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Sereni Impostori

di Ezio Partesana

Un complotto è un inganno ordito ai danni di chi non ne sa nulla, una cosa sotterranea che solo alcuni conoscono ma potrà avere grandi effetti, a patto che nessuno lo scopra; condizione indispensabile è che la vittima, una persona o molte, sia ignara. Non posso complottare contro me stesso, per esempio, né contro un lago o un albero di passo. All’intrigo è necessario ci siano due coscienze, una delle quali sa cosa sta progettando e l’altra lo ignora; l’ignorante è la vittima, il sapiente l’esecutore.
Un complotto può essere buono o cattivo, può essere teso a eliminare un uomo sanguinario che è al potere come a imporre un ordine conveniente là dove non ce n’è alcun bisogno. L’etimologia è incerta ma in ogni caso si tratta di una cosa segreta fatta da alcuni alle spalle di altri.
Alcuni tentativi, nella storia, sono andati a buon fine, altri no. Il primo punto è che la fiducia in una cospirazione prevede la convinzione che le azioni di alcuni uomini possano modificare il corso degli eventi, è una storia di individui quella di una trama ordita per ottenere questo o quest’altro. Su altro non si pensa: la forza di gravità non è un complotto come non lo sono le terzine di Dante. Non è un’aporia: un complotto deve sempre, in una qualche misura, essere politico perché abbia senso; può essere la politica minuscola di una lite in famiglia o quella enorme di uno sterminio, ma sempre di politica si tratta.
Il secondo, implicito, comandamento per un complotto è che sia difficile da scoprire e che dunque si debba agire contro di esso sulla base di indizi, supposizioni, induzioni. Si immagina ci sia qualche volontà tesa a farci del male – per suo personale guadagno o mera cattiveria, non importa – e che, come investigatori, si possa scoprirla solo seguendo le tracce del suo operare nascosto. Bisogna essere molto intelligenti per svelare la macchinazione, non c’è dubbio; un plotone di esecuzione non ha bisogno di cogliere di sorpresa il nemico, un colpo di stato sì.
L’assunzione, in tutti i casi, è che ci sia qualcosa che comanda la vita, e l’assunzione è corretta: un terremoto, una malattia, non è in nostro potere fermarli; si possono ridurre gli effetti, forse, non fare scomparire le cause. Letteralmente rispetto al mondo noi siamo il capro che devasta le vigne. Anche altre forme di dolore, però, sono tragedie che rendono la stessa misura di impotenza, ma hanno origine all’interno della sfera sociale: il censo, l’educazione, il lavoro, per esempio, o la geografia e le credenze.
Hanno tutte le caratteristiche di un complotto ai nostri danni le differenze di impiego, salario, conoscenze, e fuori da casa di etnia, acqua o cura, e vengono ovviamente percepite allo stesso modo, si cerca il colpevole, nascosto da qualche parte, in agguato. Poiché non sono stato io a scegliere di essere quello che sono e che non mi piace e mi fa soffrire, allora deve essere stato qualcun altro, che ha interesse a tenermi in questa condizione.
Quale condizione? È questa la domanda che dovrebbe venire per prima: Qual è la mia condizione. Per rispondere, però, sono necessarie molte cose; in primo luogo tempo per riflettere, poi informazioni sugli altri che sembrano essere come me, quindi accesso al sapere collettivo, capacità di ragionamento e via di seguito. Ma se la mia condizione è proprio quella di chi non può fare nessuna di queste cose, quale mai potrà essere la via d’uscita?
Rinnegare è una delle condizioni umane: fare finta di non essere poveri; spergiurare, tremando, di non avere paura; fingere di aver già saputo quel che in realtà ci ha colto di sorpresa. Di fronte a esami finali, tuttavia, la costruzione crolla e nel castello non si può più entrare; sono gli squarci dove si vede la trama del romanzo, la recitazione forzata degli attori o, semplicemente, il dominio della struttura sociale. Nessuna donna è un uomo, nessun uomo è un’isola, nessuna isola è in pace.
L’esperienza immediata è quella di uomini che agiscono contro altri come loro: il licenziamento è arrivato dal capo del personale, è lui il colpevole; gli anni di studio non hanno portato a nulla per l’invidia dei colleghi; perché non mi hanno accolto quando avrebbero potuto farlo? Qualcuno (non so chi) dovrà un giorno renderne conto. L’esperienza diretta è solo di individui, “storici” perché le loro azioni cambiano la nostra condizione, ma anche potenti per grazia ricevuta. Si intuisce, in una qualche forma confusa, che questi funzionari occupano un posto all’interno di una struttura, ma si immagina che siano essi a determinare quella e non viceversa.
Più la situazione è disperata e dolorosa, maggiori sono le spinte a cercare una soluzione veloce che, se solo fosse possibile praticare con risolutezza, rimetterebbe le cose a posto. È l’idea dell’assassino: un colpo ben assestato e tutti i miei problemi saranno risolti – la disperazione è parte della contraddizione, non una mera conseguenza. Ma se nonostante tutto questo nulla cambia allora deve esserci un complotto in atto, perché non è possibile che le condizioni di vita siano davvero come sembrano.
