Montaldi riletto nel 2006

Elogio di un compagno periferico

di Ennio Abate

Io e Montaldi

Ho conosciuto di striscio Danilo Montaldi tra 1973 e 1975, quando ho scambiato con lui alcune lettere e l’ho in contrato in due o tre occasioni. In quegli anni ero un militante di Avanguardia Operaia  e a lui, non so come, era capitata tra le mani un ciclostilato, una “Lettera aperta ai compagni del Pci” di Cologno Monzese che avevamo distribuito  per strada.

Di Cologno Monzese Montaldi si era occupato assieme a Gianni Alasia scrivendo Milano, Corea, un’inchiesta sugli immigrati pubblicata nel 1960. Preparava una riedizione del libro e mi scrisse per conoscerci e farsi mandare volantini e documenti. C’incontrammo nel novembre ’74. Mi  donò poi Autobiografie della leggera e Militanti politici di base, mi mise in contatto con Alasia e mi consigliò di leggere Sara Lindman, Rapporto dal sottosuolo svedese, appena pubblicato da Einaudi.

Tornò a trovarmi nel marzo ’75 annunciandomi l’inizio di una raccolta di testimonianze sulla «giovane classe operaia» a cui voleva partecipassimo: biografie, lettere e diari  di quanti avevano partecipato alle lotte tra il ’68 e il ’70. Una buona parte delle biografie dovevano essere  di ragazze, di donne.

In una lettera successiva mi indicò il metodo: «isolarsi a due, con un quaderno e una penna, oppure con un registratore, e tirarci dentro, fuori dai denti, da compagni, senza censure interiori, né scrupoli di venire censurati da altri».

E l’obbiettivo: «non solo conoscere, e far conoscere a loro stessi […] quanto hanno fatto gli operai giovani in Italia in quegli anni, ma attraverso loro conoscere come essi vedono il divenire della società attuale, del sistema capitalista, da ieri a oggi, a domani».

Lessi Autobiografie della leggera. Con la baldanza un po’ rozza di allora lo criticai per il suo approccio «piuttosto sociologico». Ma subito dopo gli feci gli elogi per Militanti politici di base.

Quel libro  dava voce a drammi e problemi della mia stessa sofferta militanza in AO. Mi apriva gli occhi sui veleni della forma partito e gliene fui grato. Montaldi – e fu l’ultima lettera che ricevetti (24 marzo 75) –  mi ringraziò ironicamente: «intuisco di aver ottenuto “la perdonanza”, come si dice qui, dall’essermi precedentemente dedicato alla Leggera».

Nei miei ricordi personali Montaldi  è rimasto una figura  insolita di militante. A differenza di quelli tutti di un pezzo e spesso altezzosi che ho incontrato in quell’epoca durante l’occupazione della Statale di Milano, in Avanguardia Operaia o davanti ai cancelli delle fabbriche di Sesto, di Cinisello, di Brugherio, era quasi timido.

Sapeva stabilire però un rapporto  di ascolto, non gerarchico, non obbligante, quasi paritario. E per degli apprendisti, quali ci consideravamo io e i miei amici di Cologno, tutti immigrati, che organizzavamo  interventi in piccole fabbriche o in quartieri-alveari appena sorti, in una città-doritorio di immigrati, questo contava parecchio. Si percepiva che la sua attenzione verso di noi, verso gli immigrati e le periferie non era paternalistica, strumentale o aggiuntiva.

Dopo la sua morte ho cercato di  mantenere i contatti con la sua  vedova, con  i compagni della rivista «Primo maggio» e con conoscenti in apparenza desiderosi di continuare l’inchiesta sulla «nuova classe operaia» da lui avviata. Ma tutto quel fervore si disperse negli anni bui successivi.

Sono rimasti i suoi libri, che ho riaperto negli “anni di piombo” e solo molto più tardi ho potuto interrogare  quelli che gli erano stati vicini: Maria Grazia Meriggi, Sergio Bologna, Gianfranco Fiameni.

 

Ma chi era, cosa ha fatto Montaldi?

Passando dal ricordo personale alla riflessione  storica, la figura di Montaldi mi si è svelata nella sua complessità sfaccettata.

Era un militante all’antica, serio, rigoroso, tagliente, profondamente legato a un’epoca storica: quella che parte dal fascismo  attraversa la Resistenza, il periodo di strapotere della DC, la crisi della Sinistra nel 1956, il miracolo economico 1958-‘63,  il luglio 1960,  il “biennio rosso” (1968-‘69) e la strategia della tensione.

Il resto (l’emergere del precariato nel movimento del ’77, il rapimento Moro, gli anni di piombo, e le convulsioni che hanno portato alla sconfitta nell’80 della classe operaia, al disfacimento dell’Urss e del Pci, alla crisi della democrazia) appartiene solo a noi suoi posteri e fa da diaframma alla  rilettura della sua opera.

Nella sua breve vita Montaldi  è rimasto fedele a un nucleo della sua formazione giovanile, proletaria e comunista e ad un suo principio etico e politico che si può riassumere in una volontà precisa: “stare vicino al proletariato”, con coerenti scelte di vita e una selezione accurata (a prima vista quasi settaria) dei suoi contatti sia politici che culturali (questi sì: il gruppo olandese Spartacus e Socialisme ou Barbarie, ad es.; questi no: il manifesto,  Sartre, Camus).

Nato a Cremona nel 1929, di famiglia proletaria (un padre perseguitato dai fascisti), studia da autodidatta (abbandona infatti la scuola dopo la prima liceo, nel 1946) e s’impegna nel clandestino Fronte della Gioventù (1944), nella dissidenza del PCI del dopoguerra.

Suo vero padre spirituale proletario  è Giovanni Bottaioli, dirigente del Partito Comunista internazionalista, ex bracciante  e poi piastrellista in Francia.

Sua passione la cultura francese, letteraria e cinematografica (1950) e soprattutto a Parigi Intesserà poi rapporti fecondi.

Comincia a collaborare tra 1953 e 1956 con le riviste Battaglia comunista e Prometeo e si collega al gruppo  olandese Spartacus e a Socialisme ou Barbarie (1953). S’interessa di poesia operaia (1955) e collabora a “Ragionamenti”, “Questioni”, “Opinione” e “l’Avanti” (1956).

