di Marisa Salabelle
La scorsa estate, un mio ex alunno è diventato famoso a livello nazionale. Si chiama Massimo Biancalani, fa il prete in una parrocchia tra le più popolose della mia città, Pistoia, e nel 2016, dopo aver ascoltato le parole del Papa che invitavano tutti i parroci ad accogliere migranti nelle loro strutture, ha partecipato a un bando per l’accoglienza e ha trasformato la sua canonica in un CAS. IL CAS, per chi non lo sapesse, è un centro di assistenza straordinario, un rimedio pensato per sopperire alle carenze del sistema SPRAR, che sarebbe quello deputato all’accoglienza dei richiedenti asilo: ma, come in Italia accade molto spesso, i CAS hanno superato di gran lunga lo SPRAR, diventando in qualche modo normali, e non straordinari.
Massimo Biancalani è un uomo buono e si è votato all’accoglienza dei migranti, ospitandoli nella sua casa, seguendo il loro percorso nell’estenuante burocrazia italiana, ingegnandosi a trovar loro delle attività da svolgere e delle occasioni per imparare. L’estate scorsa ha portato alcuni dei suoi ragazzi in piscina e ha postato le loro foto sul suo profilo Facebook. Immediatamente sono cominciate a piovergli addosso critiche e offese, come purtroppo è norma sui social. È stato accusato di dedicarsi ai migranti a scapito dei suoi parrocchiani italiani, di ricevere soldi dallo Stato (li riceve, infatti, avendo vinto il bando ed essendosi visto assegnare un certo numero di richiedenti asilo), di farsi ricco con quei soldi, di essere un pederasta e un pedofilo, di portarsi a letto quei bei ragazzoni neri coi loro attributi in regola. La svolta però si è avuta quando, non si sa attraverso quali vie internettiane, Matteo Salvini è venuto a conoscenza di quel suo gesto sconsiderato e ha pubblicato un tweet nel quale, dopo aver accusato don Biancalani di essere un antifascista (come sappiamo, ormai essere antifascista è un crimine in Italia, mentre non lo è assolutamente essere fascista), un antileghista e un antirazzista, gli ha augurato un allusivo “buon bagnetto”. Da quel momento i commenti sotto i suoi post si sono moltiplicati assumendo caratteristiche di sempre maggiore aggressività. Il suo ruolo di sacerdote è stato messo in discussione al punto che, domenica 27 agosto 2017, un drappello di militanti di Forza Nuova è venuto a presidiare la sua Messa e a verificarne l’ortodossia. È nota, in effetti, la superiore competenza teologica dei militanti di questa formazione politica… Don Massimo li ha accolti sulla porta della chiesa e ha stretto loro la mano, raccomandando soltanto di non far casino. La chiesa, quel giorno, era gremita di amici e sostenitori di don Biancalani. Tutto il resto è venuto di conseguenza: i servizi giornalistici, gli inviti ai talk show, la notorietà di questo parroco di provincia, un ragazzone tranquillo ma tenace.
Perché tanta gente se l’è presa con Massimo? Non sarà l’unico prete in Italia che accoglie i richiedenti asilo. Costoro, d’altronde, sono tutt’altro che dei clandestini, contrariamente a quanto afferma la vulgata: si tratta di persone inserite in un circuito il cui scopo è di fornire accoglienza mentre viene valutata la loro posizione e si decide se hanno diritto all’asilo politico, alla protezione umanitaria, al permesso di soggiorno o a niente di tutto ciò. Un sistema che si può criticare quanto si vuole, ma che è perfettamente legale e non ha nulla di clandestino: questa bella parola con la quale abbiamo imparato a designare coloro che non vogliamo vederci ronzare intorno. E in fin dei conti, don Biancalani ha obbedito a un’esortazione del Papa, che se non sbaglio è il suo superiore… Quindi, qual è la causa di tanta rabbia, di tanta asprezza verso di lui?
Dice: accogli queste persone e trascuri i tuoi parrocchiani italiani; approfitti dei finanziamenti dello Stato per arricchirti; favorisci l’incremento della microcriminalità; collabori al famigerato piano Kalergi che mira a sostituire la popolazione autoctona con masse provenienti dall’Africa; sei responsabile del meticciamento della gloriosa stirpe italica…
Sorprende quanto alcune di queste affermazioni siano insensate, e sorprende ancor di più il fatto che riscuotano tanto consenso. Si direbbe che la gloriosa stirpe italica non brilli per la sua intelligenza… Altre affermazioni, meno deliranti, potrebbero essere serenamente discusse, senza produrre insulti e minacce via social. È tutta questa rabbia che mi lascia perplessa.
Dice, ancora: la gente è arrabbiata perché ha perso il lavoro, la gente non ce la fa più, è per questo che se la prende con gli immigrati, è una guerra tra poveri. Lo è, certo, ed è sapientemente alimentata, però io non l’ho mai bevuta che coloro che berciano contro gli “invasori” siano necessariamente i più poveri ed emarginati. Quante brave persone, signora mia, quante amiche con cui per anni ho condiviso gli stessi valori, quanti ex compagni col pugno levato che ora sbraitano «Io ho sempre votato a sinistra, ma…»
È quel “ma” che ti frega, amico. È il fatto che quelli sono neri, e ai neri puoi anche fare la carità, puoi anche accettare che stiano chiusi in un CAS, ma non che vadano in piscina, quello no, eh! Le nostre piscine per bianchi… È la visione penitenziale del povero, perché il povero può anche essere aiutato, purché stia al suo posto ed esibisca lo status del povero. Deve essere mesto, pertanto, non deve divertirsi, non ha il diritto di andare in piscina o di ballare il sabato sera nei locali della parrocchia, perché fa scandalo il povero che si permette certe cose, che razza di povero è? Se proprio vuol essere povero, che lo sia fino in fondo, e che non gli salti in mente di essere allegro, nero, e magari più bello di tanti italiani tristi visi pallidi.
Aggiungo una chicca di giornata. Domani sarà a Pistoia Leonardo Cabras, coordinatore toscano di Forza Nuova, per promuovere la candidatura di tale Aldo Mezzalana, generale della Folgore. Ecco le sue illuminate parole, riportate dal quotidiano online Report Pistoia:
«La costante ascesa del movimento e la sua crescente acquisizione di consenso tra la popolazione rendono questo appuntamento immancabile per tutti coloro che si rispecchiano nei valori della famiglia, del lavoro, della sicurezza e della lotta all’immigrazione tanto cari a tutti i partiti dell’arco costituzionale, ma di cui solo #ForzaNuova da più di 20 anni, ha fatto una vera e propria bandiera. Pistoia è già stata al centro delle battaglie forzanoviste – prosegue il coordinatore toscano – quando facendosi interprete dell’avversione dei toscani verso il cattocomunismo immigrazionista e politicamente corretto, i militanti toscani del movimento di Roberto Fiore hanno vigilato sulla Messa di Biancalani, constatandone il politicume mondialista a scapito della cattolicità e raccogliendo i consensi dei cattolici, stanchi di una falsa chiesa buonista ed acattolica.»