La distanza tra desideri e quotidiana vita è misurabile solo per quelli che possono disinteressarsi, o quasi, del quotidiano. Per gli altri, che non vedono ragione per la quale debbano essere gli ultimi a sapere e a poter fare, la lontananza è incolmabile, e è esattamente in quello spazio che si inserisce l’anima cattiva che ha la colpa di quel che accade.
Se gli uomini potessero vedere tutto d’un colpo, se fosse trasparente l’involucro che custodisce i motori e le catene della storia, allora il politico autoritario o il funzionario meschino sarebbero solo una curiosità che bisogna sì eliminare ma come si tolgono gli infestanti da un campo seminato a grano. Dacché siamo ciechi invece, si scruta il prossimo, il vicino, con una lente che lo restituisce cento volte più grande e seduto proprio là dove dovremmo essere noi, e dove certamente saremo una volta scoperto l’inganno. Poco importa che il diavolo sia da solo o si dedichi, piuttosto, a tirare le fila di schiere che obbediscono volenterose, svanisse la sua malvagità il mondo sarebbe più giusto e ognuno vedrebbe riconosciuti i diritti che ritiene di avere.
È l’illusione di una autonomia – ormai ridotta a scelte di consumo – che sprona gli individui a credere al complotto; vittime che di individuale non hanno quasi nulla compensano l’impotenza con una immaginaria potenza altrui, con una cattiva volontà che sovrasta persino la storia della scienza, l’organizzazione sociale e la conoscenza. Sono, letteralmente, seduti in una caverna e quel che vedono passare sono fantasmi, piccoli riflessi del lavoro che si sta svolgendo altrove e sopra il quale non hanno nulla da dire.
Una vendetta è necessaria. In primo luogo verso gli ubbidienti, i rassegnati che accettano supinamente quel che viene loro raccontato, e già questa è la riprova che noi non siamo come loro, non siamo il gregge; l’antico gesto dell’ostracismo diventa una forma di identità: si intuisce che così non può essere e dunque si è altrimenti, a qualunque costo. Non essere tra gli ultimi perché più svegli, più attenti, meglio informati, è un balsamo per l’Io disperso tra impegni e doveri, nonché la riprova che debba esserci qualche trama nascosta che mi fa assomigliare così tanto alla pletora dei sottoposti.
In primo luogo una scissione, dunque, che genera un Soggetto che è tale proprio perché possiede una facoltà di discernimento che gli altri, i generici altri soggetti, non hanno. La divisione però richiede il riconoscimento di un destino comune: prendere le distanze dal tetto della casa di fronte non ha alcun senso, dal mio vicino di casa sì, perché egli si trova nella mia stessa situazione ma non lo sa. In fondo chi crede ai complotti è un ottimista, smascherati quelli tutti nel mondo godrebbero di una vita piena e soddisfacente.
Dimostrare a se stessi di “non essere come gli altri” è un’impresa non facile perché la somiglianza è forte. Un tempo era il successo economico a fare da banco di prova o le famiglie di origine, anche un titolo di studio poteva andare bene, medico, avvocato, ingegnere, qualche cosa che non fosse accessibile a tutti insomma, un tratto distintivo notabile al volo, e sovente l’una qualità era legata all’altra: i nobili erano colti, gli avvocati ricchi e i medici possedevano un sapere indispensabile. Ma oggi nessuno si sente al sicuro dall’anonimato per il fatto di possedere beni costosi o avere conseguito una laurea. Così si è inventata dal nulla una nuova categoria: Non farsi ingannare. Chi non si fa ingannare dalla propaganda di regime – è tutta la conoscenza è regime – ha qualcosa in più degli altri che non può essere confuso con i soldi, la fama o il potere politico. È un dono che dipende solo da noi, nessuno studio è necessario, basta averne voglia. La cultura e il faticoso emergere di competenze diventano un segno di pigrizia intellettuale, un privilegio che non ha più motivo di essere da quando il mondo è governato da élite nascoste ai più e intente a portare a termine con ogni mezzo il proprio progetto. Peggio, chi scova i complotti è convinto che il primo sia proprio quello di far credere che per capire sia necessario sapere; il ceto intellettuale è una macchinazione della loggia segreta del potere.
L’idea che quel che non si vede non possa fare male è moderna e come tale sopravvive. Anche se oggi sappiamo che esistono oggetti e forze che non sono percepibili dai cinque sensi, e accettiamo serenamente di servircene nella vita quotidiana, esiste pur sempre un limite oltre il quale la nostra credenza non può andare ed è stabilito dalla tecnologia: quel che funziona esiste, anche se la maggioranza degli uomini non sa come o perché, il resto è un’invenzione diffusa a arte per renderci inermi, dunque non solo non serve ma è anzi dannosa. Secoli fa gli uomini professavano di temere gli dèi, oggi gli inganni del potere hanno avuto il loro Olimpo e a loro si fanno sacrifici per scampare la sorte.
