Anni ’70. Sconfitti sì, pentiti no.

di Ennio Abate

Ho letto negli ultimi giorni varie reazioni alla presa di posizione della filosofa Donatella Di Cesare in occasione della morte di Barbara Balzerani. i E mi sono chiesto perché noi ex della nuova sinistra torniamo sull’argomento del lottarmatismo degli anni ’70, anche quando siamo fuori gioco rispetto all’attuale svolgimento della lotta politica.
E mi chiedo anche perché i commenti su quelle vicende non riescono ad andare, ancora oggi, oltre la demonizzazione dei brigatisti e l’assoluzione dei governanti d’allora.  Mi ha colpito anche che quanti hanno difeso almeno il diritto d’opinione della Di Cesare  diano per scontato il giudizio negativo sul lottarmatismo (o terrorismo) ma tacciano su come lo Stato lo abbia vinto e abbia  vinto anche le formazioni politiche della nuova sinistra (Avanguardia Operaia, Lotta Continua, Pdup, MLS) che il lottarmartismo criticarono. E, cioè, non accennino più ai danni subiti dalla democrazia italiana proprio da quella vittoria dello Stato..ii Ancora nel 2024, dunque, il dibattito non può uscire dall’oscillazione: compagni criminali o compagni che sbagliarono. (E a sbagliare oggi sarebbe la Donatella Di Cesare) .

Non è in questione la competenza di chi ha preso posizione sulla vicenda, di letture fatte o non fatte,  di conoscenza della letteratura sul fenomeno. Ce n’è stata tanta. E l’abbiamo tutti più o meno macinata. Il blocco più che cognitivo mi pare emotivo.
Siamo tuttora bloccati di fronte a un tabù. Troppo influenzati o sottomessi alla interpretazione autoritaria dei vincitori. Ne subiamo l’egemonia. Fino a non riuscire neppure più a rimetterla in discussione. Come sarebbe giusto fare. E come fecero nel pieno del dramma degli anni ’70 Rossana Rossanda, Franco Fortini , Stefano Rodotà e altri. Noi superstiti non riusciamo più a dire la verità che essi dissero: e, cioè, che non ci fu da una parte solo e subito “terrorismo” (rosso) né dall’altra solo e da sempre Stato “democratico” (da difendere comunque, indipendentemente dal suo reale grado di democraticità).

Per uscire da questo blocco emotivo,  la prima domanda da fare sarebbe proprio questa: quanto c’era di terroristico nelle BR e quanto di democratico nello Stato italiano degli anni ‘70. Oppure: se le BR furono “schegge impazzite”, quante schegge impazzite ci furono anche dall’altra parte. iii
La seconda domanda potrebbe essere questa: come si sarebbe potuto sfuggire all’aut aut: schierarsi con lo Stato o con le BR?
La terza: si poteva evitare di finire ai margini di quello scontro (asimmetrico) prendendo la  posizione del né con lo Stato né con le BR?

Certo, se ne discusse e ci furono risposte, ma se si torna su quegli anni anche ora che siamo vecchi, temo che accada perché  un po’ di coda di paglia l’abbiamo, non avendo rielaborato a sufficienza la contraddizione esistente tra quel prima (dal ‘68-’69 all’uccisione di Aldo Moro) e il poi (dell disgregazione della nuova sinistra, dello scioglimento del PCI).
Il prima. Quando partecipammo attivamente a organizzazioni che si dicevano e si volevano rivoluzionarie, allora genericamente dette “extraparlamentari” – si trattase di AO , LC, MLS o Pdup – e fondate tutte all’incirca su premesse ideologiche prevalentemente leniniste-operaiste. Che, dunque, criticavano quella democrazia (“costituzionale”) e il PCI che la dichiarava solo riformabile ma insostituibile. Anche se continuava a richiamarsi – ufficialmente e fino a Berlinguer – ad una comune cultura terzinternazionalista. Con varie sfumature o deviazioni “eretiche” essa era in fondo una ideologia alle BR ma anche a noi della nuova sinistra. Come ebbe il coraggio di riconoscere Rossanda  quando parlò di “album di famiglia”(qui).
Il poi. Che è consistito nel prosaico – a volte dignitoso, altre opportunistico – ritorno all’ovile o  ad una accettazione comunque passiva della “democrazia esistente”.

Negli anni ’70, dunque,  ad accomunarci alle BR poteva essere il riferimento alla rivoluzione russa del 1917. A differenziarci, invece, da esse la valutazione politica contingente che il tratto di storia che stavamo vivendo per noi della nuova sinistra non portava i segni precisi di una situazione rivoluzionaria o prerivoluzionaria. Non era differenza da poco. Tuttavia, non dovremmo negare che la prospettiva di una rivoluzione era da noi desiderata e anche teorizzata. O che oscillammo – diciamo così –  tra rivoluzione e democrazia. La prima rimaneva progetto o strategia. La seconda tattica  o  trampolino di lancio provvisorio, necessario ma sostituibile e da sostituire. Come ha  chiarito molto bene il da poco scomparso Mario Tronti in un intervento del 2007 pubblicato sulla rivista Machina.iv

