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Addio a Gianfranco La Grassa

di Ennio Abate

Un incontro difficile (tra sconfitti) ma ci siamo sempre rispettati. E sono contento che su Poliscritture sono numerose (dal 2010) le tracce della tua presenza. Ciao Gianfranco. Per cominciare a ripensare la sua figura parto da uno dei suoi racconti firmati come Franco Nova:

L’uomo in ansia

di Franco Nova

Da due ore ormai, ancor prima che cominciasse ad imbrunire, l’“uomo in ansia” era sotto il lampione all’angolo tra via Fontina e via Gattinara, camminando su e giù a scatti, fermandosi e ripartendo, voltandosi bruscamente non appena si allontanava troppo dal lampione. Girava l’indice tutto dentro il collo della camicia come si sentisse stringere la gola pur avendo la camicia aperta. Subito dopo si fregava freneticamente le mani; soprattutto il polpastrello dell’indice destro continuava ad incalzare il palmo dell’altra mano, rischiando di provocargli qualche lesione cutanea. Poi tentava di fermarsi mettendosi in equilibrio su un piede solo, ma resisteva due secondi, sbandava, si riprendeva e ripartiva a testa bassa come un toro infuriato in piena carica. Si slacciava la cintura, contava quanti buchi fossero rimasti nel caso fosse ingrassato, si riallacciava, ma sembrava scontento come se l’avesse troppo stretta sulla pancia un po’ pingue; allora si slacciava nuovamente, contava i buchi e riallacciava. Tentò una variazione: camminare con un piede su e l’altro giù dal marciapiedi; uno sciocco diversivo di cui presto si stancò.
Intanto sbuffava e imprecava perché si faceva buio e non venivano accesi i lampioni; “spilorci di amministratori” – ringhiò – “sono economie da morti di fame!”. Alla fine, con un bagliore improvviso, il lampione si accese e la luce cominciò a prendere vigore; nel giro di 15-20 secondi fu al suo massimo. L’“uomo in ansia” ebbe così la sua ombra che si allungava e accorciava a scatti, seguendo i movimenti nervosi del suo portatore. Un’idea, che gli apparve geniale, attraversò la mente dell’agitato passeggiatore: porsi in una posizione tale rispetto al lampione che la sua ombra sul lastricato fosse lunga quanto lui era alto. Si ricordava di essere 1,78. Iniziò così a concentrarsi sul nuovo brillante compito, spostandosi lentamente e cercando di misurare la lunghezza della sua ombra. Complicatissimo; ora gli sembrava 1,80, ora 1,76. Stralunava gli occhi, fissi sull’ombra, evitando fino al bruciore più intenso di sbattere le palpebre. Adesso forse era a 1,79; no, più facile 1,77. “Accidenti, dovrei avere con me una persona dotata di metro per risolvere questo problema”.
Lasciò perdere, inutile tentare di calmarsi in quel modo. L’attesa era sfibrante, non ne poteva più, riprese il suo deambulare a scatti, come un pollo, sempre aggirandosi sotto il lampione, attanagliato dal terrore: “e se non venisse?”. No, impossibile, nemmeno quella sera! Era quasi un mese che attendeva, che ripeteva ogni giorno a quell’ora il suo rito; non avrebbe resistito alla delusione, avrebbe commesso qualche “sciocchezza”. In quel momento, apparve un po’ traballante, il rotondo “omino dell’osteria”. Aveva finito di cenare con la sua “vecchia”, in rigoroso silenzio; adesso aveva diritto alle sue due ore all’osteria lì vicino, a metà di via Fontina, con gli altri ubriaconi suoi amici. Amici? Si fa per dire: dieci-quindici “ombre”, qualche discorso sulla “vita da cani” di tutti i giorni, una sbirciata ogni tanto alla televisione senza nulla ascoltare nel frastuono del locale, risate incomprensibili tanto per tirarsi un po’ su e poi, con la lucidità di un lobotomizzato, il ritorno dalla “sua vecchia”, che avrebbe trovato già addormentata e in assordante russare.
