La mia vita a capitoletti

di Luigi Sciagura

Questa è la prima parte della  storia della sua vita che Luigi Sciagura  sta scrivendo. [E.A.]

 

NASCITA
Sono nato il 15 dicembre 1947 a Foggia. Mio padre Amedeo era operaio elettromeccanico alla Cartiera di Foggia. (Era stato in tutta l’Europa a combattere per Mussolini che aveva promesso un lavoro a chi tornava vivo). Mia madre, Fulvia Mundo, era una giovane casalinga. Mio padre e mia madre, quando si sposarono, avevano affittato una casa (meglio dire una stanza) in via Le Granate 15, dove in un locale c’era tutto: camera da letto, camera da pranzo, cucina; e in un angolo un gabinetto. Il locale era al centro della zona vecchia di Foggia in Via Le Granate15. Era un vicolo con al centro un canale. Ricordo che c’erano ancora due grotte. La più interessante era quella di Nannina. Si può dire che fino ai tre anni di mio fratello Angelo fu la sua badante. Io però sono nato a casa di mia nonna Giuseppina che abitava in via Massaua 9 e aveva quattro figli. La sua era una casa più grande e migliore. Aveva due stanze, una cucina, una camera da pranzo, un bagno, una stanzetta. tre balconi, 3 finestre. In via Massaua 9 abitava in una stanzetta della casa a mia bisnonna Luisa. Ma ci abitavano pure la sorella di mia nonna Margherita con il marito Ciccillo e i due figli: Salvatore e Ada; e abitava la sorella nubile di mia nonna: Filomena. Un totale di dieci persone che assieme stavano benissimo. Mio zio Ciccillo era un messaggero postale. Sua moglie Margherita era casalinga e insieme a zia Filomena gestivano la casa. Mia nonna, dopo la morte di mio nonno Angelo, era venuta via da Milano e aveva trovato lavoro nella stessa Cartiera dove lavorava mio padre. Si alzava alle sei di mattina per andare a prendere l’autobus della Cartiera all’ingresso della villa comunale di Foggia. Otto ore di lavoro e alle sei l’autobus la riportava alla villa. il tempo di tornare a casa, mangiare qualcosa e andava a dormire. Per cinquanta anni questa è stata la sua vita. Mia madre di notte, quando io nacqui, ebbe una emorragia. Tutti si diedero da fare per salvarle la vita. Quando si ricordarono che ero venuto al mondo, mi ritrovarono sotto le lenzuola sporche di sangue con le mani che stringevano un lenzuolo. Alcuni giorni dopo mi portarono nella cattedrale a battezzarmi.  Nevicava e la macchina forò. Proseguirono a piedi. Quando tornarono a casa erano tutti convinti che sarei morto per il freddo preso. Invece, non sono morto. La mia vita iniziò felice vivendo poco in via Le Granate e molto in via Massaua. Via Massaua era una strada più grande. Al piano terra di via Massaua 9 abitava zia Lucia, sorella di mio padre, con il marito Tonino e tre belle figlie: Rosalba, Claudia e Nadia. Mio zio Tonino faceva un po’ di tutto ma in primo luogo era un attivista della Democrazia Cristiana. Nel palazzo di fronte abitava zia Saveria, l’altra sorella di mio padre, con il marito Adolfo e sette figli. Ricordo che zio Adolfo aveva avuto un ictus e che aveva il lato destro paralizzato. Ricordo zio Adolfo perché io avevo paura, I figli di zia Saveria erano tutti più grande di me. Ad eccezione di Gigetto che aveva solo un anno più di me. Gigetto fino all’età di dieci anni fu il mio amico di strada. In via Le granate avevamo anche il nostro barbone. Si chiamava “Peppino da viaggio”. Nel taschino della giacca portava forchetta e cucchiaio, qualcuno era sempre disponibile a dargli qualcosa da mangiare.

