avvenimento avesse una sua necessità e fatalità e non fosse stato possibile fare altro. L’ignoranza «può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all’efficacia delle unzioni pestifere, il credere che Gugliemo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero essere sottintese, sono in vece dimenticate.» (Storia della Colonna Infame, 4).
 Insomma, credo che Manzoni abbia ragione; che l’illuminismo del Verri delle Osservazioni sulla tortura abbia un assunto nobile e umano, ma non sufficiente. Non la pensa così Sandro Veronesi nell’introduzione citata: «il Verri sosteneva semplicemente (e illuministicamente) che tutto il garbuglio di orrore e ingiustizia scaturito dalla vicenda della colonna infame era da addebitarsi all’uso della tortura, il Manzoni ribatteva più contortamente (e ecumenicamente) che si doveva risalire sempre alla responsabilità individuale, al libero arbitrio con cui i giudici agirono, indipendentemente dalla esistenza o meno della tortura. Questa idea che sbagliano gli uomini e non le istituzioni, unita a quella che le leggi possono cambiare, sì, ma solo molto gradualmente, erano ciò che Manzoni voleva a tutti i costi mettere in primo piano con la sua seconda e definitiva versione, quei valori ai quali trovò doveroso sacrificare tutte le migliori accelerazioni narrative contenute nella prima, trasformando un racconto in un saggio: e sbagliò, non ci si deve vergognare a sostenerlo, perché delle due versioni rimane più godibile la prima, mentre riguardo ai valori aveva ragione Pietro Verri, abolire la tortura era immensamente più degno, utile e risolutivo che sostenere fino alla noia l’ambigua tesi dell’arbitrio e della Provvidenza.» (pag. IX)
Abbastanza facile opporre al progressismo di Veronesi che Manzoni riconosce il valore del lavoro di Verri, che le istituzioni esercitano i loro compiti e vivono grazie agli uomini, che certe pratiche (la tortura, ad esempio), anche se formalmente abolite, continuano ad essere utilizzate dagli eserciti dei migliori stati democratici (Abu-Ghraib docet), che la responsabilità individuale e il libero arbitrio liberano gli esseri umani, che intendono liberarsi e diventare autonomi e maturi, dalle istituzioni (soprattutto se diventano oppressive) e dal gioco (o giogo) della Provvidenza…Riparliamone, voglio dire. Il problema mi sembra chiaro: quale concezione avere della persona e della sua individualità? Ognuno di noi non incarna in modo unico ed irripetibile, nel bene e nel male, la natura umana? E non ne porta la responsabilità in modo assoluto? Riapriamo pure il capitolo relativo alla nostra libertà di autodeterminarci, di decidere consapevolmente quali azioni compiere e quali evitare. É tutta colpa dei contesti sociali, delle istituzioni, delle strutture?… L’idea di Manzoni che ognuno di noi, al di là delle condizioni storico-sociali, è portatore di una sfera di libertà e responsabilità assoluta e irriducibile, risale probabilmente ai più grandi teologi del pensiero cristiano come Agostino, Boezio, Tommaso… Devo dire che il cattolico Manzoni con questa concezione dell’individualità si trova ben poco in consonanza con la sua Chiesa, che sui temi “eticamente sensibili” (aborto, eutanasia, matrimonio, ecc.) continua a trattare credenti e non credenti da immaturi, bisognosi di superiori autorità e di minacciosi divieti di legge.

8. Il nostro giudizio su questa concezione assoluta dei valori morali. L’accostamento al dilemma dostoevskiano: «A noi questa concezione assoluta dei valori morali sembra assurda, reazionaria. Ma rammentiamo che essa non è lontana dal dilemma dostoevskiano: “Se Dio non c’è, tutto è permesso”.» (pag. 1798). Ci siamo. Siamo al cuore del nichilismo contemporaneo. Perché se Dio non c’è dovrebbe essere tutto permesso? Su questo punto, mi permetto di rinviare al mio articolo apparso su POLISCRITTURE (numero 6, 2009) «La libertà di coscienza e il nichilismo delle gerarchie ecclesiastiche». Mi sembra fondato e condivisibile il rimando di Fortini dalla concezione di Manzoni al dilemma di Dostoevskij.

