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Su mondo indesiderato, dubbio e certezza, amore altro, sognare.

di Franco Nova

UN MONDO NON DESIDERATO

Questa sera i sentimenti del Tizio
cercano una intensa alimentazione,
da procurarsi con sensi assai forti
privi d’ogni limite dell’umano.
Saranno sensazioni d’anima intense
che scartano i corpi dei desiderati.
Libertà ai baci, a carezze, a strette
senza preferenza per la bellezza e
del tutto afone per la sensualità.
I corpi strisciamo l’uno sull’altro
senza toccarsi nel proprio sesso.
Alla fine ci si staccherà e allontanerà, 
cantando la canzone dell’incontro
di spiriti privi d’intento materiale
diverso dal concepire altri esseri.
La Terra continuerà ad avere figli
ma senza mai godimento dei sensi;
solo sentimenti e beltà degli stessi,
il sesso pura proprietà degli animali.
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Su abitudine, mostri dal volto umano, amore tra anime

di Franco Nova

ABITUIAMOCI ALL’IDEA

Una bella somma di rimembranze,
più antiche sono, tanta melanconia;
tutto il meglio sembra ormai passato,
si sente vicino il termine mai eluso.
Se fossi credente, rispetterei il Creatore,
ma non proverei per lui molto amore,
ci ha dato una vita breve e complicata.
E tutto va velocemente al passato,
nessuna felicità riuscirà a sussistere
salvo che nel ricordo gran salvatore.
Ci abituiamo presto a conviverci
e tutto s’amalgama nel nostro animo
formando un impasto ben durevole,
così ogni sensazione s’appiattisce.
Non accettiamo l’insipido viaggio
e vi scateniamo contro la fantasia
che ci indica infine una via d’uscita.
Pur sempre siamo in attesa della fine,
ma vogliamo illuderci d’un seguito
capace di dar senso alla vita insulsa.
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L’amore questo sconosciuto

di Pasquale Mastrantoni 

Nella mente gracidano rane,
donne di tempi lontani
cacciate dal percorso seguito
in cerca della Divina cui
dedicare tutta la mia vita.
Non la trovo, tracimo di sollievo
per questa fortuna d’eccezione.
Una rana, la più perfida
mi contraddice e turba
la mia ferma convinzione.
Non questa o quella donna
illumina la tua anima e
ne cancella ogni ombra.
E’ l’amore, empito ignoto
che ti conduce in cielo;
e tu voli senza ali né fatica.
Tutto è chiaro intorno a te,
non c’è limite né orizzonte.
All’improvviso pur nel nulla
sbatti contro l’invisibile;
che cos’è non lo capisci,
ma è la fine del tuo volo.
Sotto di te riappare la Terra
e il gracidare delle maledette
scuote di nuovo il tuo udito.
Sii realista: vivi in basso,
non fantasticare l’ignoto.
 

Un amore che tutto travolge

di Pasquale Mastrantoni

 
Bagliori accecanti sui bastioni della città,
solo esistenti nei miei occhi a difesa
della mia anima assalita dai predoni.
Vogliono rapire la bruna Dionisia
pur essa mia fantasia per difendere
quel miscuglio di teneri sentimenti
aggrediti dalla cruda vita del reale.
Eppure è per un momento esistita
questa fanciulla col sorriso di fata,
ma credo rivolto a maschio rovente
che le recitava una poesia dai versi
sciolti da ogni forma di pudore.
Sentivo la poesia cantata da costui,
ma cresceva la bellezza della fanciulla
con invisibili baci dalle labbra
a schiudere in me la porta della gioia.
Finirà presto questa sensazione
d’avere accesso alla casa nel bosco
ormai circondata da quei bagliori.
Ho capito allora: la sete d’amore
s’è fatta travolgente e mai più
sarà spenta dal veleno d’un risveglio,
che l’animo mio non cercherà
nel mondo reale così squallido.
Quella città è in fondo un Paradiso,
i bastioni costruiti dal mio amore
 
 

La poesia di Ángel Guinda

 

a cura di Pablo Luque Pinilla

                                                                                                        El poeta es un condenado a la claridad y al canto1

Ángel Guinda nasce a Saragozza nel 1948. Vive a Madrid dove insegna Lingua e Letteratura in una Scuola Secondaria. La sua consistente opera poetica, esistenziale e minimalista, dagli anni ’70 a oggi è stata raccolta in riviste e libri di poesia. Ha scritto anche le raccolte di aforismi Breviario, 1980-1992 (1992) e Huellas (1992), i manifesti Poesía y subversión (1978) e Poesía útil (1994), e il saggio El mundo del poeta, el poeta en el mundo (2006). Ha tradotto diversi poeti: Cecco Angiolieri dall’italiano, Teixeira de Pascoaes, Florbela Espanca, José Manuel Capêlo e la poetessa brasiliana Ana Cristina Cesar dal portoghese, Àlex Susanna dal catalano. Negli anni ’70 fonda e dirige la collezione Puyal di libri di poesia e alla fine degli anni ’80 la rivista letteraria Malvís. Ha firmato centinaia di articoli di critica letteraria e critica d’arte sulle pagine dei quotidiani “Heraldo de Aragón” e “El Periódico de Aragón”. La sua opera in versi comprende i seguenti titoli: Vida ávida (1980-1990), Cántico corporal (1989), Conocimiento del medio (1990-1995), La llegada del mal tiempo (1995-1996), Biografía de la muerte (1996-2000), La voz de la mirada (2000-2001), Toda la luz del mundo (tradotto nelle lingue ufficiali presenti sul territorio spagnolo e all’interno dell’Unione Europea nel periodo 2000-2003), l’autoantologia La creación poética es un acto de destrucción, 1980-2004 (2004) e Claro interior (2000-2007). Attualmente è in corso di stampa l’edizione canonica della sua poesia completa, Poesía útil, 1970-2007. Un’ampia bibliografia dell’autore può essere consultata in rete all’indirizzo: www.olifante.com/guinda/biblio/index.html