I MIEI PRIMI CINQUE ANNI
Il mio primo asilo era un banchetto di legno lungo un metro messo su un marciapiedi largo sessanta centimetri. In un banchetto eravamo seduti noi bambini. Tutto il gioco, nel mio primo asilo, era quello di non alzarsi dal banchetto. Cantare stupide canzoncine. Ogni tanto qualcuno scappava dal banchetto. Immediatamente veniva ripreso. Quando il banchetto divenne un assurdo, fui mandato a passare il tempo da una cugina di mia madre. Faceva la maestra ed aveva un doposcuola frequentato da una decina di studenti. Io ascoltavo le letture della prima e seconda elementare e le lezioni delle altre classi. Imparavo tanto. Ricordo che una sera arrivai a casa a mezzanotte. Non riuscivo a capire le frazioni. Fu deciso di farmi fare gli esami per presentarmi direttamente alla terza elementare, Così un bel giorno mi consegnarono una cartella di cartone con dentro due fogli per il disegno, una biro e un quadernetto. La scuola a cui dovevo presentarmi era il “Nicola Parisi”. L’esame riuscì e così fui ammesso alla terza elementare. Ero contento perché il pomeriggio andavo a casa da mia nonna, dove una sorella di mia madre mi faceva fare i compiti.

LA BANDA DI VIA MASSAUA
Via Massaua era la via dove abitava mia nonna. Tutti i ragazzi di via Massaua facevano parte della Banda. Dei primi anni di frequentazione della Banda dei ragazzini di via Massaua ricordo tre episodi:
– Stavano ristrutturando un palazzo e nel cortile di un palazzo di via Massaua. C’era una enorme buca ripiena di calce bianca. mescolata con la sabbia serviva per l’intonaco. Tutti i ragazzi facevano il salto della buca. Tentai anche io il salto. Fallii e caddi nella buca. Non capivo che avevo corso il rischio di diventare cieco (la calce brucia). Per fortuna ci rimisi solo le scarpe.
– D’estate la banda di via Massaua rubava i meloni al vicino mercato coperto. La tattica era molto semplice. Almeno 30 bambini correvano verso il banco dei meloni. Ognuno doveva prendere un melone e scappare. Il venditore dei meloni non poteva prendere tutti.
– La cosa che più mi terrorizzava era salire sulla terrazza di Gigetto. L’ultima rampa era di 20 gradini. Sulla destra guardava nel vuoto. Un salto di molti metri. Gigetto    era mio cugino, era più vecchio di me di due anni.

IL PAGAMENTO DELLE CAMBIALI
Dal 1947 al 1957 anche per la nostra famiglia fu il regno delle cambiali. Si acquistavano con cambiali, vestiti, elettrodomestici, automobili. Tutto. Io, fin dall’età di cinque anni, fui incaricato da mia madre del pagamento delle cambiali. Mi chiamava, aprivo la mano e mia madre ci metteva la cambiale con i soldi del pagamento. Fino a quando non arrivavo davanti al cassiere non dovevo aprire mai la mano. Davanti alla cassa delle cambiali c’era sempre una folla accalcata. Non c’erano priorità o regole. Quando si entrava nella folla, bisognava arrivare spingendo fino al cassiere. E si stava così addosso gli uni agli altri che si palpava tutto di tutti. Si palpava soprattutto se vicino c’era una ragazza. E si combinavano anche i sudori, gli odori, le parole. Mi piaceva la situazione. Lì si aveva una sola regola: arrivare prima degli altri al cassiere. Raggiunto quel fine, tutto diventava normale, regolare.

LA SPESA CON ZIA MARGHERITA
Ogni pomeriggio zia Margherita andava a fare la spesa. Io facevo il diavolo per andare con lei. Un giorno, che lei non voleva strillai forte e lei alla fine mi portò. ll negozietto era in una traversa di via Mazzini. Quel pomeriggio quando vi entrammo, mi accorsi che erano arrivate le prime automobiline di Ferrero ripiene di cioccolato. Pregai, implorai, piansi ma zia Margherita non me le comperò. Allora, al ritorno, mentre passavamo davanti alla scuola N. Parisi, io per dispetto mi tolsi le scarpe e le lanciai al di là di un muro della scuola. E dissi a zia Margherita che così imparava a non comperarmi la cioccolata. Mia zia scoppio in lagrime fin quando trovò un ragazzo che andò a riprenderle. Dopo alcuni giorni, ce l’avevo ancora contro zia Margherita e mi vendicai.  Lei era in cucina tutta intenta a preparare la “fornacella” per riscaldare le stanze. Io mi avvicinai in silenzio alle sue spalle e la spinsi verso la “fornacella”. Ancora una volta fu fortunata perché il fuoco non era ancora acceso.