9. Sostituzione della parola di Dio con un valore trascendente: «E dobbiamo avere la capacità e la spregiudicatezza di vedere che alla parola di Dio possiamo sostituire, ad esempio, un valore trascendente, una meta che si propone a tutta l’umanità.» (pag. 1798). Ecco un’altra mossa fondamentale di Fortini. Alla parola di Dio (del credente) si può sostituire la proposta di una meta per tutta l’umanità. L’importante è vivere nel presente storico e simultaneamente attivare l’energia materiale e spirituale del trascendere, dell’andare oltre. Cosa si propone oggi a tutta l’umanità? Il fallimento del “comunismo reale” ha trascinato con sé la perdita e l’annullamento di qualsiasi “valore trascendente”? Ma senza trascendimento non c’è modo di uscire da questo presente angoscioso.

10. La proposta di una morale di impegno eroico: «Allora si capirà come Manzoni, apparentemente arretrato, a metà del secolo scorso, nella sua teologia morale antiutilitarista e antipermissiva, abbia saputo proporre una morale di impegno eroico, tanto più eroico quanto meno rumoroso e apparente.» (pag. 1798). Utilitarismo e permissivismo ecco cosa Manzoni combatte. L’eccessiva indulgenza e il lassismo pedagogico sono forme subdole di disprezzo del discente come se costui fosse privo di responsabilità e non avesse consapevolezza dell’eventuali conseguenze delle sue azioni. É un soggetto pre-adamitico, che non ha ancora mangiato la mela e non conosce la differenza tra il bene e il male. Ovviamente non essere permissivi, non vuol dire che ci si debba abbandonare al sadismo e all’autoritarismo pedagogico. Quanto alla filosofia utilitarista, Manzoni ritiene che non sia l’utile l’unico mezzo che possa garantire la felicità degli esseri umani, ammesso che questa sia il valore supremo perseguibile. E per il credente Manzoni non lo è. Per chi lo è? Sicuramente per gli estensori della Costituzione statunitense…Come sulla libertà anche sulla questione della felicità bisognerebbe riparlarne, riaprirne il libro e i relativi capitoli.

11. Manzoni si sforza di riportare la politica alla morale: «Contro il trionfante pensiero borghese che contrapponeva etica e politica, Manzoni tende a riportare la politica alla morale e, per questo, è meno distante di quanto si creda dalla condizione di tanta parte delle coscienze moderne che riportano la morale alla politica.» (pag. 1798). Altro capitolo fondamentale. Siamo in pieno nel nostro presente storico-sociale. La rivendicazione dell’autonomia della politica dalla morale e dalla religione, l’abbiamo imparato a scuola, ha un sostenitore illustre: Machiavelli. Benintesi: quest’ultimo non nega il valore della morale, non è un cinico; ma ci mette sotto gli occhi la “verità effettuale” del Principe, che per conservare il potere deve saper ricorrere all’astuzia della volpe e alla forza del leone. Contrapporre etica e politica, sostiene Fortini, è pensiero borghese. Manzoni con il suo riportare la politica alla morale è molto più vicino alla condizione di tante “coscienze moderne” di un Machiavelli.

12. La grandezza di Manzoni: «Ma la sua grandezza non è in questo tipo di operazione ideologica: è nel fatto che le vittime della ingiustizia e della ferocia sono rappresentate in figure precise, in situazioni concrete, in personaggi e in cadenze di prosa e di poesia» (pag. 1798). É il tema del romanzo storico e del suo vero. Manzoni fa i conti con la storia molto più di altri. Egli guarda alle “belle lettere” come ad “un ramo delle scienze morali”. Il problema della verità è al centro della sua ricerca artistica e letteraria.