Cara Marisa, apprezzo molto questo tuo articolo e ti ringrazio per averlo scritto e condiviso. In particolare concordo con te nel punto in cui esprimi un dubbio forte sulla composizione sociale dell’attuale fascismo: « la gente è arrabbiata perché ha perso il lavoro, la gente non ce la fa più, è per questo che se la prende con gli immigrati, è una guerra tra poveri. Lo è, certo, ed è sapientemente alimentata, però io non l’ho mai bevuta che coloro che berciano contro gli “invasori” siano necessariamente i più poveri ed emarginati.». Su questo tema ti propongo un articolo che mi sembra utile perché conduce un’analisi economica e politica del «delirio proprietario» che struttura le attuali retoriche e politiche razziste e fasciste. Mi è sembrato buono. https://www.dinamopress.it/news/litalia-nel-ciclo-politico-reazionario/. Pia Mondelli
Grazie Pia! Sono convinta che ci sia un eccesso di indulgenza, direi di ruffianeria, nel definire i nuovi fascisti come solo, esclusivamente, come dei poveracci che devono contendersi il boccone con gli immigrati. Anzi, direi che è una distorsione interpretativa voluta. Certo, è chiaro che in Italia i poveri e gli impoveriti non mancano, e che si sa che quando la gente diventa insicura sulla propria posizione economica e sociale vira a destra, ma non è solo questo…
APPUNTI POLITICI
1.
L’analisi di Alberto De Nicola che l’amica Pia Mondelli ha segnalato mi pare lucida. Ci invita a capire che gli attacchi ai comportamenti di solidarietà *concreta e quotidiana *, come quelli di don Massimo Biancalani, subdolamente squalificati come “buonismo” dalla stampa leghista e destrorsa, hanno purtroppo il vento in poppa. E non ce l’hanno – ce ne siamo accorti negli ultimi tempi – soltanto a livello italiano ma europeo ( e mondiale, con Trump ). Giusto l’indicazione anche dello «spartiacque»: il 2015, anno della « débâcle greca, quando l’Unione Europea, con una specie di atto di guerra in tempi di pace, costrinse alla disonorevole capitolazione il tentativo di rinegoziazione del debito della Grecia sostenuto dalla maggioranza della popolazione» e delle sceltea dell’UE «volte al rafforzamento dei confini». ( Su quest’ultima questione abbiamo discusso e litigato anche qui su Poliscritture: https://www.poliscritture.it/2017/08/13/migrazioni-punti-di-vista-in-contrasto/).
2.
L’analisi di De Nicola ha il merito di svecchiare anche lo stereotipo della cosiddetta «guerra dei poveri». Se ho ben compreso, egli contesta che essa sia «“lotta per la sopravvivenza” degli ultimi – o, con maggiore raffinatezza, dei penultimi contro gli ultimi». Contrasta, perciò, l’opinione leghista e destrorsa per cui i poveri ( o parte crescente della popolazione impoverita) sarebbero spinti quasi automaticamente ( e *giustamente*) a comportamenti razzisti e fascisti contro i “più poveri”, gli immigrati. De Nicola individua la radice vera di tale “guerra” nella egemonia del neoliberismo oggi in crisi: «Dalla Thatcher in poi, in Europa, la diffusione del neoliberalismo si è associata al grande progetto di estendere a tutte le classi sociali l’accesso alla proprietà privata e a tutti gli ambiti della vita la logica patrimoniale». È stata questa filosofia liberista volgarizzata ha rendere “popolare” la proprietà privata e a squalificare invece la “proprietà sociale” (Castel) o quel poco di Welfare che si era ottenuto faticosamente con le lotte operaie degli anni ’60-‘70. Quindi certi linguaggi e comportamenti aggressivi e razzisti («gli enunciati micro fascisti» come li chiama De Nicola) vanno collegati ad un preciso « delirio proprietario che trasforma relazioni sociali e i beni in “oggetti” privati da preservare e difendere (le “nostre donne”, i “nostri figli”, il “nostro territorio”…)». Saremmo dunque – questa è la tesi di De Nicola – non di fronte a una “guerra tra i poveri”, ma ad una volontà politica sempre più decisa di una « Lumpen-borghesia, ovvero quel ceto arricchitosi a partire dagli anni Ottanta e Novanta nel capitalismo “molecolare” e rimasto escluso dalla nuova accumulazione di ricchezza seguita alla crisi del 2007» a lottare *per sè*, a non perdere i propri vantaggi e ad acquisirne altri. E lo fa puntando il dito contro i migranti (i più poveri o i veri poveri o comunque i più disorganizzati) proclamandosi pronta a difendere i “poveri italiani” dalla “invasione straniera” enfatizzata al di là della realtà effettiva, e raccogliendo le simpatie – e questo l’aspetto più preoccupante – anche dei « gruppi sociali più poveri ed esclusi dalla politica di diffusione della proprietà».
3.
Trovo condivisibile anche l’opinione di De Nicola che nessun « governo moderato di centro» possa arginare quello che egli chiama « ciclo politico reazionario».
Dice bene: « In Italia l’evento che ha mostrato l’esistenza di una convergenza reazionaria tra l’”alto” e il “basso” è stato soprattutto il caso delle Ong inaugurato dalle dichiarazioni dell’onorevole Luigi Di Maio e rimbalzato nei commenti della rete. Con il dibattito sulle Ong è emersa, per la prima volta in tutta la sua evidenza, una sorta di ragionevole e socialmente diffusa disponibilità ad accettare la morte e la negazione del diritto di esistenza per migliaia di persone che lottavano per la sopravvivenza. Questo “salto”, non sarebbe stato possibile senza la trasformazione istituzionale di questi enunciati micro-fascisti in un ordine del discorso “ufficiale” e fatto proprio dagli apparati dello stato. L’impegno del ministro degli Interni Marco Minniti si è del resto appoggiato ad una trasformazione delle politiche dei confini già ampiamente testata a livello europeo.». ( E devo ricordare che proprio sul ruolo di Minniti e del PD per bloccare il flusso di migranti dalla Libia devastata dalla guerra per bande dopo la eliminazione di Gheddafi abbiamo litigato nella discussione di Poliscritture: si vedano i commenti al link già indicato).
4.
A me, che negli ultimi tempi ho contrastato la lettura frettolosa e ideologica di un “ritorno del fascismo” che potrebbe essere contrastato facilmente o con la legge Fiano o appellandosi a Minniti e alla Costituzione antifascista oppure con l’”antifascismo militante” che come quello istituzionale non coglie il legame complesso tra i fenomeni neofascisti e il liberismo (capitalistico) e che ho varie riserve sul “populismo di sinistra” (e anche sulla lista di “Potere al Popolo”), pare anche realistico quanto De Nicola dice sull’attuale assenza di forze organizzate capaci di fronteggiare tale «ciclo politico reazionario»:
« Sarà bene prendere atto che non c’è più alcun popolo né alcuna tensione unitaria da invocare: “99 contro 1%” è la formula efficace di un’epoca passata. Una politica trasformativa dovrebbe invece prendere atto dell’esistenza di questa divisione rendendola massimamente visibile e lavorando ad assemblaggi sociali alternativi.
La percezione diffusa di accerchiamento che ci si ritrova a vivere in questi ultimi mesi non deriva affatto dalla pervasività di questa tendenza, ma dalla mancanza di forme discorsive e modelli antropologici adeguati a quella parte della società che resiste alla torsione reazionaria. L’immaginazione politica dovrebbe ripartire da qui, da nuove forme di appropriazione comune capaci di rompere la paranoia proprietaria.»
Resto per scettico sulla sua proposta finale per me generica :«Se il fascismo è il rovescio della soppressione sistematica delle alternative di vita, non ci sono “fronti” popolari, democratici o costituzionali che reggano, né l’antifascismo militante potrà da solo invertire la rotta: c’è il bisogno di reinventare dei movimenti di massa in grado di politicizzare la vita».
Coma la politicizziamo ‘ sta vita?