QUELLO CHE PIÙ MI AFFASCINAVA
Quello che più mi affascinava da ragazzo era guardare i lavoratori per la strada. Ero capace di stare a guardali per ore. Ricordo che nel ‘52 si facevano nuove strade o si allargavano e rammodernavano quelle più antiche. Un giorno dovevo portare uno sturalavandino dalla casa in via Le granate a quella di via Massaua. Arrivato vicino alla scuola Parisi, vidi che nella via parallela a via Massaua stavano rifacendo la strada. La stavano pavimentando con le pietre di Trani, che erano situate sapientemente l’una accanto all’altra dai muratori. Poi interveniva lo schiacciassi per livellarle e altri operai provvedevano a buttare uno strato di bitume. Poi passava ancora il livellatore di bitume. M’incantai a guardare per alcune ore, ma alla fine mi accorsi che qualcuno mi aveva portato via lo sturalavandino che avevo appoggiato a terra.

LE MIE SCUOLE ELEMENTARI
A quei tempi nelle classi delle elementari eravamo una trentina di iscritti. Ricordo ancora il nome dei maestri. Galante al terzo anno e Catalano in quarta e quinta elementare, Ho saputo che Catalano dopo è diventato direttore della scuola Parisi. Quattro sono i miei ricordi delle elementari:
– Nella classe eravamo tutti maschi. Il più forte era Leone, che alla mattina veniva a scuola e poi andava a fare il bracciante nei campi assieme ai genitori.
– Un giorno mi feci la cacca addosso. Perché Catalano aveva detto che, quando lui spiegava, nessuno doveva disturbarlo per qualunque motivo. Io dovevo andare al bagno. Stetti zitto fino alla fine. quando corsi al bagno mi feci addosso. Raccolsi le mie mutande e i miei calzoncini sporchi e li nascosi dentro il capello. Alla fine delle cinque ore con il mio fagotto andai a casa.
– Un altro giorno il maestro Catalano salì in piedi sulla cattedra e si mise a marciare.  Volle spiegarci così quale era il modo giusto di farlo, ma lo capimmo solo molto più tardi.  Forse Catalano non capiva che il sabato fascista era finito.
Molte cose che si facevano alle elementari le avevo già imparate quando frequentavo il doposcuola, della cugina di mia madre e, malgrado difficoltà e  noia, arrivai in quinta e superai l’esame di ammissione alla scuola media.

LA FUGA DOPO IL FERIMENTO DI UN COETANEO
Un giorno, avevo otto anni, mio malgrado fui protagonista di un brutto episodio. In via Le Granate noi ragazzi della zona giocavamo alle biglie. In generale c’era da scavare prima un foro, il “caccetto” nel terreno. Scendevamo perciò da casa portando un giravite e un martello. Un pomeriggio eravamo a giocare io e il mio amico Michele. Arrivò Carlo, un ragazzo più grande di noi e, per divertirsi, si mise a spostarci le biglie. Io non so cosa mi successe, ma colpii Carlo con il cacciavite alla testa. Ricordo soltanto che dopo un po’ una ventina di adulti che abitavano nella strada mi inseguivano gridando: “Lo ha ucciso, prendiamolo!”. Io corsi a nascondermi nella casa di mia nonna. Il cacciavite era scivolato sull’osso della testa. a Carlo avevo procurato tre tagli. Ogni giorno e per circa un mese Carlo mi aspettò all’uscita di casa con un moschetto in miniatura dei carabinieri. Io, dietro consiglio di mio padre, non scendevo più a giocare in strada. Poi un giorno scesi, e io e Carlo facemmo la pace.

