Scena di soffioni

palombaro-poetico

di Donato Salzarulo

Questa riflessione di Donato Salzarulo sui – potremmo dire – dilemmi psichici di uno dei “moltinpoesia” s’appoggia ad una autolettura di “Soffioni boraciferi e altre poesie” (qui). Pur proseguendo il filo dei  commenti sotto quel post e rispondendo ad alcune  mie obiezioni, ha una  sua autonomia e ampiezza che giustificano  la pubblicazione in un post autonomo. [E.A.]

Ogni tanto mi faccio palombaro
di me stesso, do uno sguardo alle correnti
sottomarine, al guizzare di alici,
tonni, scorfani e sardine. M’aggiro
per un po’ tra le barriere delle mie
isole coralline…

1. – La scena di “Soffioni boraciferi” è un interno domestico. Uno studio, direi, con qualche poltrona, un tavolo da lavoro con sopra un computer e tanti scaffali pieni di libri.
Il personaggio è un Io che verseggia i suoi umori (cattivi) di una giornata, le macerazioni interiori che ne conseguono, le pochissime azioni che compie (leggere un libro, navigare su un sito, sfogliare i soliti giornali, vagare per gli scaffali della biblioteca) e il processo di lavoro (di scrittura e psichico) che attiva per liberarsi dalle nuvole di vapore depressivo addensatesi sulla sua fronte.
Verseggia e, quindi, se non poeta, quest’Io è un cultore di poesia, un autentico esemplare di quella che Abate chiama “moltitudine poetante”.
Ma quali problemi ha costui? Non quelli di mangiare, vestirsi o riuscire a mettere insieme un salario. Il pane è assicurato. Se ne può stare comodo. Sono le rose che mancano. È la poesia, il suo “oggetto d’amore” che gli sfugge. È il latte simbolico di cui si nutre che c’è e non c’è. C’è nelle opere altrui: nei racconti di una scrittrice irlandese, in Dante, in Celan, nella “biblioteca dei morti”, ma quando si domanda: «quale verso hai scritto / da tramandare a memoria nei / prossimi cinquemila anni?…» prova a citarne qualcuno; la sensazione è che non abbia ancora prodotto qualcosa di duraturo. «E qui una prima / nuvola s’impadroniva delle mie / pupille».
Non bisogna lasciarsi confondere. Quando esalta i racconti della scrittrice irlandese (“lucidi, ben scritti, gremiti di dettagli”) che gli rammentano i giorni della sua “infanzia pugliese” e del suo “passato contadino”; quando prorompe nell’esclamazione elogiativa («Brava, bravissima / sa tenermi incollata alla pagina / per ore»), insieme all’ammirazione, occorre avvertire nelle parole un pizzico d’invidia.
Non è necessario aver letto l’opera di Melanie Klein per comprendere che invidia e ammirazione vanno spesso a braccetto. Nel confronto l’Io vorrebbe possedere la bravura dell’irlandese e, se ha l’impressione di non risultarne all’altezza, dalla fronte evaporano “soffioni boraciferi.”
La scelta di questa metafora che dà il titolo all’intera composizione non è casuale. Geologicamente sono emissioni violente di vapore, provenienti da spaccature del suolo. Prodotti del vulcanismo secondario, essi emergono durante le fasi di stasi di un vulcano, tra un’eruzione e la successiva, oppure durante le ultime fasi di vita.
L’atmosfera nera, depressiva del viso viene cosi naturalizzata, “geologizzata”. Il Tu-Io poetante “vulcanico” sta vivendo una fase di stagnazione del corpo oppure si trova in un periodo autunnale (o terminale) della vita. Allora sprigiona un’energia che, oltre a comportare una riduzione percettiva/conoscitiva della vista (“Nei tuoi occhi non piove, / ma li vedo più piccoli”), può risultare letale.
Se questa è la situazione iniziale, mi sembra completamente fuori bersaglio la lettura di Abate che scrive: «abbiamo all’inizio raccoglimento e serenità, che esaltano il piacere intimo e personalissimo della lettura (di un io del tutto privato)». Ma quale raccoglimento e serenità? Quale piacere intimo e personalissimo?… Il ritorno all’infanzia pugliese dell’Io e l’invidia/ammirazione nei confronti dell’”oggetto d’amore” (titolo del libro di O’Brien) attivano probabilmente pulsioni inconsce depressive nei confronti dell’”oggetto d’amore” dell’Io: la madre e per contiguità metonimica la sua “maternità creativa” dello scrivere e fare poesia.