L’Italia nel ciclo politico reazionario
di Alberto De Nicola
14 febbraio 2018
https://www.dinamopress.it/news/litalia-nel-ciclo-politico-reazionario/
Il cosiddetto «blocco di Visegrad» nella parte orientale del continente europeo si presenta da questo punto di vista come una polarità attrattiva: nonostante siamo stati abituati a pensare, dopo l’89, che l’ovest era l’inevitabile destino dell’est, dovremmo cominciare a prendere in considerazione la possibilità che la tendenza si stia invertendo.
il ciclo trae origine dal fallimento dei movimenti moltitudinari e democratici che raggiunsero la loro massima intensità nel 2011 ma non riuscirono a far corrispondere alla loro espansione una differente configurazione politica europea; in Italia, dalla sconfitta delle mobilitazioni studentesche del 2008-2010 e del movimento dei “beni comuni” che aveva segnato un punto di svolta con la vittoria del referendum per l“acqua pubblica” nel 2011. Ma se proprio si dovesse individuare lo spartiacque che segna il passaggio, questo bisognerebbe cercarlo in due eventi accorsi nell’anno 2015. Il primo è la débâcle greca, quando l’Unione Europea, con una specie di atto di guerra in tempi di pace, costrinse alla disonorevole capitolazione il tentativo di rinegoziazione del debito della Grecia sostenuto dalla maggioranza della popolazione. Il secondo è quella che viene impropriamente denominata “crisi dei rifugiati”: nonostante la moltiplicazione di esperienze di solidarietà attiva della popolazione, a quella crisi seguirono un insieme di misure dell’UE volte al rafforzamento dei confini e all’esternalizzazione delle frontiere. Questi due fatti hanno aperto la strada alla ri-nazionalizzazione aggressiva delle politiche comunitarie: da quel momento in poi, il “nazionalismo” si è presentato come un’opzione profittevole per le classi dirigenti e l’unico lemma disponibile nel vocabolario dei subalterni.
In un saggio del 1993 intitolato “Tesi sul nuovo fascismo europeo”, il Collettivo Luogo Comune con straordinario anticipo sui tempi aveva posto l’attenzione sulle caratteristiche specificamente post-fordiste del nuovo fascismo. Differentemente da quello degli anni Venti e Trenta, nel quale militarizzazione del lavoro salariato, corporativismo e iperstatalismo avevano anticipato, nel contesto europeo e in forma autoritaria, la diffusione del modello fordista-keynesiano, quello attuale sembra invece registrare il disallineamento crescente tra stato, mercato e società. Questa nuova natura la si potrebbe vedere nel trattamento ambiguo che la torsione autoritaria intrattiene con tutto ciò che è “informale”, sub-legale e sommerso. Le nostre città sono divenute il teatro di un doppio processo, solo apparentemente contraddittorio: mentre da una parte imperversa una guerra senza quartiere contro le forme di vita e le economie informali dei poveri (quando queste esprimono forme di sopravvivenza e socialità alternative a quelle del mercato e dello stato); dall’altra parte assistiamo alla legittimazione crescente di quelle forme di mobilitazione della “società civile” che puntano alla moralizzazione e securitizzazione della vita e dello spazio pubblico. Assieme a questo, assistiamo sotto i nostri occhi alla creazione e alla tolleranza di zone di abbandono controllate, caratterizzate da una raffinata gestione degli illegalismi criminali.
Secondo un’idea particolarmente diffusa, la cosiddetta fascistizzazione del corpo sociale sarebbe da interpretare come l’estrema conseguenza dell’impoverimento economico innescato dalla crisi. La logica è tanto ferrea quanto lineare: questo spingerebbe i poveri a un’inevitabile “guerra” con i propri simili, laddove la povertà porterebbe a galla una specie di loro “stato di natura”. Nonostante le concezioni “naturalistiche” e “antropologiche” della povertà contenute in questa logica appartengano al più tradizionale repertorio delle scienze sociali reazionarie, questa teoria implicita è straordinariamente diventata senso comune anche presso gli ambienti di sinistra. Sempre più spesso si va a cercare nella “lotta per la sopravvivenza” degli ultimi – o, con maggiore raffinatezza, dei penultimi contro gli ultimi – la “questione sociale” che si nasconde dietro l’adesione di parti crescenti della popolazione ai valori microfascisti: il fascismo sembra essere divenuto il destino dei poveri tanto quanto la deprivazione materiale ne sarebbe la misura.
il microfascismo non è l’effetto lineare della crisi della riproduzione sociale, ma il contraccolpo di un altro processo, la “democratizzazione” della proprietà privata. Spesso il neoliberalismo viene strettamente identificato con la figura dell’”imprenditore di sé”, ci si dimentica invece l’altro immancabile polo, l’affermazione dell’”uomo proprietario”. Dalla Thatcher in poi, in Europa, la diffusione del neoliberalismo si è associata al grande progetto di estendere a tutte le classi sociali l’accesso alla proprietà privata e a tutti gli ambiti della vita la logica patrimoniale: la “popolarizzazione” della proprietà è stata al tempo stesso il potente mezzo per de-proletarizzare il corpo sociale e la contromossa attraverso la quale i neoliberisti hanno accompagnato la progressiva distruzione di un’altra forma di proprietà incarnata dai sistemi di Welfare moderni (quella che Robert Castel chiamava “proprietà sociale”).
Più che una “perversa” lotta per la sopravvivenza, gli enunciati microfascisti sono l’espressione di un delirio proprietario che trasforma relazioni sociali e i beni in “oggetti” privati da preservare e difendere (le “nostre donne”, i “nostri figli”, il “nostro territorio”…). Le moltiplicazione delle ”identità” non è altro che l’espressione culturale di un regime di proprietà.
quello che ne forgia gli enunciati – non è affatto l’”escluso” o il “penultimo”, ma quella che Alberto Prunetti ha efficacemente chiamato Lumpen-borghesia, ovvero quel ceto arricchitosi a partire dagli anni Ottanta e Novanta nel capitalismo “molecolare” e rimasto escluso dalla nuova accumulazione di ricchezza seguita alla crisi del 2007. In Italia, il ruolo della Lega, con le trasformazioni interne al suo discorso politico e sociale, è da questo punto di vista esemplificativo. Sempre da questa angolazione, si dovrebbe quindi vedere il crescente consenso che l’ordine del discorso reazionario riscontra sui gruppi sociali più poveri ed esclusi dalla politica di diffusione della proprietà, come l’effetto di un assemblaggio sociale, o se si preferisce dirla in termini gramsciani, come la formazione di un “blocco storico” specifico. Presto o tardi, vedremo tutta l’instabilità di questo consenso, laddove i discorsi che vengono ora testati sulla popolazione migrante, saranno estesi anche alla plebe autoctona.
Pensare che il ciclo politico reazionario possa essere arginato, frenato o contenuto da una qualche soluzione di governo moderato di centro, rischia di sottostimare il carattere sistemico della tendenza in atto. Sistemico qui però non vuol dire “storicamente necessario”, quanto piuttosto “politicamente adeguato alla situazione presente”. In altre parole, si tende a sottovalutare l’intensità raggiunta dalla crisi di egemonia delle élite neoliberali, e la radicalità delle contromosse che queste stesse élite sono disposte ad adottare per tentare di porvi un qualche argine.