Se si riconoscesse tutto ciò – oggi, 2024 – noi superstiti di quella stagione politica dovremmo almeno dire  – onestamente  e senza rinnegare quel che fummo o pensammo o desiderammo allora – che le BR fecero male quello che avremmo potuto o dovuto fare noi pure “al momento giusto”.
Male, come si è  visto. E come ha ammesso lo stesso Renato Curcio, uno dei fondatori delle BR, nel libro “A viso aperto”, che l’amico e ex dirigente di Avanguardia Operaia,  Claudio Cereda, ha ripreso in mano e recensito sul suo blog (qui) in occasione del clamore mediatico suscitato dalla “voce dal sen fuggita” (ma subito azzittita e rientrata) di Donatella Di Cesare al momento della morte di Barbara Balzerani.
Ora, se le circostanze fossero maturate e si fosse presentato il “momento rivoluzionario” o il “momento giusto”, noi della nuova sinistra  avremmo fatto meglio delle BR? La nostra rivoluzione sarebbe stata un piacevole “pranzo di gala”? Cose simili o quasi o peggiori di quelle fatte dalle BR (eliminazionie di avversari) non ce ne sarebbero state?
Non lo si potrà mai più sapere. Certo.  E “la storia non si fa coi sé. Certo.  Ma andrebbe ricordato  agli smemorati o ai sepolcri democratici variamente imbiancati che scommessa (risultata sbagliata) fu  quella delle BR e scommessa (senza garanzia di riuscita) sarebbe stata anche per noi.
L’acuto e non sottovalutabile Machiavelli, il quale di politica s’intendeva, lo sapeva bene. Nella storia umana non tutto dipende dalla volontà o dalla virtù degli uomini, rivoluzionari o democratici o reazionari che siano: ”Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi” (Machiavelli, Il principe, Cap. XXV).

Le BR hanno sbagliato e combinato un disastro politico, ma – bisogna dirlo – peggio delle BR, perché ben più autorevoli, con vasto consenso, economicamente potenti e attrezzati sui  piani politici, culturalie militari,  hanno fatto proprio i difensori dello Stato democratico o di questa democrazia.
Si dica pure che le posizioni politiche delle BR erano “aberranti”, ma i difensori dello Stato  democratico, e in particolare il PCI, non  fecero – anche questo si è visto  bene – che accelerare la crisi della democrazia. Non riuscirono nemmeno a salvare la vita di Aldo Moro. Non riuscirono neppure a salvaguardare la sopravvivenza culturale e politica della Sinistra storica e nuova. Nessuno, dunque,  può vantarsi o essere soddisfatto di come hanno difesa non la democrazia, che è stata soffocata e agonizza, ma la “loro” democrazia. E resta valido il giudizio conciso che diede Fortini nel 1985 in “Quindici anni da ripensare”: «Se il terrorismo è stato vinto, i suoi vincitori non hanno convinto» (qui).

Ancora sulla coda di paglia. Il problema della dissociazione e del pentitismo non andrebbe circoscritto, come fosse faccenda che abbia riguardato soltanto brigatisti e lottarmatisti vari. Riguardò, in forme diverse,  anche noi della nuova sinistra.
Per i brigatisti e gli altri lottarmatisti si pose l’aut aut: continuare la lotta armata o smettere. (E smettere per ottenere conti di pena o vantaggi. O perché si riconosceva l’errore politico, come scrive Curcio negli stralci riportati da Claudio Cereda sul suo blog, senza rinunciare alla “mentalità” rivoluzionaria.
Per quanti la scelta della lotta armata l’avevamo respinta (spesso in modi esorcistici e troppo appiattiti sulla posizione del PCI) si pose la scelta di prendere atto del nostro fallimento come rivoluzionari. E di rientrare nella logica democratica: quella del PCI, quella di Democrazia Proletaria, prima criticata (Cfr. Appunti sulla storia di AO, qui). O di starsene ai margini, fuori dalla politica (come tanti). Ma, per favore, cari ex compagni, non ditemi ancora che ci fu continuità tra quel che progettavamo da rivoluzionari e quello che si è cercato di progettare dopo, entrando nel PCI o costruendo DP o ritrovandosi da soli.

Note

i
Quelle di Claudio Vercelli (qui, Massimo Cacciari (qui, Adriano Sofri (qui), Giovanni Cominelli (qui). Paolo Persichetti (qui) e. tra gli ex di Avanguardia Operaia, Claudio Cereda (qui e qui).

ii
Ennio Abate

Preferiti · eooSrdtnps77930g1chuuh35ll5 703ct7ac43l16c502g80g1f32mmchtg1 ·
Ho trovato davvero penosa e pelosa questa difesa di Massimo Cacciari, specie se confrontata con certe posizioni ben più coraggiose e rigorose espresse negli anni ‘70:

