Murales zapatisti. Progetto d’un mondo nuovo (2)

Foti di Andrea Gazzaniga

Roberto Bugliani – Aldo Zanchetta
Murales zapatisti. Progetto d’un mondo nuovo
Mutus Liber, Riola (BO) 2022

 

di Roberto Bugliani  e Aldo Zanchetta

[…]  Scrive Le Bot che in una guerra come quella tra EZLN e Stato federale messicano, «venuta dopo la caduta del muro di Berlino (…), i simboli contano più delle armi» (Le Bot e Subcomandante Marcos, Il sogno zapatista, 1997, p. 12).
Raccontando degli anni di «costruzione dello zapatismo» nella selva, e dopo aver distinto tra uso del simbolo, dovuto alla «componente india» del movimento, e l’apporto dei «simboli storici» da parte dell’«organizzazione politico-militare urbana», il subcomandante Marcos aggiunge:

"Ma non possiamo averli [i simboli] senza lottare, non arriviamo su un terreno vergine, abbiamo dovuto strappare al governo messicano alcuni simboli della storia nazionale. Zapata, per esempio. (…) Non si tratta d’inventare una lingua nuova, ma di dare un senso nuovo alle parole, e soprattutto alla storia, all’interno del discorso politico. Per questo rinnovamento torniamo indietro, attingiamo alla tradizione culturale india per ritrovare antichi personaggi, antiche idee, e confrontarli con quelli nuovi, costruendo così il nuovo linguaggio zapatista" (Le Bot e Subcomandante Marcos, cit., pp. 237-238).

Congiuntamente al simbolo, anche la modalità narrativa dell’allegoria è risorsa fondamentale del mural zapatista. Tuttavia, a differenza dell’ordito simbolico che è unità o insieme figurativo di natura statica (una tra le tante esemplificazioni di ciò è data dalla serie cospicua di murales raffiguranti i volti incappucciati degli zapatisti nei chicchi d’una pannocchia di mais), l’ordito allegorico è complesso figurativo intessuto da rapporti dinamici. Ecco perché ogni volta che in un mural si dà interazione tra simboli, ovvero si produce una sequenza o combinazione figurativo-narrativa di tipo dinamico, la resa comunicativa e artistica di tale operazione è di natura allegorica.
Per realizzarsi in quanto tale, l’allegoria, che, ricordiamolo, è figura di pensiero e non già di parola, abbisogna d’uno spazio adeguato al suo dinamismo grafico, come s’è potuto osservare nel mural di Taniperla. Ora, a seconda dell’estensione narrativa del mural, tale spazio può valere come risorsa, oppure rappresentare una necessità, ma non è requisito di per sé sufficiente. Né, peraltro, è la presenza di certe immagini anziché di altre a porre il discrimine tra simbolo e allegoria, quanto piuttosto sono le modalità di interazione tra le immagini o tra loro parti a determinare la differenza tra le due forme d’espressione.Un’altra e rilevante componente dell’intreccio allegorico è data dal fattore temporale. Difatti, se il simbolo è definibile come figura dell’ipostasi, ossia come immagine in sé sostanzialmente compiuta, occorrerà per contro che le singole raffigurazioni simboliche siano calate in un contesto che le dinamizzi perché possa aver luogo quel flusso di immagini lungo una serie di linee o momenti spazio-temporali che dà luogo al racconto iconografico a funzione allegorica.
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Foto di Aldo Zanchetta

Senza voler assumere una posizione radicale come quella adottata da Samuel Beckett («Tutto ciò che saprete di un quadro è quanto vi piace»; Poirier, 2021, p. 90), è indubbio tuttavia che il mural zapatista sia di per sé fonte o stimolo di piacere estetico per il fruitore a prescindere dal messaggio veicolato. Il che significa che in quanto mezzo di comunicazione sociale il mural zapatista appartiene alla sfera del discorso politico, ma in qualità di prodotto artistico esso è fruibile ricorrendo unicamente a categorie estetiche. Il pragmatismo dei murales, la loro mirata utilizzazione, l’accuratezza dei loro messaggi, l’articolazione su più livelli comunicativi non devono farci perdere di vista la piacevolezza delle immagini. Al netto della ricezione del messaggio interno, rivolto alle comunità, o di quello esterno, rivolto alle società civili, qualcosa continua ad attirare lo sguardo dell’osservatore, qualcosa che a livello di fruizione è nato con la nascita dell’oggetto artistico, quel qualcosa che Roland Barthes (1973) ha chiamato le plaisir du texte.
A differenza del metodo, o meglio del non-metodo con cui sono stati realizzati i primi murales da «fratelli e sorelle pittrici e pittori che venivano a dipingere quello che volevano o che pensavano», oggi – ha dichiarato un relatore indigeno al «Primo incontro dei popoli zapatisti con i popoli del mondo» tenuto a Oventic dal 30 dicembre 2006 al 2 gennaio 2007 – «siamo noi, ossia il popolo, a dire ciò che vogliamo si dipinga» (Híjar González, 2007). È evidente che queste nuove modalità compositive, finalizzate a una sempre più precisa e adeguata elaborazione politico-culturale della fisionomia identitaria delle comunità zapatiste (peraltro costantemente in costruzione) e aventi la loro bussola nell’ascolto delle indicazioni comunitarie su quali temi o simboli o personaggi ‘mettere’ nel mural, spiazzano il ruolo tradizionale dell’artista, che va re-impostato a partire dal decentramento della figura autoriale (la quale sul piano politico si trova a dover fare i conti colla più generale «de-specializzazione delle persone», come scrive Aldo Zanchetta a proposito della novità dell’esperienza zapatista), e sono debitrici, afferma Híjar González, più a pratiche concrete che a teorie estetiche.
Tra le molteplici esperienze compositive occorse nelle comunità zapatiste, particolare importanza ha quella portata avanti dal collettivo Pintar Obedeciendo di Sergio Valdez, che applica in campo pittorico il lemma politico zapatista Mandar Obedeciendo, vale a dire dipingere in obbedienza al mandato della comunità e adottando il criterio della consultazione popolare per le decisioni da prendere riguardo alla realizzazione (politica ed estetica) del mural. Il progetto pittorico del collettivo trova adeguato compimento nel metodo del «Mural Comunitario Partecipativo» (MCP), per il quale non saper dipingere non rappresenta un problema, e che a grosse linee prevede: a) la consultazione preventiva della comunità; b) l’organizzazione di un gruppo creativo della comunità e, infine, c) dipingere operando comunitariamente (Valdez Ruvalcaba, 2015, p. 328).
Anche il lavoro di Chávez Pavón e del collettivo LIP-La Gárgola nelle comunità zapatiste è proseguito nel corso degli anni promuovendo diverse campagne di pittura muralista. A questi equipo pionieri si sono aggiunti altri attori come il Collettivo SAPO, Siempre Aprendiendo a Pintar Obedeciendo («Sempre imparando a dipingere obbedendo»), gruppo californiano fondato nel 2009 e operante soprattutto a Los Angeles, che nel suo curriculum annovera centinaia di murales dipinti in Messico e che nel 2012 ha sviluppato un progetto di promotori muralisti indigeni in Chiapas. Attivo nell’ambito del muralismo comunitario è anche il collettivo Kukay, che nel 2014 ha realizzato murales in comunità situate nel territorio del Caracol di La Garrucha.
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Foto di Andrea Gazzaniga

Una insurrezione ‘insolita’

La mattina del primo gennaio 1994 a San Cristóbal de Las Casas, città divenuta da pochi anni frequentata località turistica, gli ospiti degli innumerevoli alberghi risvegliandosi si trovarono in una città occupata da indigeni e indigene col volto coperto da passamontagna neri o da paliacates con vari disegni. A uno di essi, che protestava e voleva essere autorizzato a partire immediatamente, uno degli occupanti che parlava le lingue, chiamato per rispondergli, rivolto agli astanti disse: «Scusate il disturbo. Questo è una rivoluzione». Era il subcomandante Marcos. Una strana rivoluzione, però. Pablo Gonzáles Casanova, stimato intellettuale messicano, in un modesto libretto di 28 pagine scritto per marcare la verità storica e «contestare le spiegazioni arbitrarie su ciò che sta accadendo», riporta questo episodio:
Prima della cessazione del fuoco mi richiamò l’attenzione vedere su un muro di San Cristóbal un graffito che diceva: «Noi non siamo guerriglieri, siamo rivoluzionari». Giorni prima don Samuel Ruiz, il vescovo erede di De Las Casas, mi aveva detto riferendosi a costoro: «È strano. Come rivoluzionari sono molto insoliti. Si rivolgono al governo perché realizzi elezioni oneste».
Il vescovo Ruiz si riferiva evidentemente a quanto contenuto nella Prima Dichiarazione della Selva Lacandona, divulgata dagli insorti il 1° gennaio, in cui si legge fra l’altro:

Al popolo del Messico Fratelli messicani,
siamo il risultato di 500 anni di lotta (…). Ma noi oggi diciamo basta!
Siamo gli eredi dei veri creatori della nostra nazione messicana (…); chiediamo agli altri Poteri della nazione che si affrettino a restaurare la legalità e la stabilità della nazione deponendo il dittatore".

Come si vede, gli insorti si appellano ai «Poteri della nazione» per «restaurare la legalità». Rivoluzionari certamente, ma ‘insoliti’. Nel finale della Dichiarazione si enumerano gli obiettivi immediati della lotta: «lavoro, terra, casa, cibo, salute, educazione, indipendenza, libertà, democrazia, giustizia e pace», obiettivi certamente comuni a tutti i messicani poveri, cioè la maggioranza. L’insurrezione fu opera di indigeni, ma fra questi undici obiettivi non è presente alcuna rivendicazione specificatamente etnica, rivendicazione che invece diventerà centrale a partire dalla fine del primo anno di insurrezione quando si porrà la richiesta di autonomia di governo. Comunque mai è stata chiesta, con realismo politico, la separazione dallo Stato messicano. Nei murales che raffigurano la vita nei villaggi zapatisti è frequente vedere affiancate la bandiera messicana e quella zapatista, nera con al centro una stella rossa a cinque punte..

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Foto di Andrea Gazzaniga

Riapertura della storia?

È stato scritto che la ribellione zapatista ha ‘riaperto’ la storia che sembrava essere stata ‘chiusa’ (cfr. Fukuyama, 1992) con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, e qualcuno ha anche detto che poteva essere etichettata come la prima rivoluzione del nuovo secolo, il XXI.
Carlos Fuentes, noto intellettuale e diplomatico messicano, simpatizzante degli zapatisti, l’ha definita la prima insurrezione «post-moderna», per la novità del ruolo avuto dagli strumenti digitali di comunicazione. La storia fu riaperta perché la caduta del muro di Berlino e la successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica avevano lasciato annichilite e disorientate le resistenze mondiali al ‘sistema’ capitalistico, anche quelle che avevano preso le distanze dall’esperienza sovietica, mentre contemporaneamente si spegnevano quelle centroamericane che avevano suscitato tante speranze. In realtà l’insurrezione zapatista riaprì il ciclo delle lotte anti-sistemiche nel mondo.
Dal punto di vista militare a ben vedere essa fu un atto irrazionale, però sfociò in un processo politico complesso tuttora in corso, dove gli attori in gioco erano molti e dove fra i guerriglieri venuti dalle città da un lato e il mondo indigeno dall’altro aveva avuto luogo una interrelazione intellettuale, disarticolante e profonda per i primi, di lotta sociale innovativa nelle forme per i secondi. Marcos stesso racconta la decisione di insorgere, anticipata nel dialogo col vecchio Antonio.
Nella primavera del 1992 si era svolta la marcia delle Xi’Nich (le formiche, in lingua tzeltal) a Città del Messico, e nell’ottobre dello stesso anno si era celebrato con grandi festeggiamenti ufficiali il V centenario della ‘scoperta’ dell’America. Nel giorno anniversario, il 12 ottobre, circa diecimila indigeni invasero San Cristóbal e abbatterono a colpi di mazza la statua di Juan de Mazariegos, il fondatore della città. Con questo evento il processo di radicalizzazione si accelerò, per cui furono molti gli indigeni che dichiararono che bisognava incominciare subito la guerra. Marcos racconta:

D’accordo con il comando (ero il capo militare) i dirigenti spiegano quello di cui si è già parlato: che la situazione internazionale è sfavorevole, la situazione nazionale non lascia spazio al minimo tentativo di cambiamento e peggio ancora alla lotta armata. Decidiamo insieme che bisogna consultare le comunità. È la prima volta, in seguito per gli zapatisti la consultazione è diventata un modo di lavorare consueto nei villaggi. (…). Viene spiegata la situazione (…), e si pone la domanda: È venuto sì o no il momento di incominciare la guerra? Fra settembre, ottobre e la prima quindicina di novembre vengono consultate quattro o cinquecento comunità di quattro etnie, tzotzil, chol, tojolabal e tzeltal, e per la prima volta la maggioranza della popolazione è invitata a pronunciarsi: le donne partecipano come gruppo a sé, e votano anche i giovani che non avevano mai preso parte alle decisioni del villaggio, soprattutto a decisioni di questo tipo (Le Bot e Subcomandante Marcos, 1997, pp. 133-135).

E qui Marcos, rispondendo alla domanda di Le Bot se la scelta venne fatta a maggioranza, precisa:

"Sì, a maggioranza all’interno dell’EZLN. Ma lasciando da parte Los Altos e il Nord, nella Selva è la maggioranza della popolazione totale a votare per la guerra. È stato un voto nominale, individuale. Intendo dire che, quando scrutiniamo i voti, dopo il 12 ottobre, non diciamo tanti villaggi a favore, tanti contro, ma tanti uomini, donne, giovani hanno votato sì, e tanti no. Insomma, è stato un voto diretto e individuale ma pubblico, all’interno dell’assemblea di villaggio, non un voto segreto. Ci sono stati dibattiti, talvolta molto accesi. Ogni villaggio doveva produrre i verbali dello scrutinio (poi conservati in luogo sicuro), con i risultati e anche con le argomentazioni a favore e contro. In teoria non era un voto, ma una consultazione, siamo nel ’92, il comando consulta i villaggi per sapere che cosa pensa la gente, e poi decide a propria discrezione. Perciò chiedevamo le argomentazioni, perché il comando si potesse fare un’idea. Gli zapatisti che votavano contro la guerra dicevano che sui villaggi si sarebbe scatenata la repressione, che non erano pronti, che c’erano comunità divise, che si doveva aspettare… avevano argomenti validi. Ma per farla breve, la stragrande maggioranza si pronuncia per incominciare la guerra subito, e le comunità danno all’EZLN l’ordine ufficiale di combattere insieme a loro (Le Bot e Subcomandante Marcos, 1997, p. 135)".

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Foto di Cristina Hijar

Il passamontagna zapatista

È indubbio che il passamontagna nero sia diventato fin dalla sua prima apparizione pubblica, la mattina del 1° gennaio, il simbolo per eccellenza dello zapatismo, così come lo diventò uno dei suoi portatori, il subcomandante Marcos. È probabile che inizialmente esso fosse stato pensato come mezzo di protezione individuale per impedire l’identificazione personale degli insorti, ma, visto il successo mediatico, subito si sovrappose la giustificazione più suggestiva: ci siamo coperti il volto per essere (finalmente!) visti. In realtà, da sempre essi cercavano di essere ascoltati dal potere pubblico e da sempre erano stati ignorati. Nel 1992 fecero un ultimo tentativo con la spettacolare marcia di alcune centinaia di indigeni dal Chiapas a Città del Messico (la Marcia delle Xi’Nich, le formiche) per fare presente la loro condizione e avanzare le loro richieste. Furono ricevuti da alcuni alti funzionari, ma non dal presidente, ascoltarono le loro promesse e tornarono ai loro villaggi ma, inutile dire, nei successivi due anni che precedettero l’insurrezione nessuna delle richieste presentate fu messa in atto.
Un’ulteriore motivazione fu che indossare il passamontagna avrebbe evitato il fenomeno del ‘leaderismo’, dell’emergere di atteggiamenti di affermazione individualistica fra i capi. Comunque sia, il passamontagna è oggi il simbolo più significativo dello zapatismo. Però una figura primeggiò nei media proprio grazie al passamontagna: quella di Marcos. La cosa venne discussa e accettata, visti i vantaggi che questo simbolo presentava.

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Nota

La prima parte di “Murales zapatisti” si legge qui

2 pensieri su “Murales zapatisti. Progetto d’un mondo nuovo (2)

  1. Che meraviglia questi murales zapatisti! Progetto d’un mondo nuovo…ringrazio Roberto Bugliani e Aldo Zanchetta…Un respiro di sollievo e di speranza. Qualcosa riesce a restare per sempre, senza essere di granito come le piramidi…Il fatto è che raccolgono le grandi rivendicazioni, aspirazioni, desideri, gioie, amori, disperazioni, rabbia, sconfitte, risurrezioni, lotte dalla notte dei tempi ad oggi di oppressi in movimento perenne…
    Di queste creazioni umane e artistiche mi colpisce il radicamento nella terra, i luoghi prescelti, di vita e di lavoro, il materiale sempre recuperato dalla natura, terra, legname…E i tanti animali e piante a fare da sfondo…I messaggi a parole, essenziali ed incisivi, il coprirsi il volto per meglio scoprirsi…il riconoscersi clamorosamente e semplicemente tutti uguali…la fame è tale per tutti, e non deve umiliare ma rendere orgogliosi, altri si dovrebbero vergognare

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