In Italia l’evento che ha mostrato l’esistenza di una convergenza reazionaria tra l’”alto” e il “basso” è stato soprattutto il caso delle Ong inaugurato dalle dichiarazioni dell’onorevole Luigi Di Maio e rimbalzato nei commenti della rete. Con il dibattito sulle Ong è emersa, per la prima volta in tutta la sua evidenza, una sorta di ragionevole e socialmente diffusa disponibilità ad accettare la morte e la negazione del diritto di esistenza per migliaia di persone che lottavano per la sopravvivenza. Questo “salto”, non sarebbe stato possibile senza la trasformazione istituzionale di questi enunciati micro-fascisti in un ordine del discorso “ufficiale” e fatto proprio dagli apparati dello stato. L’impegno del ministro degli Interni Marco Minniti si è del resto appoggiato ad una trasformazione delle politiche dei confini già ampiamente testata a livello europeo. Quello delle Ong è però solo il primo capitolo di un mutamento che con Macerata, e soprattutto con il dibattito assolutorio che ne è seguito, ha mostrato tutta la sua evidenza. La questione riguarda solo lateralmente un fenomeno politico come Salvini. Il problema primario riguarda il posizionamento dei soggetti di tradizione liberale e socialdemocratica. Bisogna poter dire che una parte significativa dell’élite dirigente e dei maggiori gruppi editoriali del nostro paese è disposta ad accettare dosi misurate e controllate di “guerra civile” pur di recuperare la “crisi di legittimità” a cui è esposta. Questa disponibilità è molto più di una affannosa rincorsa verso un presunto “senso comune popolare”, né un mero calcolo di natura elettoralistica: è la possibilità di riordinare i rapporti sociali attraverso una linea di forza generale.
Sarà bene prendere atto che non c’è più alcun popolo né alcuna tensione unitaria da invocare: “99 contro 1%” è la formula efficace di un’epoca passata. Una politica trasformativa dovrebbe invece prendere atto dell’esistenza di questa divisione rendendola massimamente visibile e lavorando ad assemblaggi sociali alternativi.
La percezione diffusa di accerchiamento che ci si ritrova a vivere in questi ultimi mesi non deriva affatto dalla pervasività di questa tendenza, ma dalla mancanza di forme discorsive e modelli antropologici adeguati a quella parte della società che resiste alla torsione reazionaria. L’immaginazione politica dovrebbe ripartire da qui, da nuove forme di appropriazione comune capaci di rompere la paranoia proprietaria.
Se il fascismo è il rovescio della soppressione sistematica delle alternative di vita, non ci sono “fronti” popolari, democratici o costituzionali che reggano, né l’antifascismo militante potrà da solo invertire la rotta: c’è il bisogno di reinventare dei movimenti di massa in grado di politicizzare la vita
Caro Ennio, tento di rispondere in modo estremamente sintetico alla tua domanda: « Come la politicizziamo ‘ sta vita?». In realtà una risposta è già implicita nella riga finale dell’articolo che stiamo discutendo: nessuno riesce a politicizzare alcunché se non collettivamente. «C’è bisogno di reinventare movimenti di massa» scrive De Nicola in chiusura, un poco frettolosamente e in maniera inesatta. Mi spiego: in base a quello che io osservo nella nostra attualità, i movimenti di liberazione collettiva non c’è bisogno di inventarli perché sono già presenti, e alcuni sono anche di massa. Mi riferisco per esempio a Black Lives Matter negli USA e al movimento femminista globale Ni Una Menos, che conosco bene perché vi partecipo. Proprio dal movimento italiano Non Una di Meno prendo un esempio luminoso di politicizzazione della vita. Qui il tema biopolitico della «vita intera messa al lavoro» nell’organizzazione capitalistica contemporanea sembra essere sfuggito dai dibattiti fra foucaultiani ed è diventato l’ordine del giorno delle lotte. Senti queste frasi, sono tratte da un volantino per il prossimo 8 marzo: : «Contro lo sfruttamento sul lavoro, la precarietà, il lavoro come ricatto per il permesso di soggiorno, la disparità dei salari e per il reddito di autodeterminazione. Sciopera! Sulle donne e le soggettività femminilizzate sta tutto il carico della cura e della riproduzione sociale. [Questo lavoro] non è MAI pagato, crea gerarchie violente nell’ambito familiare e oltre. Sciopera! Il lavoro riproduttivo è salariato e si svolge in condizioni precarie e di sfruttamento (la badante). Non è salariato quando è considerato un lavoro “naturale” a carico esclusivo delle donne (la mamma). Sciopera! Riprodurre i generi M e F è un lavoro! Riprodurre e performare i ruoli di genere è un lavoro! Sciopera!». Questi slogan sono la riduzione in pillole di un importante documento teorico-politico, frutto di elaborazione collettiva, che questo movimento femminista ha posto a suo fondamento (https://nonunadimeno.files.wordpress.com/2017/11/abbiamo_un_piano.pdf).Per discorrerne a ragion veduta, bisognerebbe leggerlo per intero, però anche da queste pillole emerge chiarissimo l’intreccio – le intersezioni – che questo movimento è stato capace di portare alla ribalta, fra critica dell’economia politica e analisi delle soggettività femminili e femminilizzate, senza peraltro chiudersi in un rigido separatismo.
Oltre al movimento femminista, io seguo con molta attenzione gruppi e movimenti che non ancora hanno assunto proporzioni di massa, ma sono in ascesa e si pongono nei luoghi nevralgici della produzione contemporanea (la logistica, la gig-economy). E poi ci sono anche gli artisti, gli addetti all’immaginario, che si ritrovano intorno al MAAM di Roma e inondano di arte i luoghi reali della vita e della resistenza… Ho scoperto con vera gioia che questi molti gruppi di movimento comunicano fra di loro e si scambiano pratiche e attrezzi teorici.
La lieve inesattezza di De Nicola (i movimenti non esistono e vanno inventati), non mi sembra priva di ironia involontaria: il suo articolo è apparso proprio su uno dei migliori siti di informazione «di movimento», cioè quei siti che rendono conto della vivacità di tutto ciò che oggi si muove, si oppone, elabora «forme discorsive e modelli antropologici adeguati a quella parte della società che resiste alla torsione reazionaria.»
Non vorrei sembrarti stupidamente entusiasta, Ennio. Ma penso che queste realtà meritino molta attenzione.
…Marisa Salabelle sa sempre essere vivace nella sua scrittura e spezzare luoghi comuni e pregiudizi…Nel finale del suo articolo in particolare, quando riferisce alcuni pensieri correnti sui neri, a volte di inconsapevole razzismo, che è ancora peggio: “… quelli sono neri…fa scandalo il povero che si permette certe cose, che razza di povero è? …povero, che lo sia fino in fondo, e che non gli salti in mente di essere allegro, sano,e magari piu’ bello di tanti italiani tristi visi pallidi” Puo’ essere oggetto di un aiuto caritatevole, ma non di ammirazione e,tanto meno, di invidia…Cosi’ sembra evidente che esista una forma di apartheid interiore per cui nella nostra società i neri sarebbero esclusi dalle piscine, ma anche dalla scienza, se si pensa all’episodio della donna che, al pronto soccorso, si è rifiutata di accettare le cure di un medico di colore, come di una presenza egualitaria nella letteratura, infatti, per esempio, diamo per scontato che i personaggi dei romanzi siano bianchi, mentre occorre sempre esplicitarlo se di altre etnie ( giusta osservazione di uno scrittore americano)…Una mente che seleziona…il “delirio proprieterio” piu’ capillare ed escludente
La gente, e per gente intendo tutti quanti, si comporta come pensasse che gli immigrati staranno qui per un po’, finche dura la crisi continentale e il problema prima o poi si risolverà. Ma non è così: se si cominciasse a pensare che, chi più e chi meno, GLI IMMIGRATI STARANNO QUI PER SEMPRE ( !!! ) allora, in merito alla questione emigranti, quella di fascismo e dell’antifascismo sarebbe una discussione inutile. Il problema è che oggi nessun politico sa ragionare in prospettiva, tutti stanno sulla soglia del presente e più in là di così non sanno vedere. Ieri, parlando con un componente della giunta comunale del paese dove adesso abito, dissi che si dovrebbero organizzare delle occasioni di incontro tra ragazzi immigrati, tutti di colore, e la popolazione mugugnante ( qui sì, c’è pericolo di KKK da sempre); si parlino, perché va detto che questi ragazzi STARANNO QUI PER SEMPRE; quindi bisogna incominciare a ragionare diversamente: che vogliamo fare, li vogliamo bruciare? No? Allora cominciamo almeno a conoscerci, che in fondo questi ragazzi portano anche ricchezza di altre tradizioni e cultura… Servirà come minimo un cambio di generazione e anche più ( è stato così anche per paesi che l’immigrazione l’hanno avuta da più di un secolo, e ancora stanno baruffando).
