di Annamaria Locatelli
Questa pubblicazione di alcune poesie inedite di Annamaria Locatelli non è solo un omaggio ad una delle commentatrici più assidue e cordiali di Poliscritture, ma un invito a riflettere, a partire dal suo caso concreto, sulla tenacia con la quale una donna, senza lasciarsi intimidire dai tanti e contraddittori e quasi sempre inconcludenti discorsi che si fanno sulla poesia d’oggi, continua – schiva ma decisa – a coltivarla per suo conto. Annamaria cerca la sua poesia nel fiabesco, dove i fiumi che scorrono non possono essere che pigri e le pecore bianche non possono che brucare. E lì però non dimentica la paura dell’animale selvatico (la piccola volpe smarrita) costretta a nascondersi «in anfratti solitari». Domina nella sua ricerca la nostalgia di un mondo primitivo (quasi di una Rousseau al femminile invaghita di «Lucy l’antenata»?). La spinta più sentita è quella di sfuggire al mondo delle merci per rinascere, cancellando il presente abitato da uomini ammaliati e ammalati di nuove tecnologie, e ritrovarsi all’unisono con una natura intatta e rassicurante. Si può o si deve recuperare il gesto antico e semplice dell’impastare il pane e tornare pronti a spartirlo con i bisognosi? Non si finirà malcapitati a imprecare cercando «un appiglio/ in coda all’ultimo tram»? Eppure questo è il sogno che la poesia di Annamaria cura e alimenta. E che ai più scettici pone una domanda ineludibile: perché esso persiste in tanti/e? [E. A.]
1.
Scendeva
da una dolce collina
il fiume pigramente
scorreva
ma lei aveva paura
Pecore bianche brucavano
Erba soffice e chiara
ma lei aveva paura
in anfratti solitari
di erratiche rocce
si riparava,
a brevi corse,
ove l’occhio umano
non la seguiva.
Era una piccola volpe smarrita
tra le foglie d’autunno
un sentiero tracciava
per confondersi, selvatica
la coda fulvo dorata
2.
Se il ruscello è silente
E la nebbia un sudario
Di impalpabile cera
Sgorgano a flotti
I ricordi
3.
Mi spoglio
Mi spoglio
Alle ortiche l’ipad, lo smartphone
di giochi elettronici la consolle
di prima e seconda generazione
mi spoglio
di quel vestito firmato
della borsa di pelle e dell’orologio
che segna un tempo fasullo
via le zeppe all’ultimo grido
nuda nuda
della mia forma mi spoglio
del mio stupido orgoglio
e rinasco
farfalla erbetta ruscello
pesce luna o stralunato fringuello
volo, m’inabisso, sorvolo
mi stempero e sciolgo
in libera forza natura…
Mi spoglio mi spoglio mi spoglio
non mi basta il sorriso del mondo
almeno le mani rivoglio
per impastare il pane e spartirlo con te,
compagno,
che giungi dalle pianure d’oriente
4.
L’ignoto
La porta appare chiusa
Non è di legno e d’acciaio blindata
Ma di trasparente velo marrone
il vento la scompiglia,si impiglia
in ignoti sorrisi, straniti silenzi
una mano sfiora la porta leggera
ma schiuderla non osa
teme una sgradita sorpresa
eppure è curiosa e spera
ritenta, ritenta
una voce sussurra
no, vacilla, si piega rinuncia
la porta leggera e la mano indifesa
l’una per l’altra istruita
si scrutano come nemici
e sono nate al mondo sorelle
5.
in nera pelle
e in verde selva,
Lucy l’antenata,
-Dinqineash
”tu sei meravigliosa”
recita l’amarico-
la vita che hai generato
è umana.
Tre milioni di anni dopo:
pelle smunta
e foreste malate,
gli ominidi siamo
forse noi?
6.
Fiumana di traffico
Di onde a sbattere contro la barriera del suono
Per poi migrare lontano smorzate
Aprendo lo spazio mattutino
ad un gorgheggio di uccelli pettegoli
E lo stridulo grido di una cornacchia sgraziata
a susseguire
Un infernale rumore di ferraglie sbatacchianti
Di camion in corsa sulla tangenziale periferica della città
Esserci dentro nel meccanismo stridulo
Già nella prima ora, quella antelucana
che ti muove stonata tra le cose di frontiera
e sai che la metamorfosi è avvenuta
tu, un bullone con la testa da uccello
7.
C’è una roggia di periferia
dove combaciano
mano nella mano
sghembi palazzi
e campagne sofferenti
di vapori.
L’anello è la roggia fluente
l’acqua poco trasparente,
i capelli di alghe verdi
sul tracciato della corrente.
Un corteo di libellule
fu la sua stagione d’amore
ora non più…brilla di mestizia
ma ruscellando s’affanna
a crederci ancora
8.
Lui ha perso il treno
Invero lo perde ogni ora del giorno…
In realtà era sfumato già agli albori,
tra vapori di latte,
mentre strillava stretto in fasce
e sul predellino mai arrivò.
Distrazione fatale?
Di chi poi? Del neonato?
Sfasata divenne la sua vita, stonata,
mai al passo…
Il mal capitato ora cerca un appiglio
in coda all’ultimo tram…macchè:
giunge troppo tardi: inghiottito tranvai dalla notte!
Lui non demorde, si accampa sul marciapiede,
-Domani, domani il primo che verrà non mi sfuggirà!”-
Conta ogni ora, seduto al lampione, occhi sbarrati
– sa mai, i dispettosi fantasmi della notte!-
ma, dannazione!, proprio all’ultimo si addormenta
e brusco si risveglia
al languido sferragliare del tram che si allontana…
Rincorre, bussa, impreca… impreca, impreca
ma il tram ha girato l’angolo
Grande Annamaria! la tua sensibilità ha destato in me ammirazione e soprattutto condivisione. Una poesia matura che resterà nel tempo a testimoniare quanto la poesia sia sempre la più bella e possibile favola . grazie anche Ennio Abate che ha voluto farcele conoscere.
