Su “Amaladè” di Fosco Giannini

di Ennio Abate

Pubblico la mia prefazione a questa raccolta di poesie in dialetto di Fosco Giannini

Immergere temi di un contenuto sociale ed esistenziale quasi locale o persino anconetano in un dialetto scabro,  asciutto, colloquiale e con una sua musicalità lenta, nella quale s’adagia un parlato che sembra rivolto ad un piccolo pubblico,[1] è stata per Amaladé (Amala adesso), l’ultima raccolta di Fosco Giannini, una scelta felice, che ben contrasta il diffuso pregiudizio di chi ritiene ancora il dialetto lingua minore, secondaria e magari regressiva o più conservatrice rispetto alla lingua italiana nazionale. Tale opinione, legata alla visione gerarchica e progressista della cultura borghese nazionale, s’è da tempo dimostrata infondata e i dialetti sono stati ampiamente rivalutati (a volte anche esagerando). Del resto la lingua italiana dal secondo Novecento si è ampiamente massificata e anglicizzata, tanto che può oggi essere considerata essa stessa con qualche buon motivo un “dialetto” a livello mondiale. A me pare, dunque,  che nella nostra cultura, scombussolata e più o meno fuori dai cardini della Tradizione, il dialetto (e l’Italia ne ha tanti) abbia la stessa dignità e potenzialità di una lingua nazionale non chiusa nostalgicamente nelle sue glorie letterarie del passato o di una delle lingue “globali” usate sia per scopi pragmatici che letterari. A prima vista esso è strumento più povero soprattutto lessicalmente, ma può essere, specie in poesia, altrettanto efficace e a volte più duttile per entrare  nelle pieghe di realtà  in disfacimento   o in ambigua metamorfosi. Può, cioè, salvare significative esperienze umane che, trascurate da certe derive post-umane  o postmoderne di moda o banalizzate dalla cultura di massa, hanno tratti sia singolari che universali di notevole portata.  E Fosco Giannini in Amaladé si muove in questa direzione.

Il senso forte della raccolta sta nel narrare una piccola apocalisse contemporanea. Giannini ci parla, infatti,  di drammi e tragedie che stanno avvenendo in una quotidianità bassa, stremata e in un certo senso ancora popolare: il mondo dei cantieri, dei mercati, delle periferie; ma anche dei condomìni e delle stanze da letto o delle cucine di famiglia, dove resistono  tramortite intimità, affettività ed eroticità.

Per evitare equivoci, il termine ‘popolare’ va inteso in senso dimesso e senza retoriche e andrebbe usato con la piena consapevolezza che, attorno a queste realtà popolari che permangono, tutto è, però, mutato; ed anch’esse più lentamente mutano. La poesia di Giannini –   in parte di memoria anche elegiaca ed in parte pulsante e stretta all’attuale – è capace di trattenere un calore antico, materno e comunitario, cosa rara o difficile da rintracciare nelle realtà delle metropoli, dove si impongono forme più fredde o crudeli di decomposizione e metamorfosi.

Non è che nelle realtà locali o periferiche non si infiltri  il mainstream della globalizzazione coi suoi segni inquietanti ed estranei, ma la fonte di queste poesie ne è  solo sfiorata. Amaladé, infatti,  affonda le sue radici in rapporti di dolente affettività e conserva tuttora intatto un forte sentimento d’amore e  d’ammirazione. Per la vita. Per la bellezza della natura, di luoghi ben noti e familiari (mai anonimi), della gente comune che li abita. E, soprattutto, delle figure femminili. Non mancano idiosincrasie, delusioni, amarezze, perché Giannini sa soffermarsi acutamente e con empatia su esistenze piegate e piagate dalla ripetizione mortifera del lavoro e della vita in generale, oggi sconvolta fin nelle sue fondamenta psichiche e biologiche.  Ad esse è legato da vincoli profondi. Non solo per ragioni generazionali ma per scelte di pensiero – sì, va detto – anche ideologiche, vista la sua  inequivocabile  e per molti scandalosa o anacronistica scelta comunista. Non mi pare un caso, perciò, che uomini e donne vengano evocati attraverso il filtro di un immaginario sobrio e  persino povero rispetto a quello abbagliante e ingannevole della odierna società capitalistica dello spettacolo. E che le  loro figure trattengano echi striscianti del neorealismo dei primi due decenni del dopoguerra. Ad esempio, in certe espressioni crude e materialiste[2] o nel gusto coevo per i nomi di luogo precisi[3] che mi hanno riportato alla memoria i film in bianco e nero di allora.

