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Intermezzo natalizio 1974

di Elena Grammann

[ “Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto a tentativi di uscire dalla famiglia, l’esecrata famiglia” (Elvio Fachinelli, citato da E.A. qui). Si muovono ondeggiano e fluttuano, ma l’uscita dalla famiglia non è stata una passeggiata.]

 

“Sembra un treno del Far West” commentò il ragazzo giovane straniero salendo sulla littorina con i sedili di legno che faceva servizio locale.

La ragazza giovane autoctona provò a guardare il treno con occhi diversi per vedere se poteva avere la stessa impressione. Ma aveva visto poche cose straniere e soprattutto era troppo tesa per riuscirci. Però forse sì, forse i sedili a listelli di legno erano antiquati, ammise a se stessa con un sorriso forzato.

Il ragazzo straniero era, in un senso non ufficiale ma non per questo meno sostanziale, il suo fidanzato. Si erano conosciuti da qualche parte in Europa, si erano scritti quasi giornalmente per cinque o sei mesi ed ora eccolo qui. Per tutta l’interminabile mattina in cui lo aveva aspettato alla stazione aveva sperato che non arrivasse.

Se la ragazza fosse capace di riflettere sarebbe sicuramente meno tesa. Non si sentirebbe responsabile per i sedili di legno, per le occhiate della gente sul trenino locale, per l’incontro, fra poco, con i suoi genitori e per ogni singolo istante che scocca. Se la ragazza fosse capace di riflettere magari gli avrebbe scritto, semplicemente, di non venire. Avrebbe fatto una bella lista dei motivi che sconsigliavano di continuare quel rapporto: troppo complicato, troppo pieno di problemi, soprattutto troppo inconsistente (ma che ne sa lei, di consistenza e inconsistenza), e gli avrebbe detto addio. Per lettera.

Ma forse, a pensarci bene, non è che non sia capace di riflettere; anche questo, sì, in un certo senso; ma soprattutto non riesce a immaginare il futuro, non riesce a immaginare che il presente possa diventare irrilevante, possa modificarsi; è prigioniera del presente, lo prende terribilmente sul serio, ad ogni stimolo una reazione: immediata, definitiva; e, per il rispetto che si deve, eterna.

È debole e orribilmente ricattabile. Basta farle pesare un po’ di sofferenza, un po’ di amore, un debito minimo, che lei si sente subito in colpa; insisti un po’ e farà esattamente quello che vuoi; insisti un po’ e vedrai che la leghi ben stretta; poi, quando non ce la fa più e scalpita, tutti trovano che è volubile e egoista.

Il ragazzo straniero le ha scritto tutti i giorni per sei mesi. Nelle lettere le diceva quanto stava male e che non riusciva a respirare e il medico aveva detto che era psicosomatico. Le diceva anche tutto quello che stava facendo per iscriverla all’università, trovare un appartamento eccetera. Ora lui è qua e lei è orrendamente a disagio ma non può assolutamente ammetterlo perché non è la reazione corretta.

Poi è anche vero che lei è giovane, malleabile, sventata, pronta a cavare dal presente quel che si può. Pian piano il disagio si allenta, diventa sopportabile, anzi a tratti non lo avverte nemmeno più.

La vigilia di Natale vanno a fare un giro in città. La città è bella: scura, illuminata, luccicante. Dove sta lui di città così belle non ce ne sono. Lui la prende un po’ come se gli fosse dovuta.