Contatti e ricerche personali confluiscono tra 1957 e 1966 nel Gruppo di Unità Proletaria di Cremona. Collabora  pure nel 1957 con il Partito Comunista Internazionalista e altre formazioni  che operano a livello internazionale.

Si educa all’arte e alla musica (Mozart, la pittura di Cosme Tura e Francesco del Cossa, il rapporto col pittore Guerreschi).

Rifiuta la carriera (il rapporto di collaboratore e poi di redattore alla Feltrinelli, iniziato nel 1960, si conclude per sua volontà nel 1962) malgrado le pesanti condizione economiche in cui viene a trovarsi.

E si tiene a distanza dall’ambiente intellettuale,  di quello milanese in particolare, preferendo i rapporti  con gruppi che fanno agitazione sociale in ambienti proletari.

Nell’ultimo periodo della sua vita dal 1966 al 1975, anno della sua morte, fonda con altri il Gruppo Karl Marx, va ancora Parigi nel ’68 per seguire da vicino le lotte del Maggio, intensifica il suo lavoro di traduttore e prepara l’inchiesta sulla “nuova classe operaia”. Montaldi  è autore di quattro libri fondamentali: Milano, Corea (prima edizione nel 1960); Autobiografie della leggera (1962); Militanti politici di base (1971), Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970), rifiutato dalla Feltrinelli e pubblicato postumo dai Quaderni Piacentini nel 1976.

Molto più tardi  nel 1994 sono stati pubblicati  Bisogna sognare. Scritti 1952-1975 e Lettere  1963-1975, un carteggio con l’amico pittore Giuseppe Guerreschi.

Impossibile qui  parlare in dettaglio di ciascuno di questi libri. Interessa indicare invece il filo unitario della sua ricerca, che è sempre di studio non separato da un’azione politica mai attivistica però e forte spessore storico.

Essa si estende – come ha notato P.P. Poggio – dall’esperienza proletaria. ai militanti politici,  alla questione del Pci (183 Poggio). E in quest’opera non ultimata è da vedersi  forse un punto di  svolta e di  incipiente crisi del suo lavoro bruscamente spezzato dalla morte.

L’immaginazione proletaria di  Montaldi

Per me questo filo unitario consiste nella immaginazione proletaria di Montaldi,  fondata innanzitutto sulla sua esperienza  diretta, sulla trasmissione di conoscenze storiche venutegli dal padre, da Bottaioli e da altri militanti degli anni Venti e Trenta, da acquisizioni  tematiche (fondamentale, come ha ricordato il suo amico Fiameni, quella dell’expérience prolétarienne di Claude Lefort nel 1952) e – diciamolo –  sul mito del proletariato rivoluzionario.

 Uso la parola ‘mito’ senza ipocrisie, convinto che mito e storia, realtà e immaginario non sono mai nettamente separabili, se non in una logica rigidamente positivista. E poi ci sono  miti positivi e miti negativi.

Quello di Montaldi  a me è parso sempre positivo, attivo,  non nostalgico, fermento della sua ricerca sociologica e storica, anche se con zone d’ombra che ne rendono più affascinante la figura.

Insisto anche sull’aggettivo ‘proletaria’ da attribuire alla sua immaginazione. Non vedo, infatti, parentele con quell’immaginario gestito dall’alto e oggi inflazionato, che già si delineava nell’industria culturale degli anni Sessanta.

Non so neppure se Montaldi condividesse l’enfasi sull’autonomia e la funzione creativa dell’immaginario sociale di studiosi come Castoriadis, Lefort e Morin, pure a lui vicini e presenti nella sua riflessione.

Il suo “bisogna sognare” era ripreso, infatti, dal Che  fare? di Lenin, il quale mai e poi mai può essere ridotto a cultore dell’immaginazione sciolta da vincoli materiali, corporei e sociali.

Nelle sue opere l’immaginazione ha due caratteristiche: non è individualistica ed è giovanile, vigorosa, aperta all’utopia.

Scrive Montaldi: “Mi accorgo che in tutte le cose che ho fatto ho sempre favorito l’espressione degli altri, dei vicini, dei compagni che sono andato a cercare” (pag. XXV).

La prova di questo primato del contatto cooperativo con gli altri si trova nel metodo stesso con cui Montaldi lavora: le sue  autobiografie hanno una dimensione narrativa e letteraria costruita a stretto contatto con i suoi interlocutori, che poi sono anche co-autori.

Ma lo provano pure – con l’eccezione problematica del Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970) – il fittissimo epistolario e il materiale firmato collettivamente dal Gruppo di Unità Proletaria e dal  Gruppo Karl Marx.

La volontà di Montaldi di essere proletario assieme ad altri proletari (un proletario colto e persino raffinato, che nulla concedeva alla concezione del proletario “buon selvaggio”, ma neppure a scelte minime di carriera),  sorse su una base specifica, biografica e geografica.

Si potrebbe dire che a lui riesce più facile essere proletario, a differenza di tanti intellettuali della sinistra del tempo. Gli riesce più facile sfuggire alle lusinghe del nazional-popolare e scegliere per maestro un ex bracciante e piastrellista come Bottaioli, piuttosto che un Lukács o un Adorno e non cadere nell’identificazione partito-classe che rimproverava a Lombardo Radice, a Rossanda, a Sartre.

E non solo per le sue origini familiari, per il legame saldo e rielaborato con la storia bracciantile del cremonese ma anche per la selezione accurata e drastica che fa di  amicizie e riferimenti culturali tra Cremona, Milano e Parigi. La vera cultura che per lui contava – quella per lottare contro il capitale – stava per Montaldi  fra gli operai che venivano da quella storia di lotte e l’intellettuale doveva attingervi.

Il riferimento di Montaldi alla Rivoluzione russa

Il mito positivo della Rivoluzione russa  si è conservato saldamente in Montaldi. Egli accoglie persino nel linguaggio quella che possiamo definire senza giri di parole una retorica quasi majakovskiana[1].

Montaldi manifesta più volte entusiasmo nella possibilità di “ricominciare tutto dalle fondamenta”, come gli pare stesse accadendo in Polonia o in Francia nel 1957 “presso quei gruppi marxisti” di cui porta notizie in Italia (pag.145).