Scorrono davanti a chi legge scene che sembrano avvenire nelle nebbie  di una memoria collettiva residuale. E che alle nuove generazioni rischiano di apparire rappresentazioni quasi arcaiche. Tanto che solo i lettori ancora in possesso di un forte senso del tempo e del suo spessore storico potranno assaporare in pieno  alcune atmosfere di questa sorta di presepe sociale, abitato sia da fantasmi quasi irriconoscibili che da tenaci testimoni della memoria delle nostre infanzie e adolescenze. E, tuttavia, una parte più ampia  di lettori potrà vedere come queste figure arcaiche rivivano nell’oggi e  si mescolino e si confondano con quelle delle  nuove migrazioni di lavoro.[4] Giannini, ad esempio,  fotografa una sorta di “cambio di staffetta” tra passato e presente quando delinea la figura emblematica del «tranviere un ex arsenalotto/ che porta j ’mmigrati a massagra’,/’ndormiti li scorta a l’alba, morti a la sera». Mentre credo che chiunque scorrerà questi versi, indipendentemente dall’età e dalle esperienze pregresse, individuerà i temi portanti della raccolta e lo stile che  dicono della qualità  etica di questa poesia e del suo autore.  Per me sono: – l’attenzione al lavoro operaio, manuale, materiale;[5] – la solidarietà emotiva (quasi verghiana o comunque ottocentesca) verso le piccole epopee dei lavoratori sofferenti,  distrutti dalla crisi della civiltà industriale e senza più ideali di riscatto,[6] delle donne  violentate,[7]dei militanti politici sconfitti ma non rassegnati;[8] – la cura tenace nel recupero di  guizzi di ricordi da una dimensione sia politica[9] che infantile e adolescenziale perduta ma che ancora emana echi preziosi di un irrinunciabile desiderio di felicità;[10]– la consapevolezza della desolazione di una realtà fattasi più oscura, più amara e inesorabilmente sfavorevole per  la maggioranza dei viventi. Che è poi  quella seguita alla fine della civiltà della fabbrica e alla perdita delle idealità e progettualità che miravano alla costruzione di una società alternativa  più alta e libera.

Trascurati e tragici fatti di cronaca, anche col carico di banalità e casualità che la vita impone.[11] Scene di vite violente di immigrati e puttane. Esistenze avvilite e senza più speranze. E’ questo tessuto sociale che Giannini  sa mettere in relazione poetica  con  eventi di una natura turbata  e quasi partecipe o pietosa verso le peripezie degli umani.[12] Di fronte ad esse il dolore e il pianto possono farsi però soltanto invettiva[13] o riconoscimento della desolazione.

Nella poesia «Tutto s’è ‘ruginito»[14] la distruzione del mondo operaio è vista nella sua compiutezza.  Questi versi mi paiono emblematici di un trapasso ormai avvenuto, di una discontinuità quasi assoluta coi  centocinquant’anni di un percorso storico carico di speranze. E mi è venuto spontaneo accostare l’immagine di questa anonima «fabbrica ‘bandonata» o del «saldatore /che solo in casa per ore e ore/ da la finestra guarda la gente,/ senza più vede niente» ai versi de «La gronda»[15] di Fortini, che ci parlano dello «spigolo d’una gronda,/ in una casa invecchiata, ch’è di legno corroso/ e piegato da strati di tegoli». Quella di Fortini era  una poesia ancora carica di speranza nel comunismo.[16] Questa di Giannini fa risentire  il morso di una sconfitta epocale, di cui di sicuro i suoi versi hanno preso atto,[17] ma svela l’assenza di qualsiasi sia pur allegorica rondine annunciatrice di futuro. In Amaladé, infatti, non vedo ridisegnarsi  un discorso poetico che ci conduca «di pianto in ragione», come ancora Fortini sperava di costruire assieme ad altri. C’è, invece, una vitalistica e indomita passione erotica che, addolcita (come per i ricordi d’infanzia e dell’adolescenza) ancora dal dialetto,  si presenta in una gamma ricchissima di toni e situazioni: dalla saggezza sconsolata[18]al sentimentalismo da melodramma,[19] dal duello amoroso quasi cruento[20] alla tenerezza crepuscolare ma comunque espressa in metafore corporee,[21] dagli scoppi di gelosia[22] alla desublimazione[23], alla irrisione sfacciata,[24]alla  golosità erotica – ora quasi casalinga e appartata[25]ora brutalmente mascolina[26]–  e perfino schiettamente puttaniera[27] o esasperata.[28] In questo fiume erotico, che scorre in molti componimenti di Amaladé, anche i flutti più bruschi o violenti di una carnalità che– anche con l’avallo del dialetto – si vuole istintuale e non mediata,  permane una sorta di ingenuità  naïve. Che anche dove è sfiorata da tensioni alla Pasolini, evita però le secche torbide e affascinate dalla morte dello scrittore friulano. Anche perché,  in questa dimensione erotica come nelle altre sociali ed esistenziali, Giannini di suo ci mette  molta ironia, una sottile autoirrisione e  a volte schizzi di un sarcasmo  immediato e amaro.[29]

