di Rita Simonitto
Antefatto Sfilati tetti all’orizzonte come pensieri senza copertura e sulle inermi case il nibbio artigli tesi saettando plana. Presero il largo i testimoni, non cercano i morti rimembranze spauriti i vivi dalle evidenze inaspettate. Ora difficile nel torbido correre alle porte. E un vento amaro di genziane ad ogni angolo fischia novelle di riscatto per chi osa sperare ancora. E nuovamente ancora l’illusione sancirà che il tetto preceda i passi del caminante. Sui ruderi accoccolata tesse la realtà imprevedibili fili inaccettabili per chi ambisce alla pronta risposta. Da un cielo vuoto di domande calano nembi. E nel turbine tutto si confonde. (Rita Simonitto, 10 agosto 2023)
Dialogo surreale
Era già l’ora che volge il disio ai naviganti e ‘ntenerisce il core[1] e io me ne stavo in terrazzo, seduta, a contemplare il verde melograno dai bei vermigli fior[2] che per il secondo anno di fila si è ostinato a non fiorire e a non fruttificare, forse in linea con la decrescita delle nascite. Così ancora un anno è bruciato senza un lamento[3] e fra un po’ sarà autunno e le foglie cadranno. Pensieri che cercano di imbrigliare un futuro che si presenta privo di tensioni progettuali, non saprei dove aggrapparmi ma non voglio cedere … mi sembra di vivere in un sogno-incubo ed ecco irrompere un imperioso “toc, toc” giù all’uscio. Da quant’è che bussano? Non ci sono abituata. Ebbene sì: adesso si deve bussare poichè il maltempo di questi giorni ha fatto andare in tilt la sofisticata centralina elettrica e così si torna indietro ai vecchi batacchi o alle nocche.
“Toc, toc”
“Un attimo! Un attimo! Scendo”
Dai vetri della porta d’ingresso intravedo una figura femminile, sembra una donna in età. Ma che non riesco a definire perché da un cappellino d’antan scende una veletta che le copre il viso. A colpo d’occhio dovrebbe avere un bel po’ di anni in più dei miei, ma mentre io mi appoggio al bastone lei invece sembra mantenere un portamento dritto e sciolto.
“Buona sera. Desidera? Non ho il piacere di conoscerla…”
“Mi conosce, mi conosce”.
Dalla morbidità della voce e dal tono quasi dimesso non intuisco minacce per cui le dico:
“Beh, non possiamo starcene qui a parlare sull’uscio, si accomodi”
Mentre facciamo le scale, da dietro sento il suo borbottio di cui recepisco questo lamento “com’è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”.[4] Approfitto della pausa pianerottolo per dirle che la capisco benissimo, che non lo dica a me che le devo fare più volte al giorno. Non sempre l’altezza dei gradini si confà alle necessità specifiche di ognuno.
Puntuta, mi risponde “Andiamo, su. Non faccia la finta tonta!”
Ma come si permette – da ospite – di parlarmi così, a casa mia! Alzo le spalle ma non ribatto nulla.
Eccomi di nuovo in terrazzo, accenno ad una poltrona in vimini e la invito ad accomodarsi. Dai suoi movimenti ancor più ho la percezione di una donna di età indefinibile.
Il brusco passaggio dal mio stato malinconico di poc’anzi alla imprevista realtà non è però sufficiente ad imbrigliare le fantasie che mi richiamano alla mente la Sisina, un ricordo legato alla prima adolescenza quando ci raccontavano che nel bosco e fra i ruscelli viveva la Sisina, una donna senza età ma che si diceva fosse bellissima anche se nessuno l’aveva vista mai. Così noi ragazzini ci eravamo messi in testa di trovarla: divisi per bande correvamo lungo i prati al limite del bosco – dove avevamo paura ad entrare – pensando di accerchiarla, di farla venire fuori e manifestarsi in tutto il suo fascino anche se ci era stato detto che quella vista avrebbe potuto esserci fatale. Ma il desiderio della scoperta sopravanzava la paura. E quindi gridavamo in alternanza si-si, si-si, a cui faceva eco il na-na, na-na dell’altro gruppo. Ma non ne venimmo mai a capo.