La stessa sconfitta della Resistenza, letta in coerenza col suo pensiero come “fatto di classe” (pag.56) (successivamente lo storico Claudio Pavone ci ha mostrato la presenza fortissima di questa componente accanto a quella nazionale e di guerra civile), pesa sulla sua riflessione, ma non gli impedisce di pensare  che qualcosa di molto simile alla rivoluzione russa possa entrare  di peso nella misera storia italiana.

Oggi, in tempo di revisionismo storiografico e memori dei toni  purtroppo anche caricaturali e tragici che assunse da noi quel mito negli anni Settanta (si pensi a Servire il popolo e al lottarmatismo), è facile sorridere di questa insistenza di Montaldi sui soviet, Lenin, il partito.

Le pagine degli Scritti dedicate all’argomento appaiono datate. Eppure si differenziano da quelle  troppo scolastiche, quasi catechistiche prodotte da alcuni gruppi  postsessantottini che pure vi si richiamarono.

Il Lenin di Montaldi, infatti, non è mai “leninismo” (Cfr. pag. 168). Quello che affiora ad es. negli Scritti è quasi capovolto rispetto alla vulgata che servì al PCI di allora e ai gruppi dirigenti delle formazioni extraparlamentari per costruire “la linea”.

Montaldi da Lenin ricava l’insegnamento che non si deve mai impedire e soffocare la discussione (pag.168). Oppure sottolinea: “Dice Lenin che il socialismo dev’essere introdotto nella classe operaia dall’esterno; ma non dice dall’alto, dice dal basso” (pag. 191).

Il Lenin di Montaldi è proletario, quasi proletarizzato, direi. Montaldi lascia capire che il rapporto partito/masse è qualcosa di ambiguo, importante e non del tutto importante. Il partito per lui è “una forma contingente necessaria finché esiste la società borghese” (pag. 83), ma scrive anche che “per gli operai [il partito] è molto di più, e anche molto di meno”, poiché “oggi gli operai possono occupare le fabbriche credendo di farlo in nome del partito ma l’importante, diceva Marx, è ciò che gli operai fanno, non quello che credono di fare (pag. 83)”.

Ma a mal conciliarsi con il pedagogismo da partito o partitino è soprattutto la pratica di ricerca di Montaldi – consistente,  oltre che in scritti occasionali su giornali, principalmente nella raccolta di autobiografie, incorniciate mediante sapienti introduzioni e commenti in un saldo contesto di storia militante.

Questa sua pratica denominata poi «conricerca»  è sicuramente militanza. Nasce, come ha scritto Cortesi da una «programmatica determinazione al salvataggio della memoria proletaria» (25).

I suoi libri però non sono  mai manifesti programmatici. Piuttosto scavi in profondità e  sempre a posteriori (magari su materiale ancora “caldo” come era nel ‘75 quello della preventivata inchiesta sulla «nuova classe operaia») nella memoria sedimentata di soggetti che hanno partecipato alle lotte e ne salvano successivamente  il senso in un rapporto con lui, il ricercatore niente affatto neutrale e distaccato ma carico di una coltivatissima memoria storica proletaria.

Così  in questo rapporto io-tu «fuori dai denti»  si tiene aperto il flusso degli eventi e dei pensieri sull’asse passato-presente-futuro.

Cremona, Parigi e Milano

L’apprendistato politico di Montaldi con febbrili attraversamenti (del Pci – giovanile adesione di pochi mesi – del trotzkismo, dell’anarchismo, del Partito Comunista internazionalista) fino alla decisione di agire in un gruppo politico autonomo (di Unità proletaria, poi Karl Marx) con una salda base a Cremona  ma con proiezioni in un esteso tessuto di relazioni e scambi internazionali, più consistenti soprattutto quelli a Parigi, dove egli potè recarsi la prima volta solo nel 1953, avviene in luoghi ben precisi.

Fiameni ha parlato del circuito Cremona-Milano-Parigi. Montaldi non lascerà mai Cremona, che per lui è, come ribadisce ancora nel 1965 in una lettera a Monica Suter, un luogo «non felice, semmai tragico come “quel paesaggio solitario di lunghe spiagge tagliate dalla corrente del fiume”, che però è “un mondo nel quale mi piace vivere”.

Rimanendo in questo luogo vitale del suo lavoro militante e avendo Parigi come luogo d’elezione, stabilisce un contatto tra periferia (Cremona lo era) e metropoli europea d’allora (Parigi) – tra locale e globale si potrebbe dire con una formula abusata – che gli permette di non impelagarsi né col nazional-popolare né  con l’ideologia romantica delle “radici”.

Sfugge anche al nomadismo estetizzante  e al feticismo della metropoli così diffuso nel Novecento (e oggi).  Egli «sta a Cremona, come “nella Berlino di Rosa Luxemburg» (Fiameni, 130), cioè penetra nella storia di classe della città  della bassa padana e vi ritrova un respiro internazionalista.

Negli Scritti troviamo importanti testimonianze di questo suo rapporto militante e mai localistico con un territorio: la ricerca su “La Pignone” (pag. 36), Una inchiesta nel Cremonese (pag. 90), I contadini della Valle padana (pag. 161), Miglioli, Grieco e il contadino (pag. 226), il blocco di documenti su La matàna del Po (pag. 323), La cascina (pag. 433), Quelli del Po (pag. 442).

Il “gruppo esterno” che a Cremona nasce è per quegli anni l’eco intelligente (da “linea lombarda”, politicamente parlando), non la scimmiottatura, del partito di Lenin.

Così, nel cogliere dal vivo permanenze e divenire delle forme di vita contadina, anteriori e posteriori all’industrializzazione delle campagne, Montaldi polemizza da posizioni rigorose con certa letteratura che, allora, occupandosi di quel mondo e dell’immigrazione, era ancora orientata dal modello neorealistico, ma in modi estetizzanti (si vedano le sue critiche a Carlo Levi e a Zavattini e, per il cinema, la sua polemica col Visconti di Rocco e i suoi fratelli (pag. 382).