Per uno che non riusciva a respirare si è rimesso piuttosto bene: è deciso, sa quello che vuole, si incazza se non lo ottiene. Ad esempio ha deciso che offrirà ai genitori di lei un cesto natalizio e cesto natalizio dev’essere. Lei non capisce nemmeno bene cos’è. Loro non si fanno manco i regali per Natale, figuriamoci i cesti. Però bisogna andare dal cestaio e fare il giro dei negozi di alimentari del centro e cercare esattamente quel che vuole e fare una cosa proprio come lui se la immagina. Lui si prende ridicolmente sul serio – forse perché è uno che fa le cose sul serio; lei lo sfotte un po’ per questo – forse perché lei in fondo non fa mai niente sul serio. In seguito lui la odierà per le sfottiture e lei lo odierà perché lui gliele farà pagare care. Per il momento però lui ha abbastanza buon gioco perché sa con precisione quello che vuole: vuole portarsela là nel suo paese. Lei invece non sa affatto quello che vuole, è completamente disorientata, la realtà è una matassa che non riesce a districare, è perfino incapace di trovare una via e un numero civico, figuriamoci le linee direttrici di un’esistenza. A dir la verità c’è una cosa che vuole assolutamente e sa di volere, ed è scrivere un romanzo; ma lo rimanda a più in là nella vita perché non ha idea di cosa metterci dentro.

Fra Natale e Capodanno fanno i soliti giri, questi succedanei striminziti del Grand Tour: Bologna, Firenze, Venezia. Andata e ritorno in giornata. Quando vanno a Bologna il treno è talmente stipato che fino a Modena viaggiano in una specie di vagone spedizioni dove c’è anche un maiale in gabbia. A Venezia vanno al consolato del paese straniero a far vidimare dei documenti che serviranno alla sua inscrizione all’università straniera. Lui ha preso in mano la situazione; lei lascia fare, stupita che queste cose si facciano realmente, che siano fatte, che accadano. Allo stesso tempo ognuno di questi passi la porta più vicina all’università straniera, senza che lei abbia detto veramente di sì. Anzi sul momento, la prima volta che la cosa era saltata fuori, le era parsa un’enormità.

Di nuovo la fa ridere perché la cosa che gli sta veramente a cuore, a Venezia, è mangiare in un ristorante tipico. Non corrisponde alla sua idea di cultura, che è austera. Però ammira la naturalezza con cui lui entra nei ristoranti, ordina, consuma e paga. Lei al ristorante ci è andata pochissimo, e mai con la famiglia; i camerieri le fanno soggezione, quasi quasi si alzerebbe in piedi quando arrivano; inoltre fino all’ultimo ha il terrore di non avere abbastanza soldi.

Lei ha già la patente, lui no. Vanno un po’ in giro con la vecchia millecento di suo padre, il pomeriggio o la sera. Si vede che lui è abituato in un mondo in cui i figli fanno abbastanza quello che gli pare e nessuno gli chiede conto, molto diverso da qui. Però lui si intende che le cose debbano andare come è abituato lui e di nuovo lei è grandemente a disagio e ci sono alcune scene spiacevoli fra lei e i suoi genitori.

Una volta – sono in macchina per un giro panoramico sulle colline – litigano di brutto. Lui insiste perché lei si trasferisca su da lui, si iscriva all’università là eccetera. Ha preparato tutto e non vede alcun problema. Lei dice chiaramente che è una roba da matti e che non se la sente. Lui la mette come se lei si fosse rimangiata la parola e le ingiunge di portarlo immediatamente alla stazione. Lei lo prega di non partire; striscia quasi, finché lui magnanimamente rinuncia alla rottura e alla partenza. Subito dopo lei se ne pente. Si chiede perché non ce lo ha portato alla stazione, visto che voleva partire. Non sa se lo ha fatto perché tiene a lui o perché ha paura della figura che farebbe; perché ormai si sente tenuta a un certo comportamento. Comunque sospetta che non sarebbe partito, sospetta che fosse tutta una finta.

Se la ragazza fosse un po’ meno ingenua, un po’ più abituata a riflettere, un po’ più consapevole di certi meccanismi neanche tanto nascosti, fiuterebbe il ricatto, si farebbe diffidente e remerebbe al largo finché ha una possibilità di manovra. Perché più tardi, quando è andata a finire che lei è su nel paese straniero e lui ha il coltello dalla parte del manico, allora le fa vedere i sorci verdi col suo sistema del ricatto.