Le diseguaglianze sono dolorose soprattutto per chi è sul piatto minore della bilancia. Per compensare è necessario aggiungere qualcosa dalla propria parte, ma poiché disparità sono reali e evidenti bisogna rendere altrettanto pesanti le convinzioni che spiegano la disparità come frutto di un complotto e contemporaneamente alleggerire il valore di quel che fa pendere la bilancia dalla parte opposta. Il primordiale meccanismo del disprezzo per quel che non si può raggiungere si salda con la certezza di aver trovato ben altro di cui andare fieri. L’arma che l’oppresso potrebbe impugnare contro il controllo viene felicemente gettata via per la paura che possa esplodere di colpo, e rivelare il trucco.
La vita amministrata procede per disillusioni; confessa, con il passare del tempo, la sempre crescente sfera dell’esistenza sulla quale è impossibile avere controllo. Il capitale si muove e replica se stesso senza il nostro consenso; la tecnica avanza e ci rende idioti speranzosi che tutto vada come previsto; il pianeta è esausto e non sarà certo un avanzo gettato nel cassonetto corretto a salvare l’esistenza; lo sfruttamento e la povertà concordano sul da farsi, qualunque sia il giudizio sul mercato multinazionale; l’età spaventa come allora, anche se è la nostra adesso.
Il complotto è la forma contemporanea dell’impotenza, è una fuga in equazioni a portata di mano, semplificazione che si sogna e infine spostamento della totalità e condensazione in un’unica parte, indifferente e inutile. Chi complotta è chi svela sono la stessa persona, uguali nella fiducia smisurata in un Sé che non esiste, e solidali nel riconoscersi l’un l’altro come i veri artefici di quel che accade. All’apparenza concreta e radicata, come ogni “qui e ora”, la lotta contro gli intrighi universali che dominerebbero il mondo si rivela così astratta che neanche l’esperienza individuale può scalfirla. È un riassunto, per così dire, che mette insieme tutto quel che non va e poi lo distribuisce non in base a ragione ma sopra indefiniti gruppi di potere che sono tutto e niente.
Lo spostamento è evidente: ci si accontenta di colpevoli verosimili e astratti – immigrati, multinazionali, ebrei, poco cambia – buoni sino a che non hanno nulla a che fare con noi; chi immagina raggiri non pensa mai di essere un collaborazionista ma solo una potenziale vittima che ha scoperto l’inganno. “Non siamo stati noi” è il motto che sventola sopra ogni bandiera nei cortei degli indignati a vita in marcia verso la liberazione. Fatto questo l’assoluzione è duplice: il singolo non ha colpe ma neanche il modo sociale di riproduzione è responsabile del disastro che pure è sotto gli occhi di tutti.
La gratificazione di essere dalla parte dei buoni nonostante l’infame servizio dei giornali, servi del potere, e del sapere confiscato dai pochi per proprio tornaconto, è sufficiente a arrestare qualunque ulteriore sviluppo. Le espressioni diventano stereotipe: la “storia ufficiale”, i “dogmi della scienza”, il “coraggio di pochi”, le “voci fuori dal coro”, e l’odio si riversa su coloro che esprimono perplessità sopra quel miracoloso risveglio. A chi ricordasse loro che il costo del lavoro è il risultato di una lotta politica, non il trucco di un disonesto, i seguaci delle cospirazioni toglierebbero volentieri la parola sostenendo che anche l’economia è una bugia raccontata per farci star buoni.
Una volta consegnato il mondo a poche menti perverse, lo spazio per altro si riduce sino quasi a scomparire. Se politica, cultura, organizzazione e studio non sono altro che un inganno, sul campo schierate in formazione restano solo la rabbia e il compiacimento. Si accusa quel che manca di essere la causa della miseria e ci si libera del poco che pure sarebbe rimasto, a favore di un risorgimento tutto personale, esibendo pace interiore e compiaciuti ritornelli di circostanza. Con queste maniera si fugge, è vero, la condizione umana del presente storico, ma si abbandona anche ogni principio di speranza: se non sono gli uomini a fare la storia, chi mai potrà salvarsi?
La teoria del complotto è la versione facile della coscienza politica, senza classi, senza mezzi di produzione e senza strategia. Garantisce un illimitato credito verso se stessi, con una parvenza di soggettività, e protegge, a un tempo, dalla inquietante scoperta di far parte – né più né meno di altri – delle procedure autonome di alienazione. Due secoli fa si scriveva che gli uomini assegnavano a Dio tutto quel che di bene ancora non c’era in terra e poi credevano a quel che avevano proiettato perché il bene, in qualche forma, volevano. Oggi si aliena il male al Diavolo e si combatte un fantasma, nella convinzione che comunque tutto sia perduto. La disperazione dei complotti è tutta qui, nel gesto con il quale si irride la conoscenza e si ingrassa un vitello che non è più nemmeno fatto d’oro.