Montaldi critica le “presunte immutabili costanti del mondo agrario, il quale invece come qualsiasi altra realtà storica si sviluppa, si afferma, entra in crisi, si trasforma” (pag. 201).

Si potrebbe vedere  nella sua ricerca un percorso che dalla “saggezza contadina” va all’“ideologia proletaria” o che già vede quest’ultima in quello che altri chiamano “saggezza contadina” o folklore (pag.202).

La sua attenzione è alle trasformazioni del lavoro –  tema fondamentale anche oggi – per cui allora i giovani si staccavano dagli anziani e le tradizioni (senso comunitario, “dono”, “racconto”,  miti) venivano continuamente rielaborate.

Per Montaldi non esisteva differenza  di sostanza tra mondo agricolo e mondo urbano.  Qui la diversità della  sua posizione  da quelle di Bosio e Bermani, che esaltavano invece una specificità contadina. E in Montaldi non c’è neppure estetismo verso quel mondo, né ricerca di radici arcaiche. Né c’è l’estetica della modernizzazione che si affacciava in un certo operaismo di quegli anni.

            Resta da dire qualcosa del suo rapporto con Milano. Bologna di recente ha ricordato  la Milano «viva, dinamica, pulsante» degli anni Sessanta e sostenuto che «Danilo ebbe la fortuna di gustar[la], di viverla da una posizione d’osservazione privilegiata, quella delle case editrici, benchè sempre con un piede piantato a Cremona» (43 atti del cov Crem).

Può darsi, ma a me pare che Montaldi  non trascuri mai lo scarto tra periferia e metropoli lombarda  e la sua diffidenza rispetto all’ambiente intellettuale milanese di sinistra   è un segnale di questo scarto.

E poi non per caso la sua inchiesta tocca la cosiddetta Corea di Milano, il suo hinterland.  Montaldi resta  per me positivamente un periferico e non so quanto avrebbe condiviso l’opinione che Negri ha espresso nell’ultimo suo libro: «l’abitante della metropoli è il vero centro del mondo, l’essenza antropologica per antonomasia, il tipo ideale del Ventunesimo secolo» (Negri, Goddbay Mr Socialism).

Montaldi e la cultura di sinistra

Sulla conoscenza del mondo proletario cremonese innanzitutto e con lo sguardo «internazionalista» che gli veniva dai contatti con i vari gruppi marxisti in ripresa Montaldi  fonda una sua ipotesi di riapertura di un ciclo rivoluzionario.

Nella prima metà degli anni Sessanta si muovevano  in quell’orizzonte anche Panzieri con i Quaderni Rossi e i redattori staccatisi da lui per fare Classe operaia  e fondare la loro elaborazione  sui processi conflittuali  della  grande fabbrica fordista.

 Montaldi non sarà operaista. Non  perché attardato bordighista,  ma perché troppo attento all’insieme dell’esperienza proletaria, comprendente per lui gli strati emarginati della Leggera (i «subalterni refrattari» di Cortesi, 23), gli immigrati, la «classe operaia in senso lato» (Cortesi, 14) e  – perché no –  anche per una sua profonda sensibilità  alla «poesia sociale» (Cortesi 15) azzerata da certi scientismi teorici.

Quando parlo di operaismo preciso che non mi riferisco solo all’esperienza di  gruppi e teorici “di scuola”, come Tronti, Negri, Bologna e altri. Operaista in senso lato furono  dopo il ’68-’69 tutti i gruppi extraparlamentari da Ao a LC al Pdup; e persino il Pci si travestì da operaista (e non a caso attirò Tronti e altri ex operaisti).

 Di certo Montaldi  non condivise le ambiguità e certi sbilanciamenti  o in senso – come si diceva allora – spontaneista o  in senso burocratico con cui  i gruppi extraparlamentari affrontarono la questione fondamentale e rimasta irrisolta del rapporto classe/partito.

Anche in lui la tematica del partito era ben presente (ma tra ’69 e ‘70 tutti – da Potere operaio agli ex trozkisti, al Manifesto  agli m-l – si affannarono su questa idea). Egli bocciò però i modi concreti, le scorciatoie, le scopiazzature che vennero intraprese e che con  i fallimenti successivi hanno azzerato e messo al bando il problema stesso nel dibattito politico.

La sua riflessione si  arrestava prudente di fronte alla schematicità  di quelle riproposizioni. E ciò  prova ancora una volta che quel mito-storia della rivoluzione russa non operava necessariamente a senso unico; che, dall’esperienza proletaria, Montaldi traeva  correttivi che  altri non seppero trovare.

La forma del gruppo d’intervento locale (il Gruppo di Unità proletaria, il Gruppo Karl Marx) su cui si attesta,  pur fragile in sé, gli parve forse preferibile.

Si potrà anche dire che malgrado tutto i gruppi  extraparlamentari ebbero il merito di provare a fare praticamente il partito, a vedere se  ancora quella forma funzionava, di non fermarsi a una discussione dei suoi “protocolli” (Poggio) come fece Montaldi con il Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970).

E anche pensare che Montaldi, quando si pose solitariamente e seriamente il compito di scrivere quell’opera rimasta incompiuta, fosse davvero a un punto di svolta e magari  di fronte a una crisi, perché il passaggio dal sociologico al politico tout court, dall’inchiesta alla riflessione su dirigenti e linea di partito è brusco e  senza approdi certi.

Il problema andrebbe approfondito. Anche Cortesi, pur riconoscendo che in quest’opera Montaldi compie «un gran lavoro di ripulitura del campo dalle distorsioni e dalle menzogne di cui era allora disseminata la storia del PCI e del comunismo»,  ha sottolineato che «il libro è diseguale, privo di una struttura ben definita e gravato da sovrapposizioni e digressioni che non ne facilitano la comprensione» (25); ed ha notato come «tra le sue inchieste sociali e il volume sulla politica comunista vi sia un intervallo problematico che è rimasto insondato» (25).

Montaldi è però capace di tornare coraggiosamente alle origini stesse della storia del Pci; e non è un caso che i pensatori più radicali – faccio solo l’esempio della grande riforma protestante del Cinquecento – tornino a ripensare le origini, come per attingere forza o  decomplessificare i problemi  che si affollano come rompicapi insolubili nei momenti di crisi.