Quindi penso che la questione fascismo anti-fascismo sia fuori luogo, nel senso che è deviante del problema di fondo. I nazi si battono anche usando l’intelligenza, non solo con gli ideali.
Concludo con una annotazione di giornata, che non c’entra ma riguarda i lavoratori dell’Embrago: ma vogliamo finirla di scampanellare per le strade gridando “lavoro lavoro” ?! perché non occuparla ‘sta fabbrica, che non esca neppure un quaderno finché la faccenda non si sistema? Vuoi vedere che allora in Europa si comincerà a ragionare diversamente? ‘sti operai vanno in televisione e mandano delegazioni in Europa a piangere… Che cazz… occupala ‘sta fabbrica! D’accordo, prima si tenteranno trattativa ma poi NO. Si vedrà allora se abbiamo davvero una sinistra in Italia e da che parte stanno per davvero quelli che stiamo per votare.
Lucio, non esiste più una cultura di lotta che prevede l’occupazione o la resistenza attiva ( come quella dei NO TAV in Val di Susa).
A Cologno Monzese, quando nel Comitato 16 marzo, contro la chiusura della Scuola d’italiano per stranieri, ho proposto di occupare la palazzina in cui aveva sede la Scuola, hanno sbarrato gli occhi ( vecchi e giovani, gente legata ai partiti e gente “di movimento”.
“Non si fanno più queste cose!- mi ha detto qualcuno guardandomi con compatimento come i nostri avi guardavano i garibaldini sopravvissuti nell’ Italia unificata dai Savoia.
Eppure è una cosa logica, prima ancora che giusta: altrimenti con quale forza vai in Europa a trattare di questioni di equilibrio di mercato, disparità di trattamento nei contratti di lavoro europei? Non solo occupazione: in caso di fallimento della trattativa bisogna anche 1- farsi ridare i soldi che l’azienda ha ricevuto per stare in Italia, 2 – mettere l’embargo sui loro prodotti in Italia. Voglio vedere se ancora gli conviene!
Non è solo perché “queste cose non si fanno più”, dovevi dirglielo che STARANNO QUI PER SEMPRE, PER SEMPRE! E’ come se ti capita in famiglia un orfano e te lo devi tenere: che fai, lo lasci a marcire sul balcone? No, farai due conti poi lo mandi a scuola o a lavorare… poi saranno affari suoi, ma intanto qualcosa bisogna fare. Invece stanno nei villaggi a ciondolare e nessuno che li saluti. E ci si mettono anche le teste bucate della destra…
Non è detto che i migranti che affollano CAS e SPRAR intendano stare qui per sempre: molti di loro vorrebbero andarsene dall’Italia, solo che non gli è permesso dalle regole complicate e assurde italiane e europee. Non è neanche vero che niente venga fatto per permettere loro l’inserimento: per esempio ci sono corsi di italiano e a volte anche corsi professionali. Il fatto è che manca una vera visione strategica, orientata a un mondo, a un’Europa che sarà comunque, che si voglia o che non si voglia, sempre più meticcia. L’immigrazione non è un’emergenza, ovvero, ci sono anche circostanze emergenziali, ma c’è comunque un trend di fondo che è destinato a durare, un fenomeno di grande portata che sicuramente comporta dei problemi ma anche delle opportunità. L’Europa si è arroccata nel suo fortino e ha adottato comportamenti vergognosi, spersonalizzando e “cosificando” i migranti, al punto che si può disinvoltamente accettare che vengano chiusi in lager e campi di prigionia (Grecia, Turchia, Libia) o che si accampino sulle scogliere (Ventimiglia, Calais): perché non sono più persone, sono solo “clandestini”. In questo è visibile l’analogia col nazismo: quando l’altro è “non persona” si può tollerare che gli accada qualsiasi cosa.
DA POLISCRITTURE FB A POLISCRITTURE SITO
*La migliore riflessione sul fenomeno. La riporto ancora…[e. a.]
SEGNALAZIONE
(Dalla bacheca su FB di Franco Calamida)
Il fenomeno migratorio quale banco di prova di tutti i valori della civiltà occidentale
di Luigi Ferrajoli
http://www.lasinistrainzona.it/index.php?option=com_content&task=view&id=1485&Itemid=70
1.
Qualunque politica razionale in materia di immigrazione dovrebbe muovere dal riconoscimento di un dato di fatto irreversibile: il fenomeno migratorio non è un’emergenza, ma un fatto strutturale e inarrestabile, che coinvolge ormai centinaia di milioni di persone, è in crescita costante ed è destinato a svilupparsi indefinitamente. Attualmente, secondo i dati relativi alla fine del 2015, i migranti nel mondo sono 244 milioni (il 41% in più rispetto al 2000). In Italia sono 5.800.000, cioè il 10% della popolazione (il doppio rispetto al 2000); in Germania sono ben 12 milioni e 9 milioni nel Regno Unito. In Europa sono 76 milioni (erano 56 milioni nel 2000) e negli Stati Uniti sono 47 milioni.
Ovviamente queste cifre sono destinate ad aumentare. Sì capisce perciò che se prevarranno le attuali politiche di esclusione, non certo in grado di limitare il fenomeno ma solo di clandestinizzarlo e drammatizzarlo, l’Occidente rischia il crollo della sua identità. L’Europa, in particolare, non sarà più l’Europa civile dei diritti, della solidarietà, dello Stato sociale inclusivo, delle garanzie dell’uguaglianza e della dignità delle persone, bensì l’Europa dei muri, dei fili spinati, delle disuguaglianze per nascita e dei conflitti razziali.
2.
C’è poi un’altra ragione specifica che fa della questione immigrazione e della scelta dì campo in favore dei diritti dei migranti una questione assolutamente centrale per qualunque organizzazione sindacale che assuma il lavoro come valore e il rispetto e la tutela dei diritti dei lavoratori migranti come tutt’uno con la propria ragion d’essere. Essa consiste nel fatto che i migranti, sempre più numerosi, sono oggi i lavoratori più deboli sul mercato del lavoro: i più oppressi, i più discriminati, più di quanto sia mai avvenuto in passato. Certamente il fenomeno dell’immigrazione non è nuovo. Sempre le diverse generazioni della classe operaia sono state formate e alimentate da altrettante generazioni di migranti. Sempre il proletariato è stato formato dai diversi flussi migratori: dall’emigrazione dalle campagne alle città nell’Inghilterra del Settecento e del primo Ottocento; dall’emigrazione irlandese e italiana negli Stati Uniti, tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento; da quella dal Sud al Nord dell’Italia nel nostro secondo dopoguerra. Sempre i nuovi venuti sono stati oggetto di discriminazioni, di soprusi e di sfruttamento e messi in concorrenza con il vecchio proletariato, volta a volta mobilitato contro di loro da spinte e sentimenti xenofobi e razzisti. Ma oggi la novità della messa fuori legge, della clandestinizzazione e della penalizzazione dell’immigrazione irregolare rischia di compromettere ben più radicalmente l’identità democratica dei nostri paesi. Si è creata una nuova, assurda figura sociale dalla quale questa identità è vistosamente contraddetta: quella della persona illegale fuori legge solo perché tale, priva di diritti perché giuridicamente invisibile e perciò esposta a qualunque tipo di vessazione, destinata a identificare un nuovo proletariato discriminato giuridicamente e non più solo, come i vecchi immigrati, economicamente e socialmente.
