A che cosa servono i gruppi di poesia sui social?

di Luca Chiarei

Come tanti sono assolutamente allibito dall’indifferenza con la quale la maggioranza assiste a quello che sta succedendo a Gaza e in Medio Oriente. Che lo faccia il governo è nell’ordine delle cose, che società civile, forze politiche, intellettuali, sedicente opposizione non si differenzino è disgustoso. Ho rivalutato Di Battista che mi pare uno dei pochi che chiami le cose con il loro nome, per quello che può contare lui e noi.
In particolare  ho notato come per gli amici “poeti”, la cultura in generale, per quello che riesco a seguire non stia succedendo niente e neanche si pongono il problema. Su questo ho scritto sul mio blog https://itempieiversi.org/ due riflessioni  che esprimono un disagio personale tra l’angoscia per la tragedia in corso e l’irritazione per la mancanza di reazione.

Nota di E. A.

Le riflessioni di Luca Chiarei si leggono QUI

e QUI

3 pensieri su “A che cosa servono i gruppi di poesia sui social?

  1. In sintonia…

    Nevio Gambula
    https://www.facebook.com/nevio.gambula/posts/pfbid0Pyd19CDRnAoVTxQD1pWbs3ZVpNoADj6XiQyd6NC2wTwfqjm2nGuFFj2DdkeWa8HXl
    40 m ·
    La notizia della decisione della poetessa Anne Boyer mi ha fornito l’occasione per scrivere alcune note, quelle che seguono. Trovo interessante l’idea di «rifiuto attivo» espressa dalla Boyer, ossia di non partecipare alla narrazione dominante che “igienizza” il linguaggio sino a rendere accettabile il massacro di Gaza. Dal momento che stiamo assistendo a una carneficina, bisogna contrastare il linguaggio che la tollera o la sollecita con un’azione netta di distacco: «Non posso scrivere di poesia» – afferma la poetessa americana – «tra i toni ‘ragionevoli’ di coloro che vogliono acclimatarci a questa sofferenza irragionevole».
    ***
    DI COSA PARLA IL SILENZIO?
    APPUNTI
    «Che tempi sono questi, quando
    parlare d’alberi è quasi un delitto
    perché su troppe stragi comporta silenzio!»
    Bertolt Brecht
    Esiste il silenzio sintomatico, ossia un silenzio che nell’astenersi dal dire esplicita qualcos’altro. Il silenzio di tanti artisti e di tanti intellettuali di fronte allo sterminio dei palestinesi di Gaza, per esempio. Il problema non è di ordine morale; non è in gioco la capacità di distinguere ciò che è bene o male, giusto o sbagliato. Sembra quasi che accettino una situazione, che vivano una sorta d’impotenza, oppure che quella forma del dire – che è un dire politico – non competa a chiunque. Di cosa è sintomo questa ritrosia a dire?
    Non appena è emerso questo nuovo e devastante evento, in molti hanno cominciato a riflettere; interrogativi, conferme, nuove conoscenze, un’abitudine positiva che si è talvolta trasformata in azione. Non sono mancati gli articoli, i commenti, le note – e le manifestazioni di solidarietà. A prescindere dai contenuti, questo modo di agire – per se stessi, sul piano della riflessione, e per gli altri, sul piano della condivisione – è certamente importante, politicamente importante, e persino bello, umanamente bello. Il primo passo, comune a molti, è stata l’indignazione. Indignarsi, e farlo pubblicamente, non è che un modo per attivare la ragione: di confrontarsi con l’evento e con il contesto che lo ha provocato. Ora, tutto questo dovrebbe appartenere a chiunque, ogni cittadino dovrebbe sentirsi in dovere di venire allo scoperto: di rischiare la testimonianza.
    Siamo parte di quell’evento, nostro malgrado; semplicemente lo ignoriamo? Non è vitale, per il cittadino, e per la stessa condizione geostorica, l’atto di esaminare i concetti e le formule con cui si rappresenta quell’evento, e di criticarle laddove esse fossero nocive per la conoscenza e l’azione? Non è vitale, per chiunque, interrogarsi sul senso del proprio essere parte di quel contesto generale che ha permesso alla situazione israelo-palestinese di deteriorarsi? Non è vitale, per chiunque abbia a cuore la giustizia e la pace tra i popoli, interrogarsi sulle narrazioni che ne accompagnano lo svolgersi tragico? Che il silenzio sia sintomo di una perdita? Della perdita di agire la critica; di criticare, insomma, il pensiero e il reale? Ma senza critica non si esce dal cuore stesso dell’umano? Non diventa, la vita separata dalla critica, una riproduzione del proprio carattere animalesco?