Soltanto alle origini ritrova intatto e ancora ben posto il problema del rapporto tra classe e partito. Torna perciò  a interrogarsi criticamente  sul  maudit Bordiga, perché in lui vede ancora un legame saldo e non avviato alla strumentalizzazione dell’esperienza proletaria rivoluzionaria, a cui avrebbe contribuito per Montaldi lo stesso Gramsci con «la campagna antibordighiana e antilivornista del 1925»(Cortesi 31).

E questa sua “archeologia del sapere proletario”, che a molti può apparire  noiosa, anacronistica, inattuale, sterilmente profetica, a me pare preziosa per come sposta l’attenzione da un presente di trionfi – quello dell’ascesa in apparenza irresistibile del Pci degli anni Settanta – all’interrogazione sui piedi d’argilla del colosso.

Se c’è salto e netta distinzione di metodo (e magari di risultatI) tra il suo originale  uso marxista della sociologia e il Saggio sulla politica comunista, non è però detto che il primo si possa separare nettamente dall’impianto politico montaldiano.

Non si può rimproverare cioè  Montaldi di non essersi deciso una buona volta ad abbandonare Lenin, riferimento fondamentale invece nella sua polemica contro il leninismo  italianizzato.

Per questo Montaldi forse è un marziano nel dibattito di sinistra di ieri e di oggi,  ma può polemizzare da posizioni di verità (non di forza) con la sinistra del suo tempo  e la sua (potremmo dire) immaginazione borghese (patriottica, stalinista, burocratica).

Per lui la vera cultura (quella necessaria per lottare contro il capitale) stava fra gli operai che venivano da una storia di lotte; e l’intellettuale vi doveva attingere. E nella cultura di sinistra degli anni Cinquanta e Sessanta egli naviga contrapponendo appunto un’ottica proletaria a quella del nazional-popolare.

Negli Scritti in particolare troviamo una fittissima serie di considerazioni, spesso contingenti e frammentarie anche sull’arte, il cinema, la letteratura di allora. (Ignora o snobba, ad es., il formalismo della neoavanguardia  e i raffinati giochi combinatori e fiabeschi di Calvino).

Ed impressiona la serie degli intellettuali di sinistra, sia ufficiale che critica (compresi Fortini e Rossanda….), bersagliati da Montaldi in tutto l’arco di tempo che va dal dopoguerra alla sua morte (mi risparmio l’elenco o gli esempi).

In queste critiche Montaldi sembra condividere in pieno l’idea marxiana che il proletariato non ha bisogno di farsi delle illusioni su se stesso, né logicamente di nascondere o abbellire interessi ed obbiettivi; e che la critica delle ideologie, condotta a fondo, farà del proletariato una classe perfettamente trasparente a sé stessa.

Che ciò  sia visibile nella storia fra Otto e Novecento non possiamo certo affermarlo. Lo scivolamento fra reale e immaginario, fra mito e storia, è costante sia per i dominatori che per i dominati.

Oggi, dunque, nella rilettura non agiografica  che io tento di Montaldi cerco di tener presente anche le zone d’ombra che, suo malgrado, Montaldi mutua da una visione marxiana, ancora fortemente illuminista. Farò tre esempi  di queste zone d’ombra.

Primo esempio: sulla Rivoluzione russa: La preminenza che ha per Montaldi il mito che  pur ho prima dichiarato positivo della Rivoluzione russa comporta una rimozione degli effetti profondamente   negativi dello stalinismo.

Di questo Montaldi coglie il tratto fideistico, di sacralizzazione del partito e del capo. Ma vi contrappone solo – sottolineo questo solo – la critica e il metodo scientifico.

Non so se Montaldi potesse condividere l’idea di molti antropologi che un mito si combatte solo con un altro mito, ma mi pare che non riuscisse ad afferrare l’aspetto più oscuro di quella “religione” stalinista (come invece ha potuto fare di più un Moshe Lewin, mostrando quanto gli operai sovietici si fossero, “compromessi” con lo stalinismo e sottolineando, perciò, come il “tradimento” della rivoluzione non toccasse soltanto i dirigenti o il partito). La sua critica dello stalinismo incalza cioè Togliatti e l’apparato di partito sul piano della linea e dell’ideologia e preserva troppo ottimisticamente i militanti politici di base.

Secondo esempio: “Su alcuni paesaggi” (pag.134). Questo, fra gli scritti dedicati all’ambiente cremonese scopre una sensibilità quasi romantica verso un passato perduto (non dissimile mi pare da quella che Montaldi rimproverava a Bosio e ad altri), una sensibilità dunque meno “proletaria”, meno “trasparente”, marxiana solo per uno scatto finale tutto verbale nello scritto in questione.

Anche lo storico Stefano Merli coglieva questo elemento quando scriveva: «Le marginalità sociali studiate da Montaldi sono prodotti del neocapitalismo alla stessa stregua del nuovo proletariato della Valle Padana e della grande fabbrica… ma rimangono marginalità e il confine con la letteratura e la nostalgia è a volte sottile» (pag. 16 opuscoletto Bosio, Montaldi etc).

Merli sottovalutava qui sociologia e letteratura in nome  della politica. Io dissentirei. Mi pare che per molti aspetti – ancora di più oggi che il tempo distanzia i temi montaldiani –  dobbiamo ammettere che la sua attenzione militante verso il passato e i depositi della memoria proletaria, usa anche la “letteratura”; e più precisamente – è uno spunto da approfondire – è sensibile a quello che un critico letterario, Francesco Orlando, ha chiamato il «desueto».

Il “desueto sociale” si potrebbe dire. Desueta, infatti, era la Leggera. Desueti i militanti politici di base. Desueta sarebbe presto diventata persino  la «nuova classe operaia» che Montaldi si apprestava a far parlare.

Ci si può tornare, ma il disprezzo politicista della letteratura fortissimo in quegli anni nella sinistra era miope; e questo Montaldi “letterato militante” andrebbe indagato di più, anche al di là delle sue pose antiletterarie.

 Terzo esempio: Il rapporto Montaldi-Fortini. Ci sono pochi elementi per approfondire questo confronto, che a me interessa particolarmente per aver conosciuto e letto a fondo entrambi.