3.
le politiche e le leggi italiane ed europee contro l’immigrazione ignorano totalmente sia il carattere strutturale e inarrestabile del fenomeno migratorio, sia la loro contraddizione con i valori, primo tra tutti il lavoro, su cui si fonda la nostra democrazia costituzionale. Queste leggi si basano su una discriminazione per ragioni di identità: sull’esclusione dei migranti come persone di per sé ontologicamente illegali, fuori legge, non-persone (Dai Lago 1999). E valgono perciò a confortare, ad assecondare e a fomentare, per l’interazione che sempre sussiste tra diritto e senso comune, gli umori xenofobi e il razzismo endemico presenti nell’elettorato dei nostri paesi.
4.
C’è infatti un nesso biunivoco tra integrazione e uguaglianza giuridica e, inversamente, tra disuguaglianza nei diritti e percezione di chi non ha diritti come disuguale e inferiore. È sempre stato così: nei rapporti dì classe tra padroni e operai, nei rapporti di genere tra uomini e donne, nei rapporti tra cittadini e stranieri immigrati. Sempre, ieri l’inferiorità della donna e del proletario, oggi l’inferiorità dell’immigrato, sono state legittimate e insieme assunte a giustificazione e a fondamento della mancanza di diritti. Si è trattato di una legittimazione incrociata: dell’idea dei soggetti più deboli come inferiori a opera della disuguaglianza giuridica, e della disuguaglianza giuridica a opera della percezione razzista o classista o maschilista dei soggetti più deboli come inferiori. Come l’uguaglianza e la comunanza nei diritti sono un fattore di educazione civile, sollecitando la percezione del diverso come uguale, cosi la disuguaglianza giuridica genera l’immagine dell’altro come inferiore naturalmente perché inferiore giuridicamente.
5.
È un circolo vizioso. Proprio perché sfornito di diritti, l’immigrato viene avvertito come antropologicamente disuguale. E questa percezione razzista, a sua volta, vale a legittimarne la discriminazione nei diritti. Quanto maggiore è l’emarginazione sociale prodotta dalla discriminazione giuridica, tanto maggiore è la sollecitazione di leggi razziste dirette a promuovere il consenso, non già benché razziste ma precisamente perché razziste. Fomentare a livello sociale la rivolta contro i migranti è del resto una sperimentata strategia di cattura del consenso: la strategia populista, convergente con gli interessi e con le politiche liberiste, consistente nel ribaltare la direzione del conflitto sociale orientandolo non già verso l’alto ma verso il basso, non più quale lotta di classe di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma quale conflitto di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso.
6.
Questo conflitto velenoso contro i soggetti più deboli del consorzio sociale, alimentato dal razzismo istituzionale espresso dalle leggi contro l’immigrazione, è il riflesso di una nuova, radicale asimmetria tra «noi» e «loro» che vale a sostituire, nei processi di formazione delle identità collettive, le vecchie identità e soggettività di classe. Questa asimmetria, formalizzata da queste leggi, si manifesta nella difesa dei nostri tenori di vita, della nostra sicurezza e delle nostre incontaminate identità culturali anche a costo della morte di milioni di esseri umani, avvertiti come «diversi» e quindi nemici, o criminali o comunque inferiori. Ne risulta confermata la lucida diagnosi del razzismo formulata da Michel Foucault: ancor più che la causa, il razzismo è l’effetto delle oppressioni e delle violazioni istituzionali dei diritti umani; è la «condizione», scrisse Foucault (1998, p. 221), che consente «l’accettabilità della messa a morte» di una parte dell’umanità. Intanto, infatti, possiamo accettare che decine di migliaia di disperati vengano respinti ogni anno alle nostre frontiere, che vengano internati senza altra colpa che la loro fame e disperazione, che magari affondino nel tentativo di approdare nei nostri paradisi democratici, in quanto questa nostra accettazione sia sorretta dal razzismo.
7.
Questo ruolo del razzismo, del resto, ha una portata generale essendo il medesimo in qualunque altra discriminazione per ragioni di identità personale. Intanto possiamo tollerare che nei paesi poveri milioni di persone muoiano ogni anno per la mancanza dell’acqua o del cibo, o per malattie non curate, in quanto consideriamo tutti costoro come inferiori. Non a caso il razzismo è un fenomeno moderno, sviluppatosi dopo la conquista del «nuovo mondo», allorquando i rapporti con gli «altri» furono instaurati come rapporti di dominio e occorreva perciò giustificarli disumanizzando le vittime perché «diversi». Che è il medesimo riflesso circolare che ha in passato generato l’immagine sessista della donna e quella classista del proletario come soggetti inferiori, perché solo in questo modo se ne poteva giustificare l’oppressione e lo sfruttamento. Ricchezza, dominio e privilegio non si accontentano di prevaricare. Rivendicano anche una qualche legittimazione sostanziale.
8.
Questo razzismo si è sviluppato, in Italia come in molti altri paesi europei, su due livelli che meritano di essere analizzati separatamente: il livello della legislazione, in contrasto con la Costituzione repubblicana, e il livello dell’amministrazione e delle prassi, che è a un gradino ancora più basso di illegittimità, essendo in contrasto con la stessa legislazione ordinaria. Le leggi e le prassi espresse da queste politiche – dalla criminalizzazione della stessa condizione di immigrato irregolare alle centinaia di ordinanze e circolari persecutorie, fino ai centri di identificazione e di espulsione — compongono un cumulo di illegalità istituzionali che mina alla radice i fondamenti della nostra democrazia. Il loro scopo è mettere di fatto fuori legge l’immigrazione, condannarla alla clandestinità e perciò privare i clandestini di ogni diritto ed esporli a ogni forma di oppressione e di sfruttamento. I loro tragici effetti sono le migliaia di persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le nostre coste, vittime della disumanità del nostro governo, immemore della lunga e dolorosa tradizione di emigrazione del nostro paese.
9.
A livello legislativo si è prodotta la rottura più vistosa: il diritto di emigrare, che fino a quando servì a giustificare le colonizzazioni fu teorizzato dalla cultura occidentale, come vedremo più oltre, come un fondamentale principio del diritto internazionale, si è capovolto nel suo contrario, essendo stato il suo esercizio, in Italia, tramutato in reato dalla legge n. 94 del 2 luglio 2009. È stato questo il punto più basso della storia istituzionale della nostra Repubblica. La criminalizzazione degli immigrati clandestini e la creazione della figura della «persona illegale» hanno segnato un salto di qualità nella politica di esclusione e provocato un gravissimo mutamento di paradigma del diritto penale. Con questa legge — sicuramente la più indegna della storia della Repubblica – per la prima volta dopo le leggi razziali del 1938 è stato penalizzato, con l’introduzione del reato di immigrazione, non un fatto ma uno status, quello appunto di immigrato clandestino, in violazione di tutti i principi basilari dello Stato di diritto in materia penale: in primo luogo del principio di legalità, in forza del quale si può essere puniti solo per ciò che si è fatto e non per ciò che si è, per fatti illeciti e non per la propria identità; in secondo luogo il principio di uguaglianza, che esclude ogni discriminazione «di condizioni personali e sociali» e quello della (uguale) dignità delle persone; infine i princìpi di offensività e di colpevolezza, dato che la mancanza o anche la perdita del permesso di soggiorno a seguito, per esempio, del licenziamento non è affatto un comportamento dannoso e meno che mai è ascrivibile alla responsabilità dell’immigrato, la cui sola colpa è di essere uno straniero irregolarmente residente in Italia.