Spesso la sua opera ha ricevuto consensi unanimi sia tra i lettori che tra i poeti e i critici letterari, e ha ricevuto il “Premio Pedro Saputo de las Letras Aragonesas” per Biografía de la muerte. Alcune tra le più recenti e importanti antologie degli ultimi anni raccolgono i suoi lavori; tra queste ricordiamo: Antología de la poesía española (1966-2000): Metalingüísticos y sentimentales. 50 poetas hacia el nuevo siglo (2007).

Come succede sempre nei casi di grande poesia, la sua opera affronta i temi classici più ricorrenti come il tempo, l’amore e la morte. Allo stesso tempo, la sua attenzione si dirige all’esplorazione metapoetica. Per quanto possa sembrare scontato sottolineare la validità di questi interessi, in realtà non lo è: basti pensare a come, nel nostro contesto attuale, vengano esaltati il nonnulla magniloquente e l’originalità priva di contenuto, in un atto di onanismo creativo che confonde il verso con lo spasmo, la letteratura con l’opportunismo dello spot. In maniera completamente diversa, invece, Ángel Guinda affronta la propria scrittura da una preoccupazione per l’umano, esasperata fino all’estremo della rottura del soggetto poetico, fino all’implosione stessa dell’io lirico. Questa scommessa è sostenuta anche da un grande rigore tecnico che si manifesta sia nell’impiego del verso libero che del poema in prosa o del verso sciolto (il più presente). Ma anche attraverso procedimenti espressivi come l’ellissi, il concettismo, la sinestesia e l’uso di un linguaggio attualizzato, convenzionalmente affatto poetico. Solo in alcune occasioni questo diventa più retorico o volutamente letterario; infatti, nella vita, fonte d’ispirazione di questa scrittura, vige il linguaggio nella stessa misura in cui, a volte, succede il contrario. In definitiva, una tematica e un’estetica che, tutto sommato, risultano radicalmente contemporanee.

Per il resto, si tratta di un’opera che, come dichiara l’autore stesso, si specchia in quella di Jorge Manrique, Quevedo, Bécquer, Ungaretti, Montale, Quasimodo e Jaime Gil de Biedma; e si fonda su tre idee fondamentali, spesso riportate nei suoi manifesti, in interviste e presentazioni. Innanzitutto, la concezione della poesia come atto di distruzione; quindi la convinzione che, puntualizzando quanto affermava Nebrija che «si scrive come si parla»2 in realtà, innanzitutto, «si scrive come si vive»3 e la coscienza di marginalità di chi va alla ricerca di un lirismo profondo che condanna il poeta a illuminare il mondo e a cantarlo. Con la prima di queste idee, il poeta risulta uno “sterminatore” – come l’ha definito qualcuno – che cerca di liquidare l’ordine prestabilito per edificarne uno nuovo, esente dai pregiudizi che falsano la realtà dell’uomo, guidato dal sentore del vero. Questo per dire che il carattere apparentemente distruttivo della sua poesia nasce da un’inclinazione al rischio e alla profondità, in cui ogni parola viene soppesata e indirizzata per dotare il poema della massima intenzionalità, sia etica che estetica. Ángel Crespo spiegava il medesimo concetto, affermando che questa poesia è «volta a rimuovere gli ostacoli della vita più che a essere messaggera di annichilimento; porta scompiglio, non nell’ordine naturale, ma nel disordine con cui i manichei di tutti tempi hanno cercato di sostituirlo»4. E noi aggiungiamo che questo modo di procedere, basato sull’effetto dei contrari, colloca il nostro poeta agli antipodi del nichilismo. Arriviamo quindi alla conclusione che Ángel Guinda scrive come vive, così come è stato accennato riguardo al secondo aspetto della sua scrittura. Una fame di vita e di esperienze personali che ci rivela nell’opera lo spazio comune delle nostre vite, la fattura dei nostri desideri, delle nostre frustrazioni, speranze, dubbi e certezze. Infine, sulla risultante delle due vie tracciate ritroviamo la terza che abbiamo indicato: il poeta si sente spinto al canto, alla poesia poiché tanta vita che come spesso afferma l’autore è anche tanta morte, non può non essere offerta, donata. In questo senso, Guinda è stato definito come un poeta maledetto, condannato a rendere poetico tutto quanto incontra. Ciò nonostante, ci sembra più adeguato considerare tale aspetto maledetto come l’ombra che la tentazione della concentrazione su se stesso proietta sul suo lavoro, pur se non arriva a materializzarsi. Di fatto, l’autore stesso ha denunciato questo pericolo nel suo saggio El mundo del poeta, el poeta en el mundo. Ci riferiamo alla pretesa che la poesia crei uno stato migliore della realtà e, per questo, migliore rispetto alla realtà, dimenticando che, come ci ricorda Víctor Moreno, lungi dall’essere così, il verso è «una possibilità espressiva in più che abbiamo a nostra disposizione»5 e, come tale, «non né migliore né peggiore di altre»6. Capiamo allora, che se Ángel Guinda dichiara di scrivere contro la realtà, non è perché la detesta, ma perché riconosce in essa l’incapacità di rispondere al suo grido umano, il che, in ultima istanza, non gli fa rinnegare quanto esiste, ma perseguire – quasi implorare -un inizio di risposta, qualcosa che gli sveli su claro interior – la sua chiara interiorità – come recita il titolo dell’ultima raccolta di poesie. La constatazione, in definitiva, che la realtà è segno di un’altra cosa. Infatti, nella poesia intitolata “La realtà” si spiega che, nonostante scriva contro di essa, senza sapere nemmeno se esiste, essa persiste «e questo sì, è un mistero»7. Un ulteriore conferma ci è data da una traiettoria poetica che comprende due tappe: quella che si conclude con il libro Biografía de la muerte e quella successiva a questa pubblicazione. La linea divisoria tra le due sarebbe delineata dall’incontro con la voz de la mirada – la voce dello sguardo – titolo di un’altra sua opera, e punto di inflessione verso una poesia «rivolta al mistero»8.