Nel tessuto prevalentemente descrittivo di Amaladé coi suoi umani, gli animali, i paesaggi autunnali, i sentimenti, trapela quasi un inizio di allegoria, ma Giannini non vi si inoltra mai.[30] Non so dire perché. Né so dire se la raccolta segni uno stacco dalla precedente produzione poetica dell’autore, ma con convinzione posso dire che Amaladé aiuta ad allontanarci dallo stanco dibattito culturale  (anche politico) che ci asfissia e ci suggerisce di misurarci coi temi esistenziali di un io/noi periferico, dimesso, deluso, a volte annaspante, ma ben vigoroso.

Note

[1]  Va ricordato che la precedente raccolta di Giannini, “Inguria”, del 2019, è stata portata, con molta fortuna, a teatro e le poesie sono state interpretate dall’attrice Tiziana Marsili Tosto.

[2] «Loro cià i bronchi colmi de calcina».

[3]  Cantino’ dei Sali, Scotte, Monte Spaccato, Archi, Mandracchio, Portonovo, Passetto, via de la Beccheria, Numana, Monteacuto, Massignano, Monte Porzio.

[4] «i frontalieri, La mattina ene interi,/ cusci’ spera la sera:/ in gran parte ene neri, un po’ è de Marghera».

[5] «è che un po’ se spaurisce a pensa’ a la lamiera,/ che do’ tre li ferisce, ogni giorno ogni sera».

[6]«Dice che s’è poggiato / a le reti del Passetto,/ che ha pensato più d’un momento /de buttasse sul tetto del baretto, / de passà ’ndo che la trama è lasca,/ co’ la lettera del licenziamento ’nte la tasca».

[7]«Strume, el camionista de Latina,/vole che lia se gira, a cavallina./ Presume che tanta bava era piacere,/ gode de cagne; ma è lia che piagne, /come tutte le sere…».

[8]«Va elsegretario, se fiata ’ntele mano/ che grandina e nengue, mista,/ va elsegretario comunista:/  c’è do’ compagni solo alla sezio’ del Piano;/ ma la storia pija sempre el volo / e lu’ guarda ’ogni do’, e lontano, / occhi de cormorano».

[9]«Ntel viaggio ch’el porta giù/ ’arcorda i comunisti,/ compagni della gioventù /su la vespetta piaggio /e la rivoluziò ch’ era ’na scienza esatta:/ chi ade’ comanda, co’ le mani onte,/ha scancellato pure l’orizzonte,/ tanto la terra è piatta».

[10] « C’èmi, da fioli,/paura de la notte:/’nte le tende i patemi/  e ghigni de bambolotte.//Tutte paure dal nero de j archè,/de lupo e sdrega riccia,/che te metteva i padri» ; « De fòra, sotto le stelle vere,/ lu’ pe’ la prima volta l’ha bagiata;/ era sortiti solo da tre sere:/ come un cremi’ la luna je s’è sciolta/e ’nte le ma’ je ’rmasta ’ppicigata.»

[11] «ma ’riva el tir gigante, je fa la pelle / e com’era in vita more: titubante».