L’“omino dell’osteria” si accorse subito dell’“uomo in ansia”; impossibile non notarlo per il suo atteggiamento di incontenibile agitazione. Rimase titubante, perché era omino schivo e non voleva disturbare, ma alla fine la sua naturale bonomia, unità a quella certa quantità d’alcol che aveva già ingurgitato a casa, prevalse: “Ha perso qualcosa signore, ha bisogno di aiuto?”. L’“uomo in ansia” fu come colpito da una pistolettata, non si aspettava di essere apostrofato; prese comunque l’occasione al balzo per allentare la sua tensione: “No grazie, non ho perso nulla, è semplicemente un bel po’ e non arriva nessuno”. “Capisco – disse l’“omino dell’osteria” – in effetti è noioso aspettare qualcuno che ritarda, la gente non si rende mai conto di come sta uno che attende”; “Mah, veramente non potrei dire che sia in ritardo, solo che lo aspetto da troppo tempo’”. L’“omino dell’osteria” rimase un po’ perplesso di fronte alla risposta, ma non ci fece troppo caso: “Se mi dice che tipo è, com’è fatto, magari vado fin nell’altra via a vedere se qualcuno attende, può essere che abbia capito male il luogo dell’appuntamento”.
A questo punto, l’“uomo in ansia” lo guardò con vera sorpresa e sconcerto: “Ma io non so come sia fatto, non so chi sia, nemmeno se è uomo o donna. Scusi, ma se sapessi chi deve arrivare, le pare che sarei così agitato solo per un banale ritardo? Non so chi deve arrivare e quando; è proprio questo che mi sconvolge”. Fu l’altro ad essere ora sconcertato, più precisamente a restare di sasso. Ebbe la netta sensazione che l’uomo nevrotico non dovesse essere proprio in sensi; forse aveva bevuto anche lui. Comunque, era educato e non si permise alcuna osservazione; solo disse: “Potrebbe forse farmi compagnia, vado all’osteria laggiù, dove passo un paio d’ore con amici. Lei potrebbe prendere quello che vuole, ad esempio una tisana, una camomilla, si riscalderebbe un po’ e poi vedrebbe se continuare l’attesa”. L’altro, a questo punto lo guardò proprio con commiserazione: “Scusi, ma se venissi con lei e poi l’altro arrivasse, per una tisana o qualsiasi altra cosa avrei perso l’incontro che attendo da quasi un mese. Ogni sera sono venuto qui e mi sono fermato finché non hanno spento i lampioni. Adesso, per qualche minuto di rilassamento, potrei dovermi pentire”.
L’“omino dell’osteria” era sconvolto, ma non lo diede a vedere, solo balbettò: “Come noterà, dall’osteria si vede questo lampione; starebbe sulla porta, ma dentro al caldo e anche seduto, così vedrebbe se arriva stando comodo”. L’“uomo in ansia” fu veramente scoraggiato: “Le ho detto che non so chi sia, come sia fatto; ovviamente nemmeno lui (o lei) mi conosce, se passa tira dritto e se ne va; da lontano non saprei se è quello giusto. Se sono qui ho qualche probabilità in più, potrei sentire che ha un odore speciale, una camminata assai diversa dalle solite, mi darebbe magari un’occhiata dalle quali si intuisce il destino; insomma, una qualsiasi cosa che denotasse che è esattamente chi attendo”.