DA VIA LE GRANATE ALLA CASA POPOLARE IN VIA SILVIO PELLICO 11
La casa in via le Granate era uno stanzone a cui si accedeva tramite una scalinata. Al volte alla fine di un mese, mio padre mi portava con lui a pagare l’affitto. Le padrone erano due vecchie. Noi bambini facevamo la guerra a colpi di sassi con i bambini di via D. Alighieri, parallela al vicolo di via Le Granate. Per evitare che noi bambini rotolassimo lungo la scalinata che portava alla stanza, mio padre aveva fatto mettere un cancelletto in legno all’inizio della scalinata. Questo non m’impedì di superare il cancelletto in legno; e  un giorno rotolai giù per tutta la scalinata fino al portone. Ho già detto che in quell’unica stanza c’era tutto quello che avevamo. Era la camera da letto con armadio, letto per i miei genitori e per noi figli [eravamo ancora tre figli] secretaire e como. C’era poi un tavolo per mangiare con un altro armadio per la cucina. Il tavolo era appoggiato al letto. Un attimo ricordo che sull’armadio c’erano le gabbie con due canarini. In una rientranza si era trovato spazio per la cucina. Nella rientranza c’era un capasone, pieno di acqua. È inutile dire che in casa non c’era l’acqua corrente. Bisognava andarla a prendere ogni giorno alla fontana per riempire il capasone. Quando si cucinava gli odori si diffondevano in tutta la stanza. In un angolo erano stati tirati su due muretti con una porta e un tettuccio sui 2 metri e trenta, che delimitavano il locale dove si teneva il vaso per il gabinetto. Tra il letto e il cesso i miei genitori avevano messo una culla, per mia sorella Odette. In un altro angolo c’era una macchina per cucire. Una notte ci fu il terremoto e scappammo in strada. Pensavamo che alla nostra stanza non fosse capitato niente di grave, ma ci sbagliavamo. Da quel giorno, ogni volta che pioveva, mio padre doveva girare per la stanza con una scopa a cui aveva legato uno straccio. E così raccoglieva l’acqua che veniva fuori dal soffitto. Con il passare del tempo l’acqua aumentava. E allora mio padre con della plastica trasparente costruì sul letto un baldacchino. Finalmente, quando io avevo ormai 9 anni, un’apposita commissione del Comune decise che potevamo avere la casa popolare. Via Silvio Pellico era in periferia, prima c’erano dei campi di grano. Si trattava di palazzine in tufo alte tre piani. Non c’era ascensore. A mio padre capito il terzo piano. Tre camere bagno e cucina abitabile. Certamente meglio della stanza di via le Granate, Le liti con il contadino che curava i campi di grano erano frequenti. Si litigava perché spesso la palla finiva nel campo di grano e noi andavamo a prenderla. Un canalone d’acqua chiudeva la zona delle case popolari di via Pellico. Oggi via le Granate non esiste più. Hanno costruito un mezzo grattacielo. Tutta la popolazione è finita nelle case popolari. In via Pellico non esistono più i campi di grano e il canalone. LA tangenziale è sempre pericolosa, ma hanno messo un po’ di semafori. Sono finiti per sempre le incursioni di noi ragazzini di via Le Granate nei negozi e nelle strade del centro.

LA TELEVISIONE
L’ultimo anno delle elementari abitavo in via Silvio Pellico 11. La sera eravamo da zia Saveria a vedere la televisione. Non ricordo il giorno ma ricordo che si trattava della trasmissione “Lascia o raddoppia”. Eravamo una trentina di persone. Poi, finita la trasmissione correvo a casa. Ricordo che insistemmo con nostro padre per comperare la TV. Anche noi eravamo la sera delle trasmissioni importanti una ventina di persone, C’erano i 5 inquilini dell’appartamento di fronte Davide con moglie e tre figli. Mia nonna, la Sorella Filomena i figli zio Nino e zia Margherita, Veniva anche la comare con la figlia Pina. Spesso erano nostri ospiti per la TV gli abitanti del quarto piano. La TV all’inizio creava dei momenti di vita in comune. Poi è tutto finito. 

LE SCUOLE MEDIE
La prima e seconda media la feci all’istituto Bovio del palazzo degli studi di Foggia. L’unica cosa che ricordo della prima media è la professoressa Masi e la “lex acquaria”. La professoressa Masi insegnava lettere, era una spilungona più alta di 180 cm. La lex acquaria era un accordo per cui tutte le volte che sbagliavamo dovevamo pagare una piccola cifra. Alla fine, si sarebbero comperate delle bottiglie d’acqua.
La seconda media è l’unico anno in cui fui rimandato in Latino e mi sembra Storia. Con me frequentava mio cugino Gigetto. La nostra maggiore preoccupazione era quella di tagliare con un coltello i banchi in legno. Ricordo che fu chiamato anche mio padre. All’uscita pensavo di ricevere uno schiaffo. Mio padre mi compro un gelato e mi disse; “Gino guarda che se non studi lavorare è dura”, Durante l’estate studiai e superai l’esame di riparazione.