«Lo so bene. Anche chi (o forse: soprattutto chi) sfruttamento, sopruso, violenza, oppressione di classe subisce da sempre, replicherebbe che, meno storie, è orribile e mostruoso (e quasi sempre inutile) ammazzare il prossimo, foss’anche un nemico. Ma tale sacrosanta affermazione procede, non è inutile ricordarlo, da un insegnamento religioso prima che da uno «umanistico»[…]. Nel cristiano, il raccapriccio per l’assassinio, ha o dovrebbe avere, un fondamento che la tradizione umanistica e illuministica (kantiana, per intenderci) ha ereditato, mal celandone tuttavia l’origine, che è nella trascendenza; onde ha subito un secolo di critiche, da Marx a Nietzsche e a Freud e oltre e fino a noi, che non possiamo fingere inesistite. Ebbene, chiedere ai dissociati di riconoscere che la democrazia è un valore assoluto non è molto diverso dal chiedere loro il «giuramento» proposto dal ministro della Giustizia o certe dichiarazioni o firme antiterroristiche che furono domandate o proposte qualche anno fa nell’ambito sindacale e di fabbrica. Con una differenza grandissima: che il cattolico collega coerentemente morale, religione e diritto e rimanda al Vangelo e alla dottrina della chiesa; mentre il comunista italiano di oggi si è preclusa la possibilità di rinviare non solo ai testi e ai metodi marxisti ma persino a tutta una arte della riflessione sullo stato e sulla violenza che è all’origine della borghesia. Su questi argomenti Hegel, Marx e Lenin avevano opinioni assai diverse da quelle di Locke, Stuart Mill o Bobbio o, diciamo, dai teorici del costituzionalismo liberale. Onde la posizione che si può inferire dall’atteggiamento politico dei comunisti in materia di legislazione speciale e di «dissociati» oscilla fra l’idea di «stato etico» o di «legalità socialista» (varianti dello stato confessionale) e quella di stato «di diritto», fondato su di un patto sociale, sul diritto scritto, le «carte», la forma giuridica.[…] E se[le] prospettive marxiste le consideriamo solo invecchiate, assurde, sporche di sangue e generatrici di intolleranza, di corruzione burocratica e di ospedali psichiatrici per dissidenti, benissimo, si torni allora allo stato di stretto «diritto»; ma vi si torni davvero, se mai è esistito, e ci si risparmino allora le leggi eccezionali, le «perdonanze» e i sermoni sul «bene comune»»

(F. Fortini, Insistenze pp.223-224, Garzanti, Milano 1985)

iii
La domanda l’avevo fatta recensendo, nell’aprile 2018, il libro di un compagno di AO, Luca Visentini, “Sognavamo cavalli selvaggi” (qui).
Scrissi allora
:
«
una domanda apparentemente scandalosa: cosa avevamo in comune noi di Avanguardia Operaia e delle altre formazioni extraparlamentari (ma la domanda varrebbe anche per una parte del PCI d’allora) che  ci avvicinava e allo stesso tempo ci distanziava e contrapponeva duramente  all’Autonomia, ai lottarmatisti e ai brigatisti rossi?
Visentini insiste legittimamente sul carattere esclusivamente difensivo che avevano i 
servizi d’ordine e quello di Avanguardia Operaia in particolare. E va ricordato che tale carattere difensivo era coerente con l’analisi politica della nostra organizzazione, che rifiutava come deliranti le ipotesi di quanti parlavano di una situazione rivoluzionaria o prerivoluzionaria. Ma se  poi tutti hanno dovuto riconoscere, come scrive Visentini, che «le altre formazioni armate di cosiddetti combattenti per il comunismo sono sortite dallo stesso movimento e hanno contribuito in modo significativo ad affossarlo» (pag. 216), proprio perché il peggio è accaduto e non si è stati in grado di evitarlo, la rimozione e la sottovalutazione da parte di Avanguardia Operaia e di tutta la “nuova sinistra” di quel che si preparava da parte dei lottarmatisti a me  appaiono  ancora oggi limiti gravissimi. Contribuirono, come minimo, anch’esse allo  stritolamento  delle nostre militanze nello scontro  tra lottarmatismo e Stato. Proprio perché leninisti e convinti che nei conflitti sociali la violenza sia inevitabile, il fatto di non essere riusciti a impedirla nelle forme “pazze” che assunse, fu una tragedia.  Per dirla con una metafora semplice,  è come se noi fossimo saliti su un treno, sapendo  che ad un certo punto del suo percorso dovesse entrare in una galleria buia e piena di rischi; e, proprio allora, ci fossimo addormentati  e fatti sottrarre la guida di quel treno, dai “pazzi” appunto. Luca Visentini conclude il suo romanzo rivendicando una sorta di realistica e disperata impotenza: «Con obiettività, avremmo perso ugualmente, con le nostre analisi ancora parziali e sopravvalutate avremmo procurato chissà quali disastri se fossimo andati al potere, con tanti errori e diverse responsabilità stavamo nondimeno dalla parte giusta». Io –  è qui forse l’unico punto di dissenso – ricordo quel che scrisse  Fortini nel 1985: «Se il terrorismo è stato vinto, i suoi vincitori non hanno convinto».[16] Quest’affermazione riguardava anche noi di Avanguardia Operaia.  E scuoto perciò la testa, limitandomi a dire che no, non fummo «dalla parte giusta», anche se non so dire quale lo  fosse allora. O come si poteva fare a difendere «un intero decennio di amori, amicizie e lotte alla luce soprattutto del sole» dall’«incattivimento successivo». (pag. 216). »

iv
“Questo per dire che acquisire la pratica democratica è dichiarare chiuso il processo rivoluzionario. Non c’è possibilità, a meno di non considerare la democrazia come si è fatto in alcune parti del movimento operaio, ovvero come il terreno più avanzato di lotta per cambiare le leggi di sistema. Più favorevole della forma totalitaria, del sistema dove la lotta politica, non essendo praticabile in modo aperto, diventava più difficile. Qual era la soluzione? In alcuni partiti comunisti era il tema della doppiezza: assumiamo il terreno democratico come terreno più favorevole; diciamo che siamo per i sistemi democratici ma non perché la democrazia sia un valore universale, ma solo perché è il terreno più favorevole in cui proporre il superamento del capitalismo organizzando masse e lotte di massa. Al di fuori della doppiezza, la democrazia non è utilizzabile”.