Mi sembra una buona strada la tua, Annamaria. Devo anche dire che lette insieme, più d’una voglio dire, rivelano il tuo sguardo attento; ma non cedi all’io, ti dai agli altri. E’ un buon principio. Se è a questo che senti di voler arrivare, allora so che ti farai sempre più scaltra; non in amore ma per certe accortezze che perfino io sono riuscito via via a comprendere. Comunque, per ciascuno è diverso.
Mi sa che posterò la tua poesia “C’è una roggia di periferia” a mia sorella, perché ha da poco finito di dipingere una roggia di qui: nella sua immagine non passa nessuno, solo il canale, e ci sono molte ombre; il punto di vista però è interiore, lo si avverte anche senza farci caso. Sembra che tu ci abbia messo le parole.
Mi sa tanto che questa cosa di dare parole alle immagini finirà col salvare la poesia dalle mancanze delle tecno-teste; darà alla poesia una qualche utilità sociale, quella di dare un senso al sonoro! ahahah… tu hai dalla tua il fiabesco: gran qualità, ti permette di [parlare] un tram come fosse vivente.
Caspita, si vede che ieri sera non stavo sulla terra: peggio non potevo scrivere. Però posso provarci usando il traduttore:
”
Mi sa tanto Che this Cosa di coraggio parole alle immagini Finirà col Salvare La Poesia Dalle mancanze delle tecno-teste; Dara alla poesia Una Qualche Utilità Sociale, Quella di osare un senso al sonoro! ahahah … tu hai Dalla Tua Il fiabesco: gran qualità, ti permette di [Parlare] un tram venire Fosse vivente”.
Scherzo d’agosto:
ma è per dire che, per me, scrivere poesia è anche un gioco. Se dimentichiamo questo aspetto ne va della nostra creatività; diventando seri, il nemico – che non sta esattamente tra i fucilieri dell’Università – diventerà un gigante invincibile e noi, dimessi, per quanto arrabbiati saremmo al suo cospetto assai prevedibili.
Cara Annamaria , una bella sorpresa questa di ritrovare e poter leggere le tue ultime poesie raccolte tutte insieme.
Il percorso che hai intrapreso ,evidenziato da Ennio, si palesa nella forma fluida e accurata e nei temi, che pur fedeli alla tua costante ispirazione, diventano più aperti all’esterno.
Il fiabesco che è la cifra più originale di queste e di altre poesie diventa per te una forma di”resistenza” nei confronti di una realtà sempre più lontana dalle profonde esigenze dell’uomo.
Non fuga e evasione,ma ricerca dell’essenziale.
Grazie Annnamaria e grazie anche ad Ennio per queste poesie
Maria Maddalena Monti
Nei suoi commenti Annamaria Locatelli si impegna sempre per accogliere i lavori altrui, mettendo generosamente in luce le qualità migliori, perchè l’apertura è il suo tratto distintivo, e anche ove sognasse che “volo, m’inabisso, sorvolo/mi stempero e sciolgo/in libera forza natura…” non le basterebbe il sorriso del mondo: “almeno le mani rivoglio/per impastare il pane e spartirlo con te/compagno/che giungi dalle pianure d’oriente”.
In un tenace conflitto, la porta dell’altra “Non è di legno e di acciaio blindata/Ma di trasparente velo marrone”, la mano la sfiora soltanto. E se “una voce sussurra/no, vacilla, si piega rinuncia/la porta leggera e la mano indifesa” mantenendo aperta e sospesa una possibilità.
Nei toni fiabeschi, che gli altri commenti hanno evocato, si mostra anche un aspro e crudele realismo, che delle fiabe è proprio. La roggia di periferia è un anello, quello che marita “mano nella mano/sghembi palazzi/e campagne sofferenti di vapori”, roggia con “i capelli di alghe verdi” fatata da un incantesimo maligno da cui forse si libererà per ritrovare la sua stagione d’amore, se “ruscellando si affanna/a crederci ancora”.
Fiaba un po’ grottesca e divertita è quella del tipo che ha perso il treno da sempre, un treno che diventa tram, e il tipo cerca di restare sveglio per prendere il primo del mattino, sotto un lampione (come l’ubriaco che cerca lì sotto le chiavi perchè ci vede meglio) ma pur con gli occhi sbarrati si addormenta, e lo perde, un tram che pure sferraglia languido ma è già svoltato all’angolo…
E’ una fiaba, cruda ma anche esagerata in stile Diabolik, quella fatta di rumori del traffico, che si interrompe solo per “un gorgheggio di uccelli pettegoli/E lo stridulo grido di una cornacchia sgraziata/a susseguire”. Il rumore riprende in ora ancora antelucana, ora di frontiera in cui avvengono le metamorfosi: “tu, un bullone con la testa da uccello”. Di nuovo un maligno incantesimo, un pinocchio di ferro, un bullone con la testa di quei poveri uccelli pettegoli o della stridula cornacchia.
E l’ultimo tratto fiabesco-grottesco che segnalo è quello di Lucy “in nera pelle/e in verde selva” che mi appare inequivocabilmente rivestita da un costume di lattice. E certo, ominidi appaiono quelli smunti, che si muovono nelle foreste di plastica dei loro ritrovi, come primitivi di ritorno.
grazie Cristiana! bel commento !
..ringrazio tutti voi per la generosità dei commenti che mi permettono di conoscere meglio la strada , poetica ma anche umana, che spesso si intraprende in parte incosapevolmente…Si resta meravigliati di scoprire dagli altri cose sconosciute di sè…Mi riconosco nel mio ricercare le radici naturali e primitive, di cui parla Ennio, in contrasto con l’avanzare della tecnologia più aggressiva, e nella tendenza a riportare al fiabesco molte situazioni della vita, un fiabesco dalle note spesso cupe e tragiche, come sottolinea Cristiana…E accolgo con gioia gli incoraggiamenti di Mayoor e di Maddalena…
…scusa Emy, tu sei tra persone più gentili e incoraggianti che conosca: grazie
Finalmente una bella raccolta del talento poetico di Annamaria.