  GLI OSPITI DELLA CASA POPOLARE
Io pensavo che ora avevamo una casa decente. il sogno durò poco. Mia nonna era stata sfrattata da via Tenente Iorio, una traversa di corso Roma. Mia nonna, la sorella Filomena i fratelli, Nino, e la sorella Margherita chiesero di essere ospitati. Nella casa popolare oltre a noi cinque abitavano altri quattro. Nella casa popolare eravamo in nove. Restammo cosi per due anni. 

BOY SCOUT
Facevo la prima media e mio cugino Gigetto mi convinse ad iscrivermi agli Scout. Vicino a Casa nella chiesa di San Michele c’era il Foggia 1(era il nome del raggruppamento). Mi iscrissi. Del resto a Foggia o si faceva il chierichetto o niente. Mi iscrissi e partecipai al campeggio in Abruzzo. Capii che il materiale lasciato dai soldati USA era stato lasciato al Foggia 1 e non alla chiesa di San Michele. Riuscii a trovare il documento originale della donazione. Ma i preti murialdini corruppero uno del gruppo. Si impossessarono del documento e lo bruciarono. Da quel momento non mi sono più fidato dei preti. Passai al Foggia 2 dove c’erano i frati cappuccini.

 LA SCUOLA DA GEOMETRA
Alla fine della scuola media ormai era deciso: sarei diventato un geometra. Il primo problema fu la richiesta del preside di sostituire i miei pantaloni corti con quelli lunghi. La docente di Francese aveva protestato. Secondo lei, coi pantaloni corti ero “indecente”.  Mia madre risolse il problema. Non potendomi acquistare o far fare subito dei pantaloni lunghi, avrei indossato quelli lunghi della cresima.
Verso la fine del primo anno il primo guaio. Una sera andai a dormire tranquillo ma la mattina avevo la caviglia gonfia e mi faceva male. Ma dovevo andare per forza a scuola, perché l’insegnante di disegno, se non   consegnavo l’ultimo lavoro, mi avrebbe rimandato. Zoppicando, andai. Però, solo grazie all’aiuto di Beppe Russo, un mio compagni di classe (in pratica mi porto sulle spalle) riuscii a tornare a casa. Il piede continuava a farmi male. Iniziarono le visite dei dottori. La conclusione delle loro visite era sempre la stessa. Per loro io avevo una distorsione. Intanto la caviglia era diventata nera e il termometro segnava quaranta gradi di febbre. Mio padre si decise a chiamare a pagamento un giovane dottore appena arrivato da Bologna. Appena mi visitò, la sua diagnosi fu chiara: “Si tratta di osteomielite”. Il dottore disse che dovevo essere ricoverato subito a Villa Rosa, che era una casa di cura privata, ma buona, e fare una robusta cura di antibiotici. Se la cura non riusciva, avrebbe dovuto tagliarmi il piede. Dopo un mese di ricovero il dottore comunicò che la cura era riuscita. Mi restava solo un buco nell’osso della caviglia. Avrei fatto bene a cercare di trovare un lavoro che non affaticasse il piede. Di notevole in questi anni di scuola superiore fu la conoscenza e l’amicizia con gli studenti Carestia Amedeo e Buonfitto Emmanuele. Iniziammo a studiare assieme. Di politica non capivo niente. Feci due scioperi per Trieste all’Italia. Polemizzavo con il bidello Giggino. Lui era iscritto al PCI e sosteneva l’URSS. Io non capivo niente di politica, ma da quello che avevo letto, mi sembrava che gli operai non stavano   granché bene  nell’URSS.

IL GIORNALE ABC
Un altro episodio che ricordo avvenne quando frequentavo la classe quarta del geometra. Il professore di Topografia, l’ingegnere Carrozza, mi sorprese un giorno a leggere in classe la rivista ABC, un settimanale socialista e anticlericale che pubblicava articoli scandalistici e foto osé per l’epoca e propagandava il divorzio. Quasi si trattasse di un reato gravissimo, fu chiamato il preside, che mi sequestrò la rivista e mi comunicò che, fino a quando non avesse parlato con mio padre, non sarei ritornato a scuola. Mio padre venne a parlare con il preside. Il preside farfugliava sui ragazzi delle miniere di zolfo che egli aveva raddrizzato. Mio padre non s’intimidì e mi difese. Disse che la rivista ABC era venduta in edicola e che, dunque, io l’avevo comperata regolarmente. L’unica mia colpa era che  la leggevo in classe. ll preside doveva restituirmi la rivista. E così avvenne. Quando io, Carestia e Buonfitto prendemmo il diploma, ci separammo con dispiacere. Io mi iscrissi al corso di Ingegneria Elettrotecnica al Politecnico di Torino. Amedeo e Buonfitto si iscrissero a Ingegneria civile a Bari.

