Mìneche

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Contadino 1978

di Ennio Abate

Di Mìneche ho già detto nel 2015 qui; e vorrei ricordare la bella analisi che Rita Simonitto, conoscitrice dei miti e con la sua sensibilità di psicanalista, vi dedicò. In quelle due poesie colse l’importanza della relazione tra il dialetto («madrelingua») e italiano («lingua seconda») e «un intendimento di dialogo tra possibili figure ‘materne’ e figure ‘paterne’, un tentativo di confronto tra questi personaggi che si muovono nell’interiorità del poeta», oltre alla «relazione conflittuale tra il poeta e la figura paterna e il vissuto di un tradimento che rende l’animo esacerbato». Nei commenti che seguirono, parlammo di riferimenti mitici (l’albero del fico sacro a Dioniso, gli agrumi sacri alle ninfe) e storici (l’8 settembre del 1943, il femminismo degli anni ‘70), ed emersero gli echi profondi del tema della figura paterna anche nelle riflessioni di quanti intervennero.

Eppure in quella riflessione del gennaio 2015 c’è un punto che tuttora mi preme. Allora insistetti sui vuoti nella storia di mio padre che invano ho cercato di colmare . Scrissi allora: «Nato nel 1899 [in realtà nel 1897], era stato soldato nella Prima Mondiale, ferito e poi richiamato durante la Seconda Mondiale. Ma quasi nulla aveva raccontato della sua esperienza di militare a me e a mio fratello. Chiudendosi, credo, per delusione in un caparbio silenzio di sconfitto. Ho perciò cercato a volte di immaginarmelo giovane: «altro/ forse fu mio padre/ diciannovenne soldato contadino/ in giro per l’Italia e il mondo/ carabiniere e spia/ in Grecia e in Albania». Altre volte ho voluto sostituirlo con «altri padri [” padri-fratelli, padri-compagni”] c’erano/ che forse/ mio padre ha ucciso e torturato».
Ma i padri elettivi o spirituali (anche il Fortini richiamato in un commento di ro) sono, nel mio caso, in esplicita rottura con l’immagine “arcaica” del padre naturale. Fanno parte di un’altra storia. E resta, dunque, una scissione, una lacerazione, tra due immagini e due tempi storici (Italia fascista, Italia democristiana). Che è impossibile da sanare.
Inoltre, alla fine dei conti, sia il mio padre naturale (Mìneche) sia quello elettivo (Fortini) sono stati degli sconfitti».

Riflettendoci ancora oggi, credo di poter dire d’ essere stato costretto a riassumere in poesia e sul piano mitico il racconto della vita di mio padre risultato finora impossibile da scrivere. Malgrado i miei ripetuti sforzi. Le tracce restano poche: i ricordi miei e di mio fratello ancora viventi, il foglio matricolare, un certo numero di foto della sua carriera militare difficili da collocare nello spazio e nel tempo. Da qui derivo una mia insoddisfazione profonda: il ricorso al mito per me resta un surrogato. In questo mi distanzio da un certo entusiasmo dei miei interlocutori del 2015 per il valore “recuperante” dell’arte o della poesia. Detto in parole povere sento che avrei bisogno di ricostruire la storia di mio padre per intero ma. essendo le tracce che mi ha lasciato ben poche, mi devo a malincuore accontentare del mito, dell’immaginazione. Non nego quel che diceva Rita Simonitto: «la ricchezza della poesia sta anche in questo, e cioè la possibilità di svelare qualcosa che appartiene al profondo, che è accessibile in parte attraverso il ricorso al mito (per gli aspetti rappresentativi-emotivi), in parte attraverso la psicoanalisi (per gli aspetti emotivi, rappresentativi codificabili attraverso una teoria ‘scientifica’), in parte attraverso il dire poetico (per gli aspetti emotivi, rappresentativi che permettono una connessione culturale)». Ma è come se non volessi rassegnarmi a questa assenza o impossibilità di ricostruirla quella storia di mio padre (e non solo di lui). Rita riteneva, ritiene che il mito aiuti a capire la storia [mia] anche in assenza della storia passata [di mio padre]. Io no. E mi ritrovai nelle parole di Emilia Banfi, che ricordando suo padre scrisse: (« mio padre fu fortemente colpito dalla guerra, ed a una certa età peggiorò parecchio nel più triste dei modi e non raccontò mai della guerra che aveva combattuto in Grecia ed Albania, ricordo che spegneva il televisore con una tremenda rabbia negli occhi ad ogni inizio di immagini di guerra»).

PATEME *

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Foglio matricolare di Domenico Abate (1897 – 1968)

Narratorio 27 aprile 1998

I

Scendeva la sera. Il buio stringeva il paesaggio che il bimbo aveva guardato dalla finestra. Le colline ad est erano state d’un azzurrino compatto. Fino ad un attimo prima ormai imprecisabile. La conca del golfo non raccoglieva più sfrigolii scintillanti di luce. Il campo da gioco davanti casa – quattro sassi a segnare le porte – ora lo indovinava a fatica. E le quinte delle case, le palazzine dei Iemma o della famiglia Bonomo, svanivano anch’esse, sostituite dai riquadri netti delle finestre illuminate.