Nella partita della vita, come adombra la foto d’incipit, Annamaria vorrebbe portare con sé (e con noi) ambedue i partecipanti: le parti oscure, ancestrali e quelle ‘addomesticate’, in un favolistico (più che essere tormentato) progetto di dialogo.
Dalle sue poesie, ci fa intuire che non si tratta di uno ‘scontro’ ma piuttosto del desiderio di un affiancamento, come le due mani ‘sorelle’ (*dove combaciano/mano nella mano/sghembi palazzi/e campagne sofferenti/di vapori.*).
I conflitti sembrano dunque stemperarsi nel loro ‘affiancamento’, (quasi una forma di atavica saggezza, il Bene e il Male sono sempre esistiti) anziché trovare le linee delle loro divergenze. Solo che la tentazione di affermare * gli ominidi siamo/forse noi?*, rischia di essere troppo facile e troppo deresponsabilizzante!
Dunque non troviamo nelle pur belle poesie di Annamaria quel confronto tragico della partita a scacchi tra l’essere umano e la Morte (o il non conosciuto) come nel film di Bergman, L’ultimo sigillo. E quindi non traspare nessuna Apocalisse rispetto ai disastri compiuti. Nessun dramma che il dilemma porta con sé. Tante domande e poche risposte.
C’è sì mestizia e disillusione (Un corteo di libellule/fu la sua stagione d’amore/ora non più…brilla di mestizia/ma ruscellando s’affanna/a crederci ancora*), ma senza rabbia… perché, appunto, si affanna a crederci ancora. Si tratta di una forma di armonia con la propria coscienza?
Anche il dramma della metamorfosi già avvenuta (bellissimi questi versi: * Esserci dentro nel meccanismo stridulo/Già nella prima ora, quella antelucana/che ti muove stonata tra le cose di frontiera/e sai che la metamorfosi è avvenuta/tu, un bullone con la testa da uccello*) non aliena la fiaba. E nemmeno il sogno equamente diviso tra l’immersione nella natura (anche qui bello l’andamento dei versi che, con le loro rime sparse, sembrano accompagnare questa danza: *e rinasco/farfalla erbetta ruscello/pesce luna o stralunato fringuello/volo, m’inabisso, sorvolo/mi stempero e sciolgo/in libera forza natura…*) e il recupero dell’homo faber che qui utilizza le mani con una funzione ecumenica: *per impastare il pane e spartirlo con te,/compagno,/che giungi dalle pianure d’oriente*.
La passione di questo ‘sogno’ rende la poesia di Annamaria molto suggestiva, carica di immagini che hanno una loro potenza sonora, quasi sentiamo lo sferragliare sbatacchiante dei camion, assieme al *gorgheggio di uccelli pettegoli*, o lo sgusciare di coda della volpina sperduta, o il ruscellare delle acque.
E’ brava nel rendere questa angolo prospettico, questa fetta di visione del mondo che, come si chiede Ennio, * Eppure questo è il sogno che la poesia di Annamaria cura e alimenta. E che ai più scettici pone una domanda ineludibile: perché esso persiste in tanti/e?*.
Che rispondere?
Anche quella è una, sia pure ‘parziale’, visione delle cose.
R.S.
“E sai che la metamorfosi è avvenuta”,
forse questo è il verso che mi ha colpito di più di queste poesie che rivelano sicuramente una persona dolce, sensibile, ( immagine che mi ero fatto in precedenza anche leggendo i suoi interventi su questo sito ), ed è proprio a causa di questa metamorfosi sono scettico che la libellula abbia un futuro quando” ruscellando s’affanna a crederci ancora “, come pure sono scettico sul fatto che sia mai possibile al di fuori dei sogni
” rinasco farfalla, erbetta, ruscelletto, impastare il pane e spartirlo con te, compagno “.
il poeta, è quella volpe che ” aveva paura “, sì in questi versi mi identifico perché sono convinto che ” gli ominidi siamo (forse) noi ” ed ho inserito nella parentesi quel ” forse” che io, se avessi scritto quella poesia avrei omesso. Siamo noi gli ominidi e qui mi riallaccio a questa affermazione di Abate nella sua presentazione :
“Eppure questo è il sogno che la poesia di Annamaria cura e alimenta. E che ai più scettici pone una domanda ineludibile: perché esso persiste in tanti/e? [E. A.] ”
per porre a lui ed anche all’autrice questa domanda : ” mi siete certi che sia così ? siete certi che in tanti vi sia il sogno per un modo diverso ? O non sarà la solita fuga in avanti di noi pochi ” disassati ” che mettiamo in versi il nostro disagio, augurandoci di essere ascoltati quando sogniamo un mondo diverso in cui basti dire assieme l’autrice
“Mi spoglio/Alle ortiche l’ipad, lo smartphone/di giochi elettronici la consolle/
di prima e seconda generazione/mi spoglio/di quel vestito firmato/della borsa di pelle e dell’orologio/che segna un tempo fasullo/via le zeppe all’ultimo grido/nuda nuda/della mia forma mi spoglio/del mio stupido orgoglio/e rinasco ”
no, io non credo sia sufficiente sognarlo, auspicarlo, desiderarlo, saremo sempre inevitabilmente schiacciati dalla maggioranza che vuole, desidera e acquista quei gadget.
…grazie Rita per il tuo favorevole commento…e per aver colto quella mia tendenza a sfuggire al tragico, quanto possibile, sebbene nella mia vita sia sempre in agguato, nel personale e nella visione del mondo…Penso sempre che per affrontare il tragico, come in una partita a scacchi, ci voglia una forza particolare, che certo non possiedo, e ne sarei travolta, allora se vi indugio, e credimi mi capita, corro presto ai ripari…Una forma di difesa o di autoinganno?