(https://www.machina-deriveapprodi.com/post/per-la-critica-della-democrazia-politica?fbclid=IwAR0Fl5owFXmN-oLBt_nH5Ib3VpCCkjCYXrIkjmjJEQ6xgW6YhMOQzYR3od4)

 

13 pensieri su “Anni ’70. Sconfitti sì, pentiti no.

  1. Perché riproporre il vecchio slogan di Lotta Continua:né con lo Stato né con le BR? Lo slogan appropriato sarebbe: contro lo Stato e contro le BR (contro le BR perché contro lo Stato e viceversa)

  2. DA POLISCRITTURE COLOGNOM

    Lorenzo Galbiati

    Devo leggere bene il pezzo di Cereda su A viso aperto di Curcio, libro che mi manca per chiudere il cerchio (ho letto i libri di Franceschini, Morucci, e Moretti intervistato da Mosca e Faranda). Curcio l’ho visto un mese fa, sempre molto lucido sul presente, ho apprezzato quel che ha detto e mi ispira fiducia come uomo, ma è un uomo che anche oggi seguirei sempre con riserva, perché sento in lui un assolutismo, una tendenza, a un certo punto dell’analisi, a partire per la tangente, cercando soluzioni semplificate e chiuse ai dubbi. Mia impressione. Di certo mi fido molto di più dei dissociati, specie se realmente pentiti, vedi Bonisoli, il quale oltre a dire abbiamo perso, siamo stati sconfitti, ha il coraggio di dire: per fortuna. Sento in loro un passo in più di consapevolezza storica e politica, una maggiore aderenza alla realtà dei fatti, e un minor arroccamento personale, perché chi s’è pentito ha dovuto mettere in dubbio (e poi ricostruire) tutta la propria identità, con il rischio concreto di disintegrarsi (suicidarsi), ha dovuto aprire non solo la mente ma anche la sfera affettiva e individuale, decidendo di incontrare personalmente le vittime della violenza rivoluzionaria e questo, secondo me, ossia il faccia a faccia, è necessario per comprendere appieno la storia – ma non il faccia a faccia di Curcio e Cossiga in quanto rappresentati di due fazioni politiche, parlo del faccia a faccia come persone rappresentanti solo di se stesse. Non a caso, percepisco emotivamente molto sulla difensiva, se non freddi, i non dissociati. Sento questo lavoro di mettersi in discussione personalmente anche in Morucci, che nel suo libro ha risposto a molto di quello che ha detto Moretti, evidenziando in modo acuto, a mio parere, forzature (se non bugie) e limiti umani e politici delle su risposte alle due intervistatrici. Dopo di che, poco importa delle scelte personali e politiche attuali di Bonisoli e Morucci, il loro lavoro personale prescinde dagli approdi a cui possono essere arrivati. Tornando sul politico, considero fuorviante la considerazione della Di Cesare. So che IDEALMENTE l’origine leninista delle BR è la stessa di quella delle formazioni extraparlamentari, ma credo abbia ragione la Faranda, che fa presente a Moretti che in realtà loro di leninista non avevano nulla, e che la loro azione terrorista ha contribuito in maniera decisiva ad affossare il movimento rivoluzionario in atto. In altre parole: la rivoluzione agognata dalle BR NON era la stessa rivoluzione di chi era in AO, LC, Manifesto, MS ecc. Io, sarà che non sono mai stato leninista, credo sia deleterio scindere come spesso si fa negli ambienti marxisti (e non solo) i mezzi dal fine. Non si possono scindere, la relazione tra le due cose è molto forte, complessa certo, non univoca ma a volte anche cogente. Le tecniche violente messe in atto dalle BR dal 1976 in poi sono state sempre meno politiche e sempre più criminali. Sempre più incompatibili con una rivoluzione marxista, per quel che ci capisco io. Non hanno semplicemente fallito, hanno proprio sbagliato da ogni punto di vista, politico ed etico. Senzani che processa, filma e uccide il fratello di Peci è una delle cose più aberranti che si possano vedere. Degno della peggiore mafia. E i brigatisti, dal carcere, lo condannarono più che altro per aver pubblicizzato e filmato quella uccisione, ma non per l’uccisione in sé. Insomma, oltre un certo grado di distanza nell’uso e nella considerazione dei mezzi, non si può più dire di avere lo stesso fine, perché il fine è modellato dai mezzi. Una insurrezione armata organizzata alla luce del sole, può essere una rivoluzione fallita, l’uccisione mirata di singoli, no. Detto questo, ovviamente credo che la Di Cesare debba poter scrivere quel che le pare. Mi scuso per la lunghezza e le semplificazioni ma il discorso sarebbe lunghissimo

  3. DA POLISCRITTURE SU FB

    Paolo Bottoni

    Non sono del tutto sicuro di avere colto le conclusioni e sicuramente è vero che di fronte al lottarmatismo si oscillasse fra compagni che sbagliano, infiltrati e servi del capital. Una cosa però. Né con lo Stato né con le BR lo aveva detto Sciascia. DP, ai tempi del rapimento Moro, diceva Contro lo Stato e contro le BR. E quindi sostanzialmente dicesse: una prospettiva rivoluzionaria va tenuta aperta, ma il sostitutismo (altro termine di allora, ma che oggi non si riporta mai) non ne fa parte.