Se in Ángel Guinda è stato possibile questo itinerario, c’è da chiedersi cosa possa definirsi impossibile! Noi lettori aspettiamo ansiosi l’evoluzione del suo lavoro, e questo, per un poeta, è molto significativo.

                                                                                                                                             Traduzione di Gloria Bazzocchi

 

1Ángel Guinda, El Mundo del Poeta. El Poeta en el Mundo, Olifante, Zaragoza, 2007, pp. 7-8.

2Ángel Guinda, Poesía y Subversión: Manifiesto del 78, Zaragoza, Olifante, 1978; cit. Vida ávida, edizione bilingüe in bulgaro e spagnolo, trad. Rada Panchovska, Sofía, Próxima RP editorial, 2006 p. 88.

3Ibid.

4Ángel Crespo, Las cenizas de la flor, Madrid, Júcar, 1987; cit. Vida ávida, edizione bilingue in bulgaro e spagnolo, trad. Rada Panchovska, Sofía, Próxima RP editorial, 2006, pp. 97-98.

5Víctor Moreno (2007), “Lugares comunes sobre el hecho poético”, Cuadernos de Literatura Infantil y Juvenil, 2007, pp. 1-3.

6Ibid.

7Ángel Guinda, Claro interior, Zaragoza, Olifante, 2007, “La realidad”.

8Ángel Guinda, El mundo del poeta, el poeta en el mundo, Zaragoza, Olifante, 2006, p. 10.

POESIE DI ÁNGEL GUINDA
a cura di Pablo Luque Pinilla
traduzione di Gloria Bazzocchi

 

Tu boca vertical me escupió oblicuo
y no ha dejado tu sangre de rodar;
más que en la mesa, al volcarse una botella,
su dentro se derrama.
Y esa sangre no puede coagular
sino en mi pecho,
en esa bomba músculo que llaman corazón
y yo taberna.
Bebo mosto de alumbramiento,
negro alcohol espejo de tu ausencia.
Llevo toda la vida
bebiendo hijo sin fermentar,
masticando la madre de mi vino.
Toda la vida borracho de soledad
tragando muerte.(Vida ávida, 1980-1990)La tua bocca verticale mi espulse di sbieco
e non ha smesso il tuo sangue di gorgogliare;
più di quando su un tavolo si rovescia una bottiglia,
il suo interno si sparge.
E quel sangue non può coagulare
se non nel mio petto,
in quella pompa muscolo che chiamano cuore
ed io taverna.
Bevo mosto di nascita,
nero alcol specchio della tua assenza.
È tutta la vita
che bevo figlio non fermentato,
che mastico la madre del mio vino.
Tutta la vita ubriaco di solitudine
a ingurgitare morte.PÓSTUMOMe he bebido la vida.
La resaca
ha dejado en mis labios
un torbellino de desdén,
y en la mirada
toda la ausencia de la lejanía.
Convivo con la muerte.
Cualquier noche,
en lugar de unas manchas sobre un folio
y un ruido de palabras martilleantes
dando tumbos contra la dentadura,
te dejaré la luz de mi silencio,
limpio como el mantel desplegado del sol.