L’avvicinamento dei due avviene negli anni Cinquanta-Sessanta e s’interrompe bruscamente. Il carteggio, infatti, è limitato: iniziato attorno al ’55, per iniziativa di Montaldi, che vedeva nell’esperienza de Il Politecnico un modello per sé e i suoi giovani compagni, si conclude già attorno al ’63, con uno sfogo risentito verso Fortini per la sua disattenzione e il silenzio verso i bollettini del Gruppo di Unità proletaria: “Non ci hai mai rivolto una critica, non ci hai mai detto che avevi qualcosa da dare, da scrivere, nemmeno un’indicazione sugli argomenti da trattare, da sviluppare, non un indirizzo cui mandarlo…” (Lettera di Montaldi del 9 marzo 1963).

La polemica di Montaldi, tutta interna alla sinistra e volta contro la politica censoria del PCI e il nazional-popolare, come ho detto, si lasciava passare sotto il naso la portata dell’offensiva neocapitalista, abilmente condotta attraverso scuola e mezzi di comunicazione di massa, a cui Fortini, nel tentativo di salvare il salvabile (l’insegnamento del Politecnico), rispose con il gramsciano problema dell’organizzazione della cultura e l’invito a una “scrittura comunicativa media”[2], che influisse “attraverso il linguaggio negli strumenti di comunicazione di massa”. Questo tentativo apparve poi fallimentare allo stesso Fortini[3].

Sappiamo oggi che, di fronte a quei processi, tutte le varie culture della sinistra, hanno perso o hanno  dovuto in qualche modo piegarsi. Ma anche l’ipotesi montaldiana della cultura proletaria non ha retto all’urto, mostrando il suo limite, ancora più evidente se riflettiamo sugli sviluppi  posteriori di derealizzazione della società dello spettacolo.

Montaldi  si è come ritratto dai processi che avvenivano nell’industria culturale. Ed è strano non trovare  appunti in proposito da parte sua, che pure faceva il traduttore per Einaudi, Feltrinelli e Mondadori ed era implicato nella precarizzazione di lunga data di quel settore del terziario che oggi si è tanto espanso. È vero: c’era un certo imbarazzo o difficoltà di Montaldi nel seguire  il fenomeno dell’emergere di un’intellettualità di massa  a partire dal ’68 ambiguamente proletarizzata, che  non rientrava facilmente nello spazio contemplato dalla sua visione proletaria.

 

Montaldi  dentro la «sinistra socialista»?

Proprio perché Montaldi è rimasto distante dalle oscillazioni della nuova sinistra tra  instituzionalizzazione, radicalizzazione e autodissoluzione (Poggio), il tentativo compiuto a suo tempo da Stefano Merli (ma anche da Mangano) di scorgere in Montaldi il continuatore di un filone socialista del movimento operaio che potesse farlo diventare un padre ecumenico della  “nuova sinistra”  degli anni Settanta mi è apparso sbagliato.

E dubito perciò anche dell’intento di questo convegno, che sembra ancora volere accomunare Montaldi al concetto di «sinistra socialista».

Ma può Montaldi sedere ad una sorta di ideale tavola rotonda pluralista con personaggi politici che, se si esclude Panzieri che egli stimò ma pur non seguì nell’impresa dei QR, furono da lui criticati duramente? (I giudizi salati si possono leggere in Bisogna sognare, risalendo dal repertorio dei nomi di Bosio, Basso, Lombardi e Morandi alle pagine che li riguardano).

 Non è possibile, credo. E non è neppure giusto addolcire i conflitti di allora soltanto perché oggi ci appaiono sbiaditi (per sconfitta). Sarebbe  un omaggio involontario al clima dominante di revisionismo storico, una negazione del senso del lavoro militante di Montaldi e dei suoi stessi compagni-avversari.

Per Montaldi, infatti, il comunismo era l’unica alternativa a quello che allora era chiamato neocapitalismo.

La parola ‘socialismo’ ha un’importanza enorme nella storia del mondo, ma a Montaldi il socialismo appariva come una impossibile gestione “equa e sostenibile” del capitale, un capitale che sarebbe sopravvissuto mascherando con un po’ di rosse bandiere lo sfruttamento. E la sua critica al nazional-popolare non è troppo differente da quella che oggi potrenno fare sulla sua scia per nozioni correnti  anche a sinistra (“gente” o “popolo di sinistra”).

Insomma Montaldi si pose degli aut aut precisi e li pose anche alla sinistra: autonomia del proletariato o pressione sui gruppi dirigenti dell’allora movimento operaio organizzato? E ruppe anche con compagni a lui vicinissimi (quelli stessi che si accompagnano al suo nome in questo convegno). Il fatto non può essere sorvolato e anche  se si vuole evitare – come si legge nel programma –  qualsiasi “reductio ad unum” e non occultare “le profonde differenze di collocazione politica, di cultura, di scelte e di approcci”, nella vetrina «sinistra socialista» Montaldi  a me pare che di sicuro non rientri (e anche Panzieri ci sta troppo stretto…).

La ricezione e la rielaborazione della figura di Montaldi dopo  la cesura degli anni 80-90.  Attualizzare Montaldi?

Riletto nel 2006 Montaldi mi pone due problemi forse interconnessi, uno personale e uno storico:

1) il ribaltamento, a causa del tempo trascorso, dell’immagine che avevo di Montaldi: se a me, giovane immigrato e militante politico di base nell’hinterland milanese, egli appariva un possibile compagno-maestro-fratello maggiore, oggi mi sono ritrovato nella posizione del vecchio, che fa i conti con l’opera di un giovane e sotto certi aspetti con la propria giovinezza. E mi si è posto il problema di non far pesare oltremodo questo mio invecchiamento, di difendere attraverso quella di Montaldi anche la mia giovinezza salvando, criticamente, la dimensione proletaria presente nel suo/mio “tempo perduto”.

2) la necessità di giudicare se i fili di continuità con la sua epoca e i problemi di quella si sono solo in parte o totalmente spezzati, perché solo così è possibile  tentare  un’attualizzazione non di comodo, non strumentale e contingente di Montaldi.