Nietzsche come fondamento della metapolitica?

Franco Fortini, Una lettera a Nietzsche

Per introdurre l”accurata,  problematica e non scolastica analisi  che Elena Grammann fa di un preveggente scritto, in cui Franco Fortini, verso la fine degli anni Settanta del Novecento, avvertì – tra i primi – i rischi della Nietzsche-Renaissance,  stralcio questo passo da uno dei saggi che Roberto Finelli – un filosofo che spesso ho segnalato  – ha dedicato su “Consecutio Temporum”  del  30 aprile 2019 (qui)  al tema dell’abbandono del pensiero di Marx  dopo la breve fioritura avvenuta a cavallo del biennio “rosso” del ’68-’69 : «Così in breve, a partire da quei fine anni ’70, filosofi, intellettuali, operatori culturali a vario titolo, diventarono quasi tutti heideggeriani e anziché di processo di valorizzazione, di composizione organica, di saggio del plusvalore, di tecnologia come sistema forza lavoro-macchinismo nella produzione di capitale, si cominciò a parlare di «Tecnica» come volontà di manipolazione e potenza di un Soggetto umano nella sua contrapposizione all’Oggetto: e come realizzazione nell’età moderna di una metafisica cominciata nell’età classica di Platone ed Aristotele, quale conseguenza di una rimozione originaria del senso dell’Essere e quale affermazione di un miope quanto ottuso antropocentrismo». [E. A.]

di Elena Grammann

 […] gli ormai numerosi necrofori delle lettere e della critica che vanno gridando «Viva la morìa!», come i monatti, subito dopo tornando a portarsi il fiasco alla bocca.
                            (F. Fortini, Avanguardie della restaurazione)

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I limiti del possibile

di Alessandro Scuro

Che meraviglia, per il viandante solitario che si addentra in una foresta intatta e rigogliosa, immergersi nella natura incorrotta, sollecitato dal terreno e dalla cadenza di pensieri cangianti, suggestionato dall’infinita varietà di dettagli e dall’armonia con la quale il paesaggio li combina. Curioso, scopre ad ogni passo uno scorcio ameno, una composizione inedita, vedute sconfinate e zone selvagge, fitte di vegetazione incorrotta. In quello spazio vergine ogni possibilità si estende al suo intorno. Dimentico della propria provenienza, senza meta, vive l’esperienza di una libertà inusitata; primi fra gli uomini contempla, scopre ed inventa il vagabondo perso in territori inesplorati, a contatto con ciò che non ha ancora forma definita né nome. Continua la lettura di I limiti del possibile