(Vida ávida, 1980-1990)

POSTUMO

Mi son bevuto la vita.
La sbornia
ha lasciato sulle mie labbra
un turbinio di disprezzo
e nello sguardo
tutta l’assenza della lontananza.
Convivo con la morte.
Una notte,
al posto di macchie su un foglio
e un rumore di parole martellanti
sbalzate contro la dentatura,
ti lascerò la luce del mio silenzio,
pulito come la tovaglia spiegata del sole.

LA EDAD DE ORO

No lamentes
haber perdido el esplendor juvenil,
los estallidos de la vida,
a cambio
de un horizonte de cenizas.
Nadie puede avanzar
en medio de un bosque en llamas,
sí a través del desierto.

(Conocimiento del medio, 1990-1995)

 

L’ETA’ DELL’ORO

Non rimpiangere
d’aver perduto lo splendore giovanile,
le esplosioni della vita,
in cambio
di un orizzonte di cenere.
Nessuno può camminare
in mezzo a un bosco in fiamme,
ma attraverso il deserto, sì.

PARA PERMANECER

Je ne vois qu´infini par toutes les fenêtres
Charles Baudelaire

Sin perder de vista el cielo,
que la tierra te mire
y puedas ver el mar.
Que en ti todo lo oculto
esté presente;
todo lo muerto, vivo;
lo por nacer, nacido.
Y tu huella dé fruto,
a la orilla del tiempo.

(Conocimiento del medio, 1990-1995)

 

PER PERDURARE

Je ne vois qu´infini par toutes les fenêtres
Charles Baudelaire

Senza perder di vista il cielo,
che la terra ti guardi
e tu possa vedere il mare.
Che in te quanto è nascosto
sia presente;
quanto è morto, vivo;
quel che deve nascere, nato.
E la tua impronta dia frutti,
sulla riva del tempo.

 

AUTOBIOGRAFÍA

Si mi vida no es esto
¿qué será la vida?

Martín Adán

Me preguntas por mi vida a bocajarro:
¿qué puedo responder, con qué y de qué modo?
Lo que sé de mi vida lo borra cuanto no sé de ella:
las palabras no alcanzan, los recuerdos confunden.
Mi vida es lo que he hecho,
he deshecho, he dejado de hacer.
Para saber de mi vida, piensa en la muerte;
piensa en ti que estás viva y has de sobrevivirme.
No sé si tendré tiempo
para vivir lo no vivido, para matar lo que viví,
para vivir la muerte antes de que me muera.
Mi vida recibe instrucciones de otras vidas
anteriores a mí, a las que sirvo
como fiel sucesor y en mí reviven
-no tengo ojos sino para lo que no veo.
Mi vida es una noche que a la luz no se adapta,
un astro fugitivo extraviado en la tierra;
es también la palabra que aún no me encontró,
el mensaje misterioso que no descifraré.
Aunque mi verdadera vida tal vez se inventará.

(La llegada del mal tiempo, 1995-1996)

  

AUTOBIOGRAFIA

Si mi vida no es esto
¿qué será la vida?

Martín Adán

Mi chiedi della mia vita a bruciapelo:
che rispondere, come e in che modo?
Quel che so della mia vita lo cancella quanto di essa non so:
le parole non bastano, i ricordi confondono.
La mia vita è quel che ho fatto,
ho disfatto, ho smesso di fare.
Per sapere della mia vita, pensa alla morte,
pensa a te che sei viva e che mi devi sopravvivere.
Non so se avrò tempo
per vivere il non vissuto, per uccidere quanto vissi,
per vivere la morte prima di morire.
La mia vita riceve istruzioni da altre vite
precedenti, che servo
come fedele successore e in me rivivono
– non ho occhi se non per quanto non vedo.
La mia vita è una notte che non si adatta alla luce,
un astro fuggitivo smarrito sulla terra;
è anche la parola che ancora non mi ha trovato,
il messaggio misterioso che non decifrerò.
Anche se la mia vera vita forse s’inventerà.

REGLAS DEL JUEGO

Cuando se es muy joven
uno vive sin apenas darse cuenta.

Cuando se es menos joven
uno comprende cuánto cuesta vivir.

Cuando se empieza a envejecer
uno hace recuento de todo lo vivido.

Cuando se es ya viejo
uno evita la idea de morir.

Cuando se nubla la vista
todo se ve definitivamente claro.

(La llegada del mal tiempo, 1995-1996)

REGOLE DEL GIOCO

Quando si è molto giovani
si vive quasi senza rendersi conto.

Quando si è meno giovani
si capisce quanto è duro vivere.

Quando si comincia a invecchiare
si fanno i conti di tutto quanto si è vissuto.

Quando ormai si è vecchi
si evita l’idea della morte.

Quando si annebbia la vista
tutto appare definitivamente chiaro.

LOS ALMENDROS EN FLOR

Cada año
la llegada de la primavera
me duele más.

Salgo al campo:
están los almendros en flor,
pero yo no.

(La llegada del mal tiempo, 1995-1996)

 

I MANDORLI IN FIORE

Ogni anno
l’arrivo della primavera
mi fa più male.