” ” ma siete certi che sia così ? siete certi che in tanti vi sia il sogno per un modo diverso ? O non sarà la solita fuga in avanti di noi pochi ” disassati ” che mettiamo in versi il nostro disagio…” ( Paraboschi)
La domanda mi pare mal posta. Se ogni atto o pensiero dovesse prima essere “certificato”(a chi poi?) nessuno agirebbe più o penserebbe più. Si dovrebbero chiudere tutte le chiese o luoghi di culto, spazzar via secoli di filosofia, poesia, arte, ecc.
Si può essere scettici ( io lo sono) di fronte alla visione di Annamaria ( e di tanti altri/e), la si può cordialmente ridimensionare, come fa Rita (Simonitto) a “angolo prospettico” parziale, a “fetta di visione del mondo”, ma resta, si ripresenta.
Fosse pure soltanto “una forma di difesa o di autoinganno” ( “singhiozzo [fiabesco nel caso di Annamaria!] di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito”, come diceva Marx per la religione) non è facile sostituirla. Perciò è un problema. E non da poco. Come quello della “maggioranza che vuole, desidera e acquista quei gadget”.
Che è schiacciata (dall’industria culturale e dello spettacolo) oltre che schiacciare i pochi che riescono a tenersi in disparte.
Sembra che Annamaria Locatelli voglia scusarsi della sua “tendenza a sfuggire al tragico” ma pensa che per affrontarlo le occorrerebbe una forza che forse la travolgerebbe. E quindi il commento di Rita Simonitto pare quasi un rimprovero, per non avere A.L. rappresentato il confronto tragico e “il dramma che il dilemma porta con sé”.
Tutti i commenti hanno individuato un esito fiabesco nelle poesie di Annamaria, si può ragionare su fiaba e tragico: la fiaba comporrebbe le contraddizioni, la tragedia mostra invece come siano spesso antropologicamente e socialmente incomponibili. Le realistiche descrizioni, le drammatiche condizioni esistenziali, le contraddizioni insopportabili -e persino fondamentali- in cui si vive, si “trasformano” nella fiaba in spiriti maligni e benigni, in piccoli animali selvatici con spirito ribelle e magari forme sgraziate, in natura metaforizzata e paradossale. Diventando, per chi a questo modo resiste, tensione all’affiancamento, delicatezza, rispetto, apertura.
Ma è propriamente questo evitamento-composizione la fiaba? O lo sono solo le fiabe mondate fino a diventare racconti per bambini, lasciando un po’ di paura a monito, ma indicanti una tranquillizzazione finale?
Nei primi anni ’70 Iring Fetscher aveva scritto “Chi ha svegliato la bella addormentata?” in cui trasformava, non magicamente ma ricorrendo alle cure demistificanti della psicanalisi e del materialismo storico, le fiabe crudeli dei fratelli Grimm in espliciti quadri di conflitti di classi.
Eppure le poesie fiabesche di Annamaria mi hanno anche rivelato la sua ironia, e perfino il suo disprezzo per certi personaggi che pure si incontrano in giro. Le fiabe dunque insegnano anche a giudicare.
Sfuggire al mondo delle merci, ritrovarsi all’unisono con una natura intatta e rassicurante, recuperare il gesto antico di impastare il pane e distribuirlo “questo è il sogno che la poesia di Annamaria cura e alimenta”, conclude Ennio Abate presentando le poesie. Il problema posto da Ennio: perché il sogno persista in tanti e tante, Luigi Paraboschi lo svuota: forse è solo il sogno di (noi) pochi ‘disassati’ che sogniamo quel mondo diverso scritto da Annamaria.
Cristina Campo in “Gli imperdonabili” (Adelphi, 1987) riconduce lo scrittore di fiabe a una “dimestichezza col mistero”, presente sempre e in ogni elemento della fiaba.
Sembrerebbe una dimensione intemporale in cui bene e male si alternano scambiandosi le maschere, ed è questa dimensione extratemporale che fa giudicare la fiaba una fantasticheria, irreale rispetto ai conflitti in cui siamo incar(di)nati. Tuttavia l’eroe della fiaba non perde mai la fede nella propria missione, superando prove *impossibili*: qualità che servono per vivere nel mondo reale, e non nei sogni.
La fiaba collega il singolo a tutti gli altri in un modo che non è di lotta, ma è ugualmente di attiva opposizione: “l’evento irripetibile è storia universale, la massima profondità massima superficie”. Annamaria non scrive invettive, ma neppure sogna; mostra parecchio indicando una distanza, e tanto mantiene ben distinto l’orientamento.
…devo riconoscere che nella natura, sentita anche a tinte fiabesche ( purtroppo non sono nè una botanica, nè un’etologa) mi sono spesso rifugiata per chiedere consolazione e una sorta di specchio e di riconoscimento includente, anche sociale, come dice Cristiana…Mi ritrovo nella tradizione poetica popolare, dove la realtà, anche quando condita di sogno e di speranze negate, riacciuffa sempre alla fine, come per un destino e non permete voli pindarici. Credo almeno…Grazie a tutti
Non è che la fiaba è un po’ il vino dei servi (Fortini) e la tragedia il vino dei signori? E che la contrapposizione (di classe e storica, se vogliamo ancora restare con Marx; naturale e invariabile se vogliamo seguire un certo darwinismo sociale tornato di moda) non va dimenticata (e quindi nessuna facile conciliazione tra sogno e realtà, tra utopia e realismo) ma neppure esasperata ( fino alla squalifica – snobistica e spesso nei due sensi: dall’alto e dal basso – o della fiaba o della tragedia (cioè delle *ragioni* e dei bisogni dei servi o delle *ragioni* e dei privilegi indubbi dei signori)?