Finiti i boschi, poi, e i prati ed i ruscelli dove poteva essere andata la Sisina? Forse si era spaventata e si nascondeva negli androni bui delle case di periferia, e quando cercava di volarsene lontano le sue vesti si impigliavano fra i comignoli alti delle ciminiere, mortifero l’afrore misto di sudori e fumi, o si smarriva fra strade che non portavano a niente di significativo, solo mera ripetizione di un flusso continuo, ininterrotto.
Mi scuoto dalle immagini in cui sono piombata e cerco di tornare al presente. Così introduco il discorso con un “Ha detto di conoscermi ma, per quanto scandagli la mia memoria… mi spiace assai… non se ne abbia… ma non ricordo”.
“Eppure sono cosa sua… in un certo senso le appartengo…”. Silenzio. E poi “Com’è bello qui, bella la vista, nessuna siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.[5] Sono sicura che nei giorni limpidi riesce a vedere fino al mare…. Ma dopo il mare ci sarà pure un altro orizzonte, no?”. Poi si tace.
Perché l’interlocutrice divaghi così non lo capisco. Scende la brezza e vorrei entrare in casa a prendermi uno scialle ma prima mi urge chiarire il senso di quella strana visita.
“Sì, sì, a volte si vede anche il mare ma… mi scusi ancora, non la conosco proprio. Come si chiama?”
“Sfilati tetti all’orizzonte”
Trattengo a stento un mix tra l’esplodere in una risata e il reprimere l’irritazione. Ma che? Mi sta prendendo per i fondelli? Che cosa sottintende l’enfasi con cui sottolinea la sequenza ti-te/ti-te? La ricercata suggestione di una marcetta da pifferaio magico acchiappa gonzi o precisamente bambini? Comunque, pure qui glisso anche se continuo a non capire. E’ un attacco svalutativo o un suggerimento onde evitare suggestivi giochetti, campo in cui la parola diventa un’abile seduttrice?[6]
Ma lei continua: “non si rende conto di avermi maltrattata, che ha esposto una cosa sua, cioè me, al ludibrio?”
Mi sto ‘scaldando’. “Ma che ludibrio e ludibrio! Piuttosto sarà un ludi-brìo, un gioco che attraverso una certa leggerezza parla poi di aspetti ben più seri e pesanti! Forse in questo caso no, ma in genere…”
Ma, come accade in certe conversazioni, a un certo punto si percepisce che l’interlocutore è da tutt’altra parte. Qui non ci siamo e io mi sento incastrata in una trappola comunicativa: come fare a spiegarmi? Rammento un famoso detto indiano “pensa velocemente ma parla lentamente”: quella figura che se ne sta lì davanti a me … si tratterebbe forse di una mia creatura che ho messo (volutamente?) in difficoltà? Mi sta accusando di essere così ego-centrata da aver pensato solo a me stessa, al mio piacere, alla mia ribalta senza tenere conto di quello che stavo andando a fare? Era il lamento (solo lamento o accusa?) di un figlio che chiede il perché della sua esistenza o del suo mal-trattamento?[7]
L’ospite, infatti, sembra irritata, si alza dalla poltrona, un lembo della veste di organza si ‘impappina’ tra gli stecchi dei vimini, mi alzo a mia volta per aiutarla ma lei si è già disbrigata e con un cenno di mano mi fa capire che le sono superflua, che se la cava da sé. Si dirige verso il fondo del terrazzo, si appoggia alla balaustra, si gira, e mi dice:
“Così è questo ciò che pensa? Parla di ‘giocosita’, di parole ricercate con intento ambiguo, fra il serio e il dissacratorio brioso! E fa questo gioco oggi? Ma non si rende conto? Come è possibile non prendere sul serio lo strazio che ci sovrasta? Allora nega i pericoli che incombono!”[8]
L’equivoco corre sul filo. Io non nego niente e gli strazi li vedo, eccome! Forse non so gridare o cantare una canzone[9] come si dovrebbe, so solo fare rappresentazioni di dolore, di lotta e di sconfitta ma mai di resa! Ma quella veletta calata sul volto e il suo stare in controluce non mi permettono di intercettare indici che vadano al di là del detto.