L’“omino dell’osteria” capì che non era aria per lui, meglio filare al più presto, quel tipo non era decisamente normale; non aveva nemmeno bevuto, ne era più che convinto, era proprio uno che non avrebbe dovuto trovarsi in quel posto. Salutò con gentilezza, ma anche un po’ freddamente, e si diresse alla “sua” osteria dove ormai, ne era sicuro, gli amici di bevuta si stavano spazientendo. L’“uomo in ansia” ricambiò appena il saluto e, per un momento, stette fermo a osservarlo mentre si avviava nel luogo fatale del suo serale rimbambimento. Scosse la testa e borbottò fra sé e sé: “Si può essere sicuri che mi avrà preso per matto e racconterà il suo bizzarro incontro, sollevando grasse risate tra quei semialcolizzati”.
Riprese il suo andirivieni a scatti sconnessi e la rabbia montò in lui: “Quel tanghero, come tutti gli altri tangheri che circolano normalmente per le strade. Non attendono nulla, non un incontro che apra loro nuove prospettive, non una persona che aspettano ma senza sapere chi sia e da dove possa arrivargli tra capo e collo. Hanno sempre bisogno dell’usuale, del sempre eguale, senza scosse, senza tumulti del cuore e della mente. Tutto è inscritto in loro come lo fosse da millenni in una specie animale primitiva. Hanno l’anima fissata a binari lunghi come tutta la loro vita, sui quali il loro treno corre senza che vi si aggiunga né si stacchi un solo vagone. Sempre gli stessi vagoni, con gli stessi passeggeri, con gli stessi controllori, con sguardi, discorsi, sollecitudini e svenevolezze sempre identici. Le fermate sono quelle ogni giorno, ogni giorno scendono e salgono quelle persone, viaggiano insieme annoiati, distratti, senza mai aspettarsi nulla che li emozioni, nulla che li coinvolga e magari stravolga”.
La sofferenza dell’attesa si era fatta insopportabile, i muscoli delle gambe rigidi, ma strinse i denti: “Che mi pensino pazzo, ma non farò la loro stessa fine. Che arrivi qualcuno oppure no, sarò sempre in attesa, pronto ad accogliere la sorpresa, a rimanere esaltato o annichilito dal nuovo incontro, a cadere nella delusione e amarezza ad ogni nuovo giorno che passa senza novità, ma rimettendomi in marcia ad ogni calar del Sole per accogliere il notturno visitatore, che mi si preannuncia ognora invano eppure con la tacita promessa che infine giungerà improvviso, mi sorriderà e dirà: ‘sono qui, adesso rinnovo la tua vita’. Questo è vivere, non lo scorrere dei giorni senza data, nel flusso indistinto che rende la vita un blocco compatto, da buttare tutto insieme nella fossa con una sola palata”.
Era comunque meno frenetico, la convinzione d’essere diverso lo rendeva appena meno ansioso, perfino un barlume di speranza si riaccendeva, non più per quella notte, ma per le future. Dopo un paio d’ore, l’“omino dell’osteria” uscì barcollando; per quanto ubriaco fradicio, prese le sue precauzioni per rifare la strada del ritorno con un giro più largo onde evitare d’incontrare il personaggio che vedeva aggirarsi ancora sotto il lampione. Si diresse a casa; e non ha alcuna rilevanza seguirlo nel suo normale rincasare, nel suo sbrigativo spogliarsi e buttarsi nel letto della moglie ronfante per sprofondare nel rauco russare di una notte come ogni altra, di ogni altro omino del suo genere sempre eguale.