13. I due deliri che ci minacciano: «Scrive, nella introduzione alla Storia della Colonna Infame, che di fronte ad una serie di fatti atroci commessi dall’uomo contro l’uomo, ci sentiamo minacciati da “due bestemmie che son due deliri: negare la Provvidenza o accusarla” ma che ci salva la certezza che quelle azioni avrebbero potuto non essere compiute e che quindi la responsabilità umana resta intera e che di quelle si può bensì esser vittime ma non complici» (pag. 1798). Qui forse è possibile intravedere la chiave di volta per la lotta contro il nichilismo contemporaneo: il libero arbitrio, la responsabilità umana. Scrivevo in versi un po’ di anni fa: «Il problema, dunque, non è quello / della morte di Dio. É un altro: / l’uomo come sta? Come progetta la giornata / dopo questo lutto? / Ho risposte tutt’altro che tranquille. / Penso che anche l’uomo sia morto. / Purtroppo non se n’è per nulla accorto.» Muore l’uomo ingabbiato nei determinismi naturali e sociali, che si vede negate la dignità e la responsabilità, il diritto all’eguaglianza e a prospettarsi un futuro che non sia di fame, miseria, frustrazione, impotenza. É peste sociale il condannare gli esseri umani ad una vita e ad una morte senza senso.

14. Come i due deliri minacciano il mondo odierno: «Ora noi possiamo, alla parola Provvidenza, sostituire una o più parole che in termini meno teologici indichino se vogliamo il rapporto fra passato e futuro, la Preveggenza ossia la tensione dell’umanità ad un fine: e allora apparirà chiaro che tutta una parte del mondo odierno è minacciata da due deliri: negare un senso alla lotta umana o accusarla. E che invece è possibile richiamare ognuno alla durezza delle scelte.» (pag. 1798). Fortini scriveva questa nota la sera del 22 maggio 1973. Da allora ad oggi il delirio di “negare un senso alla lotta umana” verso un fine ed un orizzonte che non sia questo angoscioso presente e il delirio di “accusarla” di tutte le nefandezze possibili hanno esteso enormemente la loro presa in tutto il mondo.

15. Attualità dello scritto manzoniano: «Questa è l’attualità di uno scritto manzoniano che al suo tempo non fu capito, che più tardi fu interpretato come un saggio di faticoso moralismo e che oggi torna a chiederci orrore, pietà, meditazione, azione. Non si tratta di travestire Manzoni da esistenzialista o da prete operaio. Si tratta di evitare che le superstizioni del progressismo, ieri positivista e magari socialista e oggi neopositivista, tecnocratico e permissivo ci derubino di una parte preziosa della nostra eredità» (pag. 1798-99). Come si diceva all’inizio, le edizioni della Storia della Colonna Infame sono molte. Quando Fortini scriveva la sua nota stava cominciando, per così dire, il “successo editoriale” dell’opera. Il che non significa effettiva lettura e comprensione. Ad ogni buon conto, si può dire che nel decennio 1973 (centenario della morte di Manzoni)- 1985 (centocinquantesimo della sua nascita) apparvero diverse edizioni dell’opera con importanti proposte interpretative (Giancarlo Vigorelli, Renzo Negri, Leonardo Sciascia, Ermanno Paccagnini, Carla Riccardi, ecc.). Alcune abbastanza consonanti con quella di Fortini. Penso, in particolare, all’edizione a cura di Lanfranco Caretti (Mursia, 1973) leggibile in «Manzoni. Ideologia e stile» (Einaudi, 1972 e 1974): «Ed è soltanto con l’ultimo corso della critica manzoniana che s’è mutato il modo di leggere la Colonna Infame rinunciando a servirsene come veridica testimonianza storiografica e cercandovi invece l’approfondimento, in margine al romanzo, di un difficile nodo morale e ideologico: quello, cioè, che lega strettamente e drammaticamente tra loro la forza dei tempi e la libertà dell’uomo, le convinzioni dell’ambiente e la responsabilità della coscienza individuale.» (pag. 88).