Alla fine delle vacanze di Natale, subito dopo Capodanno, il ragazzo riparte. Sono praticamente d’accordo che lei lo seguirà qualche giorno dopo.

Lei prova a dirlo in famiglia, prova a chiederlo. Sua madre non prende nemmeno in considerazione la possibilità, suo padre invece le fa una scenata tremenda in sala da pranzo. Si vede che finalmente è sbottato, si vede che finalmente dice la sua dopo essersi dovuto sopportare la presenza di quel tizio che non si capiva bene cosa ci facesse lì; si vede che se fosse stato per lui non lo avrebbe certo tollerato; si vede che il tizio ha potuto soggiornare nella casa soltanto in virtù di una certa eccentricità della madre, di una sua visione un po’ barocca delle convenienze, di un suo mettere il cuore prima delle regole – sempre che le regole vengano poi rispettate, si capisce. Suo padre la investe con una violenza che esplode raramente in lui, che esplode in lui quando non ne può più, quando ha l’impressione che le cose vadano veramente oltre. Lei sta in un angolo e piange come una vite tagliata, piange e singhiozza orribilmente, orribilmente consapevole che suo padre ha ragione, consapevole che tutto il tempo lo ha offeso e lo sta offendendo, consapevole della propria abiezione e in qualche oscuro modo consapevole della necessità di questa abiezione. “Cosa vuoi da noi?” urla suo padre, “Ma cosa vuoi da noi?” urla ancora. Giusto, giustissimo, corretto, non può che essere d’accordo. Cosa vuole da loro? Hanno accolto in casa questo tizio che viene da lontano e si scopa la loro figlia, cosa che loro non sanno ma potrebbero benissimo immaginare; cosa vuole ancora da loro? Niente, corretto, non può volere niente.

Così un pomeriggio parte di nascosto – senza autorizzazione, senza benedizione, e ovviamente senza soldi.

Durante quelle vacanze di Natale una volta vanno al cinema. Non sa proprio cosa ci siano andati a fare, dal momento che lui non sa la lingua e quindi non capisce niente. E infatti a metà film si stufa e vuole uscire, vuole che se ne vadano. A lei dispiace un po’ perché il film le piaceva, ma se lui vuole andare bisogna andare, non c’è niente da fare. Vanno in un locale in cui lei non è mai stata perché non va mai in città di sera. Effettivamente, nell’arretratezza generale della provincia bisogna dire che lei è particolarmente arretrata. Sono seduti uno di fianco all’altra su divanetti bassi e bevono qualcosa e lui dice c’è una cosa che mi piace moltissimo di te e sfiora col dito lo zigomo o meglio una specie di gonfiore dolce fra la palpebra e lo zigomo. Più avanti lei si guarda qualche volta nello specchio, di profilo, ed è vero, c’è questo gonfiore così dolce e lei prima non lo sapeva.

Le racconta che, da ragazzino, si era messo in testa che voleva sposare una giapponese. Lei crede che sia per questo che le piace: per la follia ragionata, pianificatrice; per il senso del possesso: ancora adesso non può che provare ammirazione per il modo in cui, mezza giornata dopo averla conosciuta, dichiara a quelli del suo gruppo che da questo momento lei viene con lui.

In un suo modo egoistico (ce n’è un altro?) lui l’ha amata e continuerà ad amarla sinceramente, profondamente. Ma cosa vuol dire? Soltanto che ha bisogno di lei, non vuol dire altro.

Quando nel paese straniero lei faticosamente si metterà sulle sue gambe, e sarà indipendente, e non sarà più ricattabile, quando sarà stufa di vedere i sorci verdi e finalmente lo pianterà, lui soffrirà moltissimo.