FUGGIRE DA FOGGIA
Il diploma era una buona occasione. Foggia non aveva lavoro allora e non ce lo ha oggi. Per i giovani che non avevano i genitori ricchi c’era solo “lo struscio” lungo il corso. Mia madre mi raccomandava di stare attento quando andavo in corso Cairoli, perché lì c’erano spesso scontri tra disoccupati e polizia. In quel periodo in tutto il meridione i disoccupati occupavano spesso le terre dei latifondisti. I poliziotti colpivano con il manganello e con i moschetti. L’alternativa era: o diventare delinquenti o emigrare per non tornare. Per chi restava e non diventava un delinquente c’era una vita da miserabile: bracciante, operaio alla cartiera, trasportare sacchi agli zuccherifici, disoccupato. Io con altri tre coetanei avevo costituito una piccola banda. Facevamo piccoli furti, tiravamo pietrate contro gli innamorati, facevamo a pugni con altri giovani, giravamo armati di coltelli. Ad un certo punto avevamo capito che o si diventava professionisti della delinquenza o i professionisti ci avrebbero mangiati. Fu allora che io decisi di emigrare. Oggi si parla della delinquenza di Foggia e del Gargano. C’è sempre stata. Con il passare del tempo i delinquenti hanno seguito lo sviluppo delle tecniche, prima usavano il fucile ora anche il lancia granate..

 TORINO: COLLEGIO EINAUDI
Quando ero ancora a Foggia, mio padre fece tutte le pratiche per ottenere il presalario e per iscrivermi al Politecnico. Aveva fatto anche domanda perché fossi alloggiato al Collegio Einaudi di corso Lione 24 nel quartiere della Crocetta. Infatti, con la misera somma del presalario non potevo permettermi di affittare una casa. Così una sera presi un biglietto di seconda classe Foggia-Torino per andare a conoscere sia il Collegio Einaudi, sia il Politecnico. Ricordo che arrivai a Torino la mattina alle sette. A quei tempi – eravamo nel 1964 pensavo che Torino fosse grande come Foggia. non avevo mai visto una città più grande di Foggia. Uscito dalla stazione, presi la mia valigia e mi avviai verso corso Lione a piedi. Impiegai un paio di ore per arrivare al Collegio. Il collegio era un edificio di 4 piani, Era un edificio senza nessun abbellimento. Un parallelepipedo di 4 piani. Pieno di finestre. Mia madre aveva riempito la mia valigia di plastica con i vestiti e le scarpe adatte al clima mite di una città meridionale come Foggia. Dunque, non avevo nemmeno un cappotto, ma soltanto un impermeabile double face.  Un giubbotto di cotone verde doveva proteggermi dal freddo. E poi  avevo le classiche scarpe nere a punte lunga e suola sottile. Quando finalmente arrivai al Collegio di corso Lione, il custode mi indico il locale della direzione. Una signorina, che si occupava della gestione, mi assegnò la camera. Era alla fine di un lungo corridoio. (Solo dopo mi accorsi che stava a non più di 10 metri dalla Fabbrica Fiat SPA centro). Durante l’anno 1965 avrei seguito tutti gli scioperi degli operai. Non stavano meglio di me gli altri collegiali, le cui finestre si affacciavano direttamente sulla ferrovia incassata che congiungeva Porta Susa a Porta Nuova. Quel giorno stesso uscii per trovare una merceria dove acquistare il numerino di stoffa [non lo ricordo] della mia stanza. La signorina mi aveva informato che, se volevo dare la biancheria per farla lavare, ogni capo doveva essere contrassegnato con il mio numero. La stanza era fatta così: aveva un armadio a muro per i vestiti; una porta nascondeva un piccolo lavandino; e poi c’era un altro piccolo armadio per riporre vestiti e libri. In realtà sarebbe stato usato come dispensa. C’erano poi un lettino largo 80 centimetri e un tavolo di 1 metro con due sedie. Alla finestra non c’erano tende ma solo tapparelle. i gabinetti erano in comune, come anche le docce. Vista la mia esperienza a Foggia, il nuovo ambiente mi sembrava eccezionale. Devo dire, però, che mi sentivo un po’ isolato. Avevo notato subito che gli altri collegiali sembravano già vestiti da piccoli ingegneri. Avevano tutti giacca, cravatta e un regolo calcolatore nel taschino. Tornai in camera con i numeri della mia stanza che avrei cucito sulla biancheria. Andai in mensa e qui feci il primo errore. C’era un porta tovaglioli dove c’erano i tovaglioli dei collegiali. Io non l’avevo e perciò arrivai in mensa senza e poi non avrei saputo come pulirmi la bocca. Stetti per tutto il pranzo attento a non sporcarmi. In mensa c’erano delle cameriere che venivano a prendere le ordinazioni. Sembrava tutto in regola poi ci accorgemmo che non lo era. Feci conoscenza con Leonello Zaquini, figlio di un ingegnere di Brescia. Dopo pranzo decidemmo di fare una partita a biliardo. Finita la partita decisi di pagare io, Leonello non volle. 