Enormi questioni (teoriche e pratiche) stanno dietro questa discussione partita dalle poesie di Annamaria. Per mostrare le due polarità, cui ho accennato, la ricollegherei sia a quella svoltasi (e interrotta, mi pare) sull’intervista di Ravelli a La Grassa (qui: https://www.poliscritture.it/2016/07/21/intervista-teorica-a-g-la-grassa-di-f-ravelli/ ) sia a quella svoltasi sotto il post di Partesana “contro” i moltinpoesia (qui: https://www.poliscritture.it/2016/03/27/molti-in-poesia/). E terrei sempre presente la questione della corrente “calda” e di quella “fredda” del marxismo, che ostinatamente tento di riproporre. Oltre poi a Iring Fetscher e a Cristina Campo, ci sarebbe da rivedere tutta la grandiosa e pur controversa opera di Ernest Bloch (Il principio speranza, etc.) e almeno un libro di Baczko, L’utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’illuminismo. (Rivedere, dico, non ri- venerare.)
Nel merito dell’ultimo commento di Cristiana (Fischer) alcune note:
1. mi pare indubbio che la fiaba ( ma anche la poesia o una certa poesia) tende a ricomporre le contraddizioni e che la tragedia ce le mostri «incomponibili», per cui il dilemma e l’aut aut di cui ho detto all’inizio;
2. la simbolizzazione (se l’elemento misterioso predomina: le fiabe dei Grimm e la lettura che ne fece Bruno Bettelheim in « Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe») o l’allegorarizzazione (se l’elemento misterioso viene più razionalizzato: «Il sentiero dei nidi di ragno» di Calvino) “trasforma” i soggetti o gli attori, che –diciamo- potrebbero essere indagati come “reali” con certi strumenti “scientifici”, in « spiriti maligni e benigni, in piccoli animali selvatici con spirito ribelle e magari forme sgraziate, in natura metaforizzata e paradossale» e li trasferisce davvero in « una dimensione in temporale» o extratemporale o astorica.
3. Può esserci in questa operazione un guadagno? Sì, ed in effetti, come dice Cristiana, «le fiabe dunque insegnano anche a giudicare» o per quella loro “dimestichezza col mistero”(Campo) ricordano questo punto cieco e spesso eluso dalla razionalità (illuministca); e permettono, distanziandosi dal “reale -reale”- anche una feconda ironia.
4. Eppure quegli spiriti maligni e benigni sono fantasmi e, a seguirli o inseguirli, finiamo per rinchiuderci nella contrapposizione troppo elementare tra Bene e Male, di cui la ragione, lavorando sulla storia e sui fatti, ci ha mostrato i limiti. (E questo a me pare valga – Rita mi rimprovererà! – anche per i miti).
5. Non mi va di « giudicare la fiaba una fantasticheria, irreale rispetto ai conflitti in cui siamo incar(di)nati». Ma non credo che « la fiaba colleg[hi] il singolo a tutti gli altri in un modo che non è di lotta, ma è ugualmente di attiva opposizione». Essa resta nella stessa dimensione immaginaria e ambivalente della poesia, della letteratura. E dunque lotta e opposizione restano “teoriche”. Ci insegna magari a giudicare, ma non ci spinge a sufficienza al che fare (politico!). Qui per me valgono ancora tutti gli avvertimenti – lo so, Luigi (Paraboschi), pedanti o fastidiosi – di Fortini.
6. E ancora: certamente è caratteristica fondamentale dell’«eroe della fiaba» non perdere mai « la fede nella propria missione superando prove *impossibili*» ( liberare la bella fanciulla dal mostro o l’umanità dal capitalismo?), ma la fede può diventare cecità se non distingue più sogno da realtà e non si cura di dare al desiderio (o all’utopia) una strategia che tenga conto degli ostacoli reali ( i rapporti di forza, il fatto che il tuo desiderio è profeta disarmato e il nemico è armatissimo) e trovi la via per superarli. Anche la fede diventa inerte e si spegne se non morde la realtà. Basti vedere cosa è successo a tanti ex PCI, PSI etc.
* Sembra che Annamaria Locatelli voglia scusarsi della sua “tendenza a sfuggire al tragico” ma pensa che per affrontarlo le occorrerebbe una forza che forse la travolgerebbe. E quindi il commento di Rita Simonitto pare quasi un rimprovero, per non avere A.L. rappresentato il confronto tragico e “il dramma che il dilemma porta con sé”.*, così commenta Cristiana.
No. Nessun rimprovero. Non solo non me lo permetterei mai, ma nemmeno è il caso!
Ci sono dei nodi importanti, carichi di significato, che ho riscontrato in queste poesie di Annamaria. Nodi-messaggio, “mitologhemi”, verrebbe da dire:
a) il destino della volpe, animale simbolo dell’astuzia selvaggia, senza la progettualità della métis. Quella progettualità presente invece nella volpe che parla dell’addomesticamento nel libro Il Piccolo Principe. (1);
b) il rapporto natura-cultura, con la tendenza allo slittamento vs natura percepita in una sua a-storicità; quel ‘sempre’ che Ennio sottolinea quando scrive * dove i fiumi che scorrono non possono essere che pigri e le pecore bianche non possono che brucare*
c) “la metamorfosi già avvenuta”. E qui, per me, sta il ‘cuore tragico’della raccolta.
Un evento a fronte del quale non c’è stato nessun ‘Avvento’. Anche se sappiamo, come il mito e la letteratura ci insegnano che un ‘prima’ c’è sempre.
Questi ‘nodi’ vengono presentati dalla poetessa attraverso la mediazione di un vissuto che oscilla tra il favolistico (o la fantasticheria desiderante) e il fiabesco, nella accezione datagli da Cristiana.