  4. DA POLISCRITTURE SU FB

    Tito Truglia

    A ben vedere gli italiani non ne hanno mai fatte rivoluzioni. Le hanno potute solo sognare. Sogni di minoranze di illuminati psichedelici. O operaistici (il Biennio). Ma le rivoluzioni non solo non sono un pranzo di gala, ma arrivano solo quando la situazione lo permette… E per capirla/progettarla ci vuole del genio. E quante volte giovani esaltati dell’azione hanno visto la situazione propizia? Machiavelli consigliava di alzare gli argini non tanto di provare a sfondarli tanto per vedere quel che succede Errori? Sbagli? Sì di tutti. Tanti. La generazione dei miei fratelli maggiori hanno sbagliato tutto, quasi tutto. Sia gli extraparlamentari sia quelli dentro le sezioni. L’uccisione di Moro è simbolo di questo fallimento. Per me per fortuna è facile dirlo. Poi noi giovani peggio… Purtroppo. Ha vinto il potere e vince ancora, anzi stravince. Praticamente fa quello che vuole.

  5. DA POLISCRITTURE SU FB

    Giuseppe Muraca

    Genesi e sviluppo della sinistra rivoluzionaria

    Nel corso della primavera del 1968 tra le fila del movimento studentesco prese sempre più piede la convinzione che senza il partito non sarebbe stato possibile fare la rivoluzione. Il maggio francese per le sue modalità di svolgimento ebbe sul movimento italiano un effetto dirompente e un’influenza veramente profonda. In Francia nel corso del mese di maggio era successo qualcosa di veramente straordinario: in seguito alla rivolta degli studenti si erano mobilitati milioni di operai, di intellettuali e di cittadini francesi che si erano ribellati al potere costituito e al sistema mandando in tilt il sistema economico e la vita di un intero paese e mettendo in fuga persino il generalissimo De Gaulle che era stato costretto a riparare in una località ignota. Insomma, si era realizzato una sorta di “miracolo” e per un mese la Francia era stata sull’orlo di una nuova rivoluzione, attirando nuovamente l’attenzione del mondo intero. Ma la vittoria del gollismo alle elezioni di giugno e la sconfitta della contestazione e dell’estrema sinistra francese spinsero i protagonisti del movimento italiano ad avviare una profonda riflessione sugli esiti delle lotte nel nostro paese e nel mondo e sulle prospettive future. Come ha scritto Antonio Benci “quanto accaduto nei mesi di maggio e giugno in Francia nonché buona parte della fraseologia del Maggio fungono da evidente esempio e lezione per il movimento italiano ”. Seguirono mesi di intenso dibattito. E con la ferma intenzione di imprimere al movimento stesso un salto di qualità e di allargare l’area della contestazione coinvolgendo altri soggetti sociali, innanzitutto la classe operaia, viene posta all’ordine del giorno il problema dell’organizzazione rivoluzionaria capace di creare e di guidare un nuovo processo rivoluzionario che si riteneva già in atto. Quindi, a partire dalla seconda metà del ’68 e nel biennio successivo sulla scia della contestazione studentesca e dell’autunno caldo, si affermò sempre più la convinzione che occorreva costruire alla sinistra del PCI e del PSI un partito in grado di incanalare i movimenti di protesta verso uno sbocco rivoluzionario, in grado appunto di avviare un radicale cambiamento in senso comunista della società italiana. Ebbe così inizio la stagione dei nuovi gruppi rivoluzionari che, nel bene e nel male, segnarono la storia del nostro paese fino e oltre alla metà degli anni settanta e che si contrapposero alla linea riformista, revisionista e consociativa della sinistra tradizionale e del sindacato. Però è importante precisare che i gruppi dirigenti della sinistra rivoluzionaria non solo non riuscirono a costruire una piattaforma teorica, politica e organizzativa unitaria, una sintesi tra le diverse anime della nuova sinistra ma furono incapaci di interpretare e di recepire adeguatamente le istanze di cambiamento e la spinta libertaria e antiautoritaria che nascevano ed emergevano dai settori più radicali della società civile, ed in particolare dall’universo femminile, le novità e i cambiamenti che si verificarono nel corso degli anni a livello nazionale e internazionale. Infatti, alla fin fine a prevalere furono il dogmatismo, il settarismo, le divisioni, la competizione e la contrapposizione ideologica tra i vari gruppuscoli, ciascuno dei quali agiva nella ferma convinzione di essere il solo detentore della giusta linea e della purezza e della verità rivoluzionaria; un fenomeno questo che si è imposto nel corso di quel periodo tra le diverse avanguardie e formazioni politiche sorte alla sinistra del PCI e del PSI, all’indomani del 68 e accentuatasi nel corso dei primi anni settanta e che hanno condizionato il percorso, i risultati elettorali e la stessa efficacia della loro azione politica e culturale sul contesto politico italiano.

    Giuseppe Muraca

    Questo pezzo fa parte di un testo molto più lungo sulla genesi e lo sviluppo della sinistra rivoluzionaria che fa parte di un mio libro di prossima pubblicazione.

  6. Come ho avuto modo di dire e scrivere in diverse occasioni
    1) dopo le elezioni del 76, riflettendo su quel che accadde, ho ritenuto totalmente sbagliata la visione e l’analisi che facevamo sulla società italiana inclusa la lotta di classe come riferimento nostro e come motore della storia
    2) scelsi allora di stare dalla parte dello stato democratico e delle sue istituzioni pur sapendo che quello stato, in molti suoi rappresentanti, era pieno di deviazioni e di negazioni
    3) le BR avevano dichiarato guerra e dall’altra parte si rispose con la guerra in particolare dopo che si trasformarono in un gruppo di assassini
    4) in questi giorni ho letto la autobiografia di Gallinari e vi ho trovato la conferma, pur con una maggiore umanità, di quanto avevo già trovato nelle posizioni di Moretti (le cose andarono così e dunque non ci restava che riempire di cadaveri il nostro percorso).
    5) Se la domanda è, noi cosa avremmo fatto, ricordo che non avevamo per niente le idee chiare e la posizione predominante era in questo momento dobbiamo, attraverso le lotte sociali, spingere il PCI su posizioni più avanzate, poi si vedrà. Era una posizione molto primitiva ma che ci salvò da compiere passi che ci avrebbero portato su una brutta china.