Vado in campagna:
i mandorli sono in fiore,
ma io no.

LA PUERTA DEL SILENCIO

Somos gotas de sed,
ecos de un resplandor.

Frente al mar todos callan.

(La llegada del mal tiempo, 1995-1996)

 

LA PORTA DEL SILENZIO

Siamo gocce di sete,
echi di uno splendore.

Di fronte al mare tutti tacciono.

 

MORIR

Morir es no volver a estar
a la misma hora
en los mismos lugares,
con las mismas personas.
No aparecer, cada mañana,
como esa gran luz nueva
disuelta entre las cosas;
dejar interrumpidos los trabajos,
los viajes en punto muerto.
Ajenos a los mares y a los astros.
Morir es estar quietos, sordos,
ciegos, mudos, desaparecidos,
desconectados de todos y de todo,
de nosotros también;
no regresar a casa nunca más.
No emitir ya señales, recibirlas tampoco.
Morir es no volver.

(Biografía de la muerte, 1996-2000)

 

MORIRE

Morire è non ritornare
alla stessa ora
negli stessi posti,
con le stesse persone.
Non apparire, ogni mattina,
come quella grande luce nuova
dissolta tra le cose;
lasciare interrotti i lavori,
i viaggi a un punto morto.
Estranei ai mari e agli astri.
Morire è rimanere calmi, sordi,
ciechi, muti, dispersi,
isolati da tutti e da tutto,
anche da noi stessi;
non tornare a casa mai più.
Non emettere più segnali, e nemmeno riceverli.
Morire è non tornare.

UNA VIDA TRANQUILA

Antes del fin
Ricardo Defarges

Me he castigado tanto el cuerpo, el alma,
que sólo tengo ganas de volver,
desatado de todo y de mí mismo,
a ese lugar donde las horas cunden,
fértiles, y pensar aprovecha
como un zumo fresco de frutas bajo el sol.
Pasear, empapado de olor a savia, camino de la casa
-observando el vuelo raso de la neblina
y las candelas del atardecer.
Y allí, junto al hogar, poner un poco de orden
al estrépito de los años, a los muebles de la memoria.
Oír el llover lento de la conciencia
calar en el eco de mis pasos, dispuesto a vigilar,
aunque sea de reojo, el reloj del adiós.
Me he castigado tanto el cuerpo, el alma,
que tengo ganas de regresar al campo
a ver amanecer; escuchar
el agua del deshielo rodar por la montaña;
colmarme de la paz de los senderos,
del canto de pájaros e insectos,
de la brisa que estremece las manos de los árboles;
tropezar con las piedras al contemplar las nubes.
Sentir que, sin saberlo,
estuve tanto tiempo vivo, y aún lo estoy.

(Biografía de la muerte, 1996-2000)

 UNA VITA TRANQUILLA

Antes del fin
Ricardo Defarges

Ho castigato tanto il corpo, l’anima,
che ho solo voglia di tornare,
staccato da tutto e da me stesso,
in quel luogo in cui le ore rendono,
fertili, e pensare trae beneficio
come un succo fresco di frutta sotto il sole.
Passeggiare, impregnato di odore di linfa, verso casa
– osservando il volo raso della foschia
e le luci dell’imbrunire.
E lì, vicino a casa, rimettere un po’ in ordine
il chiasso degli anni, i mobili della memoria.
Sentire il piovere lento della coscienza
immergermi nell’eco dei miei passi, disposto a vegliare,
se pur nascostamente, l’orologio degli addii.
Ho castigato tanto il corpo, l’anima,
che ho voglia di tornare in campagna
a vedere l’alba, ascoltare
l’acqua del disgelo rotolare giù per la montagna
riempirmi della pace dei sentieri,
del canto di uccelli e insetti,
della brezza che fa tremare le mani degli alberi,
inciampare nei sassi nel contemplare le nuvole.
Sentire che, senza saperlo,
sono stato vivo per tanto tempo e ancora lo sono.

CANCIÓN ESTÉRIL

Cómo habría querido darte todo
lo que yo nunca tuve: una infancia feliz
-cimiento de un futuro
compacto en seguridad y fortaleza;
cierta disposición favorable ante el mundo,
la salud del silencio,
el taller clandestino de las palabras,
la amistad, el ansia de saber, de ser libre,
las llamas del motín de enamorarse,
el fragor de vivir y un respeto a la muerte.
Pero nada de esto te podré conceder,
porque no nacerás.
Y aun así, me pregunto
si habrías admitido cuanto yo te ofrecía
-simplemente, la vida;
y aceptarme, porque yo te aceptaba.

(Biografía de la muerte, 1996-2000)

 

CANZONE STERILE

Come avrei voluto darti tutto
quanto non ho mai avuto: un’infanzia felice
– fondamento di un futuro
saldo in sicurezza e forza;
una certa disposizione favorevole al mondo,
la salute del silenzio,
il laboratorio clandestino delle parole,
l’amicizia, l’ansia di sapere, di essere libero,
il fuoco di quel tumulto che è innamorarsi,
il fragore di vivere e un rispetto per la morte.
Ma nulla di questo ti potrò concedere,
perché non nascerai.
E anche così, mi chiedo
se avresti accolto quanto io ti offrivo
– semplicemente, la vita;
e accettarmi, perché io ti accettavo.