    ***
    Gunther Anders è stato un implacabile fustigatore dei “silenti”, e non senza ragione. Per esso, il silente è peggio – eticamente, politicamente – del complice che sostiene apertamente, e senza vergogna, i «manager del cinismo», ossia chi determina le forme crudeli del mondo. Il mutismo del silente – la sua indulgenza – non fa che affermare il presupposto che non c’è motivo per criticare o per ribellarsi; non dicendo niente, non partecipando al discorso pubblico, essi semplicemente lasciano che le azioni di chi gestisce il potere accadano. Anche tacere – scrive Anders – è azione.
    Si obietterà che parlare è un esercizio futile – tanto più oggi, con il rumore di fondo dei social – e che la critica è impossibile. Ma anche pensare questa futilità o impossibilità è una forma dell’agire: cioè la modalità più consolante di posizionarsi nell’angolo più remoto del reale, quello dove gli avvenimenti sono sì visti, ma con gli occhi di un testimone che non vuole presentarsi in tribunale. Di fronte a questa reticenza, lo stesso Anders non esitò a parlare di «responsabilità collettiva»: nel ripetersi di eventi palesemente tragici, l’atto di tacere ci rende responsabili – politicamente responsabili – dell’orrore.
    Anche Hannah Arendt insiste sul concetto di responsabilità collettiva, ossia di una responsabilità politica del soggetto per gli atti compiuti dai membri della sua comunità. Ogni cittadino che vive “passivamente” un contesto e che non esprime o agisce la critica è, benché non direttamente colpevole, in qualche modo responsabile delle scelte che qualcun altro ha compiuto per lui. Considerando che per Arendt l’agire politico è l’intreccio di azione e linguaggio, ed essendo entrambi “uno spazio intersoggettivo”, gli atti del “tacere” e del “non agire” si configurano come una forma del “subire” il reale e le determinazioni di chi controlla le scelte politiche che interagiscono con esso e che lo influenzano.
    Il problema – scrive Arendt – non è “morale”, non riguarda l’io, bensì “politico”, riguarda il mondo; e allora l’interrogativo diventa: di fronte a quell’evento tragico, qual è l’impatto del mio comportamento? È meglio, per il singolo, restare in disparte, spogliandosi della possibilità di influire in qualche modo su quella «catena d’atti malvagi» di cui è costituito l’evento, oppure sentirsi parte di una comunità e mettersi in conflitto con il contesto che lo rende possibile? A questa domanda, probabilmente, non è facile rispondere; la stessa Arendt usa una formula dubitativa: «potrebbe risultare alla fine che nessuna norma morale, individuale e personale, di comportamento sia in grado di assolverci dalla nostra responsabilità collettiva».
    Quando il fervore del fanatismo, sembra dirci Anders, si impossessa d’una strategia geostorica, il tempo che ci separa dalle imprese sanguinarie è troppo breve per lasciare correre. Insomma, di fronte a eventi tragici (ora Gaza, ieri Siria, Yemen, ecc.), nulla dovrebbe sembrarci più urgente che prendere la parola in pubblico. D’altra parte, seguitando con Arendt, anche nostra è la responsabilità «per cose che non abbiamo fatto», ma di cui siamo testimoni; e «assumerci le conseguenze di atti che non abbiamo compiuto, è il prezzo che dobbiamo pagare per il fatto di vivere sempre le nostre vite, non per conto nostro, ma accanto ad altri, ed è dovuta in fondo al fatto che la facoltà dell’azione – la facoltà politica per eccellenza – può trovare un campo di attuazione solo nelle molte e variegate forme di comunità umana».
    [Continua]