Lea Melandri e Stefano Ciccone su ” Essere maschi”

Oggi su Facebook , capitato per caso sulla pagina di Lea Melandri, ho letto questo suo articolo del  30 aprile 2019 che mi era sfuggito e riproposto oggi (qui). Lo  riporto su Poliscritture assieme ad un commento dello stesso anno di Stefano Ciccone. Il tema è di quelli importanti e da ruminare a lungo accanto e assieme ad altre riflessioni. Indirettamente e chissà  quando, credo possa aiutare a spiegare, se non a sciogliere, anche certi nodi più o meno stretti o ingarbugliati che inceppano spesso le discussioni fra uomini e donne quando parlano d’altro. [E. A.]

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Le rondini

 

di Franco Casati

   In quei giorni di primavera sembrava che la sua preoccupazione fosse quella di accertarsi se le rondini erano tornate. Chi lo giudicava un alienato non capiva che ciò rappresentava un punto di vista superiore dal quale guardare, o meglio non guardare, verso terra, verso la banalità della vita. Era come fingere che tutte le sue reali preoccupazioni non esistessero, concentrandosi verso un punto, il ritorno delle rondini, che rappresentasse la sintesi di tutte le sue aspirazioni e desideri: una sintesi universale, legata al ciclo naturale delle stagioni e della natura. Se vogliamo, era un vero tratto di nobiltà, elegante, vitale e distaccato. Continua la lettura di Le rondini

Punto di domanda

 
di Arnaldo Éderle


Che razza di titolo è?
E’ che non sapevo che scrivere, ecco
che cos’è. Mi crederanno un incapace,
un tipo che non sa cosa fare, ecco
che cos’è!
E, infatti, così mi sembrava che fosse,
ero incerto e confuso, che cosa potrei
dire di più. E lo sono ancora.
Quando decisi di scrivere avevo voglia sì
di fare, ma nel mio cervello non c’era nulla
anzi meno di nulla, un vuoto indicibile.
Mi guardai intorno, ma non vidi nulla
nessun batuffolo da curare nessuno
spiffero da ascoltare nessun cinguettio
isolato, isolato dal mondo, davvero
la mia cervice sgombra da qualunque
interesse, qualunque guado qualsiasi punto
di partenza, tutto  vuoto.
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Da “Il coraggio di essere padre”

di Lidia Are Caverni

Esiste un mondo di sentimenti lievi e impalpabili  sotto la coltre  pesante di quelli che i mass media ci impongono. Sono spesso relegati  nelle pagine delle riviste rivolte alle donne.  Lidia Are Caverni ha provato ad esplorarli con soavità   in un romanzo pubblicato nel maggio 2018 dalla Casa Editrice Progetto Cultura di Roma. Farà a pugni con i contenuti di altri post fin troppo  angosciosamente immersi nel caos della vita politica e sociale, ma il suo spazio su Poliscritture  nessuno glielo toglie. [E. A.] Continua la lettura di Da “Il coraggio di essere padre”

ragazzi d’acqua dolce

di Angelo Australi

Il sasso era rimbalzato ben sette volte a pelo d’acqua, prima di andare sotto. Poco distante un pesce saltò e subito scomparve con in bocca qualche insetto, mentre da un canneto si alzarono in volo una coppia di fringuelli, cinguettando e rincorrendosi fino a che non sparirono nella vegetazione della riva. Spartaco fissò quei saltelli con uno sguardo concitato e pieno di soddisfazione, era stato un lancio perfetto e nessuno dei suoi compagni si sentiva stimolato a tentare di far meglio. Non facile da ripetere nemmeno per lui: un gran colpo di fortuna aver trovato quel ciottolo di uno spessore minimo, affusolato, perfettamente rotondo, e di averlo lanciato istintivamente in un punto ampio del fiume dove l’acqua rifletteva l’ombra di alcune forme astratte di paesaggio nella lucentezza dei colori del cielo fissati in quella superfice statica. Continua la lettura di ragazzi d’acqua dolce