¿Mirar es acercarse o atraer?
El sol, frutal, tirita, estremecido
fogonazo de trinos y de aromas.
En los brazos del monte brama el viento:
¿qué dice cuándo pasa?
No conoce el nombre de los árboles.
Hay otra luz para las flores de agua.
Islas en llamas en la noche,
vamos detrás de aquello que se escapa.

(La voz de la mirada, 2000-2001)

 

Guardare è avvicinarsi o attirare?
Il sole, fruttifero, trema,vibrante
vampata di trilli e di aromi.
Tra le braccia del monte bramisce il vento:
cosa dice quando passa?
Non conosce il nome degli alberi.
Vi è un’altra luce per i fiori d’acqua.
Isole in fiamme nella notte,
andiamo dietro a quello che sfugge.

 

“Eres la lejanía, que me cerca.”

(Toda la luz del mundo, 2000-2002)

“Sei la lontananza, che mi circonda.”

Qué insaciable beber un agua que tiene sed.

(Toda la luz del mundo, 2000-2002)

Quanto è insaziabile bere dell’acqua assetata.

LAS PALABRAS

Cada palabra pesa
todo lo que la vida
ha pasado por ella.

Hay palabras que viven,
palabras que dan vida;
hay palabras que mueren
y palabras que matan:
sólo algunas traspasan.

Cada palabra pesa
su paso por la vida.

(Claro interior, 2000-2007)

LE PAROLE

Ogni parola pesa
tutto quanto la vita
ha passato per lei.

Vi sono parole che vivono,
parole che fanno vivere;
vi sono parole che muoiono
e parole che uccidono:
solo alcune rimangono.

Ogni parola pesa
il suo passare per la vita.

LA REALIDAD

A pesar de que escribo
contra ella
-sobre ella jamás-
no sé en qué consiste
la realidad,
ni siquiera si existe.
Pero persiste,
y esto sí que es misterio.

(Claro interior, 2000-2007)

LA REALTÀ

Nonostante io scriva
contro di lei
– ma su di lei mai –
non so in cosa consiste
la realtà,
neppure se esiste.
Eppur persiste,
e questo sì è un mistero.

MUNDO PROPIO

Estar fuera del mundo por llevar un mundo dentro.

Si mi mundo no es éste, mi mundo dónde está.

(Claro interior, 2000-2007)

MONDO PROPRIO

Essere fuori dal mondo per avere un mondo dentro.

Se il mio mondo non è questo, dov’è il mio mondo.

 

© de los poemas en castellano: licencia otorgada por Olifante. Ediciones de Poesía
© delle poesie in castigliano: licenza rilasciata da Olifante. Ediciones de Poesíapablo.luque.pinilla@gmail.com
gloria.bazzocchi@unibo.it

 

 

Intermezzo natalizio 1974

di Elena Grammann

[ “Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto a tentativi di uscire dalla famiglia, l’esecrata famiglia” (Elvio Fachinelli, citato da E.A. qui). Si muovono ondeggiano e fluttuano, ma l’uscita dalla famiglia non è stata una passeggiata.]

 

“Sembra un treno del Far West” commentò il ragazzo giovane straniero salendo sulla littorina con i sedili di legno che faceva servizio locale.

La ragazza giovane autoctona provò a guardare il treno con occhi diversi per vedere se poteva avere la stessa impressione. Ma aveva visto poche cose straniere e soprattutto era troppo tesa per riuscirci. Però forse sì, forse i sedili a listelli di legno erano antiquati, ammise a se stessa con un sorriso forzato.

Il ragazzo straniero era, in un senso non ufficiale ma non per questo meno sostanziale, il suo fidanzato. Si erano conosciuti da qualche parte in Europa, si erano scritti quasi giornalmente per cinque o sei mesi ed ora eccolo qui. Per tutta l’interminabile mattina in cui lo aveva aspettato alla stazione aveva sperato che non arrivasse.

Se la ragazza fosse capace di riflettere sarebbe sicuramente meno tesa. Non si sentirebbe responsabile per i sedili di legno, per le occhiate della gente sul trenino locale, per l’incontro, fra poco, con i suoi genitori e per ogni singolo istante che scocca. Se la ragazza fosse capace di riflettere magari gli avrebbe scritto, semplicemente, di non venire. Avrebbe fatto una bella lista dei motivi che sconsigliavano di continuare quel rapporto: troppo complicato, troppo pieno di problemi, soprattutto troppo inconsistente (ma che ne sa lei, di consistenza e inconsistenza), e gli avrebbe detto addio. Per lettera.

Ma forse, a pensarci bene, non è che non sia capace di riflettere; anche questo, sì, in un certo senso; ma soprattutto non riesce a immaginare il futuro, non riesce a immaginare che il presente possa diventare irrilevante, possa modificarsi; è prigioniera del presente, lo prende terribilmente sul serio, ad ogni stimolo una reazione: immediata, definitiva; e, per il rispetto che si deve, eterna.