Poi lei prosegue: “E’ inutile che alzi la cresta, sa!” – oddio, ma che ‘cresta e cresta’ avrei io, quattro-capelli-quattro che si tengono stretti assieme per farsi coraggio! Maddai!- “o che dica che ha rappresentato dei contenuti e rispettato l’endecasillabo quando all’interno di quel ‘rispetto’ si è permessa di svolazzare con le immagini… portatrici di senso certo … capisco tutto… ma chi ci arriva a decifrarle? E quel ‘caminante’[10], poi! Ma mi faccia il piacere: lei a chi vuole parlare? Se vuole esprimere il suo disagio personale, scriva pure un ‘saggetto’: il lettore si annoierà lo stesso, ma qui, in questo luogo sacro, nel ‘mio’ luogo sacro, ciò non deve accadere. E’ una violenza! Un abuso che si maschera dietro una mia supposta disponibilità! Che cosa pensa di dribblare giocando con le immagini? Non vedo una partecipazione emotiva! I suoi sentimenti dove stanno? Non ci fa capire direttamente quanto lei si consumi a fronte della notte oscura che avanza accompagnata dalla processione di chi non c’è più: si tratta solo di ‘minacciosi nembi’ messi lì come una spennellata d’effetto? Quanto piange davvero per gli amici perduti? Sono solo ‘testimoni’ al pari degli ideali svaniti con essi? Mentre invece il lettore è altro che oggi vuole. Vuole sapere di lei, del suo privato, della sua ‘emotività’ – vera o apparente poco importa -, ha bisogno di identificarsi con qualcuno per sfuggire alla solitudine imperante legata alla mancanza di senso![11] Lei invece prende le distanze e dice: “guardate là”. “Ecco dunque i morti tacitati e i vivi spaventati: non dimenticate che la ideologia (usata metaforicamente come tetto) non protegge sempre ma è portatrice di tradimento. foriera di disastri se continua a non confrontarsi con la realtà. Ma lei dov’è? Non si tratta forse da parte sua di un modo elegante di denunciare e poi sottrarsi?”
“E poi, lei ama? E’ riamata? Quali sono le sue ferite del cuore? Ne è attraversata? E come esprime quei disagi e quelle sofferenze che sono comuni a tutti? E in cui tutti, chi più, chi meno, si riconosce?”
Sto per alzarmi di scatto (schiena permettendo!) ed esclamare “Alt! Alt”. Vorrei gridarle che io sono proprio lì come testimone partecipante perché si possano evitare ripetizioni! Ripetizioni di misfatti. Veloce mi passa per la mente il bel romanzo di Javier Marias “Domani nella battaglia pensa a me”[12] Ma rimango seduta, Paralizzata.
Oh cielo, il corto circuito mi attanaglia. Le domande poste sono più che pertinenti, non lo nego, ma… in che modo il privato interagisce col sociale o i bisogni profondi si rapportano con il logos… con la capacità espressiva?[13]
E poi io non ‘dribblo’ con le immagini, sono uno strumento evocativo importante per rappresentare l’interconnessione tra realtà e vissuti.[14] E poi non voglio stimolare l’emozione, i sentimenti, come antidoto all’uso della ragione![15]
Certo che l’ospite è partita in quarta e io non l’ho interrotta anche se in molti passaggi avrei sentito il bisogno/dovere di puntualizzare. In primis, su un punto, ovvero che ‘io’ non sono solamente ‘io’ ma esprimo anche una parte minoritaria di una società dove, a livello maggioritario, si crede di potersi dare identità soltanto in base documentale, o di immagine (del tipo copia/incolla) anziché attraverso un processo di conoscenze, una stratificazione di livelli esperenziali. Ma al momento preferisco tenermi gli schiaffoni e vedere dove l’ospite vuole andare a parare. Mi sta forse dicendo che la poesia è merce e deve seguire le leggi del mercato? Di un certo mercato? Mah! Eppure aveva detto che “sa di sale” salire le altrui scale! Però fra il detto e il fatto!
Rifletto. Sì, d’accordo. Forse abbondo di immagini/metafora (metafora oggi resa inutile dal trionfo della concretezza). Eppure i tetti dell’ideologia davvero possono richiamare il pifferaio di Hamelin che libera dai topi ma non dalla tendenza alla credulità e quindi andrebbero ridefiniti… però… Certo, la difficoltà odierna è proprio quella di fare il caminante fondandosi sulle ‘tracce’, sulle ‘orme’, in una ricerca senza ‘copertura’. Ma che le dico?