16. Il Manzoni proposto da Fortini: «Finora Manzoni è stato per tutti ed era la metà del Manzoni. Quello che proponiamo è un Manzoni più difficile, forse per pochi, ma più vero e drammatico e contraddittorio, e, in definitiva, più utile a tutti.» (pag. 1799)

Nota

[1] Questa e le altre citazioni successive sono tratte da Alessandro Manzoni, «Storia della colonna infame», edizione a cura di Carla Riccardi, Oscar Classici Mondadori, Milano, 1984

2 pensieri su “Storia della colonna infame

  1. Che senso ha la conclusione dell’articolo di Salzarulo: “16. Il Manzoni proposto da Fortini: «Finora Manzoni è stato per tutti ed era la metà del Manzoni. Quello che proponiamo è un Manzoni più difficile, forse per pochi, ma più vero e drammatico e contraddittorio, e, in definitiva, più utile a tutti»”?
    Ha il senso che “Manzoni tende a riportare la politica alla morale”: “ci salva la certezza che quelle azioni avrebbero potuto non essere compiute e che quindi la responsabilità umana resta intera e che di quelle si può bensì esser vittime ma non complici», così Fortini.
    Apprezzo meno, del testo di Salzarulo, la non-distinzione, spesso, tra le due versioni della Storia della colonna infame. Anzi dico che la condanna della subordinazione dei giudici alla pretesa popolare di trovare e condannare gli untori sia più forte nella prima versione della “Storia della colonna” che nella seconda.
    E che nella seconda versione sia invece accostata, quella responsabilità personale dei giudici, al disordine delle leggi, alla superficialità degli storici successivi, a un interesse cioè illuministico e critico al miglioramento, lento ma inevitabile, della nuova società civile e politica: “Noi, proponendo a lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra orrori già conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e non ignobile frutto,
    se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne […] SI RIVOLGERANNO ANCHE, e principalmente, contro passioni che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma RENDER MENO POTENTI E MENO FUNESTE, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle.” (Dall’Introduzione alla seconda versione della Storia della colonna infame.)
    Concordo quindi con la valutazione di Sandro Veronesi nella Introduzione alla prima versione della Storia: “Questa idea che sbagliano gli uomini e non le istituzioni, UNITA A QUELLA CHE LE LEGGI POSSONO CAMBIARE, SI’, MA SOLO MOLTO GRADUALMENTE, erano ciò che Manzoni voleva a tutti i costi mettere in primo piano con la sua seconda e definitiva versione, quei valori ai quali trovò doveroso sacrificare tutte le migliori accelerazioni narrative contenute nella prima, trasformando un racconto in un saggio: e sbagliò…”

  2. …ringrazio Donato Salzarulo per la pubblicazione dell’articolo di Franco Fortini sulla seconda versione di “La Storia della Colonna Infame” di Alessandro Manzoni. Rispetto alla prima versione, un invito dell’autore a riflettere, spostando l’attenzione sulla necessità di ragionare sui fatti atroci seguiti alla peste del 1630 a Milano quando persone innocenti furono condannate a morte da giudici criminali e sottoposte a supplizi indicibili perchè ritenute “untori”, responsabili di diffondere il contagio mortifero…Un terribile pregiudizio, come altri che spesso nascono dal panico e dal desiderio di trovare capri espiatori in presenza di calamità collettive, come fu la diffusione della peste all’epoca. Tuttavia, come lettrice, ho trovato che nella seconda versione l’aspetto emotivo nel presentare i vari aspetti della terribile tragedia non fosse assente, ma come trattenuto dalla riflessione per poi, necessariamente, esplodere in una forma piu’ intima e sconvolgente…
    Riguardo al quesito che, mi sembra, Donato pone: come Manzoni salvasse la presenza, in ogni individuo e in ciascuna circostanza, del libero arbitrio: “Per ognuno di noi esiste una sfera di responsabilità (morale) assoluta”…Responsabilità sottratta alla Provvidenza come alla Necessità?
    Nella storia descritta da A. M. i giudici, istruiti e in condizioni di integrità fisica e di lucidità mentale, pur essendo tenuti ad applicare la legge che, per i “colpevoli”, allora prevedeva la tortura, potevano arrivare a chiarire i termini della verità dei fatti o almeno provarci…mentre le vittime oggetto di torture atroci che, avolte, arrivavano a incolpare altri innocenti pur di scagionarsi, hanno diritto a una dose di comprensione perchè doppiamente vittime: della sofferenza disumana provocata e dell’abbruttimento morale conseguente…Cosa accaduta anche nei campi di concentramento nazisti…

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