IL MIO PRIMO SCONTRO CON LA GOLIARDIA
Qualche giorno dopo incontrai sul mio corridoio un altro collegiale Luca Zanetti. Avrei saputo dopo che era iscritto al secondo anno ed era figlio di un architetto d Perugia. MI interpellò chiedendo una sigaretta. Non gliela volli dare.  Mi disse di andare in camera mia che mi   avrebbe spiegato. Dopo 10 minuti, arrivò con altri 5 collegiali armati di forbici. Mi dissero che non avevo obbedito infrangendo una delle principali regole della goliardia. Per questo il gran consiglio mi aveva condannato al taglio dei capelli. Mi sembrava una stronzata e feci per andarmene. Due collegiali mi afferrarono e un terzo iniziò il taglio dei capelli. Ogni volta che mi lasciavano, tentavo di scappare. Mi afferravano e il taglio ricominciava. Dopo mezz’ora gli squadristi della goliardia si sentirono soddisfatti. Io ero ridotto male. Ma prima di andare dal barbiere andai a fare la passerella nel salone. Tutti dovevano vedere come era ridotto chi non obbediva. Quella fu l’ultima volta in cui gli squadristi della goliardia agirono nel collegio di corso Lione 24.

LA DISTRIBUZIONE DEL MIO PRIMO VOLANTINO DEI QUADERNI ROSSI
 Intanto gli operai metalmeccanici proseguivano gli scioperi iniziati nel 1960. Nel 1962 cerno stati gli scontri di piazza statuto. Io non capivo niente di politica ma avevo cominciato a bazzicare un gruppo. Erano quelli dei Quaderni Rossi. Non sapevo chi erano Panzieri, Tronti, Rieser, Lanzardo e compagni, ma volli distribuire io pure agli operai della FIAT Mirafiori il loro volantino contro l’accordo che i sindacati avevano fatto con il governo. .Mi andava di dare il volantino perché parlava contro i sindacati.  Mi capitò di andare alla porta 2 di Mirafiori. Gli operai non prendevano i volantini e dopo un po’ mi accorsi che alcuni di loro avevano formato un gruppo che veniva a picchiarmi. Mi salvai gridando che non era un volantino sindacale e che anzi era contro l’accordo sulle pensioni firmato dal sindacato. Da quel volantino dissi a chi dirigeva quaderni Rossi a Torino, che quando avevano necessità mi potevano chiamare.

LA PRIMA CRISI
Verso la fine di aprile del 1967 volevo abbandonare il Politecnico. Mi sembrava di non capire niente. In verità, non capivo niente in Analisi Matematica I. Venivo dal geometra e per me la grandezza 0, 00000001 era trascurabile. In analisi matematica no. Tentai di parlarne una volta con Lello Zaquini. Lui si arrabbiò e mi cacciò via. Tutti gli altri studenti avevano frequentato il liceo scientifico. Al quinto anno avevano affrontato lo studio di quasi tutta l’analisi matematica. Ero scoraggiato. Poi ripensai a mio padre e decisi di continuare. Superato l’esame di Analisi Matematica I, i risultati successivi furono buoni e mi convinsero a continuare.