Mio padre, quando la stanza veniva invasa dal buio, non accendeva mai la luce nella stanza. Forse per risparmiare. Se ne stava, invece, seduto accanto al braciere in silenzio. Come sempre. Sulle spalle il pastrano verdastro – ricordo di guerra – girava la manopola della Radio Marelli e curiosava fra voci, suoni, stridori e miagolii che l’apparecchio emetteva. Poi d’un tratto si fermava. Sembrava che avesse scelto un programma, che avesse deciso di ascoltarlo. Ma dopo un po’ mi accorgevo che russava, sopraffatto dalla stanchezza. Ma anche dall’isolamento in cui era venuto a trovarsi. Scontroso lo era sempre. Forse – mi sono detto ripensandoci troppo tardi e solo dopo la sua morte – nel passare da militare a civile non s’era mai più ritrovato. Disprezzava molti ed era temuto dai parenti per la sua durezza e i giudizi taglienti. E mandare avanti la famiglia, che s’era fatto quando non era più un giovanotto, doveva proprio pesargli.

L’ho osservato spesso. Ma quasi sempre attraverso l’angoscia che bambino mi prendeva per l’assenza temporanea da casa di mia madre, di solito in visita da qualche parente. E in quelle ore mi diveniva ancora più estraneo. Anche quando non ero solo con lui ed avevo accanto a me anche mio fratello. La sua presenza fisica la sopportavo, pur sempre temendola, solo quando in casa c’era anche mia madre, sponda emotiva rassicurante e indispensabile mediatrice nei rapporti con lui.

Non sapevo parlargli. Non riuscivo a mettere in moto un qualche dialogo con una domanda. Come spesso faceva mio fratello. Ed egli pure era chiuso nel suo silenzio e a sua volta doveva sentirmi inaccessibile. Mi distraevo perciò soprattutto osservando fuori dalla finestra i pochi passanti o qualche cane o uccello. Finché il cielo imbruniva.

Col buio tutto si faceva d’improvviso più inquietante. Me ne restavo con la fronte premuta sul vetro freddo della finestra e spiavo con ansia crescente le ormai rare figurine che passavano nell’alone fioco dei pochi lampioni, uno ogni duecento metri circa lungo la curva a serpentina della strada in salita. E che, irriconoscibili in volto o per gli abiti, scartavo in base all’andatura, aspettando di cogliere quella, unica per me, che attendevo. A volte il fogliame degli alberi, mossi dal vento, schermava quei due o tre punti illuminati dai lampioni, sui quali concentravo la mia nervosa esplorazione. E, solo dopo il passaggio deludente di figure che potevano somigliare a quella di mia madre, la sua piccola sagoma traballante appariva facendomi trasalire dopo il riconoscimento e mi calmava il pianto che faticavo a trattenere.

Solo una volta – il ricordo è preciso – mio padre s’accorse di quella tristezza che prendeva me ma anche mio fratello. E si scosse cercando di fare qualcosa per rianimarci. Si era sotto Natale. Spostò un tavolino accanto al muro e ci aiutò a preparare un piccolo presepe.

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Foto di mio padre 1920

III

FRAMMENTI

Ma che c’entra mio padre con la soffitta? Mio padre era per me il padrone della soffitta. Se ci si andava in sua assenza, bisognava rispettare l’ordine in cui aveva disposto gli oggetti o gli attrezzi. Quei pochi metri quadri di soffitta e di terrazzo, che lui custodiva con gelosia, avevano sostituito la campagna, gli orti, i pollai, i pagliai, le aie, le cantine, dove lui era vissuto da ragazzo. Una misera miniatura del mondo che aveva perduto.

Padre solitario 1978

Mio padre era cresciuto in un mondo di contadini. Portava volentieri me e mio fratello in mezzo a loro. Una volta ci portò in un bosco che da Antessano permetteva di raggiungere Acquamela. Doveva esserci stato un comizio. Molti uomini. Mio padre si fermò a parlare con alcuni che lo conoscevano. Gli adulti di allora erano silenziosi ed immobili. (O si muovevano lentamente. Tutto si muoveva lentamente nella nostra infanzia. Negli anni quaranta del Novecento in quella campagna di veloce c’era forse solo la filovia).

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Padre e figlio 1976

“Sulla soglia di una casa di campagna. Senza osare entrare nelle stanze, che mi sembrano vuote, invoco angosciato e in dialetto mio padre” (Sogno 25 sett. 1991)

Dolore, 1989

“In ospedale. Parenti, timorosi dei medici, stanno attorno al letto di mio padre malato. Mi avvicino e vedo il suo tronco completamente piagato e insanguinato” (Sogno 14 ott. 91]

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