Anche l’“uomo in ansia” fu sollevato nel vedere che l’omino aveva seguito una direzione diversa per non incontrarlo; due volte la stessa ottusa ovvietà in così breve tempo sarebbero state sfibranti. Doveva essere ormai notte inoltrata, fra non molto avrebbe cominciato ad albeggiare e poteva tornarsene verso il luogo da dove era venuto. Gli venne però subitanea in testa una considerazione fastidiosa: “E’ da quasi un mese che aspetto qui tutte le sere. Criticavo l’omino di prima per la sua ovvietà e la vita uniforme e piatta. Se aspetto tutte le sere l’incontro decisivo nello stesso posto, divento anch’io usuale, ripetitivo, un conformista. Divento l’‘uomo in attesa’ ma di un’attesa sempre la stessa, sempre nello stesso luogo. Rifaccio anch’io ogni sera la medesima strada da casa mia al lampione di questo incrocio e viceversa. Inutile allora criticare gli altri, i tangheri la cui vita scorre lungo vie obbligate dalla consuetudine dei mediocri. Da domani sera mi sposto nella via del Rigoglio, e lì attenderò per non più di una settimana e poi cambierò ancora”.
Si sentì sollevato, finalmente sarebbe stato diverso dagli uomini qualunque, dai beoni dell’osteria, da quelli che erano a casa a ronfare davanti alla TV. Si incamminò lungo la via del ritorno. Dopo sì e no dieci metri fece un nuovo gesto di scoramento: “Pur se anche cambio ogni settimana il luogo dell’attesa, sarò comunque l’‘uomo che muta ogni dato periodo il posto dell’attesa’. Sempre lo stesso compiersi del perpetuo finto rinnovamento, che è in realtà un’estenuante ripetizione. Devo rassegnarmi: non mai fermarmi in nessun posto fisso, tutta la notte a girare per ogni strada di questa insipida cittadina, e rigorosamente a casaccio senza nessun percorso prefissato”. Si immaginava la fatica della realizzazione di questo progetto, ma si sentì sollevato dalla soluzione. “Macché soluzione” – disse dopo qualche altro passo – “se quello o quella che attendo non arriva, sarò semplicemente l’‘uomo errante in perpetuo’, sempre eguale a se stesso, sempre in fremebonda attesa del ‘non arrivo’; solo se finalmente irrompesse questo ‘arrivo’, potrei essere diverso dagli altri, sarei autorizzato a sentirmi superiore ai ‘normali’ che infestano e imbruttiscono il mondo. Chi mi può garantire un tale arrivo, un incontro finalmente diverso? Nessuno, tutto è affidato al caso, alla cosiddetta fortuna, mai benigna verso chi è in consapevole attesa della sorprendente novità”.
Era scoraggiato, l’impossibilità di sfuggire all’immersione e annegamento nel flusso degli uomini medi, di coloro che s’incamminano lungo percorsi ad un certo punto ripetitivi, malgrado il tentativo di alcuni, come lui, di rompere i soliti ritmi, gli era ormai evidente; non vi era da nutrire alcuna speranza di reale rinnovamento se nessuno fosse arrivato, se l’attesa si fosse prolungata oltre ogni limite dell’umana resistenza. Era ormai sul “ponte dei Sospesi”, sotto scorreva un’acqua tranquilla, che sapeva profonda. Un lampo: “Ecco un atto unico che non si può ripetere, che mi renderà veramente diverso, non più mediocre”. Scavalcò il parapetto e si gettò di sotto.