[12]«Come se sbaji appena appena i toni /e memore de qualche tempo odioso/-’n’uccello-dio, pauroso, ’ntei cieli abnormo-/ s’alza furioso lo stormo dei piccioni….».; «Va elsegretario a porta’ la lista/ alla sezione comunista/ mentre se fa alto el mare,/la lista elettorale».

[13]«Vigliacchi che fuge,/ ave’ imballato le macchine da cuge/Co’ i documenti de Roma e di Tirana,/ brutti fji de ’na puttana».

[14] Tutto s’è ’ruginito Tutto s’è ’ruginito/’nte la fabbrica ’bandonata,/crollane i parapetti,/ fornifica ’ntei catorci,/co’ i grigi camigetti, i sorci,/ e ’nte lo spazio infinito/ ’mezzo ai tralicci torvi,/ rimbomba el vola’ dei corvi /sotto la navata.//Pe’ sbajio è entrata ’na cicogna / ch’ha fatto el nido ’nte la ciminiera /e ade’ sguarda de tajio, come che sogna,/persa sul nastro trasportatore/ mezzo a ’na vita che n’è più vera.//Col stesso modo del saldatore /che solo in casa per ore e ore/ da la finestra guarda la gente,/ senza più vede niente.

[15] Cfr. La gronda, da “Una volta per sempre”, “Lo Specchio” Mondadori, 1963.

[16] « Penso con qualche gioia/che un giorno, e non importa /se non ci sarò io, basterà che una rondine/
si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti/irreparabilmente, quella volando via. (F. Fortini, Ibidem).

[17] «E ciai un pensiero/ ’nte la la mente,/ nero: non gambia mai la gente,/ non gambia niente.».

[18]«famoce basta,/che ormai scopamo/ co’ l’emozio’/ de chi scola la pasta».

[19] «Me mandi via,/me mandi via:/ cosa sarà de la vita mia?».

[20]«Dichiari ’na guerra de trincea/che non me spari al core,/ ma è el rosola’ del disamore,/ a fogo lento, de fricassea».

[21]«Ma per come ade’ m’hai amato/ sempre me regerai come ’na chiave,/ ficca ’ntel corpo malandato/ d’un palazzo terremotato».

[22]«Cruda, dovrià magnatte,/a susci,/ditte le peste».

[23] «Perché poi crede che i flutti d’ambra/ a ’torno ai fianchi de Maria Fortuna/enne i riflessi de ’na luna stramba,/invece è il piscio de la signorina/ ’ntel mare de Palombina.».

[24]«Te ciai ’na grazia sola:/j occhi turchini. /E jo vieno da te/ e non me sbajo:/ come vo’ da i tunisini/ che vende solo l’ajio.».

[25] «che te co’ la gonellina/ e semo febbraio/ girata de schina/ pisti le zucche, i semi,/dentr’al mortaio/ e tutto te trema/le spalle, i fianchi, i seni, …».

[26] «Tutta, t’ho ’nseminata,/come ’na terra a gra’:/’vunque te frugo,/tefo’ i capelli lordi/ e come un pezzo de pa’/t’arcojioel sugo/ longo tutti i bordi.».

[27]«Indica col diti’ el reggicalze a spande/ e la molletta lenta che lassa el velo nero/ fasse ’na danza insana, ’costato al pero,/ cuscì che da le panze je fermenta/che è proprio ’na puttana /e pure meza matta, sempre co’quela gatta/ e tutti i calzetti ’lineati pari, come le mutande. ».

[28]«Cazzo te scampanelli/tutta la notte,/t’ho detto ieri che è finita,/  m’hai scarpito i capelli, / m’hai preso a botte».

[29]«perché el tempo è ’na puttana da cinema astra».

[30]«Spavento, che ha già sentito/la tromba de dio / ’splodeje ’nte l’udito,/e l’urla controvento/  de ivangelici battisti,/ come quando ’nte la curva /sorpassi i camionisti.». Ma vedi anche una sorta di arringa al mondo animale sottomesso  a farsi sentire, a rivoltarsi: «Gracchie’, cornacchie,/sbatte’ le ali;/rajia, somaro, rajia,/ sorti’, cinghiali da le macchie,/da la boscajia,/chicchirighe’, oh galli,/a tutto spiano».

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