Cosa può dire infatti  un Montaldi cristallizzato nell’ambra di una giovinezza che è sfuggita alla vecchiaia a dei vecchi?  E cosa possono dire i suoi scritti all’insegna del bisogna sognare del mito della Rivoluzione russa e del fervore degli anni che giungono fino al ’68-’69 a quanti come noi hanno avuto l’amara visione di quello che ho chiamato “resto” (il fallimento sia delle ipotesi riformiste che di quelle rivoluzionarie)?

A me pare di riconoscermi nelle analisi che parlano di un’epoca e di una situazione attorno a noi quasi completamente  mutata. E tengo in gran conto le analisi che riassumono il mutamento nella formula “dal fordismo al postfordismo”.

Tutto è diventato più “immateriale”, il soggetto sociale e politico a cui facevamo riferimento è disperso in una polverizzazione di “mutanti”.   Siamo tutti meno “proletari” e siamo tutti più precari, più “gente”, più  generico “popolo di sinistra”.

Anche se la precarietà non è – come ha ricordato Rossanda in Appuntamenti di fine secolo – una peculiarità  dell’epoca odierna,  una dispersione  così pesante delle figure del lavoro e del patrimonio accumulato in anni di lotte non s’era mai vista, se non, come sostiene Poggio, in epoca fascista; e le forme di resistenze  restano, almeno in Italia, simboliche, carsiche  e spesso indecifrabili. Illusoriamente poi siamo tutti anche un po’ più “intellettuali”,  più “ceto medio” più “moltitudine” (non nel senso eccessivamente ottimistico che Negri attribuisce al termine). Siamo tutti di fatto più distanti da Montaldi .

Questo impone il ripensamento della sua figura alla luce di un tale mutamento e il confronto della sua opera con le elaborazioni successive più interessanti.

È esistita una vulgata su di lui, che lo fissava in categorie connotate negativamente e deprivate sia di spessore storico sia delle passioni di un tempo. Montaldi  è stato liquidato a suo tempo come bordighista, eretico, eterodosso.

Esiste un culto amicale che ha avuto il merito di pubblicare i suoi inediti e di promuovere almeno due convegni importanti (Napoli 1996, Cremona 2003). Ma non si dimentichi che la sua inchiesta sulla «nuova classe operaia» non fu continuata dai suoi amici e che anche le riflessioni più interessanti su di lui (di S. Bologna e P.P. Poggio), se lo  hanno sottratto ai più abusati stereotipi, ne ripropongono il valore politico per ieri e per l’oggi  si attestano soprattutto su una difesa etica della sua figura.

Bologna, infatti, ha visto in Montaldi un «uomo della seconda metà del Novecento» criticamente partecipe del «grande fiume della storia del comunismo», una «figura-crocevia» capace di far comunicare la generazione della Resistenza con quella degli anni Sessanta. Il suo omaggio a Montaldi si arresta  dunque alla funzione ispiratrice   che il cremonese ebbe sul piano della ricerca storica condotta dalla rivista «Primo maggio» negli anni Settanta. E rammaricato per le distanze che Montaldi tenne dalle esperienze dei Quaderni rossi e di Classe operaia  (Montaldi  riteneva che l’intento di Panzieri di riformare il PSI o il PCI non portava a nulla di buono; ed era anche diffidente verso Classe operaia proprio per la presenza di militanti ancora legati ai partiti della Sinistra), tende a sorvolare sull’atteggiamento  che Montaldi aveva sul partito ritenendo la questione abbastanza secondaria.

E nel ripensare la propria esperienza di operaista – un operaismo meno ortodosso di quello di Tronti e Negri – Bologna ha recentemente dichiarato che «l’operaismo italiano, rompe con la tradizione comunista, è il primo movimento postcomunista (sul manif del 12 nov 2006 in all’ombra della fabbrica, una riflessione sui  40 anni di Operai e capitale di Tronti), distanziandosi quindi nettamente da Montaldi, «comunista libertario» per Cortesi. Del resto gli sviluppi più recenti della sua ricerca  rivolta al «lavoro autonomo di seconda generazione»  mi paiono abbastanza distanti  dall’attenzione montaldiana  ai processi  che il capitalismo creava nelle periferie.

Poggio ha studiato a fondo il Saggio sulla politica comunista (1919-1970), vede un Montaldi profetico e inattuale per la lucidità con cui anticipò la fine del Pci rispetto alla storiografia più specializzata sul partito. Ma a Montaldi rimprovera i giudizi costantemente favorevoli su Lenin (173) e il non essersi disfatto del «paradigma rivoluzionario» (177). (Condivido invece – come già detto – la critica sulla sottovalutazione dell’«ambivalenza della condizione e dell’azione della base proletaria» (179). Anch’egli dunque arriva ad una conclusione «postcomunista» che accentua la discontinuità dell’oggi da Montaldi: «il ciclo storico della classe giungerà ad esaurimento assieme a quello del suo partito» (193); «Non si è avuta così soltanto la fine del ”comunismo” ma la dissoluzione della classe in quanto soggetto politico» (209).

Queste interpretazioni  liquidano il problema classe-partito, che in Montaldi esisteva. Egli non separava i due poli, non ne elideva uno. Evitava,  come succede oggi nella riflessione di Negri, che un soggetto sociale (la moltitudine, erede della classe) venga  pensato come “classe senza partito”, per cui resta del tutto insondabile e imprevedibile se esso si autorganizzerà per oscure spinte endogene (come  se contenesse in sé già tutto ciò che in passato, nella storia del movimento operaio, è stato prerogativa del partito) e in che modi lo potrebbe fare.