10.
Non solo. È stata affidata la competenza per questo reato ai giudici di pace: per diffidenza verso i giudici togati, o peggio perché questa materia, che investe la vita e la dignità delle persone e i loro diritti fondamentali, è stata considerata di secondaria importanza. È stata prevista, per chiunque a titolo oneroso dia alloggio a uno straniero che sia privo di titolo di soggiorno al momento della stipulazione del contratto di locazione, la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e la confisca dell’immobile, così condannando gli immigrati a non avere un tetto. È stato allungato da 2 a 6 mesi il tempo di permanenza dei clandestini nei centri di identificazione ed espulsione, i cosiddetti Cie. Infine le norme apertamente razziste di triste memoria nel nostro paese: dal divieto dei matrimoni misti, se l’immigrato non ha un permesso regolare, agli ostacoli per le rimesse di denaro alle famiglie, fino al divieto – ed è la norma più odiosa – per i privi di permesso di soggiorno di iscrivere i figli all’anagrafe; con il pericolo che questi, non essendo riconosciuti, possano essere dati in adozione e sottratti alle loro madri, la cui sola alternativa sarà il parto clandestino e la clandestinità dei loro figli.
11.
La cosa più sconfortante è che queste leggi razziste non sono bastate a soddisfare le pulsioni razziste presenti nella società e nella pubblica amministrazione. Sono state violate, dalle prassi amministrative, anche queste leggi, pur crudelmente discriminatorie, a opera di un fitto sottobosco normativo e persecutorio, fatto da un lato dalle circolari del ministro dell’interno e, dall’altro, dai cosiddetti «patti territoriali per la sicurezza» e dalle centinaia di ordinanze emesse dai sindaci, soprattutto nei Comuni governati dalla Lega
12.
La vita di un essere umano viene così travolta dall’assenza di un timbro o di altre banali e di solito inutili formalità e affidata all’incertezza e all’arbitrio. Ovviamente tutte queste misure sono in via di principio suscettibili di impugnazione, per violazione di legge, davanti alla giurisdizione amministrativa. Ma è chiaro che l’immigrato — per ignoranza, per il costo del contenzioso o anche solo per i tempi ristretti imposti dalle scadenze — non è certo in grado di far valere i suoi diritti violati.
13.
ultimo, dolente capitolo: quello dei «centri di accoglienza» istituiti dalla legge Turco-Napolitano n. 40 del 1998 e giustamente ribattezzati «centri di identificazione e di espulsione» dalla legge n. 125 del 2008. Questi centri, nei quali gli immigrati possono oggi essere reclusi fino a tre mesi, sono luoghi di detenzione e segregazione di persone che non hanno fatto nulla di male, ma che vengono private di qualunque diritto, senza neppure le garanzie che caratterizzano la stessa pena della reclusione carceraria, a cominciare dal ruolo di controllo svolto dalla Magistratura di sorveglianza e, prima ancora, dalla garanzia all’habeas corpus stabilita dall’art. 13 della nostra Costituzione sulla competenza dell’autorità giudiziaria in ordine a qualunque limitazione della libertà personale. Ogni possibile abuso o vessazione che in essi si verifica resta perciò fuori dalla visibilità e dal controllo giurisdizionale.
14.
Tutte queste norme – come per esempio quelle che si preoccupano di impedire i ricongiungimenti familiari, o che accrescono gli anni richiesti per ottenere la carta di soggiorno, o che aggravano le complicazioni burocratiche per il rinnovo del permesso, o che disciplinano le espulsioni senza prevedere il contraddittorio e quindi senza riguardo per le ragioni dell’immigrato – non sono solo espressione di sadismo legislativo. Esse esprimono l’immagine dell’immigrato come «cosa», non-persona, il cui solo valore è quello di mano d’opera a basso costo per lavori troppo faticosi o pericolosi o umilianti: una risorsa, dunque, per l’economia nazionale, un ottimo affare per gli imprenditori, un risparmio nei costi della formazione della forza lavoro — tutto, fuorché un essere umano, titolare di diritti al pari dei cittadini.
15.
Le campagne contro gli immigrati si intrecciano così con quelle sulla sicurezza, assecondandole ed essendone assecondate, insieme ai pregiudizi e a luoghi comuni che le une e le altre, facendo leva sulla paura, valgono a rafforzare. Ne risulta un immaginario razzista, che vede negli immigrati dei potenziali criminali, dei nuovi barbari e, insieme, una minaccia alla nostra cosiddetta identità culturale e nazionale. La costruzione di questo immaginario, peraltro, non corrisponde solo a un pregiudizio razzista. Serve anche a costruire identità nemiche; a mobilitare l’opinione pubblica, soprattutto quella dei soggetti più deboli, nei confronti di soggetti ancor più deboli; a cambiare il senso comune intorno alla devianza e al diritto penale, sollecitando l’allarme sociale non già contro i delitti dei potenti – le corruzioni, i peculati, le grandi bancarotte, le devastazioni dell’ambiente – bensì contro il piccolo spaccio di droga, gli scippi, i furti e in generale i delitti di strada commessi da immigrati irregolari, che non a caso riempiono le cronache televisive non meno delle carceri.
16.
Ebbene, dobbiamo essere consapevoli che le politiche e le leggi prodotte da questo razzismo istituzionale possono solo aggravare tutti i problemi che si illudono di risolvere. Mentre non saranno mai in grado di fermare l’immigrazione, avranno come unico effetto l’aumento esponenziale del numero dei clandestini e della loro emarginazione sociale, inevitabilmente criminogena: spingendo gli immigrati nell’illegalità, esse le consegnano al controllo delle mafie, accentuando disuguaglianze ed esclusioni e, con esse, l’odio e la rivolta del resto del mondo nei confronti dell’Occidente, con l’inevitabile seguito di violenze e terrorismo. È infatti evidente che la condizione di debolezza e di inferiorità degli immigrati, tanto più se clandestini, finisce inevitabilmente – come insegna l’esperienza di tutti i fenomeni migratori, primo tra tutti l’emigrazione italiana negli Stati Uniti nella prima metà del secolo scorso — per spingerli nell’illegalità, alla ricerca della solidarietà e della protezione di altri immigrati, soprattutto connazionali, e di consegnarli, magari, al controllo delle mafie. Sempre, infatti, le politiche di esclusione e repressione anziché di inclusione e integrazione equivalgono a potenti fattori criminogeni: giacché sempre, in società segnate come le nostre da disuguaglianze crescenti, quanti sono esclusi dalla società civile e legale sono esposti a essere inclusi e disposti a farsi includere nelle comunità incivili e criminali; da sempre le organizzazioni criminali e incivili sono a loro volta disposte a reclutare e a includere quanti sono esclusi e criminalizzati dalla società civile. Soprattutto, poi, trattare i migranti islamici come nemici equivale oggi a un regalo al terrorismo jihadista, che precisamente come «guerra santa» si autorappresenta e legittima i suoi assassini.
17.
Per comprendere in tutta la loro gravità gli effetti perversi di queste politiche di esclusione, primo tra tutti la corruzione del senso comune e la regressione razzista delle nostre identità nazionali, è utile andare indietro nel tempo, alla concezione originaria, agli inizi dell’età moderna, del fenomeno migratorio. Di solito l’idea delle frontiere chiuse viene ritenuta, nel senso comune, come l’espressione, ovvia e scontata, di un legittimo diritto dei paesi di immigrazione, una sorta di corollario della loro sovranità, concepita come qualcosa di analogo alla proprietà: «Questa è casa nostra», è l’idea corrente, «e non vogliamo, a tutela della nostra proprietà e della nostra identità, che vi entri nessun estraneo». Giova allora ricordare che questo senso comune xenofobo – che è il principale responsabile delle attuali politiche, dirette demagogicamente a interpretarlo, ad assecondarlo e, di fatto, ad alimentarlo – è in contraddizione vistosa non solo con tutti i conclamati principi della nostra tradizione liberale, dall’uguaglianza ai diritti umani e alla dignità della persona, ma anche con il più antico diritto naturale, oggi dimenticato e rimosso dalla nostra coscienza civile, ma proclamato alle origini della civiltà giuridica occidentale: lo ius migrandi, ossia il diritto, appunto di emigrare.