  7. In tutti gli interventi precedenti si dà atto, implicitamente -come fosse ovvio- che era solo il soggetto maschile protagonista: delle BR, dei gruppi, dello stato. Non che non ci fossero ragazze, e donne politiche, dovunque, ma non c’era ancora il femminismo. (Citato via con trascuratezza da Muraca: “i gruppi dirigenti della sinistra rivoluzionaria … furono incapaci di interpretare e di recepire adeguatamente le istanze di cambiamento e la spinta libertaria e antiautoritaria che nascevano ed emergevano dai settori più radicali della società civile, ed in particolare dall’universo femminile…”)
    Non c’era protagonismo possibile per le ragazze, quelle che frequentavano scuola e università (e sindacato) proprio come i loro compagni.
    Non sarà un caso che il “femminismo della differenza (sessuale)” nasca allora!
    E’ stato un movimento rivoluzionario? Senz’altro, in quanto ha segnato un protagonismo femminile generalizzato, di cui oggi vediamo gli effetti diffusi a livello mondiale.
    Ma la “rivoluzione” ha solo il modello ’17?
    Occorrerebbe esplicitare come la presenza delle donne in certi campi, magistratura scuola e medicina in primis, abbia introdotto un “segno”: attenzione, approfondimento, allargamento della prospettiva, giudizio ampio… Si potrebbe verificare in rapporto a società in cui questa presenza femminile è rifiutata. Anche l’ottimo Tronti “al di fuori della doppiezza, la democrazia non è utilizzabile” non vede, nella democrazia, che al 50% ci sono le donne.
    Certo che, l’idea stessa di rivoluzione che agitava quegli anni, è deperita, si è trasformata, con la teoria della dipendenza e poi dei sistemi-mondo, in parti del mondo che vedono modi diversi di partecipazione o esclusione delle donne dalla politica e dalla economia.
    In sostanza io avevo concluso da allora che quegli anni ’70 nella politica di sinistra, PCI e gruppi, erano asfittici: a baloccarsi col dilemma della rivoluzione, si tenta, ma non ci sono le condizioni, tutto ruotava su un’idea di “rivoluzione” che era forse solo una idea fissa, un blocco mentale, immobile come un paracarro.

  8. Sia il problema BR sia quello femminismo andrebero affrontati con una scansione temporale più precisa. Che ritengo sarebbe illuminante rispetto ad alcuni dei dilemmi qui posti.
    Parto dal femminismo, che era vivo e vegeto -almeno a Milano e in Toscana- solo che non si vedeva come parte autonoma e diversa dal resto del movimento antagonista. Questo nel ’68-’72; chè poi comincia una progressiva autonomizzazione che allarga ma insieme separa le prospettive.
    Per le BR e la ‘democrazia’ occorre essere molto precisi:
    – da un lato quali erano le forze in campo, e in questo dibattito vedo largamente assente la ‘longa manus’ dello Stato, ovvero quell’Ufficio Affari Riservati di Amato che creava gruppi (vedi i nazimaoisti) , li infiltrava pesantemente (v. l’assassinio di Calabresi realizzato da suoi infiltrati per scopi di protezione di dossier riservati), in parte ne influenzava le scelte. E a latere organizzava insieme ai suoi alleati a anche ai datori di lavoro quella strategia della tensione (v. bombe) che è stato elemento centrale degli equilibri del periodo; nonchè un fattopre determinante nel far vedere lo ‘Stato democratico’ come unico punto di equilibrio tra terrorismo rosso e nero.
    – dall’altro sui tempi: le formazioni armate nascono quando diventa visibile – come scioglimento o perdita di prospettiva- il fallimento delle grandi organizzazioni della sinistra rivoluzionaria; e nascono in larga parte come separazione di parti di queste dal corpo materno; con l’eccezione delle BR preesistenti e che in questa fase assumono un ruolo di riferimento ideale. Il ’76 è il momento in cui queste formazioni si riconoscono e collegano; ma è anche il momento in cui è più visibile che non sono la ‘avanguardia del proletariato’ ma solo una delle forme che assume la sua sconfitta.
    – e infine la convinzione leninista comune a tutto il movimento sul carattere solo formale della democrazia e sul governo come ‘comitato d’affari della democrazia’; per cui nessuno riteneva di dover piangere per la morte di un nemico di classe.
    Ma col sequestro Moro, che non ritengo un semplice frutto di questo movimento e delle BR, si certifica la fine di un periodo; e ritengo anche che tutti quelli che pensano di doversi fare un esame di coscienza su quella fase dovrebbero soffermarsi a guardare cosa stanno facendo oggi i governanti nostrani ed europei, quale disprezzo aperto mostrano delle opinioni e delle coscienze dei loro governati mentre si muovono a scatto mossi da grandi mani d’oltreoceano; e chiedersi se è proprio il caso di buttare a mare Lenin e confidare nella democrazia moderna e meloniana.