Nel mentre la signora parla io l’ascolto e invece di replicare aspetto ancora un po’… Non credo di spingere il lettore – citando ad esempio la ‘realtà’ che siede sui ruderi del disinganno – a fare riferimento all’Angelus Novus di Benjamin unitamente al quadro di P. Klee che lo ha ispirato. No. Io utilizzo frammenti della mia formazione culturale per rappresentare in modo figurato una situazione di attualità dando quindi valore al principio del “ Yo soy yo y mi circunstancia y si no la salvo a ella no me salvo” (come giustamente scrisse il filosofo Ortega y Gasset). Un’altra parte del mio patrimonio culturale è anche la trilogia “Memoria del futuro” dello psicoanalista W. R. Bion dove si segnala l’urgenza che la specie umana non si focalizzi soltanto sulla intelligenza ma anche sulla saggezza che cerca di integrare passato, presente e futuro. La conquista della saggezza è purtroppo insidiata dalla potenza dell’oblio (‘portato’ specifico di questi tempi) che già nasconde il presente in un perverso gioco delle tre carte per cui non si riesce ad entrare in contatto genuino con niente, ma soprattutto è pervasa dalla rapida usura del linguaggio, dalla perdita della sua poliedricità espressiva.
Nel contempo, prima di aprire bocca, mi chiedo: “Ma questa, è venuta sua sponte o è stata mandata? Perché se è venuta spontaneamente ci confrontiamo e apriamo un dialogo. Ma se è stata mandata io mi confronterei con un committente ignoto, un non-interlocutore, così come l’esperienza quotidiana ci fa sperimentare in tutti i campi: non c’è mai un responsabile al quale fare riferimento”.
Rimugino: sono contenta di non averle offerto qualche cosa da prendere, un the, una bibita… sarebbe stata la espressione di una finta disponibilità da parte mia, a priori.Ce
rto. Può essere che io abbia segnalato un problema attuale ma che nel contempo non abbia messo in luce una sofferenza utilizzando invece in modo inadeguato l’espressività della parola. E quindi vorrei risponderle proprio a partire da lì, dalla parola che ha il “potere di sedurre la carne, il gesto e i destini” (cit.). E poi magari anche parlare dell’endecasillabo, un contenitore che prevede al suo interno un ritmo e non solo. Perché nella versificazione anche l’ordine delle parole deve produrre armonia (o anche una cacofonia, se si vuole influire sul senso ed il messaggio). Ad esempio, la sequenza del “Dolce e chiara è la notte e senza vento”[16] non produrrebbe lo stesso impatto emotivo se venisse trasformata in un “Chiara e dolce è la notte…”
Ma sono combattuta tra il pensare e il parlare, così la guardo in tralice.
Ho un sobbalzo… oh mio dio, ma che termine ho usato? ‘tralice’? “Ma cche vor dì ? è robba che se magna?” Appunto! “Ma parla come te magni!”. Certo avrei potuto usare l’espressione ‘di sottecchi’, ma non sarebbe stata la stessa cosa: perché non si sarebbe rappresentata quell’aura di sospetto e di controllo che la prima invece porta con sé. Forse ci sarebbe stata la stessa obiezione se avessi utilizzato una terminologia straniera, magari inglese? Credo proprio di no! Anzi! Avrebbe fatto chic. Povero linguaggio colonizzato e condannato ad una spoliazione progressiva!
Ma lei non mi dà tempo di intervenire perché all’improvviso si gira, braccia allargate sulla balaustra… No, non è per tornare a guardare il paesaggio con le prime luci che si accendono anche se il buio tarda a venire, ma segnala proprio un intenzionale darmi di schiena. Credo di non sollecitare le sue simpatie ma pazienza: è lei che si è scomodata (o l’hanno scomodata) per venire qui.
Guardo il cielo che all’orizzonte si ostina con sfilacciature rosso-dorate frammiste ad un azzurro improbabile a dire che la giornata non è ancora finita. Niente sole, però. E niente luna stanotte, forse siamo all’ultimo quarto e l’astro apparirà, nubi permettendo, sul tardi.