È debole e orribilmente ricattabile. Basta farle pesare un po’ di sofferenza, un po’ di amore, un debito minimo, che lei si sente subito in colpa; insisti un po’ e farà esattamente quello che vuoi; insisti un po’ e vedrai che la leghi ben stretta; poi, quando non ce la fa più e scalpita, tutti trovano che è volubile e egoista.

Il ragazzo straniero le ha scritto tutti i giorni per sei mesi. Nelle lettere le diceva quanto stava male e che non riusciva a respirare e il medico aveva detto che era psicosomatico. Le diceva anche tutto quello che stava facendo per iscriverla all’università, trovare un appartamento eccetera. Ora lui è qua e lei è orrendamente a disagio ma non può assolutamente ammetterlo perché non è la reazione corretta.

Poi è anche vero che lei è giovane, malleabile, sventata, pronta a cavare dal presente quel che si può. Pian piano il disagio si allenta, diventa sopportabile, anzi a tratti non lo avverte nemmeno più.

La vigilia di Natale vanno a fare un giro in città. La città è bella: scura, illuminata, luccicante. Dove sta lui di città così belle non ce ne sono. Lui la prende un po’ come se gli fosse dovuta.

Per uno che non riusciva a respirare si è rimesso piuttosto bene: è deciso, sa quello che vuole, si incazza se non lo ottiene. Ad esempio ha deciso che offrirà ai genitori di lei un cesto natalizio e cesto natalizio dev’essere. Lei non capisce nemmeno bene cos’è. Loro non si fanno manco i regali per Natale, figuriamoci i cesti. Però bisogna andare dal cestaio e fare il giro dei negozi di alimentari del centro e cercare esattamente quel che vuole e fare una cosa proprio come lui se la immagina. Lui si prende ridicolmente sul serio – forse perché è uno che fa le cose sul serio; lei lo sfotte un po’ per questo – forse perché lei in fondo non fa mai niente sul serio. In seguito lui la odierà per le sfottiture e lei lo odierà perché lui gliele farà pagare care. Per il momento però lui ha abbastanza buon gioco perché sa con precisione quello che vuole: vuole portarsela là nel suo paese. Lei invece non sa affatto quello che vuole, è completamente disorientata, la realtà è una matassa che non riesce a districare, è perfino incapace di trovare una via e un numero civico, figuriamoci le linee direttrici di un’esistenza. A dir la verità c’è una cosa che vuole assolutamente e sa di volere, ed è scrivere un romanzo; ma lo rimanda a più in là nella vita perché non ha idea di cosa metterci dentro.

Fra Natale e Capodanno fanno i soliti giri, questi succedanei striminziti del Grand Tour: Bologna, Firenze, Venezia. Andata e ritorno in giornata. Quando vanno a Bologna il treno è talmente stipato che fino a Modena viaggiano in una specie di vagone spedizioni dove c’è anche un maiale in gabbia. A Venezia vanno al consolato del paese straniero a far vidimare dei documenti che serviranno alla sua inscrizione all’università straniera. Lui ha preso in mano la situazione; lei lascia fare, stupita che queste cose si facciano realmente, che siano fatte, che accadano. Allo stesso tempo ognuno di questi passi la porta più vicina all’università straniera, senza che lei abbia detto veramente di sì. Anzi sul momento, la prima volta che la cosa era saltata fuori, le era parsa un’enormità.

Di nuovo la fa ridere perché la cosa che gli sta veramente a cuore, a Venezia, è mangiare in un ristorante tipico. Non corrisponde alla sua idea di cultura, che è austera. Però ammira la naturalezza con cui lui entra nei ristoranti, ordina, consuma e paga. Lei al ristorante ci è andata pochissimo, e mai con la famiglia; i camerieri le fanno soggezione, quasi quasi si alzerebbe in piedi quando arrivano; inoltre fino all’ultimo ha il terrore di non avere abbastanza soldi.

Lei ha già la patente, lui no. Vanno un po’ in giro con la vecchia millecento di suo padre, il pomeriggio o la sera. Si vede che lui è abituato in un mondo in cui i figli fanno abbastanza quello che gli pare e nessuno gli chiede conto, molto diverso da qui. Però lui si intende che le cose debbano andare come è abituato lui e di nuovo lei è grandemente a disagio e ci sono alcune scene spiacevoli fra lei e i suoi genitori.

Una volta – sono in macchina per un giro panoramico sulle colline – litigano di brutto. Lui insiste perché lei si trasferisca su da lui, si iscriva all’università là eccetera. Ha preparato tutto e non vede alcun problema. Lei dice chiaramente che è una roba da matti e che non se la sente. Lui la mette come se lei si fosse rimangiata la parola e le ingiunge di portarlo immediatamente alla stazione. Lei lo prega di non partire; striscia quasi, finché lui magnanimamente rinuncia alla rottura e alla partenza. Subito dopo lei se ne pente. Si chiede perché non ce lo ha portato alla stazione, visto che voleva partire. Non sa se lo ha fatto perché tiene a lui o perché ha paura della figura che farebbe; perché ormai si sente tenuta a un certo comportamento. Comunque sospetta che non sarebbe partito, sospetta che fosse tutta una finta.