  9. “Non sarà un caso che il “femminismo della differenza (sessuale)” nasca allora!” (Fischer)

    Appunto. Sembri, però, sottovalutare la “funzione maieutica” che ebbe il movimento degli studenti (maschi e femmine insieme) nella nascita del femminismo. O, in altri termini che esso fu il “brodo di coltura” de femminismo.
    I gruppi dirigenti della sinistra rivoluzionaria saranno stati pure degli apprendisti stregoni “incapaci di interpretare e di recepire adeguatamente le istanze di cambiamento la spinta libertaria e antiautoritaria che nascevano ed emergevano dai settori più radicali della società civile, ed in particolare dall’universo femminile” (Muraca) ma, essendo venuti fuori o – se venivano dagli apparati dei partiti “storici” – essendosi abbastanza “sporcati” con un vero movimento di lotta, bisogna dire che – nolenti o volenti – avevano costruito alcune condizioni prima inesistenti, sulle quali il femminismo poté crescere.
    Una domanda: poteva nascere da solo il femminismo? Senza quella prima spallata – va detto: data insieme giovani maschi e femmine) – al rigido sistema autoritario del tempo?
    Neppure Venere nacque da sola! Leggo che nella sua Teogonia, Esiodo racconta che Venere nacque dalla spuma prodotta in acqua dai genitali recisi di Urano, quando furono gettati nel mare. Fuori dal mito forse anche il femminismo nacque dalla spuma del movimento degli studenti…
    Concludendo. In quegli anni ’70 politica di sinistra, PCI e gruppi saranno stati asfittici: ma se non si fossero baloccati un po’ col “dilemma della rivoluzione” – altro che “idea fissa, blocco mentale, immobile come un paracarro” – il femminismo anni ‘70 sarebbe rimasto un sogno.

    1. la Libreria delle Donne apre nel ’75 in via Dogana, dietro piazza Duomo. certo che erano anni di movimento e di libertarismo, però in Libreria – luogo aperto sulla strada- si vendevano solo libri scritti da donne. Il separatismo è quindi il segno, rispetto al movimento generale. La “rivoluzione” in questione, dunque, riguardava solo noi. Insieme alla Libreria dopo pochi anni si forma il gruppo Diotima all’università di Verona. Separatismo e autonomia, il movimento era alle spalle.

      1. ” Separatismo e autonomia, il movimento era alle spalle.” (Fischer)

        Riformulo la domanda : sarebbero stati possibili il movimento femminista e la Libreria delle donne di Milano senza la “spallata” del movimento degli studenti ?

        1. Credo di sì, la formazione cattolica di L. M., e quella PCI di L. C., il femminismo del gruppo Demau e Rivolta femminile (Carla Lonzi) non nascono dal movimento degli studenti, https://comune-info.net/demau-e-rivolta-femminile-donne/.
          Più sensata invece l’evidenza che alla Libreria fecero capo numerose giovani donne, che avevano attraversato il movimento degli studenti, (ma si orientavano ormai su separatismo e autonomia).

  10. @ Lorenzo Galbiati, che è informato e ha fatto molte ricerche sul tema, devo una replica lunghissima:

    1.
    La “consapevolezza storica e politica, una maggiore aderenza alla realtà dei fatti” non viene fuori di più incontrando personalmente “le vittime della violenza rivoluzionaria”. Non va escluso che qualche spunto di verità possa venire da Bonisoli, ma non perché dissociato o “veramente” pentito o perché “oltre a dire abbiamo perso, siamo stati sconfitti” avrebbe “ il coraggio di dire: per fortuna”. Né si possono svalutare altri spunti emersi dal “ faccia a faccia di Curcio e Cossiga” solo perché sarebbero “rappresentanti di due fazioni politiche”.

    2. “Mettersi in discussione personalmente” non garantisce affatto più verità. E proprio perché c’è una preventiva rinuncia: le azioni compiute vengono separate dalle ideologie professate come “noi”.

    3. L’ideologia (in questo caso quella “marxista-leninista” delle BR) non è mai semplice maschera, che può essere tolta o strappata a piacimento o con un atto di volontà. E anche quando la si rinnega, come fa il pentito, non è che automaticamente verrebbe fuori l’uomo (o la donna) nella sua autenticità.
    Nel merito rimando ancora alla posizione di Fortini:

    “Più tardi, quando incontrò a San Vittore vari detenuti per terrorismo o partecipazione a banda armata,1 non esitò a criticare da un punto di vista marxista l’illusione di molti di loro – pentiti o dissociati –, che ormai si appellavano non più all’ideologia giusta o sbagliata che avevano abbracciato ma soltanto alla coscienza umana o all’«essere umano che dovrebbe abitare in ciascuno». Quei “lottarmatisti” finiti in carcere sostenevano ora che fosse stato un errore aver fatto «uso della violenza» e la sentivano come una colpa morale. Toccò proprio a Fortini ricordargli che, cancellando essi stessi la dimensione politica della loro azione, abbassavano la loro rivolta al livello dell’azione di «una banda di assassini o [di] un’associazione di indemoniati». No – gli replicava severamente – l’errore non era stato questo, non era stato morale. Era nato – e ben prima degli atti di violenza poi compiuti – da una cattiva «lettura e valutazione dei fattori politici che ha contribuito potentemente alla sconfitta della opposizione di cui [il Partito Armato] era una parte». E aggiungeva che il loro errore politico era stato ben più grave di quello morale: quest’ultimo riguardava l’individuo, mentre quello politico si era trasformato «in sofferenze e rovina per gli altri» e aveva trasformato «un quindicennio di vita di tutti in una questione di coscienza invece che in una questione di conoscenza e di azione».”