DA CORSO LIONE 24 A CORSO LIONE 44
Avevo passato l’anno precedente, il 1967, ad ascoltare gli scioperi operai alla Spa Centro senza capirci molto, ma simpatizzando per gli operai. Avevamo partecipato          a delle manifestazioni contro la guerra del Vietnam. Io ero convinto che il mio primo dovere era quello di studiare. Nel frattempo, ero passato alla camera 43 del Collegio di corso Lione 44, vicino trovai il collegiale di Palermo, Maurizio Spoto. Me lo ricordo ancora oggi perché aveva lo stesso cognome della mia bisnonna. Il mio amico Lello Zaquini, invece, si era trasferito in una camera al quinto piano di corso Lione 44, a fianco a quella di Luca Zanetti, lo studente di Perugia. Molte cose nei collegi Einaudi non andavano. Al secondo anno io e Lello iniziammo a studiare assieme. Un pomeriggio dovevamo studiare Meccanica razionale. Lello si levò la giacca e disse che potevo fare il caffè, ché lui sarebbe arrivato di lì a poco. Passarono, invece, le ore, ma lui non arrivava. Il giorno dopo seppi che era andato con Giuseppe Morfino e un centinaio di altri studenti ad occupare Palazzo Campana. Era novembre del ‘67. Palazzo Campana era l’aula magna della sede dell’università di lettere. Qualcuno dice giustamente che il ‘68 a Torino cominciò prima del ‘68 francese. Decisi di andare anche io a vedere cosa succedeva a Palazzo Campana. Qui sentii un gruppo di studenti di destra che accusavano gli studenti che occupavano di essere dei comunisti. Io mi arrabbiai e dissi loro che io, pur non essendo  comunista, ero dalla parte degli occupanti.  Perché protestavano contro un’università elitaria e baronale e contro una società che escludeva ampi strati della popolazione dal diritto agli studi superiori, Oltre le problematiche studentesche discutevano anche di “condizione operaia “. Per la prima volta sentii parlare degli studenti che erano alla testa della rivolta: Guido Viale, Luigi Bobbio e altri. Il rettore venne a parlarci. Disse che era d’accordo con gli occupanti, ma che bisognava smetterla.  Per la prima volta parlai io pure in un assemblea con oltre   cento studenti. Da ignorante feci diversi errori coi verbi ma sostanzialmente dissi al   rettore che, se era così d’accordo, doveva sedersi con gli occupanti.

L’OCCUPAZIONE DEI COLLEGI UNIVERSITARI
Incoraggiati dall’occupazione di Palazzo Campana, noi che stavamo nei collegi ci accorgemmo che molte cose non ci andavano bene.  La fettina di carne che ci davano era microscopica. Se si arrivava in mensa dopo l’orario stabilito,  non ci davano più il cibo si p. La sera i cancelli dei collegi venivano chiusi ad una certa ora e non si poteva uscire o entrare. Il sugo era rancido. Dopo la mezzanotte le porte tra un piano e l’altro venivano chiuse. L’assemblea degli studenti del collegio di corso Lione 44 decise una ispezione della cucina. Quello che trovammo era ancora peggiore di ciò che pensavamo. Del sugo ammuffito veniva conservato sotto un mobile. L’0sso del brodo bolliva da almeno un anno. Ci davano 3 o 4 tipi di yogurt per far vedere che la colazione poteva variare. Il prof Einaudi, nipote dello statista e direttore del collegio s’incontrò con noi. Voleva arrivare ad un compromesso. E per farsi bello, ci raccontava di quando era stato un antifascista, ma a noi non importavano i suoi racconti e occupammo le casse. Allora la direzione penso che, licenziando il personale della mensa, noi saremmo stati costretti a smetterla. Si sbagliavano. Continuammo dal novembre ‘67 a tutto il ’68. Mai un arco di tempo fu vissuto più intensamente. Direzione delle mense e dei collegi fatta da noi, volantinaggio agli operai FIAT (che non aspettavano certo i nostri volantini per lottare contro Agnelli). La sera  tutti a cena insieme in qualche ristorante. Poi scappavamo per non pagare il conto. Tra le conoscenze di quel periodo mi ricordo il tunisino Habib. Era un arabo che ci dette molti buoni consigli per gestire le mense. Habib era brutto, alto forse un metro e cinquanta, ma era in grado di parlare 4 lingue e una decina di dialetti italiani.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *