Considerazioni sul tempo (di vita)

Escher a

di Franco Nova

Sembra intuitivo il fatto che la linea di scorrimento temporale avvenga sempre in un unico senso, sia irreversibile. Come si dice, la freccia del tempo sarebbe costantemente rivolta in avanti; gli avvenimenti si snoderebbero insomma dal passato verso il presente, dal presente verso il futuro, e mai in direzione contraria. “Non ci si bagna due volte nello stesso fiume” (cioè nella stessa acqua di quel dato fiume), poiché quest’acqua, proprio come il tempo, non può mai scorrere a ritroso, dalla foce alla sorgente.

Quest’idea di irreversibilità è parte integrante di ogni visio­ne umana comune, e comunemente accettata. E’ per noi del tutto naturale pensare così, e credere appunto che tale scorrimento temporale appartenga all’ordine della natura. Si tratta invece di un portato socio-culturale. Individui animaleschi non hanno alcuna vera concezione del tempo, né quindi dell’irre­versibilità dello stesso; e nemmeno esiste, al di fuori della storia e della culturalizzazione, alcuna nozione di morale, di religiosità, di conoscenza di un qualsiasi genere. L’idea dello scorrere del tempo, e della sua freccia unidirezionale, irreversibile, è legata alla scansione d’esso in unità conven­zionali, che – in seguito a lenta e lunga evoluzione – hanno trovato infine sistematizzazione in anni, mesi, giorni, ore, ecc.

Solo dopo essere riusciti a suddividere il corso temporale, prima considera­to un blocco unitario e del tutto indistinto, in tante unità convenzionali di “periodo”, in unità di una certa lunghezza, solo allora si è riusciti a capire l’irreversibilità degli accadimenti naturali e umani, biologici e sociali. Solo allora si è compreso, ad es., che quando ci si trova nuovamente in presenza di avvenimenti già verificatisi, non si tratta affatto di ritorno all’indietro del tempo, ma più semplicemente della ripetitività periodica – regolare o irre­golare; dove regolarità e irregolarità sono ancora una volta concetti socio-culturali, legati all’unità di tempo convenzionalmente stabilita – di accadi­menti che presentano fra loro molti aspetti somiglianti. Si tratta insomma di accadimenti simili, ma diversi; non fosse altro perché si ve­rificano in tempi successivi, senza nessuna possibilità di andamento a ritro­so.

Quanto detto fin qui appartiene ormai alla coscienza comune dell’uomo civi­lizzato. Tuttavia, non è questo il concetto di Tempo che si ritrova, ad es., in Proust; e che quest’ultimo riprende da Henri Bergson, mi sembra con alcune imprecisioni filosofiche rispetto alla versione originaria del bergsonismo, anche se con risultati ar­tistici evidentemente più che notevoli. Il problema che qui viene posto è la critica dell’usuale modo di intendere l’irrever­sibilità temporale. Quest’ultima infatti, nella sua versione tradizionale e usuale, implica pur sempre la linea di scorrimento temporale esterna al verificarsi degli eventi in successione (passati, pre­senti e futuri). E’ come se il tempo (e lo spazio) fosse uno scatolone vuoto entro cui accadono gli eventi, disposti secondo un prima ed un poi, che sono considerati “oggettivi” nel senso che le scansioni temporali di questo “prima” e di questo “poi” sono calcolate secondo le unità di misura convenzionalmente – e quindi intersoggettivamente (socialmente) – stabilite. Nella conce­zione (bergsoniana, ripresa in qualche modo da Proust), di cui stiamo parlando, il tempo è pensato dentro gli avveni­menti che si succedono, ne è parte costitutiva sostanziale, li conforma in modo specifico e attri­buisce loro una dinamica e una direzionalità che sono peculiari di ogni dato avvenimento. Tutto questo ha precise conseguenze.

Ogni avvenimento ha intanto una sua durata caratteristica e non suddivisi­bile secondo le scansioni temporali convenzionali. Se in un secondo viene com­piuto un passo lungo 1 m., solo astrat­tamente quel metro e quel secondo posso­no essere suddivisi (ad es., in dm. e in decimi di secondo o in cm. e in cen­tesimi di secondo, e così via). L’accadimento “passo” (quel determinato passo) ha un tempo reale ed uno spazio reale, che solo convenzio­nalmente sono indica­ti come 1 sec. ed 1 m.; ma si tratta in realtà di accadimento che ha una sua unicità e singolarità, e non è suddivisibile senza che se ne perda l’intimo ed essenziale carattere e significato (è in questo senso particolare che viene qui risolto il ben noto paradosso di Achille e le tartaruga). Esiste dunque un tempo astratto, conven­zionale (con le solite unità di misura), e poi un tempo reale caratteristico di ogni dato avvenimento, un tempo che marca quest’ultimo, che lo costituisce e struttura dall’interno, lo conforma, lo direziona, lo differenzia da ogni al­tro avvenimento.

Il tempo astratto (“oggettivo”) può sempre essere ricordato facilmente con l’uso del calendario, dell’orologio, ecc.; è fa­cile, e definitorio, ricor­darsi che il 1-12-2014 viene prima del 4-7-2015, che le ore 10 di un certo giorno vengono prima delle 18 dello stesso giorno, ecc. Così pure, se in certe date abbiamo segnato (e descritto più o meno esaurientemente) determinati avveni­menti, possiamo ricordarci facilmente d’essi nella loro astratta, estrinseca, connessione con quel tempo; gli avvenimenti in questione vengono insomma ricordati nell’esteriore descrizione fatta da noi o da altri che ce li hanno tramandati.

Assai diverso è il carattere dell’avvenimento con cui siamo entrati in colle­gamento in dati momenti della nostra vita e che la nostra memoria lega a sé ritenendolo nella sua durata reale e specifica. Innanzitutto, è evidente che l’avvenimento è qui “soggettivo”, per­ché afferrato dalla coscienza di singoli individui (non esi­ste una coscienza universale di un superindividuo: la società tutta, ad es.). Inoltre, la temporalità è un periodo di durata reale, tipico di quel certo avvenimento singolo, che viene trattenuto dalla memo­ria e non registrato co­me, ad es., il suono su un nastro regi­stratore. Non è possibile, a propria di­screzione, posizionare il “disco” della memoria su quel dato avvenimento (in quel dato tempo, cioè in quel dato spazio del “nastro registratore”) per ri­produrlo a semplice decisione. Per essere più precisi, è possi­bile ricordare volontariamente brani, spezzoni, della nostra vita passata, avulsi dal conte­sto in cui si sono verificati. La nostra memoria cosciente, quindi, può ricor­dare questi avvenimen­ti nella loro astrattezza – astrazione dal contesto speci­fico, di cui fa parte anche la loro durata temporale reale, la durata che assegna loro quella particolare coloritura e conformazione – esattamente nel­lo stesso senso in cui ognuno di noi può anno­tare nel diario, ad una data particolare (stabilita secondo le solite convenzioni di anno, mese, ecc.), un certo avvenimento della propria vita.

Ben diverso è il comportamento della nostra memoria inconscia. Essa non re­gistra singoli avvenimenti, non fissa date convenzionali; invece raccoglie e lega “in fascio”, per una particolare durata reale, una costellazione di avve­nimenti, che da quella durata – e perciò dal loro reciproco articolarsi in quest’ultima – ricevono la loro coloritura, il loro significato spirituale, cioè più profondo, più essenziale, non meramente descrivibile mediante regi­strazione discorsiva o scritta. Si pensi, per esempio, alle difficoltà di Proust, alla lunghissi­ma e laboriosa ricerca fatta per trovare il lin­guaggio più appropriato a descrivere ciò che, in linea di principio, non do­vrebbe essere passibile di descrizione linguistica; proprio perché la lingua è discreta, mentre la coloritura, il significato essenziale degli avvenimenti, costituiti insieme da una durata temporale reale, dovrebbero essere colti nella continuità del contesto relativo a tale durata e all’intreccio reciproco del fascio di eventi ad essa connessi.

In definitiva, una durata reale, non marcata secondo unità conven­zionali di mi­sura temporale, è il fascio di avvenimenti da essa penetra­ti, pervasi; pregni d’essa insomma. Avvenimenti di cui quest’ultima è parte costitutiva integrante. L’avvenimento, in quanto concrezione di una certa durata (del tipo appena indicato), non soltanto, dunque, la porta in se stesso, è ad essa consustanziale, ma si integra strettamente con ogni altro avvenimento che si sostanzia della stessa durata, che porta entro di sé la stessa durata. Quando la memoria inconscia – quella che non registra brani di vita staccati da un contesto, soltanto situati in unità di tempo conven­zionalmente stabilite – viene stimolata da qualche accadimento anche banalissimo, che si ripete nel tempo sia pure casualmente, erraticamente (ad es. la famosa mattonella su cui poggia il piede il protagonista de “La Recherche”), è tutta una durata reale, cioè un intero fascio di eventi, un effettivo pezzo della propria vita (con il suo più profondo, essenziale, significato) che irrompe nel presente, si mescola al pre­sente, si integra infine nel presente.

Da qui nasce l’emozione della parte finale del celebre romanzo di Proust. Una volta accaduto il primo erompere della memoria inconscia, altri si susse­guono e, ad un certo punto, è come se l’intera vita del protagonista (intera non certo nel senso di tutti, esaustivamente, gli avvenimenti che in questa vita si sono susseguiti, il che sarebbe assurdo) si disponesse nel presente, davanti ai suoi occhi attoniti, su un piano di “unità di tempo” tra passato e presente. In questa simbiosi sincronica dell’intera vita, di passato e presente, non è più possibile l’irruzione del futuro (sotto forma di previsioni, evidentemente); non è nemmeno pensabile la morte, la stessa de­cadenza fisica. Il protagonista ha quindi qui un sussulto, un momento di vera gioia, come di recupero al presente di tutto ciò che era stato, anzi perfino di ciò che avrebbe potuto essere; un recupero, cioè, della possibilità stessa che le cose fossero andate diversamente da come in realtà erano andate.

C’è, insomma, una sorta di pacificazione al presente di tutto il corso della vita, di tutti i suoi affanni; ogni accadimento, anche passato, pare avere al presente il suo più corretto significato. L’intera vita si mani­festa all’individuo pensante quale coordinamento necessitato di tutti gli eventi realmente accaduti che – belli o brutti che siano apparsi in passato – vengono nell’oggi ad inverarsi nel loro armonico, perché sin­cronico, signifi­cato interrelazionale complessivo. Siamo qui tuttavia in presenza solo del primo movimento della coscienza (individuale, sog­gettiva), quando irrompe in essa il passato per l’azione casuale, a flashback, della memoria inconscia.

Questa prima sistemazione sincronica non può permanere; la visione (di per­sone e cose) nel presente provoca una nuova distanziazione del passato rimemo­rato. L’irreversibilità del trascorrere temporale ritorna in primo piano nella presa d’atto della decadenza e corrompimento di uomini e cose. Ri­considerare la vecchiaia delle persone ammirate quando erano giovani (e quando era giovane pure l’“osservatore”), induce una nuova di­slocazione diacronica degli avvenimenti per l’innanzi fusi in armonica sincro­nia.

Gli eventi si ri-posizionano in un prima e in un poi; e il futuro riprende allora il suo posto accanto alla succes­sione degli accadimenti passa­ti e presenti. La rimemorazione improvvisa del passato, proprio nella sua sin­cronica correlazione al presente, serve infine a misurare la distanza e la differenziazione degli eventi fra loro, il loro trascorrere e trasmutare, il loro provenire da un passato e attraversare il presente verso un futuro, di cui non si possono certo prevedere i singoli e specifici accadimenti, ma senza dubbio invece il corrompimento finale, la decadenza decisiva: la morte (pur sempre individuale). Ne “La Recherche”, il “tempo ritrovato” mi sembra proprio questo. Sembrava esserci sincronia, intersecazione tra passato (ricordato improvvisamente dalla memoria inconscia) e presente (le sensazioni della madeleine e del the, gusto e profumo ecc.); invece si ritrova il tempo nella diacronia dei suoi diversi periodi.

Secondo me, questo avviene di fatto sempre. Il primo impeto di gioia all’irrompere improvviso e brusco del passato, il senso di stordimento provocato dalla sorpresa del suo presentarsi come allora, sfuma in genere abbastanza presto e sopraggiunge una ben diversa acquisizione: la ruota del tempo corre inesorabilmente in avanti, la durata reale (non quella astratta, delle ore, minuti, ecc.) direziona i fenomeni vitali verso la fine, ed esige perciò dal­l’individuo una scelta tempestiva per la sua vita. Logicamente, le scelte sono strettamente individuali; ciononostante, credo che ognuno debba direzionare i suoi sforzi nel posizionarsi in modo responsabile – e secondo le sue particolari attitudini, sfruttando l’intelligenza di cui è in possesso (grande o piccola, non importa) – per assolvere quei compiti alla portata delle sue capacità non nulle.

Questo mi sembra essere l’insegnamento più generale. Ognuno, al suo proprio livel­lo, secondo le sue prerogative e possibilità, deve prendere atto dell’irreversi­bilità del tempo reale, del tempo della propria vita; e deve agire di conse­guenza senza sprecarlo in continui rinvii, in continue inazioni, senza com­portarsi come se gli accadimenti, che il futuro po­trebbe riservargli se egli vivesse e agisse, fossero invece un cristallo privo di movimento interno, sempre eguale a se stesso, mancante di quegli eventi che marcano e individuano passato, presente e futuro. Mentre invece la nostra vita reale è proprio caratterizzata non dal semplice trascorrere degli anni, mesi, giorni, ma dal succedersi di passato, presente e futuro in quanto durate reali che sostanziano, articolano, direzionano, fasci di eventi pregni di significazioni singolari e irripetibi­li.

39 pensieri su “Considerazioni sul tempo (di vita)

  1. E’ proprio a quella “sorta di pacificazione al presente di tutto il corso della vita, di tutti i suoi affanni; ogni accadimento, anche passato, pare avere al presente il suo più corretto significato” -una ‘coscienza allargata’ ben nota a tutti- che si allude con l’idea che in punto di morte si avrà una visione di tutta la propria vita, che quindi torna *presente* nel senso forte della parola.
    Da qui, immagino, l’idea di una sopravvivenza oltre la morte (si traghetta in essa con tutto il proprio bagaglio di esperienza vissuta), l’idea dell’eterno compresente al tempo reale e quindi di dio nell’anima, e addirittura si crede alla resurrezione dei corpi, o comunque, con convinzioni via via più scettiche o critiche, a reincarnazioni successive, o più scientificamente, all’eternità della materia in continue trasformazioni.
    Nova torna sensatamente all'”irreversibilità del tempo reale” per ributtare chi legge sul futuro, per dis-impaniarci dalla *quella* sorpresa e stordimento in cui, mi sembra, l’attuale presente culla molti.
    “Credo che ognuno debba direzionare i suoi sforzi nel posizionarsi in modo responsabile – e secondo le sue particolari attitudini, sfruttando l’intelligenza di cui è in possesso (grande o piccola, non importa) – per assolvere quei compiti alla portata delle sue capacità non nulle”, incoraggia.
    E’ però la solita opposizione tra oriente e occidente, tra iniziativa-prassi e contemplazione, tra cultura occidentale laica e materialista, e religioni.
    Però, per puro divertimento, riporterò un brano da Sei lezioni di fisica di Carlo Rovelli, a proposito del nostro labile confine tra tempo reale irreversibile e allargato presente: “Quando muore il suo grande amico italiano Michele Besso, Albert Einstein scrive in una lettera commovente alla sorella di Michele: ‘Michele è partito da questo strano mondo, un poco prima di me. Questo non significa nulla. Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distinzione tra passato presente e futuro non è altro che una persistente cocciuta illusione’.”

  2. Tema interessantissimo, lucidamente riassunto nei suoi termini “classici” qui da Nova. E che personalmente mi tocca su due punti sensibili e controversi: – la lezione che si può trarre dalla “Ricerca” di Proust; – il contrasto tra ricordo e memoria involontaria.
    So di annoiare tirando in ballo sempre Fortini ( e qualcuno me lo continua a rimproverare…), ma devo riconoscere onestamente che è ancora da due suoi scritti – «Alla ricerca del tempo perduto» ( in «Ventiquattro voci per un dizionario di lettere», Il saggiatore, Milano 1968); «Il controllo dell’oblio» (in «Insistenze», Garzanti, Milano 1985) – che ho potuto da una parte riordinare le mie confuse impressioni di “provinciale” della lettura giovanile che feci subito dopo il liceo di quasi tutta la «Ricerca»; e dall’altra cogliere le implicazioni problematiche e attualissime – tra il personale e il politico, tra l’io e l’io-noi – della distinzione tra memoria volontaria («ricordo» dice consapevolmente semplificando Fortini) e memoria involontaria.
    Cosa poteva ricavare il ventenne provinciale che fui a SA agli inizi dei Sessanta dai volumi della «Ricerca» che comprava man mano che uscivano nella Mondadori economica (quella con la costa in tela rossa)? Suggestioni, solo suggestioni. Quella evocazione era grandiosa e coinvolgente, ma riguardava un mondo borghese-aristocratico a lui inarrivabile e ignoto, fatto di personaggi raffinati, spudorati e coltissimi e di modi di sentire e pensare e colloquiare che lo stupivano e forse lo scandalizzavano (data l’educazione cattolica ricevuta).
    E però anche un esempio (e forse modello) di una dedizione eroica e caparbia allo scavo nella memoria personale, che incoraggiò una sua predisposizione spontanea e acritica alla medesima operazione. Perché aveva già avviato per conto suo e in segreto (sotto lo stimolo della passione per la letteratura, ma anche per lo stacco subìto dal mondo paesano dell’infanzia con il trasferimento in città e una scolarizzazione penosa che chiedeva risarcimenti..) una raccolta di ricordi, appunti, esplorazioni riguardanti quel suo pezzo di esperienza campagnola, che, scrivendone, si colorava di mito. E che poi è continuata e continua ma in condizioni diverse, precarie e tra mille interruzioni (di cui tra l’altro Fortini spiega le radici materiali e storiche) .
    Fortini (nei due scritti citati, ma soprattutto nel secondo), mi ha fatto capire meglio la complessità letteraria dl lavoro di Proust ( il suo legame con «due fonti di tradizione francese: – la prima che va da Montaigne a Laclos, a Bergson, quest’ultimo ben presente a Nova); – la seconda «della memorialistica e saggistica di costume, di Saint-Simon come di tanti autori del Seicento e del Settecento, presente anche nella «Commedia» balzacchiana») e il suo intento “enciclopedico” («”Romanzo annegato in un trattato”, è stato detto: ed infatti allo sforzo continuo di dedurre leggi generali dalle osservazioni particolari si aggiungono innumerevoli paragrafi su argomenti specifici, dall’araldica alla linguistica, dalla recitazione teatrale all’arte militare. Ma soprattutto la “Ricerca” contiene una estetica, una morale e una fenomenologia della conoscenza; per non dire una storia di buona parte della letteratura francese, una somma di giudizi su molti autori stranieri, osservazioni penetranti sull’arte del medioevo gotico, del rinascimento italiano ,della pittura olandese e dell’impressionismo francese. Proust vi ha gettato tutto il suo bagaglio di conoscenze, per farne un “tesoro”, nel senso medievale della parola»).
    Ma è sul contrasto tra memoria volontaria e involontaria che Fortini diceva (negli anni Ottanta!) qualcosa degna di discussione, perché misura tutta la distanza nostra da Proust e contestualizza *politicamente* la questione della memoria volontaria e involontaria, riportandola ai nodi irrisolti della nostra esistenza individuale e politica tuttora irrisolti. Riporto perciò un lungo brano dal secondo scritto:

    È risaputo che dopo i primi vent’anni del nostro secolo l’opera
    di Proust propose ai propri lettori una pratica di ascesi, di
    conoscenza e di redenzione fondata sul recupero di particolari
    esperienze trascorse. «Le verità che l’intelligenza afferra diret-
    tamente nel mondo della piena luce hanno qualcosa di meno
    profondo, di meno necessario di quel che la vita ci ha comuni-
    cato nostro malgrado in una impressione; che è materiale per-
    ché ne siamo stati penetrati per la via dei sensi ma della quale
    noi possiamo *dégager l’esprit*, liberare, e svolgere, l’essenza spiri-
    tuale».
    Nulla di troppo nuovo, in questa proposta; analoghe disci-
    pline sappiamo essere state sempre vigenti in società o gruppi
    umani di forte vita religiosa; dove si è sempre insegnato come
    disporsi a ricevere la’ Grazia o a salire i gradini dell’estasi. La
    novità era semmai questa: Proust constatava che il recupero
    salvifico era possibile solo convertendo l’esperienza «richiama-
    ta» dalla memoria in un equivalente spirituale che definiva «o-
    pera d’arte». Vedremo che questa, a prima vista bizzarra. pre-
    tesa di trasformare tutti gli uomini in artisti, può aiutare a
    chiarire alcuni aspetti della nostra realtà contemporanea.
    Proust distingue fra una memoria volontaria, che egli tende
    a vedere come già formulata in pensiero verbale (e che, per
    semplificare, possiamo chiamare «ricordo») e una involontaria,
    che ci riporta invece una totalità di esperienze, concentrate in
    un punto del tempo che è passato e che torna presente. Deco-
    struire le totalità ineffabili che la memoria involontaria ci ri-
    propone, per crearne un equivalente metaforico: questo ne
    consente la riappropriazione e in tale riappropriazione è la sola
    nostra possibile compiutezza umana.
    Per quanto questo itinerario si proponesse a tutti in realtà
    esso opponeva ancora una volta – in analogia con numerose
    formulazioni elitarie apparse fin dall’alta età del romanticismo
    tedesco – una capacità di separazione dal volgare «ricordo»
    che è di tutti, non senza colpire le pretese della storiografia po-
    sitivista, con la sua sottintesa o esplicita nozione di tempo quale
    continuità o flusso senza cesure. Ebbene, quel che qui posso
    enunciare solo in modo assertivo, e non dimostrare, è che il ge-
    nere di vita quotidiana ormai solidamente costituito nelle socie-
    tà urbane del moderno universo tecnologico di produzione e
    consumi ha creato nel giro di un cinquantennio le condizioni
    perché in masse grandissime di uomini gli episodi della emer-
    genza della memoria involontaria si moltiplichino e dilatino si-
    no ad occupare una larga parte della vita psichica, di altrettan-
    to riducendo e svalutando la funzione del «ricordo».
    Invece di ricordare, si gestiscono episodi di memoria involon-
    tana preconsci o subliminali (come li chiamava Joyce; che par-
    ava anche di «epifanìe»). Essi vengono così adibiti ai piccoli
    cerimoniali dell’angoscia e della privata superstizione, a delizie
    coatte, a forme degradate di mistica. Brodo di coltura delle ne-
    vrosi, consolazioni di melodie private.
    Lo sviluppo contemporaneo non si è davvero limitato ad at-
    trezzare un diverso paesaggio (come, un po’ ingenuamente,
    avevano previsto i futuristi) e neanche a diminuire (come ave-
    vano voluto i surrealisti) la distanza fra universo della coscien-
    za e zone del preconscio. Con tutto questo si restava ancora sul-
    la solida, diurna terra; e i «viaggi» delle esperienze erotiche,
    oniriche o mistiche, con o senza l’aiuto di droghe, avrebbero
    continuato a essere forniti di biglietto di ritorno. Si era ancora
    ben lontani da quella giustapposizione schizoide fra universo
    del «ricordo» ossia della razionalità e della prestazione) e uni-
    verso della «memoria involontaria» (ossia del piacere e del so-
    gno). O, per meglio dire, tale giustapposizione, sempre presen-
    te, non era diventata, come oggi è, costitutiva della società e
    istituzionalmente intrattenuta e sfruttata.
    È quasi inutile rammentare che questo processo – altra vol-
    ta ebbi a chiamarlo «surrealismo di massa» – ha una sua sor-
    ente nei modo produzione della fabbrica moderna (si veda-
    no e pagine di Braverman) che le successive «generazioni»
    elettroniche stanno bensì alterando ma forse non diminuendo;
    anzi aggravando. Non sarà (già non è) più la ripetitività del
    lavoro al pezzo a indurre lo stato di diminuita lucidità e l’emer-
    sione di episodi di memoria involontaria di cui hanno scritto

    non pochi psicologi della vita di fabbrica; ma semmai la sem-
    pre più irrecuperabile distanza tra l’operatore e l’esito degli au-
    tomatismi, con la scomparsa – al limite – di ogni «materiali-
    tà» ossia di ogni esperienza sensibile insieme ad ogni vera atti-
    vità intellettuale.
    Ridicolo pensare di sfuggirvi passando dal tempo coatto,
    iscritto in un fatale «software» (sequenze audiovisive o della
    pubblicità o dei pubblici trasporti o dell’auto) a quello privato
    della contemplazione o della meditazione. È proprio quest’ulti-
    mo ad essere definitivamente imbevuto dai «tempi» forniti dal-
    la fabbrica, dal mercato e dalle fabbriche di consenso. Qual è,
    oggi, la durata media di una lettura continuata? Quale la ca-
    pacità di attenzione sostenuta? Non paradossalmente, quanto
    più si rinuncia a «ricordare» ossia a formulare verbalmente la
    storia che conosciamo, di noi e degli altri, tanto più la congerie
    dei frammenti memoriali emergenti da esperienze scomparse
    diventa medium delle nostre giornate, un glutine attraversato
    da pulsazioni e da soprassalti. Quando ci illudessimo di poterne
    elaborare un frammento, interrogarlo (come Proust ha fatto)
    fino in fondo, ci dovremmo accorgere che il tempo di contem-
    plazione di cui si dispone si esaurisce rapidamente,
    come in certe affollate esposizioni o nei dibattiti televisivi
    dove, ben presto, «il tempo sta per scadere». Nella cella dove
    credevamo, attar-
    dati seguaci di Teresa di Avila e di Marcel Proust, di poter con-
    nversare con le intatte vergini della memoria profonda o invo-
    lontaria, appaiono invece le oscene meretrici mondane che os-
    sessionarono gli antichi monaci penitenti. E la maggioranza dei
    nostri pari ci grida che va bene così.
    Per di più, tutto questo, oggi e nel nostro paese, appare non
    come un processo in corso ma come alcunché di stabile e di soli-
    do e di cui ormai nessuno più si accorge. Questa è la «moder-
    nizzazione», lungo più di un secolo auspicata da intellettuali e
    politici. Penso all’ultimo Vittorini, ai suoi scritti sulle *Due tensioni,*
    di recente ristampati; e a come si fosse sbagliato. Penso ai politici,
    all’arco amplissimo che va dagli uomini della destra tecnologica
    e laica a quelli della sinistra operaista: oggi sposi.
    Quei desideri sono adempiuti. L’Italia è un paese «moderno»
    con qualche trascurabile ritardo. Se fra il grado di informazio-
    ne dei gruppi dirigenti e quello delle masse dirette ci sono anco-

    ra delle «discrasìe», come non senza eleganza ha detto giorni fa
    uno specialista in «ricordi» cioè uno storico (Paolo Spriano),
    discorrendo delle vicende del suo partito; se cioè i meno hanno
    sistematicamente mentito ai più per vent’anni, nulla di male;
    un po’ di pazienza e il progresso (o un congresso) metterà tutto
    a posto.
    Le conseguenze di tutto questo non però sono state quelle
    che erano temute dai deprecatori del tecnologismo e dai nostal-
    gici dell’umanesimo; e neanche quelle auspicate dagli apologe-
    ti della «rnodernizzazione» che ho sopra nominati. O meglio: si
    sono avute queste e quelle ma le une e le altre sono state, e di
    molto, oltrepassate dalle conseguenze della situazione economi-
    ca e, ancor più, di quella politica. Con brutalità, gli anni del
    «miracolo» avevano «modernizzata» tanta parte della peniso-
    la; quelli della fine del decennio Sessanta avevano, con altret-

    anta brutalità, alterato gli equilibri fra società e ceto politico.
    Con l’inflazione, vale a dire con l’impossibilità di risparmio
    equivalente a impossibilità di «ricordo» e di «previsione», con
    la disoccupazione e la sottoccupazione e, finalmente, con la li-
    quidazione d’ogni possibile prospettiva politica, l’ultimo decen-
    nio ha avuto bisogno di produrre una gran e quantità di tran-

    quillanti e di analgesici che abbassassero la soglia della coscien-
    za; l’oblio omerico, quello che toglie ogni ricordo della patria e
    ogni nostalgia è diventato un bisogno collettivo. Alla lettera,

    non sappiamo più che cosa abbiamo fatto, chi eravamo, che
    cosa volevamo, un mese, un anno, dieci anni fa. Non sappiamo.
    Ma viviamo per soprassalti, attraversati da pulsioni memoriali.
    Come gli ubriachi, siamo tuttavia abbastanza lucidi per esegui-
    re certe sequenze di comportamenti.
    Parlo di sonnambulismo ma non è una metafora. Di questa
    permanente produzione di effimeri psichismi in sospensione
    aveva già profetizzato e forniti esempi la grande letteratura eu-
    ropea fra il 1915 e il 1935. Quel ventennio aveva così anticipa-
    to modi di esistenza che oggi sono cibo e escremento quotidia-
    no di masse enormi. Di qui si può vedere che il presente ragio-
    namento si ricollega al tema delle adolescenze prolungate e del

    sarcasmo come cultura del nullismo, dunque,della assenza di
    «ricordo», e quindi di storia, per chi vuole sapere qualcosa del
    proprio passato e di quello del proprio padre. Il gesto di chi si
    droga è simbolico di noi tutti, lo sappiamo da un decennio. Chi
    vuole che non si ricordi (ossia chi vuole un mondo di adolescen-
    ti e di servi) vuole anche che le esperienze della memoria invo-
    lontaria e le emersioni del subconscio – capaci di compiere, in
    altri tempi, miracoli religiosi, rivoluzionari e artistici – siano
    diffuse, incontrastate e quindi impotenti come molecole di un
    gas decompresso. L’espropriazione del «ricordo» cioè della tra-
    dizone è il vero esito della colonizzazione; perché di questa, in
    definitiva, sto parlando. Su questo tema Simone Weil ha scritto
    parole indelebili.

    So bene, così rivendicando ricordo e storia contro l’immagi-
    naria pienezza della memoria «profonda», di scrivere contro
    due dei miei più cari e grandi maestri, Proust e Benjamin. Ma
    non si può lasciare il ricordo e la storia nelle mani dei padroni e
    signori. Non si può, come dice il poeta, nutrirsi dei «sogni gio-
    condi d’error». I nostri sonnambuli (questa è la mia conclusio-
    ne provvisoria) vivono quindi nella dimensione degradata, del-
    l’«estetico».
    E quando si è afferrati dall’angoscia di morte, entro di noi
    non sappiamo trovare se non feticci di figurazioni culturali o
    frustoli di poesia. Il «ricordo» invece, nella sua definitività nar-
    rativa, è oggetto o strumento. Può passare di mano in mano.
    Già in sé contiene giudizio e scelta. Strappa al magma dei pa-
    radisi e degli inferni solo interiori. Costruisce dure sequenze di
    una temporalità non individuale. Esige il patto fra persone e
    generazioni; e la fedeltà al patto.

    ( da «Insistenze» pagg. 133-137)

    1. Il testo di Nova distingue due modi del rapporto del presente con il passato. Il commento di Ennio sviluppa quel tipo di rapporto del presente col passato che possa muovere in direzione del futuro. E’ una scelta *politica*, presente nel testo di Nova come nella lunga citazione di Fortini come nel commento.
      Per mantenere questa continuità con gli altri due, nel suo commento Ennio usa una particolare struttura retorica, la mise en abyme, una specie di scrittura frattale. Dichiara degno di discussione il bel brano di Fortini in particolare sul tema memoria volontaria formulata in pensiero verbale, e lo argomenta in base a una propria memoria volontaria formulata in pensiero verbale. Pur parlando per interposti defunti, attraverso Proust e Fortini che scrive di Proust, privilegia con Fortini la dimensione ricordo-storia rispetto alle “totalità ineffabili che la memoria involontaria ci ri-
      propone”.
      Il ricordo-storia diventa “patto” tra le generazioni mentre il tempo diventa “temporalità non individuale”. Ennio, con Fortini, lascia cadere un rapporto di memoria profonda o involontaria col passato perché “non si può lasciare il ricordo e la storia nelle mani dei padroni e signori”, in cambio si guadagna un’opzione sul futuro.
      Come la parola patto, anche perdita e guadagno stanno in un registro mercantile. La razionalità e la prassi sfrondano il passato di quanto non serve a far emergere una linea chiara di ipoteca sul futuro, ma in sè questa linea non implica un contenuto politico particolare, lo dimostra la pervasiva avanzata del capitale.

  3. la distinzione tra passato presente e futuro è proprio una gran “cocciuta illusione”. Temo infatti che sia una illusione, per “soffrire” di meno, far finta che non esista questa successione temporale. In ogni caso, io continuo a nutrire simile “illusione”; e con tanta convinzione che mi procura nostalgie e malinconie. Magari potessi convincermi che il passato e il futuro sono soltanto illusioni (soprattutto il passato, a dir la verità). E non soltanto il passato mi appare reale, ma ho una maledetta memoria di un gran massa di ricordi; in maggioranza belli, che mi procurano più o meno la stessa sensazione dei ricordi tristi, cioè quella di una perdita, il “banale” pensiero del “non ritornerà mai più”, del “non vedrò più quella persona”, ecc. Mi piacerebbe convincermi che si tratta solo di una illusione, ma non posso, sono privo della “intelligenza” di Einstein (o forse soltanto del suo tentativo di trovare parole “toccanti” ma inutili; non credo abbiano portato reale conforto alla sorella di Michele Besso, che sarà rimasta con i suoi assai più toccanti ricordi del passato).

    1. Non so, anzi non lo credo, che Einstein volesse usare parole toccanti ma inutili con la sorella di Michele. Ho copiato la frase *scandalosa* per divertirmi, come ho scritto, ma Rovelli offre una spiegazione scientificamente credibile per la frase di Einstein: “Il ‘presente’ non esiste in modo oggettivo più di quanto non esista un ‘qui’ oggettivo, ma le interazioni microscopiche del mondo fanno emergere fenomeni temporali per un sistema (come noi stessi) che interagisce solo con medie di miriadi di variabili. La nostra memoria e la coscienza si costruiscono su questi fenomeni statistici, che non sono invarianti nel tempo. Per un’ipotetica vista acutissima che vedesse tutto non ci sarebbe tempo ‘che scorre’ e l’universo sarebbe un blocco di passato presente e futuro. Ma noi esseri coscienti abitiamo il tempo perché vediamo solo un’immagine sbiadita del mondo.”
      E ci risiamo: il tempo è per noi, non per un’ipotetica vista acutissima.
      Il bello è che quell’ipotetica vista è un nostro pensato…

  4. ho letto anch’io il Rovelli (sia “La realtà non è come ci appare” che il libriccino con le sette lezioni di fisica). Non sono un esperto, anche se ho letto molti libri divulgazione scientifica (della varie scienze naturali); ci capisco quel poco che riesco. Mi sembra che Rovelli abbia idee diverse da altri divulgatori e mi è sembrato anche più criptico di altri in molti passaggi. Comunque, qui non si parla deltempo della scienza ma di quello che avvertiamo noi nella nostra vita, che non “sa molto” di relatività generale, di quanti, di gravitazione quantistica (un campo, se ho ben capito, ancora molto “nebbioso”). Nella mia vita, io sento molto il passato anche se cerco di farmi condizionare poco da esso (ma la nostalgia……). E i morti li sento tantissimo. La scienza serve ad altre cose, ma non metta becco nella mia vita! La letteratura, invece, avrei voluto praticarla molto di più, mi sento assai carente e quindi “impoverito”. E le altre arti……

  5. …lo scritto di Franco Nova, riferendosi a scrittori come Bergson e Proust, ci ricorda come la memoria di fatti presenti e passati faccia riferimento allo scorrere del tempo. Come il corso di un grande fiume è unidirezionale ed irreversibile, tuttavia nello stesso modo in cui alla corrente lenta e sempre uguale si può sostituire un procedere più veloce ed accidentato, con rapide, o ingorghi dove l’acqua sembra risucchiata in profondità oppure in mulinelli quando gira vorticosa su se stessa, così la memoria, soprattutto se involontaria o inconscia, può registrare una sua durata reale, lontana dalle scansioni ufficiali del tempo, e dilatarsi oppure cadere in amnesie o in giri a vuoto su se stessa…L’invito di Proust a riappropriarsi di sensazioni dimenticate per ricostruire in forma più completa la propria esperienza di vita mi sembra interessante, ma è superato, ovvero sempre meno praticabile, oggi che le varie forme di propaganda e di costrizione da parte del sistema capitalistico, come ben dice F. Fortini nel suo lucidissimo scritto, hanno generato una totale confusione nel campo della memoria: i ricordi di fatti importanti che costituiscono la nostra storia personale e collettiva sono travolti da una massa indistinta di contenuti ed automatismi immessi ed azionati da sistemi elettronici sempre più invasivi nella nostra vita quotidiana…Una valanga…speriamo si possa fermarla

  6. Sì, nel testo di Fortini la scelta tra memoria volontaria (o ricordo) e memoria involontaria (flusso di coscienza caotico più o meno afferrato) è nettamente *politica*. E si sente la fatica che fa ad abbandonare la strada di Proust e Benjamin («So bene, così rivendicando ricordo e storia contro l’immaginaria pienezza della memoria «profonda», di scrivere contro due dei miei più cari e grandi maestri, Proust e Benjamin»).
    Ma correggendo l’interpretazione che Cristiana dà della mia posizione “fortiniana”, devo far notare che, presentando come «degno di discussione il bel brano di Fortini in particolare sul tema memoria volontaria formulata in pensiero verbale», mi aspetto appunto che venga discusso. Perché, pur privilegiando ancora « con Fortini la dimensione ricordo-storia rispetto alle “totalità ineffabili che la memoria involontaria ci ripropone», vedo, rispetto agli anni Ottanta del Novecento, dai quali lui parlava, moltiplicata per cento la spinta alla memoria involontaria, non più proustianamente ricomponibile o praticabile secondo il progetto di ascesi dello scrittore francese.
    Vorrei che si riflettesse bene sulla diagnosi tremenda che Fortini stesso allora (anni ’80) faceva. Perché, oggi, se riuscissimo ad aggiornarla, dovrebbe essere ancora più spietata e disperata:

    « Con l’inflazione, vale a dire con l’impossibilità di risparmio equivalente a impossibilità di «ricordo» e di «previsione», con la disoccupazione e la sottoccupazione e, finalmente, con la liquidazione d’ogni possibile prospettiva politica, l’ultimo decennio ha avuto bisogno di produrre una gran e quantità di tranquillanti e di analgesici che abbassassero la soglia della coscienza; l’oblio omerico, quello che toglie ogni ricordo della patria e ogni nostalgia è diventato un bisogno collettivo. Alla lettera, non sappiamo più che cosa abbiamo fatto, chi eravamo, che cosa volevamo, un mese, un anno, dieci anni fa. Non sappiamo. Ma viviamo per soprassalti, attraversati da pulsioni memoriali. Come gli ubriachi, siamo tuttavia abbastanza lucidi per eseguire certe sequenze di comportamenti».

    Mi pare che, se Fortini sempre più isolato ma con una salda coscienza della tradizione marxista, allora faceva questa battaglia contro «chi vuole che non si ricordi (ossia chi vuole un mondo di adolescenti e di servi)» e «vuole anche che le esperienze della memoria involontaria e le emersioni del subconscio – capaci di compiere, in altri tempi, miracoli religiosi, rivoluzionari e artistici – siano diffuse, incontrastate e quindi impotenti come molecole di un gas decompresso», oggi gli stessi che la conducono sono ancora più isolati di lui e in più con una tradizione marxista quasi del tutto disfatta. E combattono con risultati ancora più scarsi di quelli di Fortini.
    Questo dobbiamo dircelo.
    I miei numerosi tentativi sul Web e su FB di tirare nella discussione temi “fortiniani” o di indurre a pronunciarsi sui nodi storici degli anni Settanta rimasti irrisolti e occultati o di riproporre ai tanti che si occupano di poesia la questione di “quale poesia oggi” (che implicitamente segnala un’insoddisfazione e una “nostalgia” per quella che, appunto, una volta si nutriva di storia e di tradizione..) non trovano ascolto; e anzi proprio dai giovani vengono spesso reazioni ostili e infastidite.
    Temo che cose simili succedano anche a voi.

  7. …a mia volta chiedo a voi perchè non ho le idee proprio chiare: la memoria involontaria corrisponde davvero a un “flusso di coscienza caotico più o meno efferato”? Se è come mi sembrava di aver capito, essa sviluppa una maggiore conoscenza di sè, quindi dovrebbe generare un maggior ordine dentro alla persona e, di riflesso, nella comunità…
    Quello che F. Fortini definisce stato di sonnambulismo, simile a quello indotta dalla droga, riferendosi alle conseguenze devastanti sulle persone dei bombardamenti mediatici audiovisivi, delle nuove tecnologie ( alludendo che con l’avanzamento dell’elettronica la situazione sarebbe peggiorata e aveva ben ragione), più che l’effetto della memoria involontaria, di per sè positiva, risulterebbe l’effetto di una immissione volontaria nelle menti di contenuti ed automatismi distruttivi dell’uomo e della sua libertà di pensiero…

  8. …scusate concludo…Scompare così quella capacità di raccogliere con interesse, attraverso la memoria volontaria, quei ricordi che sono ancorati alla nostra storia e alla nostra tradizione…un eterno presente, inventato dai giovani, ma anche dai meno giovani: euforici a un passo dalla depressione…ma non è anche questa una manovra per separarci?

  9. @ Ennio. Il mio punto di partenza è stato quella struttura a cannocchiale che tu, Ennio, hai usato in un contesto di legami tra presente e passato, e proiezione verso il futuro. Dentro questo legame tra i tre tempi di Nova, tu hai inserito un tuo collegamento a Fortini, che ugualmente prediligeva un certo tipo di legame col passato in una prospettiva *politica*, cioè di azione possibile, verso il futuro.
    Da subito, leggendo il tuo commento, questo ripercorrere i passi all’interno di un certo percorso, mi ha colpita. Mi chiedo ancora se il ricorso a una figurazione, dirò così, frattale, non implichi appunto una condivisione profonda del tema.
    Qual è la condivisione profonda? Ho abbozzato una prospettiva, illuminista, di razionalità e di prassi. Chiedendomi, subito dopo, se questa prospettiva di un agire volontario e razionale nella storia non appartenga, di suo, alla cultura occidentale propria dello sviluppo economico oggi pervasivo.
    Solo da qui vado poi a distinguere tra memoria volontaria articolata linguisticamente o inconscio memoriale globalizzante, con tutti i cascami irrazionali (e intenzionalmente promossi) di cui siamo ben avvertiti, e stufi.
    Non ho soluzioni di nessun genere, purtroppo, anche se credo che, di suo, collegarsi a una linea di razionalità e di prassi non garantisca nulla, soprattutto non tuteli dal dominio dell’attuale capitalismo avanzato.
    Il tuo richiamarti spesso a Fortini mi appare come un richiamo etico alla sobrietà e al rigore della ragione, e lo trovo quanto mai corretto e opportuno in questi tempi. Forse penso che bisogna calibrare la nostra visione su tempi più allargati e più brevi, stare decisamente al presente in tutta la sua immediata ricchezza e complessità. E che la poesia dei molti rifletta, non in tutti, non sempre, questa pluralità di istanze, di comprensioni, di intenzioni di analisi.
    Spero di essermi spiegata meglio, così.

  10. UN MARE DI DOMANDE
    1. – Vediamo se ho capito bene. Franco Nova, richiamando alcuni punti centrali dell’esperienza letteraria proustiana (“tempo vissuto” contro “tempo cronologico, astratto”; “memoria involontaria”, contro “memoria volontaria”, ecc.) propone di fare proprio e attualizzare l’insegnamento dell’illustre scrittore francese. Insegnamento che, in conclusione, a parere di Nova, sarebbe questo: «Ognuno, al suo proprio livello, secondo le sue prerogative e possibilità, deve prendere atto dell’irreversibilità del tempo reale, del tempo della propria vita; e deve agire di conseguenza senza sprecarlo in continui rinvii, in continue inazioni, senza comportarsi come se gli accadimenti, che il futuro potrebbe riservargli se egli vivesse e agisse, fossero invece un cristallo privo di movimento interno, sempre eguale a se stesso, mancante di quegli eventi che marcano e individuano passato, presente e futuro. Mentre invece la nostra vita reale è proprio caratterizzata non dal semplice trascorrere degli anni, mesi, giorni, ma dal succedersi di passato, presente e futuro in quanto durate reali che sostanziano, articolano, direzionano, fasci di eventi pregni di significazioni singolari e irripetibili.»
    Ennio, dopo aver raccontato la sua esperienza adolescenziale di lettura dell’opera proustiana, che, comunque, oltre a tante suggestioni, qualche risultato produsse sul piano comportamentale e gestuale (incoraggiamento ad una “dedizione eroica e caparbia allo scavo nella memoria personale”, “raccolta di ricordi, appunti, esplorazioni”), ci rimanda al Fortini di «Ventiquattro voci per un dizionario di lettere» (Il saggiatore, Milano 1968) e de «Il controllo dell’oblio» (in «Insistenze», Garzanti, Milano 1985), scritti che gli hanno fatto capire meglio “la complessità letteraria del lavoro di Proust”. Ottimo. Però, poi invita a concentrare la nostra attenzione “sul contrasto tra memoria volontaria e involontaria” su cui «Fortini diceva (negli anni Ottanta!) qualcosa degna di discussione, perché misura tutta la distanza nostra da Proust e contestualizza “politicamente” la questione della memoria volontaria e involontaria, riportandola ai nodi irrisolti della nostra esistenza individuale e politica.»
    2. – ho letto e riletto le pagine fortiniane. In estrema sintesi, ho capito questo:
    a) La “bizzarra pretesa” (proustiana) di “trasformare tutti gli uomini in artisti” attraverso la decostruzione delle “totalità ineffabili che la memoria involontaria ci ripropone” si è avverata o, se si preferisce, si è adempiuta (Fortini ha una concezione “figurale” delle scritture letterarie). La «giustapposizione schizoide» fra universo del “ricordo”, ossia della razionalità e della prestazione, e universo della “memoria involontaria”, ossia del piacere e del sogno, sempre presente anche nel passato, oggi è diventata “costitutiva della società e istituzionalmente intrattenuta e sfruttata” (“surrealismo di massa”).
    b) Questo processo ha origine nel modo di produzione capitalistico e nei suoi rapporti di produzione; il “surrealismo di massa” ci fa vivere come ubriachi o sonnambuli nella dimensione degradata dell’«estetico», tutti impegnati a gestire “i piccoli cerimoniali dell’angoscia e della privata superstizione”, le “delizie coatte”, le “forme degradate di mistica”. «Brodo di coltura delle nevrosi, consolazioni di melodie private.»
    c) Anche lo volessimo, non potremmo essere degli epigoni di Proust, a causa delle condizioni di lavoro e di vita in cui siamo immersi. Il tempo di “contemplazione e meditazione” di cui disponiamo si “esaurisce rapidamente”. Non è forse la “fretta” una caratteristica della nostra vita quotidiana?…«Qual è, oggi, la durata media di una lettura continuata? Quale la capacità di attenzione sostenuta?» Questa, purtroppo, è la «modernizzazione», auspicata da intellettuali e politici da più di un secolo. «Penso all’ultimo Vittorini, ai suoi scritti sulle “Due tensioni”, di recente ristampati; e a come si fosse sbagliato. Penso ai politici, all’arco amplissimo che va dagli uomini della destra tecnologica e laica a quelli della sinistra operaista: oggi sposi. Quei desideri sono adempiuti. L’Italia è un paese “moderno” con qualche trascurabile ritardo.»
    d) Se già “l’oblio omerico” era diventato un “bisogno collettivo” negli anni Ottanta (“Insistenze” è del 1985), figurarsi dopo il “crollo del muro”(1989), dell’URSS, dei Partiti comunisti e l’inabissamento di qualsiasi orizzonte anticapitalista; figurarsi dopo il crollo delle Due Torri, dopo le tante guerre, l’affermazione della new economy, l’arruolamento in Rete di miliardi di persone con i vari Facebook, WhatsApp, ecc. ecc. … «Alla lettera, non sappiamo più che cosa abbiamo fatto, chi eravamo, che cosa volevamo, un mese, un anno, dieci anni fa. Non sappiamo. Ma viviamo per soprassalti, attraversati da pulsioni memoriali.Come gli ubriachi, siamo tuttavia abbastanza lucidi per eseguire certe sequenze di comportamenti. Parlo di sonnambulismo ma non è una metafora.»
    e) Poiché, «l’espropriazione del “ricordo” cioè della tradizione è il vero esito della colonizzazione», Fortini rivendica giustamente «ricordo e storia contro l’immaginaria pienezza della memoria “profonda”». Sa bene di «scrivere contro due dei miei più cari e grandi maestri, Proust e Benjamin. Ma non si può lasciare il ricordo e la storia nelle mani dei padroni e signori. Non si può, come dice il poeta, nutrirsi dei “sogni giocondi d’error”. »
    Quindi: bando all’inconscio, al sogno, al surreale e alla “memoria” involontaria; passiamoci, di mano in mano, i “ricordi” e diffidiamo di Proust…Anzi, non leggiamolo!…E, se proprio vogliamo leggerlo, facciamolo con questa consapevolezza politica
    3. – A questo punto, il mio mare di domande.
    Sub a): La “bizzarra pretesa” (proustiana) di “trasformare tutti gli uomini in artisti” ha qualcosa a che vedere col fenomeno che Ennio ha chiamato della “moltitudine poetante”?…Cosa consigliamo ai tanti poeti e artisti che ci circondano? Trascorrete un anno a leggere le poesie di Goethe e lasciate stare Proust? Oppure leggete Brecht? O la Bibbia?…Con questi “numi tutelari” forse riuscirete a scrivere delle poesie più efficaci…O suggeriamo loro brutalmente di dedicarsi ad altro perché l’arte non è attività “alla portata di tutti”?…Gli confessiamo che in questo campo il “principio democratico” non è valido perché è un “fare” (poiesis) per “aristocratici” sociali e dello Spirito?…
    Sub b): Soltanto il “surrealismo di massa” ha origine nel modo di produzione capitalistico? Forse che questo modo di produzione non ha anche utilizzato ebraismo, cristianesimo, protestantesimo?…Forse che Marx non nasce da una costola di Hegel, rovesciandone poi le premesse?…L’estetico del surrealismo di massa è degradato e quello di Manzoni, di Brecht, di Fortini?…Non è forse vero che nel momento in cui si separa il fare dell’artista (poiesis, produzione) dall’articolazione della ricezione e del “giudizio estetico” (grosso modo all’altezza di Kant), tutto l’estetico si degrada. Non è forse Kant a sostenere che l’arte è un fare “disinteressato”, “inutile”?…E il nostro Nuccio Ordine di oggi non ha venduto migliaia di copie col suo “L’utilità dell’inutile”?…Voglio dire: è da qualche secolo che l’estetico può diventare “religione dell’illusione”, brodo di coltura della nevrosi, ecc. ecc. Non è possibile forse cogliere anche nell’opera di Fortini “la promessa di felicità” non realizzata?…
    Sub c): Gli insegnanti non fanno che lamentarsi delle condizioni di attenzione e concentrazione degli studenti di oggi. Scarsissime, dicono. Cellulari, network sociali (Facebook, WhatsApp, Twitter…) sono diventate vere e proprie gabbie di connessione…Dal 1985 tutto è indubbiamente peggiorato…Trent’anni neri!…E, però, ci sono sintomi, segnali strani. Qualche anno fa, ad esempio, c’è stato a Cologno un convegno nazionale dei “gruppi di lettura”. Non ho mai visto ad un convegno tante persone. Sia pure a fatica, si legge: Cosa? Come? Dove? Quando?…
    Questa “modernizzazione” non ci piace. Non ci piacciono neanche le nuove forme di capitalismo che ci fanno lavorare con Google, Facebook, WhatsApp, Twitter…Come difendersi? Col luddismo? O ricorrendo a messaggi in bottiglia?…In fondo, Fortini non scriveva sul “Sole 24 ore” per guadagnarsi da vivere? Non scriveva con la speranza che il suo messaggio in bottiglia trovasse nuovi destinatari? Magari, all’inizio, soltanto curiosi, sorpresi, stupiti e poi, col tempo, consonanti.
    Sub d): Nulla da dire. È vero rischiamo l’ubriachezza e il sonnambulismo. Il sonno della ragione genera mostri. Riprendiamoci, quindi la ragione. Ma cosa sostiene Freud? E Ignacio Matte Blanco? E gli studi letterari di Francesco Orlando?…Possiamo davvero credere che l’inconscio, il sogno, la fantasticheria, l’irrazionale, la memoria involontaria non irrompano nelle “formazioni di compromesso” dei nostri scritti, dei nostri gesti o dei nostri comportamenti?…Come è fatta la nostra mente e la nostra organizzazione psichica?… Il capitalismo sicuramente utilizza il nostro irrazionale così come utilizza i nostri desideri. “Il godimento”, diceva Lacan, è la sua parola d’ordine. Ma non usa forse anche la nostra ragione? Usa soltanto quella strumentale e calcolante?…
    Sub e): D’accordo. Non si può lasciare il “ricordo” nelle mani dei signori e dei padroni. Proust e Benjamin sono maestri da cui Fortini si è distaccato. Ha fatto bene. Ma è mai successo che un maestro riesca a trasmettere tutto il suo insegnamento a un allievo?…Fortini è sicuramente un grande studioso e un grande poeta. Ciò non toglie che proprio questi giudizi assertivi e non dimostrati (“Ebbene, quel che qui posso enunciare solo in modo assertivo, e non dimostrare”), possono lasciare spazio a curiosità e ad avventure conoscitive diverse dalla sua…Detto questo, per non lasciare i “ricordi” e la loro organizzazione nelle mani dei signori e dei padroni, propongo che Poliscritture dia spazio alle scritture storiche.

  11. @ Locatelli

    Non condanno o demonizzo la memoria involontaria (forse sono stato troppo sbrigativo e anche contraddittorio ad usare quei due aggettivi: ‘caotico’, ‘efferato’). E penso che neppure Fortini, se scriveva che «le esperienze della memoria involontaria e le emersioni del subconscio» erano state «capaci di compiere, in altri tempi, miracoli religiosi, rivoluzionari e artistici», condannasse o ce l’avesse con la “poveretta”, che funzionava e funziona a modo suo. Cioè in un modo complesso e non logico-deduttivo, che la psicanalisi da Freud a Matte Blanco un po’ ci ha chiarito. Ma se la memoria involontaria nel contesto storico in cui ci siamo venuti a trovare, anziché continuare a produrre i suddetti « miracoli religiosi, rivoluzionari e artistici» o ad essere messa al servizio della rivoluzione, come teorizzavano i surrealisti, s’è inceppata e produce – vero o falso o quasi vero con necessari distinguo e precisazioni ? – una forma di sonnambulismo o un «surrealismo di massa» (un figlio “degenere” del surrealismo d’inizio Novecento), porre la questione in termini politici, come fece Fortini, non mi pare ancora oggi affatto sbagliato. E quanti hanno parlato di colonizzazione dell’inconscio (Habermas, se non ricordo male), di mutazione antropologica (Pasolini) o di società dello spettacolo (Debord), ci hanno quantomeno messo sul chi va là: da lì non possiamo più aspettarci certi “miracoli”. E che l’esempio-modello Proust almeno a parecchi di noi sia precluso mi pare evidente . Il che non significa non leggere più la Ricerca ( se si trova il tempo per farlo), ma che quel limone, se lo spremiamo noi, oggi non può dare il *succo* che Proust potè assaggiare. (Del resto questo vale per tanti altri *classici* da Dante a Brecht).
    Personalmente ( non perché l’esperienza personale sia decisiva!) me n’ero accorto dolorosamente e avevo scritto questa:

    PICCOLA POETICA DELLO SCRIVENTE DA PROLETARIO

    Arte e poesia, ciao ciao!
    E ancora poco sapeva della Merce mondiale.
    Usciva dalla giovinezza,
    comprimendola, come tanti, nel lavoro salariato.

    Troncò coi romanzi e «Lavorare stanca»,
    vendette tutti i libri del suo santuario
    alla bancarella dell’usato in Piazza Durante.
    Digiunò.

    Interruppe una costruzione del vivere,
    un immigratorio. Entrò in un altro.
    Segnalò a se stesso quella morte:
    dietro l’angolo, in fondo a quel vialone.

    Adesso sul motom da MI a Colognom,
    avanti e indietro, di sera e al mattino.
    In curva o in un sorpasso rigurgiti,
    boli di leccornie ingozzate in fretta a SA:
    Kafka, Joyce, Proust.

    Che poi la scelta politica di Fortini a favore della memoria volontaria ( o ricordo) sia più praticabile e alla portata di quanti qui stanno confrontandosi è questione del tutto aperta. Nel commento 25 ottobre 2015 alle 19:20 ho accennato, credo, alle mie perplessità.

    @ Fischer

    Dubitare che io abbia piena possibilità di praticare la memoria volontaria (il ricordo) non mi porta alle tue conclusioni: a sostenere che « collegarsi a una linea di razionalità e di prassi non garantisca nulla, soprattutto non tuteli dal dominio dell’attuale capitalismo avanzato»; e cioè, se non sbaglio, a una sfiducia nella ragione, come se essa coincidesse con la « cultura occidentale propria dello sviluppo economico oggi pervasivo», che di razionale, credo, ha solo l’apparenza.

    @ Salzarulo

    Per navigare nel tuo «mare di domande» bisogna preparare una barchetta ben attrezzata. Ci vuole un po’ di tempo.

  12. …”Che poi la scelta politica di Fortini a favore della memoria volontaria sia praticabile e alla portata di tutti quanti stanno confrontandosi è questione del tutto aperta”, secondo me, è più difficile di quanto sembri, ma auspicabile che i ricordi selezionati dalla ragione e dall’etica arrivino a darci un senso del reale condiviso, storia presente e passata, e ad aiutarci nella scelta di campo, come nella poesia di Ennio, mentre l’inconscio che oggi i mezzi della tecnologia sfrenata e colonizzante vanno a nutrire è frantumato e delirante e non può che dividerci, ispirare rivalità e violenze…Tuttavia penso che se fosse ancora possibile accedere davvero alla memoria involontaria, sepolta sotto un marasma di messaggi fuorvianti, ne ricaveremmo un buon aiuto ad uscire dai trabocchetti, dalle strade chiuse, aggiungerebbe “materialità” ai nostri vissuti. Nella dimensione giusta, ci avvicinerebbe agli altri, ci porgerebbe una mano. Non penso necessario aver letto Proust, ma scambiare le parole giuste con un amico o amica, magari sui mezzi di trasporto che ti conducono al lavoro o anche su un blog…

  13. Rispondo a Ennio.
    Avrei dubitato della tua “piena possibilità di praticare la memoria volontaria (il ricordo)”? Non mi pare. Comunque approvo l’invito di Donato Salzarulo che Poliscritture dia spazio alla scritture storiche, di memoria consapevole, come egli stesso ha fatto con “L’avventura, viaggio a Roma”.
    Più complicato schiarire la nuvola intorno alla mia frase “credo che, di suo, collegarsi a una linea di razionalità e di prassi non garantisca nulla, soprattutto non tuteli dal dominio dell’attuale capitalismo avanzato”. Tu temi che da qui si arrivi alla sfiducia nella ragione, per il fatto che quella ragione, che per me coincide con la “cultura occidentale propria dello sviluppo economico oggi pervasivo”, tu credi invece che “di razionale ha solo l’apparenza”.
    Capovolgo l’argomento: la ragione propria della cultura occidentale è quella scientifica, urbanistica, medica, che è diventata comune a tutto il mondo, e non è apparenza ma è reale miglioramento della salute, civiltà, conoscenza meravigliosa che amplia la mente e la coscienza umana. Ed è tutte queste cose *insieme* agli orrori che conosciamo, soggettivi e collettivi. Per questo dico che la “ragione” di suo non significa nulla: cioè nulla di preciso, nulla di rassicurante, non identifica ciò che sarebbe… giusto vero e buono, di contro al dominio del “moderno universo tecnologico di produzione e consumi” (Fortini).
    L’opposizione al non-senso reale non si realizza grazie al ricordo-storia che resiste all’immaginaria pienezza della memoria profonda, all’oblio omerico e al sonnambulismo della condizione mentale collettiva. Ricordo e memoria involontaria fanno parte della nostra condizione presente ma non si dispongono su due file, una dei razionali e una dei similubriachi, una dei pochi tra l’altro, e una della maggioranza, e già questo mi suscita sospetti, e in fondo un rifiuto.
    Rileggendo Nova mi accorgo che tra memoria inconscia e ricordo-storia stabilisce un passaggio logico e non una opposizione. Scrive che è solo il “primo movimento della coscienza (individuale, soggettiva) quando irrompe in essa il passato per l’azione casuale, a flashback, della memoria inconscia … La visione (di per­sone e cose) nel presente provoca una nuova distanziazione del passato rimemo­rato … L’irreversibilità del trascorrere temporale ritorna in primo piano nella presa d’atto della decadenza e corrompimento di uomini e cose … La rimemorazione improvvisa del passato, proprio nella sua sin­cronica correlazione al presente, serve infine a misurare la distanza e la differenziazione degli eventi fra loro, il loro trascorrere e trasmutare, il loro provenire da un passato e attraversare il presente verso un futuro”.
    “Tutto il fronte neo-spinoziano-spinozista francese sostiene che il capitalismo non si spacca, il capitalismo si piega e si adatta” dice Rosi Braidotti in una intervista. “Il potere è una situazione strategica continua”, è nel presente che tutto avviene, credo.

  14. ..credo che la nostra società, così come si presenta ingabbiata da schiaccianti giochi di potere, remi contro sia ai buoni esiti della memoria volontaria che a quella involontaria…Due fronti non del tutto separabili, anzi possono reciprocamente influenzarsi in senso positivo quanto negativo, ed è quest’ultimo a prevalere oggi . Per incominciare a spostare la situazione, sembra anche a me urgente rinforzare i ricordi

      1. Ricordo il corteo
        fino a sera
        a rivendicare
        diritti
        piaceri
        via i reggiseni
        Oh donne venite!
        Involontariamente
        sopra di noi
        ricordo solo
        un marasma di stelle.

        emy oggi

  15. …Cristiana, ho capito bene? Per te l’accerchiameto è ormai totale e spostarsi non ci fa uscire dal cerchio…se metto a confronto le tue parole, piuttosto prudenti per non dire ripiegate, con la poesia ricordo di Emy dove si inscena lo spirito di ottimismo, di ritrovata libertà durante i cortei quando persino le stelle alleate sembravano scendere, tripudiando, nella piazza del cielo…mi chiedo: ma che distanza ci separa? Siamo ancora noi?

    1. Ma no, Annamaria! Accerchiamento? o la situazione contraddittoria in cui viviamo?
      Non esiste, da qualche parte, una alternativa all’unico mondo della ragione capitalistica, esistono lotte e conflitti al suo interno. La civiltà del capitale ha coperto tutto il mondo ormai, e muoversi tra le sue contraddizioni, le più vicine che si collegano alle mille altre, è la politica.
      Io non voglio farmi sviare lo sguardo dai conflitti attuali, che chiedono nuove mosse, per questo mi piace la frase di Braidotti “il potere è una situazione strategica continua”, dubito però che l’opposizione tra ricordo-storia e memoria inconscia descriva in modo adeguato il presente.
      L’allegro ricordo di Emy mette sotto gli occhi un conflitto passato che la tradizione razionalista non aveva previsto, e non ha saputo affrontare, però il mio femminismo di allora non mi faceva partecipare a quelle manifestazioni… 🙂

  16. …se è per quello anch’io non sono mai stata a quelle manifestazioni, ero un carro di refe indietro, per quanto una parte di me solidarizzava con quelle donne e cercava strade alternative, anche da prima linea…E qui si fondono i ricordi della memoria volontaria e quelli della memoria involontaria…

  17. Cos’è in gioco in questa discussione su memoria volontaria e involontaria, sul Proust/Bergson di Nova e sul Fortini che ho tirato dentro io? Non certo una scelta di libri da leggere o non leggere. Né pare, come ho già detto rispondendo a Annamaria, che la proposta di Fortini implichi un « bando all’inconscio, al sogno, al surreale e alla “memoria” involontaria» o un invito a diffidare di Proust. Usciamo dal discorso sui “numi tutelari”. Sì, la «pretesa [di Proust] di trasformare tutti gli uomini in artisti» (da Fortini definita – per essere precisi – «a prima vista bizzarra») ha «qualcosa a che vedere col fenomeno che Ennio ha chiamato della “moltitudine poetante”»; e che – aggiungerei – per la sua ambivalenza (lo ripeto da anni) si avvicina parecchio al tema del «sonnambulismo» e del «surrealismo di massa», di cui parlava Fortini. ( Per un approfondimento si veda il duetto “Orbilius vs Samizdat e viceversa”, che ho messo su Poliscritture FB e che prossimamente travaserò qui sul sito).
    È in gioco l’idea della poesia (e dell’arte e della letteratura in genere) che Fortini aveva; e che io ancora condivido e ho cercato di formulare in una situazione storica mutata (e peggiorata) con il discorso della *poesia esodante*. Ma non solo.

    Per uscire con chiarezza dal «mare di domande» di Donato, mi chiederei innanzitutto quanto essa sia anche da voi condivisa. Fortini la presenta così nel già citato «Dei confini della poesia»:
    «mi è sempre stato chiaro che la poesia, proprio in quanto forma che si oppone al mutamento, ha anche una sua dimensione conservatrice e conciliatrice. Come gli stessi Horkheimer e Adorno hanno scritto, il canto della poesia e dell’arte è al servizio del dominio non solo perché è frutto dell’agio e del consumo come spreco e piacere ma perché la promessa di felicità e l’immagine di pienezza, che arte e poesia portano con sé, non possono essere altro che promesse e immagini, fiori sule catene.»
    («Sui confini della poesia» in «Saggi italiani 2» pag. 324, Garzanti, Milano 1987).

    Va detto subito che tale idea ha senso e può essere condivisa solo se si accoglie la visione marxista (meglio lucacciana) della poesia che Fortini aveva. Altrimenti essa parrà segno di bacchettonismo o un rigetto immotivato e masochista del *piacere del testo* (o della Poesia intesa da moltissimi come luogo di piena espressione della libertà dello Spirito). Per Fortini invece fare poesia implica la consapevolezza di “essere in prigione” e, allo stesso tempo però, non cedere (facendola appunto) al nichilismo; e non dimenticare la «felicità». Che però – dev’essere chiaro – in poesia è solo «promessa»; niente affatto data o raggiunta. La poesia è “prigione”, perché chi riesce a dedicarvi del tempo spende *nell’immaginario e non nella realtà* quelle capacità che gli umani hanno di «“formare”non più solo opere d’arte ma la vita medesima» (pag. 325 Idem).

    Ora dare forma alla vita medesima (e non “ridursi” a dare forma soltanto ad opere d’arte) era – ecco per me il taciuto di questa discussione finora – l’ipotesi comunista. E cioè uno scopo ben più alto della poesia stessa, che però vi alludeva. E perciò Fortini poteva scrivere cose che da un’altra ottica parrebbero sottovalutazione dell’arte e della poesia. Come ad esempio questa: «Il “grido” dell’arte e della poesia è un segno di miseria oltre che di grandezza; ma soprattutto è la prova di una ripetuta sconfitta umana» (pag. 325 Idem). Ricordo poi che egli stesso riconosceva che, «nella misura in cui fosse fallita l’ipotesi di una trasformazione degli uomini, che li rendesse capaci di formare intenzionalmente se stessi e la propria società», avrebbe avuto ragione Adorno (del tutto scettico verso l’ipotesi comunista), dal quale Fortini aveva preso le distanze non condividendo il valore assoluto che il filosofo tedesco attribuiva unicamente alla «qualità formale di un’opera d’arte e di letteratura».

    Per quanti qui parlano vale ancora l’ipotesi comunista? E valeva ancora per l’ultimo Fortini di «Composita solvantur» con quel suo appello disperato a proteggere «le nostre verità» (con la memoria volontaria, il ricordo, etc.)? Direi proprio di no. Non è forse evidente, come scrive Donato, che oltre al surrealismo, questo modo di produzione capitalistico « ha anche utilizzato ebraismo, cristianesimo, protestantesimo»? Che ad essere degradato non è solo il surrealismo ma tutta la letteratura (e quindi anche l’«estetico… di Manzoni, di Brecht, di Fortini»)? Che, al posto della realizzazione dell’«antico sogno schilleriano di una “educazione estetica dell’umanità», abbiamo «la cosiddetta “letteratura espansa”ossia degli audiovisivi» (pag. 326 Idem) o «il nostro Nuccio Ordine» che «ha venduto migliaia di copie col suo “L’utilità dell’inutile”»? E Fischer non sostiene che «non esiste, da qualche parte, una alternativa all’unico mondo della ragione capitalistica»? E se ascolto l’intervista su «Il comunismo questo sconosciuto» di Gianfranco La Grassa (http://www.conflittiestrategie.it/sul-comunismo-intervista-a-la-grassa), uno dei pochissimi interpreti non scolastici di Marx, al quale in un mio breve commento ho mosso alcune obiezioni, mi pare si chiarisca a sufficienza cosa sia davvero in gioco in questa discussione: o la riconferma della posizione di Fortini (sulla poesia e sull’ipotesi comunista) o il tentativo di delineare un’alternativa per ora senza nome «all’unico mondo della ragione capitalistica».

  18. Non capisco bene la posizione di Ennio, egli scrive alla fine del suo commento 27 ottobre 21.52 :”valeva ancora [l’ipotesi comunista] per l’ultimo Fortini di «Composita solvantur» con quel suo appello disperato a proteggere «le nostre verità» (con la memoria volontaria, il ricordo, etc.)? Direi proprio di no.”
    Invece agli inizi del suo commento aveva scritto: “l’idea della poesia (e dell’arte e della letteratura in genere) che Fortini aveva; e che io ancora condivido [sottolineo le ultime parole] e ho cercato di formulare in una situazione storica mutata (e peggiorata) con il discorso della *poesia esodante*”.
    Ennio ricorda le brevi obiezioni da lui espresse a un’intervista di Gianfranco La Grassa sul comunismo, e riporto la sua definizione e valutazione del comunismo: “mantenere la memoria dell’ipotesi marxiana (comunismo come “liberazione” delle differenze individuali e non loro espressione parziale in una élite o loro compressione *penitenziale* o *da caserma*), che è sicuramente *superiore* alle altre due come *ipotesi*, mi pare indispensabile.”
    Perciò vado a cogliere alcuni tratti, nelle parole di Fortini riportate da Ennio, per posizionarmi io stessa rispetto a quel comunismo, e alla concezione della poesia strettamente connessa.
    Per Fortini “fare poesia implica la consapevolezza di ‘essere in prigione’ e, allo stesso tempo però, non cedere (facendola appunto) al nichilismo”.
    Si è in prigione ma non si cede: come si fa? si spera di uscire: fuori di metafora si opera “per una trasformazione degli uomini, che li renda capaci di formare intenzionalmente se stessi e la propria società”.
    Ma intanto, fin che il cambiamento non avviene “il ‘grido’ dell’arte e della poesia è un segno di miseria oltre che di grandezza; ma soprattutto è la prova di una ripetuta sconfitta umana”. La poesia è segno di miseria e di sconfitta, è promessa di felicità e immagine di pienezza, ma è solo promessa, fiori sulle catene, perchè “spende *nell’immaginario e non nella realtà* quelle capacità che gli umani hanno di «“formare”non più solo opere d’arte ma la vita medesima»”.
    Come non vedere in questo scenario la caverna di Platone, con noi poeti incatenati a contemplare sullo sfondo le ombre riflesse da una realtà che ci è per ora lontana? Come gli uomini nella caverna di Platome vedono le ombre sul muro e credono sia la realtà, così la poesia scrive nell’immaginario perchè non riesce a creare la realtà stessa.
    (Viene da chiedersi: se si creasse realtà si scriverebbero ancora poesie? Forse. Con la “liberazione” delle differenze individuali si gioirebbe di una poesia piena e non sostitutiva/ mancante/compensatoria.)
    Ancora. Fortini scrive che la poesia è prova di una ripetuta sconfitta UMANA, non storica o politica: ma un bisogno di rigenerazione così totale, platonico appunto, non so immaginare come potrebbe avvenire solo grazie a una diversa organizzazione produttiva e sociale, è forse un ritorno nell’Eden?
    “Dare forma alla vita medesima (e non “ridursi” a dare forma soltanto ad opere d’arte) era … l’ipotesi comunista”, scrive Ennio, e sostiene che questo è il taciuto della discussione finora, che andrebbe invece esplicitato. Ma “vita” è tutto! è vita associata e corpo fisico, fino a che punto è possibile “darle forma”? con le protesi? con mutazioni genetiche, con sostituzioni di organi, di mentalità, di comportamenti? di sistemi di governo? Non è troppo general-generica la frase “dare forma alla vita” e poi qualificarla come ipotesi comunista?
    E poi: il modo di produzione capitalistico ha *utilizzato* il surrealismo, come il cristianesimo l’ebraismo ecc; ma perchè subito dopo *utilizzato* diventa *degradato*? Sì, se uso qualcosa lo consumo, e le ideologie o le religioni non sfuggono a questa consumazione, per cui occorre integrarle, rimpolparle perfino, ma che questo corrisponda anche a degradazione non aggiunge un tono morale? Oggettivazione è alienazione?
    Le idee su poesia e comunismo di Fortini (che conosco solo in quanto riportate da Ennio), hanno per me una componente platonica, e implicano per questo un distacco essenziale tra arte e realtà-non mutata. Io mi ritrovo invece in una posizione pragmatica, non credo a mutamenti ontologici ma a ipotesi di mutamento reali. Credo che la poesia dei molti possa dare conto di processi di mutamento, di cui intendono essere consapevoli e attori. Però anche l’espressione poesia esodante ha in sè una duplicità che andrebbe chiarita: è un percorso, incerto peraltro, o un taglio assoluto? Sia la realtà Egitto, ma la Terra Promessa non può essere Eden!

  19. @ Fischer

    1. Ma perché nel riportare una mia frase, che è interlocutoria e invoca un chiarimento, si salta proprio il pezzo decisivo e diretto: «Per quanti qui parlano vale ancora l’ipotesi comunista?». Possiamo rispondere senza menare il can per l’aia?

    2. La frase riferita all’intervista su You Tube di G. La Grassa non è una mia definizione del comunismo: afferma la mia convinzione che l’ipotesi marxiana di comunismo non vada scorporata dal lascito *scientifico* di Marx, che La Grassa “salva”, solo per il fallimento dei tentativi di “costruzione del socialismo”.

    3. Il collegamento del discorso di Fortini/Marx con il platonismo è subdolo. Non si equipara un discorso che pretende di essere storico e dinamico (e magari con coloriture utopistiche, sulla cui necessità o non necessità per me c’è da discutere e per La Grassa non più) ad una concezione metafisica ed eterna (o immobile). In più appiattendo il discorso fortiniano verso il millenarismo di matrice cristiana: «ma un bisogno di rigenerazione così totale»; « un ritorno nell’Eden». Cristianesimo che per la verità è presente in Fortini ma non certo in forma millenaristica, proprio perché controllato dal suo marxismo.

    4. «Viene da chiedersi: se si creasse realtà si scriverebbero ancora poesie?». E chiediamocelo seriamente e ragioniamoci sopra!

    5. « Non è troppo general-generica la frase “dare forma alla vita” e poi qualificarla come ipotesi comunista?». Credo di sì. Perché anche il capitalismo o il fascismo danno “forma alla vita”. E quindi c’è da qualificare il tipo di trasformazione *storicamente* possibile. L’ipotesi comunista era un progetto di questo tipo e voleva dar forma alla vita in modo antitetico a quello “borghese-capitalista”. Indicava con chiarezza una direzione, un senso, uno scopo. Fallito il tentativo, resta la domanda – aperta, apertissima! – posta al punto 1: «Per quanti qui parlano vale ancora l’ipotesi comunista?».

    6. « il modo di produzione capitalistico ha *utilizzato* il surrealismo, come il cristianesimo l’ebraismo ecc; ma perché subito dopo *utilizzato* diventa *degradato*?». Perché, se io voglio la luna e tu capitalista, che fai le tue rivoluzioni dall’alto e io non so impedirtele, mi dai un lampione o io voglio una *buona scuola di massa* e non più su un modello elitario e gentiliano e tu capitalista mi dai la *buona scuola* di Renzi, il degrado, se non son fesso, lo vedo. E questo vale anche tra l’ipotesi surrealista e il “surrealismo di massa” di cui godiamo (più o meno a comando). Un consumo imposto e coatto e senza impantanarmi su discorsi di alienazione o latre cose complicate, lo so ben distinguere da un consumo ragionevole, no?

    P.s.
    Vorrei evitare il ping pong personalizzato tra l’interlocutore A e l’interlocutore/trice B. Spero che altri intervengano.

  20. Certo spero anch’io in altri commenti, ma il can per l’aia io proprio no! Non si capisce che l’ipotesi del comunismo per me e’ irreale perche’ millenarista? E non sei riuscito a dimostrarmi il contrario.

  21. purtroppo ho molto da fare (anche se non sempre nel campo del pensiero) e ho letto velocemente la consistente mole di interventi. Temo di dover dare più ragione a Cristiana Fischer; e le ultime tre righe mi sembrano corrispondere a quel che penso anch’io. Spero comunque di indurre G. La Grassa a fare sabato una nuova videointervista in cui credo cercherà ancora di spiegare che cosa intendeva Marx per comunismo e come nemmeno si sia tentata la “costruzione del socialismo” in Urss e altrove. Anch’io ho creduto per decenni che si fosse imboccata quella via e che poi tutto fosse fallito. Temo invece che il socialismo, di cui si dichiarava la “costruzione”, fosse una pura formulazione ideologica, in cui però si credeva sinceramente, non per finta. Si era convinti, si era in buona fede insomma. Vedremo

  22. …”Per quanti qui parlano vale ancora l’ipotesi comunista?”, mi sento parecchio impreparata, ma cercherò un avvio di riflessione…Mi chiedo, spostando un po’ la domanda, il comunismo a quale scopo dovrebbe servire? Certo, e sarei d’accordo, per attuare un cambiamento radicale di un sistema capitalistico degradato …Non solo degradato e generatore di ingiustizie sociali, anche distruttore del patrimonio ambientale, inoltre potentissimo poichè sostenuto dal potere politico -militare e da un sistema di propaganda pervasivo…Quest’ultimo, secondo me, è il problema maggiore. ..Il comunismo può sperare oggi di scalfirlo? Ci è lasciata, come popolo intendo, la necessaria lucidità mentale e lo spazio per agire? Alla nostra età ci resta il senso critico, ma le nuove generazioni dove vengono trascinate? Se l’ipotesi vale solo per pochi come può sperare di incidere sulla realtà? Ma forse semplicemente non abbiamo ancora toccato il fondo… ma possibile che solo con un colpo in testa, che potrebbe essere una guerra in occidente, ci svegliamo?

  23. “Spero comunque di indurre G. La Grassa a fare sabato una nuova videointervista in cui credo cercherà ancora di spiegare che cosa intendeva Marx per comunismo e come nemmeno si sia tentata la “costruzione del socialismo” in Urss e altrove” (Nova)

    Se possibile, chiederei di spiegare anche perché gli umani (o almeno una parte di loro) non si rassegnino al dominio di altri umani (a modo loro) e tentino di dare un nome (comunismo è o fu uno di essi) alle loro rivolte o ai loro progetti di rivoluzioni.

  24. credo che nessuno sia veramente attrezzato a rispondere alle utopie degli esseri umani in preda a disperazione o anche semplice malcontento per il loro modo di vivere, ecc. Nell’idea (rivelatasi sbagliata) di Marx e dei suoi seguaci più lucidi, il comunismo era un portato del tutto oggettivo di una certa dinamica capitalistica. “La rivoluzione è un parto ormai maturo nel grembo della società capitalistica”; questo già a metà ‘800 o poco dopo (secondo Marx). Non c’entra un …..”bigolo” la sete di giustizia sociale. Se uno ce l’ha è molto bello ed è giusto che la sfoghi come può (anche nella letteratura e nell’arte). Questo non produce alcun comunismo. Nella storia, in momenti dei resto molto rari, si sono solo prodotte alcune ribellioni, a volte movimenti di masse, altre volte avventure (suicidio) come quelle di Pisacane o Guevara. In ogni caso, il comunismo resta “nei cieli” come l’idea di Dio. Di questo comunismo “ideale” sarebbe bene non interessarsi più, mi sembra allora già più serio darsi alle credenze religiose che si rivolgono appunto ad un Dio, non all’Uomo reso simile a Dio. invece sono convinto che sia ancora utile capire l’errore commesso riguardo alla presunta dinamica capitalistica perché è dagli errori che via via s’impara qualcosa.

  25. Va bene riflettere sul “comunismo reale” (quello storico, per intenderci)…Però, non sarebbe male riflettere anche su che cosa era il comunismo per Fortini. Di seguito si può leggere la definizione che ne diede sul settimanale “Cuore”, inserto del quotidiano “L’Unità” del 16 gennaio1989. Il testo fu ripreso in «Extrema ratio» (Garzanti, 1990) alle pag. 99-101…Quindi, a muro di Berlino caduto. Riflettere per sollevare, magari, un mare di domande, come ho fatto nel mio precedente commento, ma riflettere. «Promuovere i poteri e la qualità di ogni singola esistenza», capire che la “libertà” di ognuno di noi è pagata dalla “non –libertà” di altri uomini, ecc. ecc. sono questioni che meritano indubbiamente approfondimenti…Cedo, allora, volentieri la parola a Fortini:
    «Il combattimento per il comunismo è già il comunismo. È la possibilità (quindi scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero di esseri umani – e, in prospettiva, la loro totalità – pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante. Unico progresso, ma reale, è e sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente, dove sia possibile promuovere i poteri e la qualità di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria tenda ad estinguere la forma presente di quello scontro e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti.
    Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è fra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita. Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro “libertà” non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini. Migliori cominciano ad esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; ma anche flessibilità e amore per tutto quel che la promuove e la fa fiorire.
    Il comunismo in cammino (un altro non esiste) è dunque un percorso che passa anche attraverso errori e violenze, tanto più avvertiti come intollerabili quanto più chiara si faccia la consapevolezza di che cosa gli altri siano, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri; e viceversa. Il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita. Usati, ma sempre meno, come mezzi per un fine, un fine che sempre più dovrà coincidere con loro stessi. Ma chi dalla lotta sia costretto ad usare altri uomini come mezzi (e anche chi accetti volontariamente di venir usato così) mai potrà concedersi buona coscienza o scarico di responsabilità sulle spalle della necessità o della storia.
    Chi quella lotta accetta si fa dunque, e nel medesimo tempo, amico e nemico degli uomini. Non solo amico di quelli in cui si riconosce e ai quali, come a se stesso, indirizza la propria azione; e non solo nemico di quanti riconosce, di quel fine, nemici. Ma anche nemico, sebbene in altro modo e misura, anche dei propri fratelli e compagni e di se stesso; perché non darà requie né a sé medesimo né a loro, per strappare essi e se stesso agli inganni della dimenticanza, delle apparenze e del sempre-uguale.
    Dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Questo errore, con le più varie manipolazioni, ha già prodotto, e può produrre, dei sottouomini o dei sovrauomini; egualmente negatori degli uomini in cui ci riconosciamo. Ereditato dall’Illuminismo e dallo scientismo, depositato dalla cultura faustiana della borghesia vittoriosa dell’Ottocento, quell’errore ottimistico fu presente anche in Marx e in Lenin e oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Quando si parla di un al di là dell’uomo, è dunque necessario intendere un al di là dell’uomo presente, non un al di là della specie. Comunismo è rifiutare anche ogni sorta di mutanti per preservare la capacità di riconoscersi nei passati e nei venturi.
    Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza, fraternità e condivisione quanto quella di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa. La gestione individuale, di gruppo e internazionale, dell’esistenza (con i suoi insuperabili nessi di libertà e necessità, di certezza e rischio) implica la conoscenza delle frontiere della specie umana e quindi della sua infermità radicale (anche nel senso leopardiano). Quella umana è una specie che si definisce dalla capacità (o dalla speranza) di conoscere e dirigere se stessa e di avere pietà di sé. In essa, identificarsi con le miriadi scomparse e con quelle non ancora nate è un atto di rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi; ed è allegoria e figura di coloro che saranno.
    Il comunismo è il processo materiale che vuol rendere sensibile e intellettuale la materialità delle cose dette spirituali. Fino al punto di sapere leggere nel libro del nostro medesimo corpo tutto quel che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo; e interpretarvi le tracce del passaggio della specie umana sopra una terra che non lascerà traccia.»

  26. Resto in attesa della nuova videointervista di La Grassa. Nel frattempo però alcune precisazioni:

    1. Non ho mai capito perché Marx e i suoi seguaci (lucidi e meno lucidi) si siano dati tanto da fare a fondare la Prima internazionale dei lavoratori (stesura del programma e dello statuto, polemiche con Proudhon e Bakunin, ecc.) se fossero stati così convinti che « il comunismo era un portato del tutto oggettivo di una certa dinamica capitalistica»: sarebbe bastato aspettare, no?

    2. «La sete di giustizia sociale» c’entrava eccome in quel tentativo di guidare quel movimento e quella Associazione. E, tra l’altro, a me pare un fenomeno inesauribile. Anche se convengo che da sola non basti a fare una rivoluzione; e, vissuta passionalmente (le passioni hanno un’ambiguità e possono anche portare al fallimento), non garantisce proprio un..”bigolo”. Non la sottovaluterei però (proprio per la sua complessità e oscurità da interrogare con intelligenza). E mai delegherei la sua gestione ai variegati sacerdoti o esperti del Mondo Oscuro. Né mai la liquiderei facendo spallucce («Se uno ce l’ha è molto bello ed è giusto che la sfoghi come può (anche nella letteratura e nell’arte)»).

    3. Mai, ad esempio, mi sentirei di consigliare a qualcuno/a in preda alla passione – mettiamo: amorosa – di “sfogarla come può”, magari «nella letteratura e nell’arte». E proprio perché la letteratura e l’arte (ma anche la passione amorosa) non sono “valvole di sfogo”, ma hanno (o potrebbero avere) una funzione sociale inestimabile. Esprimendo – e qui torno a quanto ho riportato dello scritto di Fortini sulla poesia e alla questione se la poesia rimandi a qualcosa che la oltrepassi o meno – «una promessa di felicità» di certo non solo privata ma, nei casi migliori, universale (pur con le precisazioni di carattere storico che l’uso di questo termine oggi richiede).

    4. Le rare (?) ribellioni, i rari movimenti di massa, le “impossibili” avventure alla Pisacane o alla Guevara (mettiamo – col senno di poi – suicide, ma anche i suicidi non sono faccende liquidabili a cuor leggero…) a mio parere confermano proprio che i dominatori non potranno mai dormire sonni tranquilli. E niente affatto che « il comunismo resta “nei cieli” come l’idea di Dio». Proprio per il fatto che avvengono ribellioni e moti e le passioni si fanno parole e atti (non tutte certo riconducibili al termine o al progetto – storico – di comunismo) richiedono ai dominatori mosse e contromosse. E quindi, anche quando sconfitte, non restano “nei cieli”.
    (E poi neppure Dio – che ci sia o meno – «resta “nei cieli”», perché le religioni – qualsiasi sia l’opinione che se ne ha – sono un fatto di questa terra, smuovono passioni, corpi, denaro, ecc.).

    5. Quindi non al « comunismo “ideale”» io voglio interessarmi, ma alle forme storiche – prima speranzose, poi tenebrose – che esso ha avuto in vari paesi del mondo da Marx in poi. Certo che è « ancora utile capire l’errore commesso» nei vari tentativi di pensarlo o di “costruirlo”. Ma è sul «qualcosa» da imparare che dobbiamo misurarci fino in fondo e senza precludere qualsiasi risposta.
    Comunque, a me pare che in proposito si sia sempre di fronte ad un bivio: a) abbiamo sbagliato e non resta che barcamenarsi in questo Sistema-Mondo capitalista;b) abbiamo sbagliato e da qualche parte però si deve ripartire. Io sono per questa seconda ipotesi.

    5. E non per “sfogarmi” – mettete pure ‘comunismo’ al posto di ‘albero’ – l’avevo espressa così:

    L’albero gramo

    Non fate morire
    quell’albero gramo,
    che nella mente matura
    ribelli semi vermigli.
    Ambascia ci porta,
    ma insieme pensieri
    tolti alla morte;
    e carezze al futuro.

    Fra lugubri tonfi d’eventi
    l’ombra sua mitoleggia
    nel tutto del mondo.
    In brio, in brina, al buio
    o nel bianco solitario,
    slimitato, come potato
    dal logico gioco, sta.

    La sua radice non dice
    più a che ramo conduce,
    ma, sol per lui, uomini puliti,
    miti, oscuri nostri gemelli,
    fra noi ancora vanno;
    e, operosi, su incerti sentieri,
    accendono luci tutto tatto
    nelle celle cupe di sera,
    dove ondula austera,
    minacciosa, la biblica mela.

    Lo scriba, arrestato
    da immoti, dolosi discorsi,
    dell’albero descrive a stento
    un suo calco, che subito stinge
    e s’addossa al buio.
    L’albero gli sfugge
    in traballanti visioni,
    freme negli scarabocchi,
    sviene in canti alti;
    né nenia l’intrattiene.

    Per terra finito,
    vien dato da molti,
    da morte atterriti,
    esso pure interrato,
    sottomesso, sotterrato.
    E noi volentieri,
    solo a tratti furenti,
    la poderosa fossa,
    da lui ereditata,
    colmiamo per finta
    di minuscoli affetti,
    gioie più prossime
    e stenti sentimenti
    senza sementi.

    Ma, ohilà,
    l’albero svetta là,
    sulla strada dimenticata!
    Orrido non è.
    Alle belle onde non cede.
    Non gocciola spiccioli
    d’imposti doveri.
    E dà dolore vero,
    poiché innalza
    il Conflitto sconfitto,
    scorcia il nostro sgomento
    e fermo ve lo ritorce.

    (1994/ottobre 2010)

    1. Etnocentrismo!
      Come scrive Donato Salzarulo, cioè Fortini, ” capire che la ‘libertà’ di ognuno di noi è pagata dalla ‘non –libertà’ di altri uomini”.
      Ma scherziamo? Io, la mia infanzia povera, la mia adolescenza stentata, la mia vita assicurata oggi dal welfare state delle politiche degli anni ’70, in un’Europa che concentra ricchezza risparmiata e la offre (con Renzi che non ho votato) agli squali finanziari, io mi dovrei sentire responsabile della non libertà dei popoli africani sfruttati per il coltan? E chi sono, Dio?
      E se brucio per scaldarmi dall’inverno gelato qualche legno dell’appennino abbandonato (già svuotato per le flotte che hanno conquistato i mari circa venti generazioni fa dai signori, servi di altri signori più potenti, non del “nostro” paese) devo sentirmi responsabile per il riscaldamento che, forse, scatena uragani nel Pacifico? Ma la smettiamo di sentirci Dio bianco e occidentale che governa il mondo? ( e uso la maiuscola, che non uso mai, per dire di quale dio sto parlando…)
      Un senso di colpa globale, immane… che non ci ha impedito di fare (recenti) guerre in Africa, né meno recenti guerre in Europa consegnando amici e parenti agli aguzzini! (mia nonna faceva di cognome Barucco…)
      Ma vogliamo smetterla di immaginare un controllo del mondo intero in nome a) primo, mettendo le mani avanti: delle nostre colpe; b) in seconda istanza: delle nostre nuove idee di dominio, però generose e altruiste (comunismo per tutti)?
      Possibile che non vediamo la nostra condizione di servitù -sì, servitù- e non ci impegniamo a identificare, qui, dove siamo, nelle condizioni in cui siamo, i gestori di un potere che ci governa da lontano (quanto “contiamo”, noi? e per quali ragioni? e ci vogliamo stare?) invece di sventolare ideologie vecchie di un secolo che non hanno prodotto MAI niente di decente?
      Sperare, ancora, che l’Idea…
      Ma, davvero, l'”Idea” del cristianesimo non ci ha insegnato niente?

  27. Vorrei che si spiegasse perché se uno (Donato o Fortini nel caso) scrive: bisogna «capire che la ‘libertà’ di ognuno di noi è pagata dalla ‘non –libertà’ di altri uomini» (sottolineo ‘capire’!), invece di valutare se l’affermazione può essere vera o falsa, se cioè ci sia o meno relazione tra libertà di alcuni e non libertà di altri, il discorso debba essere spostato dal piano della valutazione critica a quello morale o psicologico della responsabilità (individuale tra l’altro: “devo sentirmi responsabile etc”) o del senso di colpa.

  28. Capire che, non vuol dire valutare se, vero? Ma non facciamo questioni interpretative, dai. Che c’entra il piano morale? E chi deve capire o valutare? Ognuno, no? , i singoli. E perche’ farlo se non per responsabilita’?

  29. a) *Gli episodi della emergenza della memoria involontaria si moltiplic[a]no e dilat[a]no sino ad occupare una larga parte della vita psichica, di altrettanto riducendo e svalutando la funzione del “ricordo”* (F. Fortini)

    * Chi vuole che non si ricordi (ossia chi vuole un mondo di adolescenti e di servi) vuole anche che le esperienze della memoria involontaria e le emersioni del subconscio [….] siano diffuse, incontrastate e quindi impotenti come molecole di un gas decompresso. L’espropriazione del “ricordo” cioè della tradizione è il vero esito della colonizzazione; perché di questa, in definitiva, sto parlando* (F. Fortini).

    b) * «Per quanti qui parlano vale ancora l’ipotesi comunista?». (E. Abate)

    * … perché gli umani (o almeno una parte di loro) non si rassegnino al dominio di altri umani (a modo loro) e tentino di dare un nome (comunismo è o fu uno di essi) alle loro rivolte o ai loro progetti di rivoluzioni?* (E. Abate)
    A fronte di a) e b).

    a)
    Semplificando al massimo, potrei dire che i binari su cui corre la nostra esperienza mentale sono la memoria e il desiderio: la ‘memoria’ che costituisce il nostro passato (sia esso inconscio, o strutturato come ricordo volontario o involontario, o facente parte di formazioni ideologiche), e il ‘desiderio’ che dovrebbe rappresentare la spinta verso il futuro (sia esso inconscio o consapevole o condizionato, esso pure, da formazioni ideologiche).
    L’acquisizione (e il mantenere attive) queste due funzioni relazionali non è semplice e lineare perché esse vengono sottoposte a tensioni emotive sia legate alle vicissitudini interne del soggetto che a quelle oggettive del momento storico in cui egli si trova.
    Però, fintanto che, rimanendo nella metafora ferroviaria, la struttura ‘connettiva’ rimane presso che definita e le ‘stazioni’, pur decadendo di importanza o di priorità (fuor di metafora: la ragione, il sentimento, la religione, la cultura, il legame politico-sociale), rimangono al loro posto come entità comunque degne di valore, possiamo pur sempre sollecitare l’attivazione della memoria e del desiderio per ‘ripristinare’ o il modello perduto o guadagnare un significativo cambiamento.
    Ma la situazione odierna non è così: non solo queste ‘stazioni’ hanno cambiato ‘sede’ (emblematico il concetto della “utilità dell’inutile e inutilità dell’utile” del già citato Nuccio Ordine) ma il percorso dell’intera rete è stato manomesso e rispetto a questa manomissione non si è mosso alcun movimento ‘no TAV’.
    D’altronde si sono modificate (o si stanno modificando) quelle configurazioni mentali che permettevano la costituzione di un pensiero (e, di conseguenza, una differenziazione tra inconscio e conscio). Prevale l’indifferenziazione tra forma e contenuto (tra dentro e fuori: non sembra esserci più una interiorità bensì tutto viene ‘esternalizzato’); assistiamo alla esplosione dei legami e del loro senso (in particolare quelli familiari che rappresentavano un osservatorio importante per regolare queste dinamiche), legami che permettevano di istituire il concetto di ‘limite’. Ne è seguita una espansione di frammenti irrelati tra loro. Il ‘tempo’ è diventato un eterno presente ma che non ha la struttura della ricerca proustiana, un punto di ‘arrivo’ per poi ripartire di nuovo, quella *sorta di pacificazione al presente di tutto il corso della vita, di tutti i suoi affanni; ogni accadimento, anche passato, pare avere al presente il suo più corretto significato. L’intera vita si manifesta all’individuo pensante quale coordinamento necessitato di tutti gli eventi realmente accaduti che – belli o brutti che siano apparsi in passato – vengono nell’oggi ad inverarsi nel loro armonico, perché sincronico, significato interrelazionale complessivo* (F. Nova).
    Viene a perdersi il concetto dell’esistenza di un ‘mondo prima di me’.

    Lo stesso ‘piacere della conoscenza’, che implicava l’utilizzo di un tempo personale che non serviva soltanto per uscire dal ‘disagio della civiltà’ o essere dimostrativo dello ‘strappo’ alle leggi capitalistiche – quelle dei *tempi forniti dalla fabbrica, dal mercato e dalle fabbriche del consenso * (F. Fortini) – ma era ancora impostato sulla contemplazione o meditazione, si è trasformato in un ‘godimento di massa’ a cui fa da sostegno la cosiddetta “letteratura espansa”.

    D. Salzarulo dice: *Poiché, «l’espropriazione del “ricordo” cioè della tradizione è il vero esito della colonizzazione», Fortini rivendica giustamente «ricordo e storia contro l’immaginaria pienezza della memoria “profonda”»* e aggiunge, di fronte alla osservazione sul *tempo di “contemplazione e meditazione” di cui disponiamo si “esaurisce rapidamente”*: non è forse la “fretta” una caratteristica della nostra vita quotidiana?…*

    Ma passiamo a Proust e al suo rimembrare che da accadimento involontario si trasforma in una ricerca incessante al fine di riproporre il momento magico in cui passato e presente si uniscono annullando la diacronia del tempo.
    Possiamo supporre che se il the con i pasticcini della zia Léonie non avesse avuto, al tempo debito, una particolare risonanza per il poeta, nessun movimento del presente avrebbe potuto riportarglielo alla mente con quella intensità. Avrebbe potuto trattarsi certamente di un ‘ricordo’, ma di un ricordo inerte, privo della dinamica implicita allo stesso. Vale a dire che possiamo ricordare solo ciò che abbiamo perduto e che è stato fortemente investito.
    Le domande che vengono poste da F. Fortini *qual è, oggi, la durata media di una lettura continuata? Quale la capacità di attenzione sostenuta?* sembrano decretare, più che un problema legato al tempo, una sintomatica mancanza di ‘passione’ (da ‘patio’) che implica il continuo gioco, impegnativo emotivamente, tra presenza e assenza.
    L’evento che torna alla mente dev’essere stato pregno di una qualche significanza, sia che essa abbia potuto svilupparsi allora con l’intervento del linguaggio dei segni verbali o iconici, e sia che ciò non sia stato possibile a causa di resistenze interne.
    Se non c’è questo investimento, il ricordo, per quanto richiamato alla mente, non ha che una funzione ‘cronachistica’, ovvero quella di collocare gli eventi in serie, uno dopo l’altro. Questa serialità, inoltre, non permette di entrare ‘dentro’ gli eventi che appunto paiono susseguirsi senza alcuna differenziazione interna, accompagnati da un ‘sempre’ che abolisce ogni movimento del tempo nella sua specificità storica (esempio: le guerre ci sono sempre state).
    E abolisce, soprattutto, il lavoro del lutto rispetto a ciò che si è venuto a perdere, perché non si può perdere ciò per cui non c’è stato investimento alcuno.
    A riprova, tutte le commemorazioni cui assistiamo, le giornate della memoria sparse in giro per il mondo e distribuite fitte nei vari giorni del calendario dovrebbero servirci a ‘ricordare’ al fine di ‘non ripetere’ i drammi che rimembriamo. Invece non succede questo.
    Sì, certamente è vero quello che sostiene Salzarulo e cioè che *oltre al surrealismo, questo modo di produzione capitalistico “ha anche utilizzato ebraismo, cristianesimo, protestantesimo”. E che *il capitalismo sicuramente utilizza il nostro irrazionale così come utilizza i nostri desideri*.
    Ma poi anche scrive: *Possiamo davvero credere che l’inconscio, il sogno, la fantasticheria, l’irrazionale, la memoria involontaria non irrompano nelle “formazioni di compromesso” dei nostri scritti, dei nostri gesti o dei nostri comportamenti?…Come è fatta la nostra mente e la nostra organizzazione psichica?*. Ma questo significa che ci mettiamo anche del ‘nostro’, qualche cosa che collude con questo ‘sistema capitalistico’: ovvero che siamo ‘disposti’ a credere senza esercitare alcun senso critico, nel senso di mettere in crisi quello che troppo disinvoltamente ci viene proposto.

    Perchè c’è un ulteriore problema – e qui vengo al punto b) -, e di non poco conto, che si può porre anche quando un investimento c’è stato, ma nessun lavoro di lutto si è compiuto mantenendo l’investimento intatto come se nessun tempo storico fosse mai trascorso (come ha fatto invece Proust sia nella sua esperienza ‘involontaria’ della madeleine e sia nel ricorso ‘volontario’ agli interminabili elenchi di oggetti e situazioni, come a dar loro, attraverso la nominazione, una presenza che vorrebbe sconfiggerne la caducità).
    Ecco allora intervenire una funzione dell’ideologia quando si istituisce come un ‘dogma’ che non va a indagare i suoi elementi primi.
    La domanda che Ennio pone (*… perché gli umani (o almeno una parte di loro) non si rassegnino al dominio di altri umani*) non può che sollevare un coro di rifiuto rispetto a questa ‘ingiustizia’ rappresentata a) dal dominio e b) dalla rassegnazione.
    Se il capitalismo venisse inteso solo come ‘sopraffazione’ (ma Marx non parla in questi termini ‘morali’) allora il suo contrario, il comunismo, sarà ‘liberazione’ dai vincoli dello sfruttamento. Viene a cadere, eleggendo una parte per il tutto (“il dominio”), la complessità del sistema di produzione capitalistico che non parla(va) di contrapposizioni tra soggetti ma fra classi (e, oggi, anche le classi si sono eclissate). E allora bisognerà indagare meglio quale significato ha (se ancora ce l’ha) parlare oggi di comunismo ‘in sé’ (*«Per quanti qui parlano vale ancora l’ipotesi comunista?»*), avulso dal parlare delle forme di capitalismo dalla cui costola pur è nato (non sto parlando del comunismo primitivo).
    Potrebbe valere se si riesce a capire di che cosa si tratta.

    R.S.

  30. SEGNALALAZIONE
    A proposito di Proust e della Recherche (in riferimento a Girard di cui si parla in questi giorni in occasione della sua morte

    Girard ci sta dicendo è che proprio là dove ci crediamo più originali, più autentici, più naturali e istintivi, più “noi”, nel desiderio, ecco, proprio lì lo siamo meno, proprio lì siamo riempiti dall’altro, da ciò che è fuori di noi. Dove ci crediamo più pieni siamo in realtà riempiti dal vuoto dell’altro. E così via, all’infinito, perché anche il desiderio dell’altro è altrettanto imitativo. Il romanzo moderno è quello in cui questa «menzogna romantica», questa illusione di originalità e pienezza, viene svelata dalla «verità romanzesca» del desiderio mimetico e messa alla berlina nella sua tragica ridicolaggine. Il tempo ritrovato, a pensarci, è proprio questa presa di coscienza di Marcel alla fine dell’opera: «Ritrovare il tempo – scrive Girard – equivale ad accogliere una verità, a fuggire la quale la maggior parte degli uomini dedica l’intera esistenza; equivale a riconoscere di aver sempre copiato gli altri per apparire originali ai loro occhi così come ai nostri. Ritrovare il tempo significa sopprimere un po’ del nostro orgoglio». A differenza dei romanzetti rosa che legge Emma, in cui c’è solo «la menzogna romantica» (che poi è ciò che si può vendere), in cui cioè la fascinazione non può mai venire meno, le «grandi creazioni romanzesche sono sempre frutto di un fascino superato. L’eroe si riconosce nell’aborrito rivale; rinuncia alle differenze suggerite dall’odio».

    Da http://www.rivistastudio.com/standard/girard-luomo-che-ha-spiegato-il-mondo-con-i-romanzi/

    P.s.
    Per una presentazione critica del pensiero religioso (agostiniano) di Girard si veda

    Gli uomini saranno dèi gli uni per gli altri. Sull’antropologia di René Girard
    6 novembre 2015 Pubblicato da Le parole e le cose
    di Barbara Carnevali

    http://www.leparoleelecose.it/?p=20907

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