    (da E. A. Le disobbedienze dimenticate di Franco Fortini: https://www.poliscritture.it/2014/11/07/le-disobbedienze-dimenticate-di-franco-fortini/)

    4. Il personale è politico (in parte o in buona parte). E’ sbagliato staccare il personale (considerandolo autentico) dal politico (considerandolo inautentico). Specie se si tratta di militanti politici.

    5. La rivoluzione sognata o teorizzata da tanti negli anni ‘70 era una scommessa, era una incognita. E, proprio per questo, non è possibile dire con sicurezza che “ la rivoluzione agognata dalle BR NON era la stessa rivoluzione di chi era in AO, LC, Manifesto, MLS, ecc”. Mi pare più chiaro e documentabile sostenere che la differenza tra le BR e la nuova sinistra era politica: le BR considerarono la situazione rivoluzionaria, la nuova sinistra no.

    6. La scissione tra mezzi e fine. E’ possibile commisurare i mezzi al fine solo in una certa misura. E – violenti o non violenti – i mezzi scelti debbano avere effetti pratici legittimanti. [1]

    7. La differenza tra una violenza politica capace di legittimarsi e la criminalità (mafiosa o meno) sta soltanto nella capacità di misurare e controllare passo passo il valore politico dell’azione progettata o attuata. Lo dice chiaramente Curcio parlando della sua reazione alla notizia del rapimento Moro mentre era in carcere a Torino in uno stralcio riportato da Cereda: “Debbo dire che percepii subito un dislivello molto forte tra le capacità politiche delle Brigate rosse che agivano all’esterno e i problemi politici che un’azione così rilevante avrebbe posto. Ebbi la netta sensazione che l’azione compiuta rappresentasse un passo più lungo della gamba….capii che con Moro veniva ad essere colpito un vasto disegno politico in atto nel paese e che quell’iniziativa avrebbe avuto delle conseguenze politiche più gravi di quelle poliziesche.”. (https://www.ceredaclaudio.it/wp/2024/03/a-viso-aperto-intervista-di-mario-scialoja-a-renato-curcio-recensione/)

    8. Il discrimine, dunque, tra atto di giustizia e atto criminale anche in un contesto di conflitto militare non sta nell’uccisione o meno di un avversario politico. Durante la Resistenza i partigiani che eliminavano le spie presenti nelle loro file erano criminali o banditi per i fascisti. Erano invece combattenti per uno scopo che essi e quanti li appoggiavano ritenevano tanto nobile e giusto da assumersi anche la pesante responsabilità di uccidere.

    9. Lo stesso valeva per i brigatisti e gli altri lottarmatisti. Secondo la loro morale di combattenti Patrizio Peci era una spia e andava eliminato perché diventato “collaboratore di giustizia” (e, cioè, traditore). E non c’è da scandalizzarsi perché “ i brigatisti, dal carcere, lo [Senzani] condannarono più che altro per aver pubblicizzato e filmato quella uccisione, ma non per l’uccisione in sé”. L’esercizio della violenza (data e subìta) era implicita nella loro scelta politica . Quella violenza può essere considerata aberrante e criminale solo da chi valuta sbagliata la visione politica che la legittima. Fortini in quegli anni parlò di “falsa guerra civile”. Ma scrisse pure:

    “ Nessuna violenza è giustificata, mai, ma ogni violenza può essere inevitabile; credo che quanto dico stia scritto anche nel cuore della tradizione cristiana. Il patto sociale che ci sottopone alla legge non fa che trasferire altrove, che scaricare altrove i conflitti che noi regoliamo secondo i fatti costituzionali e i codici. Li trasferisce altrove là dove la legge non è uguale per tutti perché è legge o di salario o di privilegio.
    Se dunque cosi è, i nostri discorsi varranno solo se, oltre ad avere ragione, avremo la forza per farla valere; questa forza non sta nei muscoli né nelle armi, è la forza del progetto, dell’impegno e della milizia politica”

    (Da F. Fortini, in “Democrazia Proletaria”, ottobre 1985; poi in “Non solo oggi. Cinquantanove voci”, pagg. 301- 305, Editori Riuniti, Roma 1991)

    9. No, nessuna insurrezione armata si organizza alla luce del sole……

    Nota
    [1] Si veda questo paragrafo dell’intervento di Mario Tronti:

    «Ma, dall’altro, vi è un altro passaggio molto più delicato, tradizionale nel pensiero politico classico: il rapporto tra legittimità e legalità. Questa minoranza ha una sua sostanza di legittimità che non corrisponde, che alle volte è diversa dallo stesso concetto di legalità. Dobbiamo pensare la rivoluzione come una cosa che è legittima anche se non è legale. Dobbiamo rivendicare una legittimità senza legalità. È una cosa che attiene al tema del rapporto tra eccezione e ordine. La legalità è sempre il terreno dell’ordine, la legittimità nasce sempre dentro lo stato di eccezione, dove chi ha più forza di rivendicare la propria legittimità è chi decide nello stato di eccezione, che può dichiarare e far accettare a tutti che la sua rivendicazione è legittima anche se non è legale, dentro appunto le leggi dell’ordine esistente. »

    (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/per-la-critica-della-democrazia-politica?fbclid=IwAR0Fl5owFXmN-oLBt_nH5Ib3VpCCkjCYXrIkjmjJEQ6xgW6YhMOQzYR3od4)

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