Una questione di qualità

Opera di Brian Dettmer

di Alessandro Scuro

Sembra impossibile contrastare il dominio tecnologico ed improbabile è il successo della contestazione, poiché, alla prova dei fatti, ogni alternativa evoca scenari antiquati ed arcaici, e ogni deviazione dal sentiero tracciato comporta una retrocessione sulla scala del progresso. In apparente contraddizione con le loro visioni, Fourier e Jochmann antepongono alla realizzazione delle loro profezie un periodo di degradazione delle condizioni generali dell’umanità. Per liberarsi dagli errori e dai pregiudizi sui quali si fonda lo stato civilizzato, è necessario rinunciare alle comodità e ai conforti che tale sviluppo ha garantito nel tempo; retrocedere sulla linea del progresso, ripercorrere a ritroso la storia, l’evoluzione umana, fino ad intercettare il punto in cui l’uomo ha intrapreso una strada a senso unico che lo ha condotto allo stato attuale delle cose. Solo da lì sarà possibile riprendere il cammino interrotto in altre direzioni, ed allora, le comodità e le certezze del progresso verranno ripagate con interessi mirabolanti. Continua la lettura di Una questione di qualità

Tutto ciò che denota benessere

 

di Alessandro Scuro

L’ambigua sinonimia stabilitasi tra tecnica e tecnologia è significativa dell’equivoci rapporti che l’uomo intrattiene oggi con entrambe. Il dominio onnipresente e totalizzante della tecnologia si fonda sulla convinzione che il miglioramento delle condizioni dell’umanità dipenda in maniera esclusiva dallo sviluppo incondizionato della tecnica, e che ogni altra forza, ogni altra facoltà e capacità umana sia pertanto subordinata a questo unico obiettivo. Laddove essa trionfa, le forze dell’immaginazione e altre facoltà che Mairena indicava come fondamentali dell’uomo (attenzione, concentrazione, contemplazione, speculazione…) perdono la loro influenza sui pensieri e sulle azioni degli uomini, e il loro intervento si rivela non solo irrilevante ai fini del progresso, ma addirittura controproducente o dannoso. Continua la lettura di Tutto ciò che denota benessere

Note sulla prescrizione penale

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di Giorgio Mannacio

La nostra Marcella Corsi, molto opportunamente, ci ricorda il problema della prescrizione, concentrandosi sulla prescrizione in materia penale. In effetti tale versante è quello che appare- oggi – di maggiore interesse sociale, economico e politico. Il mio intervento – che ha ad oggetto alcuni principi sulla prescrizione civile – tende a mettere in rilievo che la prescrizione civile è retta da principi ragionevoli ed “ onesti “,mentre la seconda – nella regolamentazione attuale – è retta da norme né ragionevoli né “ oneste “. Il raffronto deve indurre dunque a qualche riflessione e giudizio. Continua la lettura di Note sulla prescrizione penale

Trapassato prossimo

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di Ezio Partesana

“Gli anni, i luoghi, i pensieri” di Giorgio Mannacio

Se una poesia interessa solo chi l’ha scritta è una brutta poesia. Non importa quanto ci si dànni l’anima a cercare una giusta causa, umana, sperimentale, lirica semmai o semplicemente di buona volontà; senza quel piccolo miracolo che fa d’una poesia una esperienza una volta per tutte, è inutile leggere. E scrivere, naturalmente.
Nella moltitudine che va a capo ogni quattro parole – o tre o due – e dà forma all’esistenza sorretta dal sentimento, e che è convinta che una cosa tanto importante come la poesia non possa essere strapazzata sino a che non ne rimanga più nulla, ma non è disposta alla fatica dello studio né vuole sentir dire alcunché di tecnica, pazienza o misura, scompare qualunque universale e i versi diventano vetrina di quel che non si ha da dire, non si sa né si vuol capire. Continua la lettura di Trapassato prossimo