18.
È chiaro che questo diritto fu fin dall’inizio viziato dal suo carattere asimmetrico. Benché formalmente universale, era di fatto a uso esclusivo degli occidentali, non essendo certo esercitabile dalle popolazioni dei «nuovi» mondi, a danno delle quali, al contrario, servì a legittimare conquiste e colonizzazioni. Tuttavia lo ius migrandi – il diritto di emigrare dal proprio paese, e conseguentemente il correlativo diritto di immigrare in un paese diverso – è da allora rimasto un principio elementare del diritto internazionale consuetudinario, fino a essere consacrato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948: «Ogni individuo», stabilisce l’articolo 13, 2° comma della Dichiarazione, «ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese». E lo stesso principio è stato ripreso da quasi tutte le Costituzioni, inclusa quella italiana, che nell’art. 35, comma 4, stabilisce che: «La Repubblica riconosce la libertà di emigrazione».
19.
Quest’asimmetria, che di fatto faceva del diritto universale di emigrare un diritto dei soli occidentali a danno delle popolazioni dei nuovi mondi, si è oggi rovesciata. Dopo cinque secoli di colonizzazioni e rapine non sono più gli occidentali a emigrare nei paesi poveri del mondo, ma sono al contrario le masse di affamati di quei medesimi paesi che premono alle nostre frontiere. E con il rovesciamento dell’asimmetria si è prodotto anche un rovesciamento del diritto.
20.
Questa feroce durezza delle politiche italiane ed europee in tema di immigrazione sta producendo la perdita di identità dell’Europa: non più l’Europa dei diritti che fino a pochi anni fa costituiva un modello per i progressisti di tutto il mondo, ma un’Europa divisa, disuguale e depressa, debilitata politicamente e moralmente, avvertita come ostile da parti crescenti delle popolazioni, nuovamente in preda agli egoismi nazionali, ai populismi xenofobi, alle rivalità, alle recriminazioni, ai risentimenti, ai rancori, alle paure e alle diffidenze reciproche. L’Unione europea era nata per porre fine ai razzismi, alle discriminazioni e ai genocidi: non per dividere e per escludere, ma per unificare e includere sulla base dei comuni valori dell’uguaglianza, della solidarietà e dei diritti fondamentali di tutti. Oggi essa sta capovolgendo quel ruolo. Con le politiche inflessibili di austerità imposte ai suoi membri anche a costo della demolizione delle garanzie del lavoro e dei diritti sociali e con la cancellazione dell’ultimo e più rilevante tratto unificante dell’Unione rappresentato dalla libera circolazione delle persone nell’area Schengen, negata di fatto dai controlli blindati alle frontiere, l’Unione europea sta mettendo gli Stati membri gli uni contro gli altri e all’interno degli Stati i ricchi contro i poveri, i poveri contro i migranti, i penultimi contro gli ultimi. Sta moltiplicando, con le leggi contro l’immigrazione, le disuguaglianze di status, per nascita, tra cittadini optimo iure, semi-cittadini più o meno stabilmente regolarizzati e immigrati clandestini, ridotti allo status di persone illegali o non-persone. Sta, soprattutto, mettendo in atto una gigantesca omissione di soccorso e un nuovo genocidio, sia pure per omissione: quello dei migranti che fuggono dalle guerre, dal terrore e dalle loro città ridotte a cumuli di macerie, che in migliaia ogni anno affogano in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa e in centinaia di migliaia si affollano ai nostri confini contro barriere e fili spinati, lasciati al freddo e alla fame, dispersi e malmenati dalle nostre polizie.
21.
Ovviamente la prospettiva di un superamento delle frontiere e di un’effettiva universalizzazione dei diritti fondamentali può apparire oggi un’utopia. Ma nei tempi brevi ciò che si richiede è almeno la consapevolezza dell’illegittimità delle nostre pratiche di discriminazione e di espulsione sulla base dei nostri stessi principi e, insieme, della contraddizione nella quale si trova oggi, con i suoi principi, l’intera Europa, che dopo avere per secoli invaso il mondo con le sue conquiste e le sue colonizzazioni, sfruttando, depredando e producendo miseria e genocidi, oggi si chiude come una fortezza assediata, negando agli extra-occidentali quello ius migrandi che all’origine della modernità aveva impugnato contro di loro. D’altro canto, se è vero che l’effettiva universalizzazione dei diritti umani ha oggi il sapore di un utopia giuridica, dobbiamo anche riconoscere che la storia della civiltà è anche una storia di utopie (bene o male) realizzate.
22.
La vera opposizione non è perciò tra realismo e utopismo ma tra realismo dei tempi brevi e realismo dei tempi lunghi. Intendo dire che l’ipotesi più irrealistica è oggi che la realtà possa rimanere indefinitamente così com’è: che potremo continuare indefinitamente a basare le nostre ricche democrazie e i nostri agiati e spensierati tenori di vita sulla fame e la miseria del resto del mondo e che la disuguaglianza possa continuare a crescere indefinitamente. Tutto questo non può, realisticamente, durare. Benché irrealistico nei tempi brevi, il progetto di un costituzionalismo internazionale basato sull’uguaglianza di tutti gli esseri umani, già disegnato dalle tante carte sovranazionali dei diritti, rappresenta, nei tempi lunghi, la sola alternativa realistica al futuro di guerre, distruzioni ecologiche, fondamentalismi, razzismi, conflitti interetnici, attentati terroristici, crescita della fame e della miseria che proverrebbe dal suo fallimento.
23.
le migrazioni e il nomadismo crescente della popolazione mondiale — per migrazioni necessitate, ma anche per migrazioni non forzate – non potranno non ridisegnare gli spazi della politica e del diritto, disancorandoli dagli spazi nazionali ed espandendoli agli spazi transnazionali. E non potranno non porre all’ordine del giorno il problema politico della costituzionalizzazione della globalizzazione: che non può consistere nell’accettazione della globalizzazione soltanto dei mercati e dei capitali — in breve nell’odierna sostituzione alle sovranità degli Stati della sovranità anonima, impersonale e irresponsabile dei mercati finanziari — ma deve essere assunta nei tempi lunghi, e prefigurata fin da ora, come il terreno di una necessaria rifondazione della politica, del diritto e della democrazia sulla base dell’uguaglianza nei diritti di tutti gli esseri umani, a cominciare dal diritto di libera circolazione sul pianeta. Sotto questo aspetto possiamo ben dire che il popolo dei migranti è il soggetto costituente di un nuovo ordine mondiale e, al tempo stesso, dell’umanità come soggetto giuridico. Sarà il popolo meticcio dei migranti che forse produrrà un nuovo mutamento di paradigma della democrazia, basato sull’integrazione e sull’uguaglianza di tutti gli esseri umani: dalle democrazie nazionali alla democrazia sovranazionale e cosmopolitica. L’alternativa, dobbiamo saperlo, è un futuro di regressione globale, segnata dallo sviluppo della disuguaglianza – della povertà e della ricchezza – e, insieme, dalla crescita dei pericoli di catastrofi ecologiche, di guerre e di terrorismi.