Annamaria SA guardare (cosa non da poco) ma nello stesso tempo (questa è la mia impressione dalla lettura delle sue poesie) vi imprime – COME MOLTI DI NOI FANNO – il suo punto di vista, il suo desiderio. Che è di composizione e non di conflitto. E’ come un voler sistemare le cose ‘a valle’ dimenticando che a monte c’è il lupo che continua a intorbidare le acque.
So che non è per nulla facile rapportarsi con il tragico, non a caso sembra essere un termine scomparso assieme al ‘sacro’ che lo accompagna. Non è facile confrontarsi con il tremore delle identificazioni anche se poi (?) ci sarà l’eventuale (?) catarsi.
(1) “Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io saro’ per te unica al mondo”.
R.S.
La critica di Ennio alla fiaba è espressa ai punti 5 e 6 del suo commento: “Anche la fede [dell’eroe della fiaba nella propria missione] diventa inerte e si spegne se non morde la realtà.” Quindi, per la genericità del conflitto tra Bene e Male a cui riduce conflitti ben altrimenti reali, antropologici e storici, la fiaba è cieca rispetto alla elaborazione di una strategia di azione.
Prima di esaminare questa necessità dell’agire, ai punti precedenti del commento voglio appuntare qualcosa. È vero che, puntando sull’eroe, la fiaba ricompone le fratture (ben altrimenti rappresentate dal tragico) ma contemporaneamente le mantiene sempre aperte: il lupo di Cappuccetto abiterà sempre i boschi, e il sultano potrà sempre uccidere le sue mogli (vedi *femminicidio*). La fiaba compone ma con ciò sia incoraggia a superare la situazione sia conferma che la minaccia permane. Occorre che i bambini interiorizzino il pericolo, le iniziazioni, la necessità dell’astuzia e del coraggio.
La fiaba avverte e allarma, non soltanto sistema e ricompone.
Riguardo all’agire, al *mordere il reale*, alla strategia… che dire? C’è già chi il reale lo morde alla grande; sulla strategia si discute da 130 anni tra riformisti e eredi di Marx.
Secondo me l’analisi e la critica sono il terreno ancora aperto, e se è così, è più adeguato all’oggi opporre fiaba e tragico, piuttosto che sogno e azione/strategia.
Ma anche il tragico sta in una dimensione più che storica, riguarda il saper vivere il/nel tempo, collegare nella realtà il prima e il dopo, l’Avvento e l’evento, con le parole di Rita.
Concludo chiarendo che ho scritto “sembra” che Annamaria si scusi e “pare quasi” che Rita rimproveri. La questione è l’evitamento, che Annamaria si attribuisce “corro presto ai ripari… Una forma di difesa o di autoinganno?”
Rita rileva che Annamaria “sa guardare” ma nello stesso tempo “imprime il suo punto di vista, il suo desiderio. Che è di composizione e non di conflitto”.
Che imprimere il proprio desiderio lo facciamo in MOLTI DI NOI tuttavia non significa che sia bene farlo, anzi!, se Rita usa termini come “dimenticare” e “non è per nulla facile”: “So che non è per nulla facile rapportarsi con il tragico, non a caso sembra essere un termine scomparso assieme al ‘sacro’ che lo accompagna.” Non è facile saper guardare e continuare a saperlo fare, accompagnati dalla scepsi sul futuro come portatore di soluzioni: “Non è facile confrontarsi con il tremore delle identificazioni anche se poi (?) ci sarà l’eventuale (?) catarsi.”
Mi sembra una posizione etica, di lucidità e di coraggio, contrapposta all’evitamento che Annamaria dubbiosamente si attribuiva. Ma poi Annamaria si rinfranca “Mi ritrovo nella tradizione poetica popolare, dove la realtà, anche quando condita di sogno e di speranze negate, riacciuffa sempre alla fine…” E si ritorna al rapporto tra fiaba e realtà.
SEGNALAZIONE
Ernst Bloch su fiaba e romanzo popolare
*«Dovunque nella fiaba, nel coraggio come nella destrezza e nella speranza, c’è un po’ d’illuminismo molto prima che esso ci fosse» scrive in questo brano che ho scannerizzato Ernst Bloch, facendo un elogio della fiaba che oggi noi tramortiti dalla scomparsa del suo principio speranza stentiamo a riprendere in considerazione. Ma la lettura di un “dimenticato” della “corrente calda” del fu marxismo è consigliata anche agli scettici odierni . [E. A.]
Con i vagabondaggi casuali, con le battute disorganizzate
della fantasia non di rado si caccia la selvaggina che
la filosofia organizzata può utilizzare nella sua ben ordinata economia.
Lichtenberg
I racconti migliori si fanno di sera. L’indifferente vicinanza
scompare e fa posto alla lontananza, che pare migliore e più
prossima. C’era una volta: nella fiaba ciò significa non solo il
passato, ma anche un altrove più vario o più lieve. E quelli che
lì sono diventati felici se non sono morti vivono ancora. Anche
nella fiaba c’è dolore, però si tramuta, e per sempre. La dolce,
maltrattata Cenerentola va all’alberello sulla tomba della ma-
dre, albero scuotiti e piegati, ne cade giù un vestito, splendido
e sfarzoso come Cenerentola non ne ha mai avuti, e le scarpine
sono tutte d’oro. La fiaba diventa alla fine sempre d’oro, di fe-
licità ce n’è in abbondanza. Nelle fiabe proprio i piccoli eroi e i
poveri arrivano lì dove la vita è divenuta buona.
Coraggio del!’ astuto
Non tutti sono così dolci da limitarsi ad aspettare questa
bontà. Essi vanno nel mondo a cercarsi la felicità, astuzia con-
tro brutalità. Coraggio e astuzia sono il loro scudo, l’intelletto
la loro spada. Perché il coraggio da solo servirebbe poco ai de-
boli contro i grossi avversari, non raderebbe al suolo la torre.