  2. “Che tempi sono questi, quando
    parlare d’alberi è quasi un delitto
    perchè su troppe stragi comporta silenzio!” (Bertolt Brecht)
    Anche in tempo di stragi, secondo me, si puo’ parlare di cio’ che è ancora vivo ed è bello, per tenere in vita e trovarvi fonte di speranza, di rinascita…Anche per difenderlo fuori e dentro di noi…Un giorno forse magari saranno solo le memorie di vecchie generazioni, come la nostra..Se vinceranno le armi piu’ distruttive…
    Come, penso, ci è data anche la responsabilità di condannare le ingiustizie, le stragi e…spesso, e cosa difficile, di schierarsi contro i potenti, le dittature.
    Mi viene in mente come Rosa Luxemburg amasse la natura, considerasse la sofferenza degli animali come quella dei fratelli umani, e nello stesso tempo portasse avanti un programma rivoluzionario…
    Riguardo ai gruppi di poesia sui social, che dire? Se non c’è un orientamento politico di fondo, é naturale che diventino una sorta di palcoscenico dove ciascun partecipante recita i suoi versi o anche una vetrina ben allestita di prodotti in mostra…Puo’ corrispondere all’esigenza di farsi conoscere e di conoscere, come dice Lucio Mayoor Tosi, ma difficile aspettarsi dibattiti su fatti di attualità, come il conflitto a Gaza e le terribili stragi conseguenti…Non è detto che queste persone non vi si interessino in altri ambiti, ma certo isolare la poesia da fatti umani, vitali e terribili, che riguardano lo sterminio di popoli non mi sembra una buona premessa perchè sia accreditata presso
    le genti. Poi ognuno puo’ fare la sua scelta…

  3. Ammesso che abbia capito bene, mi sembra che l’autore più che altro abbia sbagliato bersaglio.
    Voglio dire, che cosa dovrebbe essere un gruppo social, un blog, un sito? Stiamo parlando in sostanza di ciò che nel mondo virtuale sarebbero i sostituti delle riviste. Il condizionale per me è d’obbligo, perché la differenza tra il cartaceo e il digitale sta nella bulimia di prodotto (siano recensioni, testi, interviste, ecc.) che il secondo offre e che rende di fatto impossibile seguire queste forme di comunicazione con la profondità che invece permette la carta stampata.
    Ma astraendoci da questa peculiarità negativa (e temo ancora per lo più incompresa dai fruitori), cosa dovrebbe un gruppo social, se andiamo a parlare di un certo argomento, nella fattispecie la guerra in Medio Oriente? Una rivista potrebbe dedicarci un numero speciale, quindi l’amministratore di un gruppo potrebbe dire: “Ok, per quindici giorni ci occupiamo solo di questo argomento: se mandate materiale – testi o iniziative che siano – devono essere pertinenti, se no non le passiamo.” Tutto qui.
    E attenzione, che non ci dobbiamo aspettare risultati qualitativamente eclatanti, perché il gruppo social non è un ambiente qualitativo, ma quantitativo; e di conseguenza superficiale in proporzione, come del resto ha notato l’autrice. Quindi a due settimane di poesia su un argomento come ciò che sta accadendo in Palestina, non dobbiamo pensare di trovare qualche reazione in più ai consueti “Molto bella”, “Davvero toccante”, ecc.. Con relativi cuoricini, possibilmente infranti o lacrimanti.
    D’altronde chiunque fa poesia seriamente (o professionalmente, se il termine non susciterà crisi di nervi in qualcuno/a fra chi legge), sa che un tema del genere difficilmente si può affrontare “a caldo”. E anche questo è un punto di forza del cartaceo, rispetto al digitale: col primo si ha per forza a disposizione un certo lasso di tempo, per sviluppare e maturare un’idea; col secondo, la voglia di scrivere tutto e subito – per “esprimere se stessi” – al novanta per cento prenderà il sopravvento.
    In altre parole non è certo in rete che dobbiamo aspettarci un’azione decisa in questo senso. Anche perché il fatto che non si scriva “in tempo reale” una poesia su un argomento particolarmente forte, non è sintomo di superficialità o di disinteresse da parte di chi scrive. Al limite, anzi, è testimonianza del contrario.

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