Ora proprio  perché Montaldi è stato saggiamente, secondo me,  un compagno periferico  che non si è lasciato andare alla “scommessa operaista” e alle convulsioni metropolitane degli anni Settanta e la sua immatura morte lo ha preservato dal vivere il trauma della catastrofe della Sinistra (storica e nuova) che però presentiva, e non sottovalutò, come fece l’operaismo “paganeggiante” del primo Tronti o  del tutto autonomizzato dal politico  alla Negri, la forza inerziale e conservatrice della macchina del Pci che girava a vuoto quasi dalle origini, a me pare che egli oggi possa  assumere la collocazione problematica di un «classico» da reinterrogare  nell’accezione fortiniana:

«I classici di ogni cultura sono “vivi”, però, nella misura in cui sono “morti”, ossia sono stati successivamente abbandonati dalle diverse forme di energia antagonistica che furono capaci di incarnare lungo le generazioni. E se nuove domande possono venire loro poste da nuovi lettori, essi debbono aprirsi la via attraverso le spoglie delle interpretazioni precedenti; anche se in non pochi casi si tratterà di vita apparente e di procedure di filiale pietà […] Come il sorriso dei defunti o delle machere o delle cere, il classico educa alla contemplazione della morte di quanto sembra più vivente» ( p.269, Saggi italiani 2)

            Quelle di Montaldi sono oggi rovine,  sia pur buone rovine. Da conservare possibilmente intatte senza amputazioni o stravolgimenti (in senso  operaista o anarchico o neo sinistro-socialista o rifonda-comunista per essere esplicito), in attesa che si creino le condizioni per una costruzione oggi non prevedibile o profetizzabile  che le richieda e a cui possano davvero adattarsi.

La sua inattualità rispetto agli sviluppi postoperaisti mi sembra un pungolo a non accettare  la cancellazione del problema che ai suoi tempi era quello della classe e della sua organizzazione in partito e che oggi si ripropone  come problema dell’organizzazione del precariato o, se si vuole,  della moltitudine. Ma può anche essere un  “avviso  al guidatore” per chi si proponesse un ”partito nuovo” o magari un “partito della moltitudine”.

 Si potrà verificare con l’inchiesta o la conricerca l’ipotesi della moltitudine di Negri? O, come scrive Tronti, portare «in un call-center la coscienza politica dall’esterno? E in una banlieu l’idea che bisogna fare sindacato e fare partito? E in un Cpt la pratica non dell’integrazione ma dell’insubordinazione? (manif.12 nov. 06)?

La questione che queste nuove figure debbano o possano ancora fare partito  è del tutto irrisolta, ma  in Montaldi troviamo elementi per non scartare la questione, non affrettare le soluzioni possibili e non separare ricerca da militanza e organizzazione.(Montaldi non fu mai semplicemente un “ricercatore”: Il piccolo gruppo non è mai un ricercatore isolato. Il piccolo gruppo è più militante del ricercatore esperto, collocato in istituzioni prestigiose, ma  staccato emotivamente e materialmente dall’oggetto della sua ricerca. La militanza è insuperabile da un problema di organizzazione, da non sminuire con sberleffi contro quanti avrebbero «l’angoscia dell’organizzazione»).

Nella sua lettura di Lenin, nel non abbandonare la sua problematica (ricordiamo che anche Lenin faceva inchiesta o conricerca!) ci sono elementi sufficienti per delineare un modello di militanza nettamente distante dalle pratiche partitiche novecentesche, una militanza pensante, libera, senza paludamenti guerreschi e avanguardistici ma  neppure gesuitici ed élitari.

Si può riprendere allora lo stile montaldiano applicando la “conricerca”  o la raccolta di storie di vita al precariato attuale o ai nuovi immigrati? Credo che gli esempi non manchino. Ma  non dimentichiamo che Montaldi nel fare conricerca con i vagabondi, gli ex carcerati, i ladri, le prostitute,  gli immigrati dell’hinterland milanese, i militanti politici di base,  aveva quel saldo quadro di riferimento marxiano che oggi è venuto meno e che dava sostegno a quel suo semplice metodo  di «isolarsi a due, con un quaderno e una penna, oppure con un registratore, e tirarci dentro, fuori dai denti, da compagni, senza censure interiori, né scrupoli di venire censurati da altri»

Sono tanti  i nodi, tanti gli scarti fra esperienza proletaria montaldiana o  operaia e esperienza precaria dell’oggi che a volte  pare che ci si debba limitare a porre onestamente solo il compito di tradurre nell’oggi  quel senso alto e nobile che Danilo Montaldi ebbe della condizione proletaria.

Egli resta un marziano (cioè un marxista rivoluzionario) ed è bene che resti tale in un’epoca che ha quasi liquidato ogni riferimento  a Marx: un marziano proletario è oggi più utile di uno a cui per esigenze contingenti cambino i connotati essenziali.

Sono esistite ed esistono anche nella storia italiana due tradizioni: una di contrapposizione al potere aperta e leale ed una più ambivalente. Montaldi – come  Dante, come il primo Francesco d’Assisi non “ordinato” dal Papato, come Savonarola  e tanti altri, appartiene per me alla prima non alla seconda.

            Questo se una qualche continuità col passato è possibile mantenere. Se invece nella fabbrica diffusa e nella precarizzazione del lavoro c’è l’epifania di un “nuovo” che impedisce ogni continuità anche ideale, rileggere Montaldi nel 2006 forse ha poco senso. Può succedere anche questo, certo:

«Non è cosa di poco momento sapere di dover portare, finché ne abbiamo pazienza, la cassetta delle ceneri, la foto del figlio o del compagno, il suo fantasma nei sogni; finché la stanchezza e le distrazioni, le urgenze e le negligenze ci fanno avvertiti che non possiamo più portare da soli, e nemmeno in gruppo, un nome e una memoria. È un momento grave. L’individuo che fu sta tutto tornando ad essere specie; e le sue opere, tutte ad essere società» (Lisiàt in Questioni di frontiera p.46)

Ennio Abate 25 novembre 2006

Note

[1] Tre stralci dagli Scritti a mo’ di esempio: “Violentemente sgomberata da mani proletarie, da quel macabro parassitismo “versagliese” (pag.130); “L’operaio, anche singolo, che è il prodotto di questa trasformazione sente soprattutto se stesso come massa che ha un mondo da conquistare”(pag.118); “la democrazia esiste ma là dove le masse proletarie dai milioni di teste prendono esse stesse nelle loro mani callose il martello del potere per picchiarlo sulla nuca della classe dominante” (p.54)

[2] Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 440

[3] “Questa idea si rivelava buona per il Manzoni, non per noi. L’immenso flusso di informazione-comunicazione avrebbe distrutto completamente una simile possibilità” (Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 440)

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