da https://www.poliscritture.it/2015/05/27/luomo-in-ansia/

Ancora sul Leoncavallo

LEONCAVALLO E DEMOCRAZIA CONFLITTUALE
Alla fine parliamo di urbanistica
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Gaza ancora…(2)

Stefano Levi Della Torre

Sintesi dell’intervento tenuto il 3 maggio 2025 all’Assemblea dell’Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam [villaggio di pace, di convivenza ebreo-palestinese tra Gerusalemme e Tel Aviv].

(da “Qol” n. 218 aprile – giugno 2025)
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Gaza ancora…(1)

ELEGGIAMO IL DOMICILIO A GAZA

Un gesto che può fare chiunque. Eleggiamo il nostro domicilio a Gaza, in un luogo a nostra scelta. Comunichiamo il cambio di domicilio a domiciliatiagaza@primaloro.com. E comunichiamo il nuovo domicilio in tutti i modi che possiamo trovare.
(io da oggi sono domiciliata presso la scuola del REC, il Remedial Education Center, l’associazione grazie alla quale ogni mese tante famiglie ricevono i nostri aiuti: Palestina – Striscia di Gaza – Jabalia Est – Rotatoria di Zammu – Izbat Abd Rabbo)
ELEGGIAMO IL DOMICILIO A GAZA Noi, Raniero La Valle e Tomaso Montanari, mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo Presidente di Pax Christi e p. Franco Moscone, arcivescovo di Manfredonia, Elena Basile e Ginevra Bompiani, e molti altri qui sottoscritti Nel senso in cui l’ordinamento prevede una distinzione tra la residenza e il domicilio, quale luogo speciale delle proprie cure, dichiariamo Gaza nostro domicilio elettivo, chi presso la parrocchia della Sacra Famiglia, presa a cannonate dall’esercito israeliano benché rifugio di centinaia di profughi, chi presso l’ospedale Nasser di Kan Younis e le sue incubatrici distrutte, chi presso la Moschea al-Faruk di Rafah, fatta tomba di tutte le fedi, chi presso la vitale Biblioteca di Samir Mansour, chi a Deir al Balah e ai valichi dove si viene uccisi nella ricerca di cibo, sia presso ogni altro aggregato, famiglia o indirizzo, e invitiamo a fare altrettanto tutti coloro che intendono agire perché il mondo resti umano, e tutti insieme provvediamo, come a nostro domicilio, alla ricostruzione di Gaza. A Gaza siamo a un limite estremo del versante crudele del potere, che mette a rischio non solo il popolo oggi votato alla fine, pur se attraverso effimere tregue, ma i popoli di ogni cultura e nazione. Tuttavia da Gaza può venire la salvezza per tutti se il suo martirio susciterà una reazione uguale e contraria a favore della vita, della dignità, della libertà e della riconciliazione della intera comunità umana. Al compito della politica si aggiunge la personale responsabilità di ciascuno. Perciò noi pensiamo che eleggere il domicilio a Gaza significa difendere la nostra casa comune, e idealmente far diventare i figli e abitanti di quella terra numerosi “come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare (Gen. 22,17), così che diventi impossibile per chiunque pensare di sradicarli, di ucciderli, o di trasformarli in servitori di ricchi bagnanti. Il nostro slogan, il nostro motto identitario tra tanti altri da molti condivisi è “lunga vita a Gaza” a cominciare dalla sua ricostruzione, non per speculazione e per profitto, come fanno quanti guadagnano prima sulle armi e poi sugli scempi da queste compiuti, ma perché dovunque sia in atto la rovina, ogni valle di morte sia riempita e ogni monte di sopraffazione e di dominio sia abbassato (Is. 40,4). Se i nuovi domiciliati a Gaza saranno all’inizio centinaia, poi migliaia, poi innumerevoli in ciascuna delle nostre città e poi in tutto il mondo, essi diverranno quella pietra che rotolando dalla montagna sul campo dell’aggressore, ne rovesci le tende così che cadano a terra divelte, come nel sogno biblico narrato nel libro dei Giudici (7,13-14), e venga così annunziata la sconfitta di tutti i poteri indiscriminati e genocidi. Il nome di chi fa questa elezione di domicilio potrà essere comunicato all’indirizzo mail domiciliatiagaza@primaloro.com, e potrà essere liberamente citato da ciascuno col proprio indirizzo su carta da visita o e mail e in qualsiasi altro documento. Nel sito PRIMA LORO sarà pubblicato un elenco dei nuovi domiciliati, a cui tutti possano accedere. L’iniziativa potrà essere perseguita in molteplici forme, private e pubbliche, mediatiche e politiche, autogestite o organizzate in forme collettive, secondo opportunità e fantasia. Raniero La Valle e Tomaso Montanari, mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo Presidente di Pax Christi e p. Franco Moscone, arcivescovo di Manfredonia, Elena Basile e Ginevra Bompiani, Domenico Gallo, Alex Zanotelli, Felice Scalia S.J., Claudio Grassi, Nandino Capovilla, Francesco Comina, Sergio Mercanzin, Vito Micunco, Paolo e Rosemarie Bertagnolli , Enrico Peyretti, Raul Mordenti, Agata Cancelliere, Stefania Tuzi,…….. P.S. I destinatari di questa newsletter che aderiscono alla proposta di eleggere domicilio a Gaza, sono pregati, ai fini di dare forza a questa iniziativa, di rilanciare ai propri corrispondenti tale proposta, perché scatenandosi il consenso a questa condivisione ideale delle sofferenze della popolazione palestinese soggetta ad Israele, ne scaturisca una pressione efficace sulla stessa politica del governo israeliano.
“eleggere il domicilio a Gaza significa difendere la nostra casa comune”?

Ma noi non stiamo a Gaza e, pur se eleggessimo in tanti il domicilio a Gaza. non rischieremo di essere bombardati. Non si fermano gli assassini in questi modi.
Capisco le buone intenzioni, ma l’iniziativa mi pare rischi di essere un diversivo dalla tragicità dello scontro in atto. E un autoconsolarsi per l’impotenza politica in cui ci hanno cacciato.