“O falce calante, qual messe di sogni/ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!”[17]… ed ecco irrompere un ricordo d’infanzia, quando mia madre mi raccontava che se si aveva la fortuna di vedere il primo filo di luna crescente, quasi impercettibile a cogliersi, e si esprimeva un desiderio, quello poi si sarebbe avverato. Così accadeva di trovarci abbracciate a scrutare il cielo in quella mirabolante attesa, ognuna delle due con il suo sogno segreto. Per me quell’evento era diventato una specie di rituale, non so più se mosso dalla aspettativa magica o dalla concretezza sensoriale di poter godere di quell’abbraccio, la magia inverata di un calore motivato sì da due solitudini diverse e proiettate verso aspirazioni diverse ma, nello stesso tempo, unite assieme.
A chi e come racconterò tutto questo? Quanto è forte il bisogno di parlare e di essere ascoltati![18] Quanto le illusioni private poi si impasteranno con quelle pubbliche investendo le relazioni sociali? E i morti, appunto, non possono coltivare rimembranze e i vivi rimasti faticano a cogliere il come, il dove e il perché si sono trovati intrappolati nell’anello di Moebius,[19] in una superficie che non ha interno ed esterno per cui non si capisce su quale delle parti si stia camminando. Un percorso angosciante, senza ‘stazioni’ o ‘fermate’, come ben raccontato nel film del 1996, “Moebius” diretto da Gustavo Mosquera R. su un ‘treno fantasma’ scomparso nella metro di Buenos Aires.
I miei pensieri si sono svolti velocissimi e ora è tempo di parlare. Ma ecco che l’ospite si rigira di scatto verso di me e senza cogliere il mio sconcerto inveisce con un “Lo sa che lei è supponente? Innanzitutto la realtà, quella che lei chiama ‘realtà’, non tesse proprio un bel nulla, non muove alcun filo… e quei ruderi, quei ruderi su cui starebbe seduta, da dove li tira fuori, lei? Vuol fare bella figura alludendo a W. Benjamin? Vuole usare quella potente intuizione da lui espressa nella frase “ricordare il futuro”, dove l’attualità di ciò che è stato, proprio perché non ancora giunta a compimento e quindi non ancora diventata storia, ci sta attendendo?
Il fatto è che purtroppo oggi non c’è Storia, è solo acqua che passa ormai, labili riflessi per l’appunto, perchè tutto è diventato fluido!”.
Mi sta salendo l’aggressività pur convenendo con lei che possiamo conoscere solo quando “il giorno è terminato e la fine è nota” (Shakespeare). Ma mentre sto per dirle che la Storia è fatta anche di memoria perché “se nessuno ricorda, niente è la storia”,[20] il suo atteggiamento cambia e mi si avvicina con un mellifluo “mia cara, mi scusi se mi permetto, lei sta fuori dal tempo e trascina anche me in questo abisso. Mostrare o denunciare ciò che accade sarà giusto forse o bastevole, ma e poi? Che cosa crede di sollecitare nel lettore? Una qualche rivolta? Lei cerca forse di usarmi a quel fine, ma io non servo proprio a quello scopo. Non metto in dubbio i suoi contenuti e nemmeno la sua buona fede. Può avere anche ragione ma non posso essere io la sua portavoce.”
Il timbro con il quale aveva iniziato a parlarmi era connotato da una certa veemenza al punto da farmi temere un qualche gesto minaccioso anche se sospettavo che quella irruenza fosse il portato di una sua insoddisfazione, una delusione repressa e mai esplicitata a fronte della domanda “chi sono? Quale è il mio ruolo?”
Ma adesso il suo tono si abbassa al punto che lo percepisco appena: “io non le servo, mi creda, nè posso essere al suo fianco. Non oggi, almeno”. E, quasi in un sussurro: “Oggi non c’è il tempo per ascoltare nè per pensare”.
In rapida sequenza sembra poi riprendere vigore e raddrizzarsi. Stranamente mi appare più alta: “Stia, stia pure lì con i suoi turbamenti, non si scomodi ad accompagnarmi, conosco la strada. Ma non mi coinvolga più. Adieu”.
E in men che non si dica guadagna l’uscita.
Sola ero e sola rimango e il buio della notte avanza accentuando la tristezza a cui però non voglio cedere. Un aiuto mi viene da un segnale olfattivo: il canto odoroso di un ultimo caprifoglio (finita ormai la sua stagione di fioritura).
Lo percepisco come un richiamo a non desistere, a non lasciar morire i pensieri continuando nella ricerca di altre strade percorribili… non lo so.