L’astuzia dell’intelletto è la parte umana del debole. Per quan-
to fantastica sia la fiaba, nel superare le difficoltà è però sem-
pre astuta. E il coraggio e l’astuzia riescono nella fiaba in ma-
niera completamente diversa che nella vita; non solo: come di-
ce Lenin, sono sempre gli elementi rivoluzionari già presenti a
oltrepassare con la fantasia i limiti dati. Quando il contadino
era ancora afflitto dalla servitù della gleba, il povero ragazzo
della favola conquistava già la figlia del re. Quando il cristiano
colto tremava davanti alle streghe e ai diavoli, il soldato della
favola ingannava streghe e diavoli dall’inizio alla fine (solo la
fiaba mette in mostra il «diavolo stupido»). Si cerca e si spec-
chia l’età dell’oro, quando si poteva vedere fino in fondo al pa-
radiso. Ma la fiaba non si lascia imbrogliare dagli odierni pos-
sessori di paradisi; essa è ribelle, scottata e dunque chiaroveg-
gente. Su un ramo di fagioli ci si può arrampicare fino in cieloe vedere gli angeli che macinano il denaro. N ella fiaba «Comare
morte», Dio stesso si propone come compare a un poveraccio, ma
questi risponde: « Non ti voglio come compare perché tu dài al
ricco e lasci alla fame il povero». Dovunque nella fiaba, nel co-
raggio come nella destrezza e nella speranza, c’è un po’ d’illu-
minismo molto prima che esso ci fosse. Il piccolo bravo sarto
nella fiaba dei Grimm, che di per sé è un ammazzamosche, se
ne va per il mondo perché la bottega gli pare troppo piccola
per il suo valore. Incontra un gigante, il gigante prende in ma-
no una pietra e la schiaccia facendone sprizzare acqua, poi ne
getta in aria un’altra, così in alto che non la si vede più. Ma il
sarto batte il gigante perché invece di una pietra prende un for-
maggio e ne fa poltiglia e lancia un uccello così alto nell’ aria
che quello proprio non torna più. In conclusione, alla fine della
fiaba, l’astuto eroe vince tutti gli ostacoli, conquista la figlia del
re e la metà del regno. Così nella fiaba un sarto può diventare
re, un re senza tabù, che ha messo nel sacco tutta l’astiosa spa-
valderia dei potenti. E quando il mondo era ancora pieno di
diavoli un altro eroe da fiaba, il ragazzo che andò nel mondo a
imparare la paura, resiste al terrore su tutta la linea, pone ca-
daveri accanto al fuoco perché si scaldino, gioca ai birilli con
gli spettri nel castello incantato, fa prigioniero il capo degli spi-
riti cattivi e in tal modo ottiene un tesoro. Nella fiaba perfino il
diavolo si lascia ingannare, un povero soldato lo inganna per-
ché gli vende l’anima a condizione che il diavolo gli riempia
d’oro la scarpa. La scarpa però ha un buco, il soldato la pone
su una fossa profonda e così il diavolo deve portare un sacco
d’oro dopo l’altro, fino al primo canto del gallo, per poi partir-
sene truffato. Dunque nella fiaba perfino le scarpe sfondate de-
vono tornare a vantaggio di chi se ne intende. Non manca una
leggera satira del mero desiderare e dei mezzi favolosamente
semplici per arrivare allo scopo, ed è anch’ essa una satira illu-
ministica, però non scoraggia. In tempi antichi, comincia la
fiaba di Re Ranocchio, quando desiderare serviva ancora a
qualcosa … con ciò la fiaba non si presenta come surrogato del-
l’agire. Ma l’astuto August della fiaba esercita l’arte di non la-
sciarsi impressionare. La forza dei giganti è dipinta come prov-
vista di un buco attraverso il quale il debole può passare e vin-
cere.
[…]
Il racconto feroce: come romanzo popolare
Anche nella fiaba non è che tutto scorra liscio. Dal principio
alla fine ci sono streghe e giganti che imprigionano, fanno tes-
sere per tutta la notte, fanno perdere la via. E, contrapposta al
celeste del cielo o troppo mite o frettoloso, c’è una specie di fia-
ba che di rado viene considerata nella sua peculiarità: una spe-
cie feroce, quasi travolgente. La si considera poco non tanto
perché degenera facilmente in paccottiglia quanto perché la
classe dominante non ama gli Hänsel e Gretel coi tatuaggi. Il
racconto travolgente è dunque la storia di avventure e la veste
in cui oggi si trova più a suo agio è quella del *romanzo popolare*
Porta in faccia l’espressione di un essere risaputamente rozzo e
il più delle volte è proprio così. Però il romanzo popolare mo-
stra senz’ altro caratteri fiabeschi; infatti il suo eroe, diversa-
mente da quello del rotocalco, non sta ad aspettare che la felici-
tà gli cada in braccio e nemmeno si china ad acchiapparla co-
me una borsa da prendere al volo. 11 suo eroe resta invece vici-
no al povero, coraggioso Pellaccia della fiaba popolare, che
scalda cadaveri al fuoco e prende a botte il diavolo. L’eroe del
romanzo popolare è un coraggioso che non ha niente da perde-
re, come per lo più nemmeno il suo lettore. E si fa avanti una
gradita caratteristica del birbone borghese, scotticchiato ma
non morto; quando torna è circondato di palme, di coltelli e
dalle brulicanti città dell’ Asia. 11 sogno del romanzo popolare
è: basta per sempre col quotidiano; e al termine ci sono felicità,
amore, vittoria. Lo splendore al quale approda la storia di av-
venture non è conseguito con un ricco matrimonio e cose simili
come nel rotocalco, ma con un attivo viaggio verso l’Oriente
del sogno. La storia da rotocalco sa di leggenda indicibilmente