Se la ragazza fosse un po’ meno ingenua, un po’ più abituata a riflettere, un po’ più consapevole di certi meccanismi neanche tanto nascosti, fiuterebbe il ricatto, si farebbe diffidente e remerebbe al largo finché ha una possibilità di manovra. Perché più tardi, quando è andata a finire che lei è su nel paese straniero e lui ha il coltello dalla parte del manico, allora le fa vedere i sorci verdi col suo sistema del ricatto.

Alla fine delle vacanze di Natale, subito dopo Capodanno, il ragazzo riparte. Sono praticamente d’accordo che lei lo seguirà qualche giorno dopo.

Lei prova a dirlo in famiglia, prova a chiederlo. Sua madre non prende nemmeno in considerazione la possibilità, suo padre invece le fa una scenata tremenda in sala da pranzo. Si vede che finalmente è sbottato, si vede che finalmente dice la sua dopo essersi dovuto sopportare la presenza di quel tizio che non si capiva bene cosa ci facesse lì; si vede che se fosse stato per lui non lo avrebbe certo tollerato; si vede che il tizio ha potuto soggiornare nella casa soltanto in virtù di una certa eccentricità della madre, di una sua visione un po’ barocca delle convenienze, di un suo mettere il cuore prima delle regole – sempre che le regole vengano poi rispettate, si capisce. Suo padre la investe con una violenza che esplode raramente in lui, che esplode in lui quando non ne può più, quando ha l’impressione che le cose vadano veramente oltre. Lei sta in un angolo e piange come una vite tagliata, piange e singhiozza orribilmente, orribilmente consapevole che suo padre ha ragione, consapevole che tutto il tempo lo ha offeso e lo sta offendendo, consapevole della propria abiezione e in qualche oscuro modo consapevole della necessità di questa abiezione. “Cosa vuoi da noi?” urla suo padre, “Ma cosa vuoi da noi?” urla ancora. Giusto, giustissimo, corretto, non può che essere d’accordo. Cosa vuole da loro? Hanno accolto in casa questo tizio che viene da lontano e si scopa la loro figlia, cosa che loro non sanno ma potrebbero benissimo immaginare; cosa vuole ancora da loro? Niente, corretto, non può volere niente.

Così un pomeriggio parte di nascosto – senza autorizzazione, senza benedizione, e ovviamente senza soldi.

Durante quelle vacanze di Natale una volta vanno al cinema. Non sa proprio cosa ci siano andati a fare, dal momento che lui non sa la lingua e quindi non capisce niente. E infatti a metà film si stufa e vuole uscire, vuole che se ne vadano. A lei dispiace un po’ perché il film le piaceva, ma se lui vuole andare bisogna andare, non c’è niente da fare. Vanno in un locale in cui lei non è mai stata perché non va mai in città di sera. Effettivamente, nell’arretratezza generale della provincia bisogna dire che lei è particolarmente arretrata. Sono seduti uno di fianco all’altra su divanetti bassi e bevono qualcosa e lui dice c’è una cosa che mi piace moltissimo di te e sfiora col dito lo zigomo o meglio una specie di gonfiore dolce fra la palpebra e lo zigomo. Più avanti lei si guarda qualche volta nello specchio, di profilo, ed è vero, c’è questo gonfiore così dolce e lei prima non lo sapeva.

Le racconta che, da ragazzino, si era messo in testa che voleva sposare una giapponese. Lei crede che sia per questo che le piace: per la follia ragionata, pianificatrice; per il senso del possesso: ancora adesso non può che provare ammirazione per il modo in cui, mezza giornata dopo averla conosciuta, dichiara a quelli del suo gruppo che da questo momento lei viene con lui.

In un suo modo egoistico (ce n’è un altro?) lui l’ha amata e continuerà ad amarla sinceramente, profondamente. Ma cosa vuol dire? Soltanto che ha bisogno di lei, non vuol dire altro.

Quando nel paese straniero lei faticosamente si metterà sulle sue gambe, e sarà indipendente, e non sarà più ricattabile, quando sarà stufa di vedere i sorci verdi e finalmente lo pianterà, lui soffrirà moltissimo.

Lea Melandri e Stefano Ciccone su ” Essere maschi”

Oggi su Facebook , capitato per caso sulla pagina di Lea Melandri, ho letto questo suo articolo del  30 aprile 2019 che mi era sfuggito e riproposto oggi (qui). Lo  riporto su Poliscritture assieme ad un commento dello stesso anno di Stefano Ciccone. Il tema è di quelli importanti e da ruminare a lungo accanto e assieme ad altre riflessioni. Indirettamente e chissà  quando, credo possa aiutare a spiegare, se non a sciogliere, anche certi nodi più o meno stretti o ingarbugliati che inceppano spesso le discussioni fra uomini e donne quando parlano d’altro. [E. A.]

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