La sola cosa che so di per certo è che è difficile. D’altronde, “ogni vigilia è disarmata”[21]
Conegliano, 25.09.2023
Note
[1] ”Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ‘ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d’amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more; l’udire e a mirare una de l’alme surta, che l’ascoltar chiedea con mano”. (Dante Alighieri, Purgatorio VIII)
[2] “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno da’ bei vermigli fior, nel muto orto solingo rinverdì tutto or ora, e giugno lo ristora di luce e di calor”. (G. Carducci, “Pianto Antico”)
[3] “Ancora un anno è bruciato, senza un lamento, senza un grido levato a vincere d’improvviso un giorno” (S. Quasimodo, “Già la pioggia è con noi”)
[4] ”Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e com’è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.” (Parole di un avo di Dante, Cacciaguida, che prevede l’esilio da Firenze del suo discendente. (Dante Alighieri, Paradiso, Canto 17)
[5] “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte. Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, …” (G. Leopardi, “L’Infinito”)
[6] “Sa sedurre la carne la parola,/prepara il gesto, produce destini” (Patrizia Valduga, “Medicamenta”)
[7] “O natura, o natura/Perché non rendi poi/Quel che prometti allor?/ perchè di tanto Inganni i figli tuoi?” (G. Leopardi, “A Silvia”)
“E come potevamo
[8] “E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore”. (S. Quasimodo, “Alle fronde dei salici”)
“Un grido o una canzone l’attraversano
[9] “Un grido o una canzone l’attraversano/perdendosi nell’aria/dove scheggiata dall’azzurro brilla/la stella del mattino, solitaria.” (Giorgio Mannacio da Vita e destino)
[10] “Caminante, son tus huellas/el camino y nada más;/Caminante, no hay camino,/se hace camino al andar./Al andar se hace el camino”, (Antonio Machado , “Caminante”)
[11] “Dare un senso alla vita può condurre a follia,/ma una vita senza senso è tortura/dell’inquietudine e del vano desidero;/è una barca che anela al mare eppure lo teme” (Edgar Lee Masters, “Antologia di Spoon River, George Gray”).
[12] Javier Marias, “Domani nella battaglia pensa a me”. Titolo tratto da un passo del “Riccardo III” di Shakespeare, dove centrali sono i temi dell’inganno e dello svelamento nel tragico momento in cui torna il rimosso legato a ciò che non volevamo sapere (“Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale, e lascia cadere la tua lancia rugginosa. Che io pesi domani sopra la tua anima” Questo l’’anatema, la maledizione che il fantasma della regina Anna scaglia sul re che l’ha fatta uccidere…
[13] “Se alambicchi segreti distillando/veleni provvidenziali sono complici/di amorose carezze o di mortali/ferite là dove batte il cuore,/non è soltanto questa la ragione/del pianto e del sorriso”.
(Giorgio Mannacio da “Vita e destino”)
[14] “I concetti si fanno immagini,/figure di un teatro tra domande e risposte/senza pretesa di verità”. (Giorgio Mannacio da “Gli incanti della notte”)
[15] “Ho bisogno di poesia,/questa magia che brucia la pesantezza delle parole,/che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.” (Alda Merini, “Ho bisogno di sentimenti”)
[16] “Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti. Posa la luna, e di lontan rivela. Serena ogni montagna. O donna mia,”, (Giacomo Leopardi, La sera del dì di festa”)
[17] “O falce di luna calante/ che brilli su l’acque deserte/ o falce d’argento, qual messe di sogni/ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!” (Gabriele D’Annunzio)
[18] “O datemi qualcuno che mi ascolti,/ché di parole straripo… qualcuno/che mi prenda per mano e dei sepolti/dei fatti polvere e niente al raduno/mi porti… di occhi ho paura… di volti…” (Patrizia Valduga)
[19] Nastro di Möbius. Da Wikipedia: “In matematica, e più precisamente in topologia, il nastro di Möbius è un esempio di superficie non orientabile e di superficie rigata. Trae il suo nome dal matematico tedesco August Ferdinand Möbius, che fu il primo a considerare la possibilità di costruzione di figure topologiche non orientabili”.