corrotta; il romanzo popolare è invece l’ultimo ma ancora rico-
noscibile bagliore del romanzo cavalleresco, di «Amadigi di Gau-
la». Da qui quella vanagloria nota già dai più antichi poemi
eroici, per esempio dal «Waltharius» in cui l’eroe sconfigge dieci
cavalieri contemporaneamente, o dalla saga di re Rother e del
forte Aspriano, che spappola un leone gettandolo contro una
parete. Da qui però anche il pathos contro i filistei, contro una
vita il cui epitaffio è scritto già a partire dai vent’anni, contro il
cantuccio accanto alla stufa e il juste milieu. Ne nasce un’au-
tentica aura fiabesca di tipo selvaggio; l’aura di un mondo alla
Stevenson, « E tempeste e avventure e caldi e geli / E bastimen-
ti e isole e crudeli / Piraterie, e interrato oro». E tutta questa
roba, soprattutto quando se ne esce, per così dire, senza giusti-
ficazione, dunque senza finezza letteraria, ha sempre un che di
canagliesco. E questo è ambiguo, può rinviare alla gente del
Ku Klux Klan e ai fascisti, anzi fornir loro addirittura uno sti-
molo speciale; ma rinvia anche alla giustificata diffidenza della
pacifica borghesia nei confronti di un eccessivo fuoco di bivac-
co del povero diavolo. Ogni storia di avventure spezza la mo-
rale dell’ «ora et labora »; invece di preghiere, bestemmie e in-
vece del lavoro appare la nave pirata, il franco cacciatore che
non sta al soldo del potere. Il romanticismo dei masnadieri mo-
stra così un altro volto, che da sempre piace ai poveracci, e il
romanzo popolare lo sa. Il brigante era uno in rotta coi poten-
ti, spesso aveva un nemico in comune con il popolo, e cosÌ ave-
va spesso dei punti d’appoggio presso i contadini. Non a caso
perciò ci sono tradizioni popolari italiane, serbe e soprattutto
russe che narrano di briganti dandone ben altro giudizio che
non i rapporti di polizia; «I Masnadieri» di Schiller – col motto
« In tyrannos!» – ne è solo la manifestazione per così dire clas-
sica in uno scritto in cui il brigante e Bruto potrebbero scam-
biarsi le parti. Qui c’è un surrogato di rivoluzione, immaturo
ma sincero; e dove altro si espresse se non nel romanzo popola-
re? Se Schiller, suo vero genio, gli fosse rimasto fedele, questo
genere letterario sarebbe divenuto di certo tutt’altra cosa che
non la degenerazione del romanzo cavalleresco e la storia di
cacce al tesoro. Del romanzo popolare il Ku Klux Klan e il fa-
scismo fannorivivere solo la scorciatoia criminale e l’aspetto
selvaggio. E invece l’inconsueta meta in luoghi selvaggi – pri-
gionia e liberazione, stordimento del drago, salvataggio della
fanciulla, astuzia, violenza, vendetta – tutto ciò appartiene alla
libertà e al suo splendore di sfondo. Non il fascismo ma l’atto
rivoluzionario nella sua epoca romantica è il libro popolare fat-
to carne. Per questo oltre ai «Masnadieri» di Schiller si ebbero pri-
ma e dopo il 1789 i drammi, anzi si può dire le fiabe, di salvez-
za; si scavò per liberare prigionieri come fossero tesori nella ca-
verna. Importante: il libretto del «Fidelio», lo stesso squillo di
tromba, non ci sarebbero e non sarebbero quali sono senza il
romanzo popolare che essi mettono in scena. Proprio la vicen-
da del «Fidelio» è acutissima, esplosiva, come è noto, e appartiene
alla liberazione. Il profondo carcere, la pistola, il segnale, il sal-
vataggio: cose che negli scritti elevati più moderni non com-
paiono affatto oppure non in questo modo, danno come risul-
tato una delle più forti tensioni che ci siano: quella dalla notte
alla luce. La trasmutazione di valori di questo genere letterario
è dunque particolarmente evidente grazie alla quanto mai le-
gittima immagine di desiderio proiettata nel suo specchio. Do-
vunque, in esso, hanno fresca vita significati smarriti e quelli
non smarriti aspettano, come nella fiaba. Si ha la conquista di
un esito felice, del drago non rimane nulla, tranne qualche os-
so in catene, il cacciatore di tesori trova il denaro sognato, gli
sposi si riuniscono. Fiaba e romanzo popolare sono par excel-
lence castelli in aria, ma in aria salubre, e, nella misura in cui
ciò si può dire a proposito di una semplice opera di desiderio, il
castello in aria è giusto. Dopo tutto, esso proviene dall’età del-
l’oro e vorrebbe stare in un’altra uguale, nella felicità che passa
dalla notte alla luce. In modo, infine, che al borghese passi la
voglia di ridere e il gigante che oggi si chiama banca si ricreda
sulla forza dei poveri.
(Ernst Bloch, Il principio speranza, Volume primo, pagg. 411-413 e 426 – 428)
bello! castelli in aria ma in aria salubre… e se si pensa che i bambini sono i destinatari favoriti delle fiabe, li si incoraggia (e li si avverte) ben bene!
In Annamaria Locatelli il gorgheggio di uccelli pettegoli è proprio il gorgheggio di uccelli pettegoli e se volassero lascerebbero nell’aria, e nella penna della nostra brava poetessa, la loro traccia. E’ questa la ricerca dell’essenziale a cui fa cenno Maria Maddalena Monti. Siamo in presenza del fiabesco, ma anche nella fiaba non è che tutto scorra liscio come ci ricorda Ernst Bloch rievocato da Ennio Abate.
Annamaria Locatelli ricava suoni chiari anche nel frastuono della vita di oggi. Si capisce che la sua poesia, pur se chiede rifugio e conforto nella natura “sentita a tinte fiabesche”, è sostenuta da un animo direi piuttosto vigilante.
Ubaldo de Robertis