P.s.
Riporto quanto già scritto in un commento sulla pagina di Nicola Lagioia:
“”Bisognerà continuare a protestare, e in forme nuove.”
Ma quali sono le “forme nuove”?
Mi ha appena scritto un’amica: “Non servono a nulla purtroppo le veglie in Piazza Duomo, i digiuni e le manifestazioni. “Chi ha il potere e chi invece non ce l’ha”.
Ha ragione.
Temo che le forme di ribellione “classiche” o “novecentesche” non siano più efficaci di fronte ai nuovi assetti di potere.
Forse ancora c’illudiamo su una possibile continuità con il passato. Bisognerà invece indignarsi (a vuoto) di meno e *cospirare* di più in questa realtà atomizzata e degradata, in cui la sconfitta di tutte le lotte passate ci ha incastrati.”

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Lettera per il cessate il fuoco a Gaza 


Lettera per il cessate il fuoco a Gaza,
per la fine delle ostilità
e per la restituzione degli ostaggi

Noi sottoscritti dirigenti scolastici Paolo Farina e Paolo Saggese
AUSPICHIAMO
che il Presidente della Repubblica, On. Sergio Mattarella, e il Governo italiano si facciano promotori:
•    di una richiesta di immediata cessazione del fuoco e delle ostilità tra le parti belligeranti e di restituzione degli ostaggi alle famiglie;
•    della garanzia dell’immediato supporto umanitario alla popolazione di Gaza, ai bambini, alle madri, agli anziani innocenti, che stanno patendo il dolore atroce della guerra e gli stenti per fame, che stanno decimando una popolazione inerme.
Siamo convinti che ciò che sta accadendo vada oltre la stessa idea di “guerra”, che in modo spietato l’uomo è riuscito a concepire.
Facciamo nostra e aderiamo alla dichiarazione congiunta dell’Arcivescovo Card. Matteo Zuppi e del Presidente della Comunità Ebraica di Bologna, Daniele De Paz, che, tra l’altro, affermano:
Di fronte alla devastazione della guerra nella Striscia di Gaza diciamo con una sola voce: tacciano le armi, le operazioni militari in Gaza e il lancio di missili verso Israele. Siano liberati gli ostaggi e restituiti i corpi. Si sfamino gli affamati e siano garantite cure ai feriti. Si permettano corridoi umanitari. Si cessi l’occupazione di terre destinate ad altri. Si torni alla via del dialogo, unica alternativa alla distruzione. Si condanni la violenza.
(“Sulla guerra a Gaza e sulla responsabilità comune per la pace”).
Incapaci di essere indifferenti alle atrocità che stanno accadendo, convinti del ruolo delle nostre Scuole che hanno il compito di educare alla cittadinanza planetaria e alla fratellanza tra tutti i popoli, contro le guerre e la “logica” della “legge del più forte”,
invitiamo, a titolo personale, tutte le “donne” e tutti gli “uomini” di scuola, dirigenti scolastici, docenti, personale amministrativo, tutte le cittadini e tutti i cittadini italiani, a firmare questa “Lettera – appello”.

PRIMI FIRMATARI

PAOLO SAGGESE, DIRIGENTE SCOLASTICO
PAOLO FARINA, DIRIGENTE SCOLASTICO

Verso un’apocalisse dialogica

di  Donato Salzarulo

LA CHIESA DIALOGANTE

Su Tuttolibri (1/2/2025), Enzo Bianchi, ex priore di Bose, nel recensire il libro dell’arcivescovo di Marsiglia, Jean-Marc Aveline, Il dialogo della salvezza. Piccola teologia dellamissione, Libreria Editrice Vaticana, 2024, ricorda le condizioni essenziali perché il dialogo diventi l’atteggiamento fondamentale della chiesa nella società attuale.

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Rita Simonitto: Almanaccando

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1° maggio / 4 maggio 2025

Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente.

(G. Leopardi)

Perciò vi ricordo…