Una inquietante superficie che non ha interno ed esterno, che possiamo percorrere all’infinito senza mai capire su quale delle sue parti stiamo camminando. L’infinito, l’interno e l’esterno, l’idea di un bordo o di una linea da varcare, sono tutti concetti che ancora oggi i filosofi affrontano scontrandosi.
[20] “E’ legge che sia distrutto/anche il seme e così sepolta/
la radice della memoria/ Se nessuno ricorda, niente è la storia”.” (Giorgio Mannacio da “L’ultimo dei giusti”)
[21] “Ogni vigilia è disarmata. (Poesie 2016-2018)” (Giorgio Mannacio)
La veletta… la velatura, quel che mangiare, bere, dormire, fare sesso, riempiendo le giornate celano… e la scrittura, ancora oggi, lancinante, s-vela. L’ospite misteriosa è anonima e sostanzialmente di spalle, come le sue proposte sono ob-scenamente risibili. Ma tant’è: “Se comincio a chiamarmi amore mio/sono vecchia e amarmi mi conviene…”
… comunque ricco e magnifico! Anche se non ho voglia di fare una analisi profonda, che pure meriterebbe.
…bello il racconto di Rita, ma difficile da interpretare come trovare il bandolo in una matassa molto ingarbugliata o la direzione nell’ inquietante superficie dell’anello di Mobius, percio’ anche chi legge brancola nel buio, in un un buio ricco di suggestioni. Sono descritti molto bene due momenti diversi di intimità: i bambini che insieme, spaventati e pure euforici per spirito di avventura, cercano in boschi, ruscelli, anfratti e oscure periferie la misteriosa Sisina…figlia e madre che insieme scrutano il cielo per l’apparizione della prima impercettibile falce di luna crescente e connettersi con il futuro, misterioso e ancora pieno di promesse…L’intimità prosegue nei dialoghi tra la vecchia e austera visitatrice, velettata e dal portamento inossidabile, e la sua basita ospite. A tratti, pur scontrandosi duramente, nel loro dialogo emergono versi di grande bellezza e umanità, come perle conservate in uno scrigno…La anonima visitatrice, inizialmente ostile, quasi a lanciare accuse e rimproveri verso la sconcertata e irritata ospite, sembra in un secondo momento entrare con l’interlocutrice in una dimensione piu’ costruttiva, sollevando dubbi e domande, scandagliando l’animo sino alla consapevolezza di profonde solitudini e disincanti…cosi’ che al momento del commiato la signora perde il tono aggressivo, molto piu’ dimessa saluta con : “Ma non mi coinvolga piu’. Adieu” Si sono, per quanto possibile, chiarite?
Qualcosa di positivo è rimasto in entrambe, credo…
Il ritardo con cui rispondo ai graditi commenti di Cristiana e Annamaria è dovuto allo shock scatenato dalla guerra israelo-palestinese. Dove, accanto alle inumani tragedie e crudeltà che ogni conflitto porta con sé, si associa un pernicioso collasso del pensiero – nella sua funzione di connettere emotività e ragione – perchè viene soppiantato dalle partigianerie.
Inoltre, non volevo togliere spazio distogliendo l’attenzione e la riflessione su quanto stava accadendo nel Medio Oriente con tutte le implicazioni a livello internazionale e strategico.
Ma i commenti ricevuti a fronte del mio lavoro meritavano una risposta.
Ringrazio dunque Cristiana perché, con la sua intuizione sulla “veletta” (sulla cui significatività, sinceramente, non avevo pensato) ha dato lo spunto per riflettere sul continuo processo di velamento e svelamento a cui siamo sottoposti nel rapportarci con il reale, sia esterno che interiore. E in cui la Poesia stessa è implicata al pari di tutte le narrazioni: copre e svela solo alcune angolazioni del reale.
Perché è lei, la Poesia, la Signora senza età e il cui fascino può portare anche a perdizione e che si è sentita chiamata in causa dai miei versi con i quali ha aperto il contenzioso. E oggi ella stessa fa fatica a darsi un senso, una identità.
Grazie anche ad Annamaria che, come al solito, utilizza la sua sensibilità per cogliere i momenti profondi di intime relazioni.
I versi citati nel testo (piccola parte del nostro grande patrimonio poetico) vorrebbero sollecitare la memoria, perché, come scriveva Giorgio Mannacio, “se non c’è memoria non c’è Storia”