2. – Non dovendo accompagnare Giuseppina al lavoro, l’Io s’imbarca per un po’ sul sito di Poliscritture, di cui, tra l’altro, è redattore. E lì cosa sta succedendo? Stanno discutendo sulle vie che deve ancora percorrere la poesia. “Quali vie volete che percorra la poesia?…La mia!…” Pensa, senza dirlo, quest’Io “vulcanico”, temporaneamente depresso dal suo problema (non risolto) di produrre versi duraturi.
Però, dichiarare apertamente questo pensiero (magari argomentandolo) come ogni poeta probabilmente farebbe, grande o meno grande, comunque profondamente convinto della sua attività, gli appare sconveniente, un peccato di superbia, un cedimento alla cultura narcisistica dell’epoca, un tratto morale aristocratico in conflitto con l’umiltà del suo “passato contadino”. Preferisce allora farla facile, svicolare: «Semplice: tutte quelle su cui è / incamminata o s’incamminerà / la “moltitudine poetante” / esodante o non esodante».
Si tratta indubbiamente di un meccanismo di difesa, di un aggiramento dell’ostacolo, di una mal dissimulata aggressività nei confronti di chi non si porrebbe il vero problema che, secondo quest’Io, si agita nel cuore della “moltitudine poetante” o di chiunque scriva poesie non come hobby o passatempo della domenica. Non tanto quello della materia, degli argomenti, dei temi su cui verseggiare, ma quello dell’”oggetto d’amore”, della qualità della scrittura e dei versi. Saranno capaci di travolgere il tempo?…
«Non omnis moriar multaque pars mei / vitabit Libitinam…» ha nelle orecchie, dall’adolescenza, i versi di un famosissimo carme del suo quasi conterraneo Orazio, l’ha tradotto («Non morrò del tutto, molta parte di me / eviterà Libitina …» (la dea dei funerali). Se la sente in coscienza di ripetere queste parole per i suoi tanti versi scritti in oltre mezzo secolo? È fiero ed orgoglioso di ciò che finora ha prodotto? Il problema di quest’Io è la sua morte, il suo attraversamento. La prima causa della nuvola di vapore che gli esala sulla fronte è quella che Freud chiama “pulsione di morte”.

[Abate osserva che questa sarebbe una “liquidazione” della “poesia esodante”, «che per me è una via da distinguere meglio dalle altre vie che ecumenicamente o pluralisticamente oggi vengono ammesse. «Cento» addirittura, secondo D’Elia, con la cui posizione, caldeggiata da Muraca nel 2010, polemizzai.»
Non so se l’intento di quest’Io sia quello di “liquidare” la posizione di Abate, posizione che sicuramente deformata, schematizzata, stilizzata a me sembra riassunta nei versi pronunciati dalla “voce impersonale” che più avanti, a un certo punto, sottolinea l’esigenza di una poesia «tagliente contro il comando / dei prepotenti» (sintagma che strizza l’occhio a “comando del capitale”, diffuso in certi ambienti) e che, proprio per questo, «non può essere buonista, / pacifista, accogliente.»
A me pare molto difficile, se non impossibile, convincere chi scrive poesia a farlo secondo una poetica collettiva. Soprattutto, in una “società degli individui” come la nostra (dove “ogni uomo è Dio”) e soprattutto se questi individui per ragioni svariate si siano intrappolati in quell’insidia rappresentata dalla poesia.]

3. – Immerso in questi pensieri ed emozioni, l’Io “svicola” dalle questioni poste sul sito di Poliscritture. Dovrebbe rivendicare la sua strada come quella da seguire per la poesia. Ma non lo fa. Non ha fiducia in “appelli” simili, in siffatte “chiamate alle armi”: «Chi davvero / sa come si trasmettono e riproducono / comportamenti e coscienze?…»
Su questo punto Abate ha visto giusto: «Donato si mantiene programmaticamente (per scelta di poetica e anche per visione politica) sul piano di un discorso amichevole e cordiale. Mira alla condivisione. Anche quando polemizza. (E, se lo fa, sceglie modi impliciti e obliqui perché procede poggiandosi sempre sul senso comune dei lettori-interlocutori che si sceglie).»
Un po’ è così. L’Io dovrebbe dire ciò che si agita nella sua mente, ma non lo fa. Preferisce continuare a indossare l’abito umile. In realtà, il suo comportamento poetico parla per lui. Così scherzando (ma scherza davvero?…), spezza la parola “eso-dante” e tira in ballo Dante, cioé un poeta consapevole di sé, con grandi aspirazioni, che, sentendosi un eletto, tracciò con vigore intellettuale e determinazione il proprio itinerario poetico…
I sentimenti inconsci di ammirazione/invidia, relativi alla scrittura-oggetto d’amore, dalla scrittrice irlandese si trasferiscono, quasi certamente, sul poeta fiorentino, la cui opera dura nel tempo.
Il padre Dante con la madre irlandese che gli ricorda l’infanzia pugliese per produrre una figlia-poesia eterna!… Tortuoso quest’Io! Spinge avanti i suoi versi con strofe liberamente associate e, all’occorrenza, anche spezzando parole e sintagmi, per lasciare implicito un discorso che, se esplicitato, suonerebbe così: «Cari poeti, anche se lo negate, lo so che ognuno di voi vorrebbe “erigere un monumento più duraturo del bronzo” e crede che i propri versi resisteranno al vento, alla pioggia e alla corsa del tempo… Anch’io, del resto, sono tormentato dallo stesso desiderio di gloria e immortalità e vorrei vederlo soddisfatto coi miei versi. Allora, non perdiamo tempo, ognuno si faccia le proprie poesie, parli se vuole di un’infanzia pugliese o del macello della storia, di una sua attesa amorosa alla stazione o del ludibrio della politica, di vittime e carnefici, del darwinismo sociale imperante, l’importante è che segua la strada dei propri desideri oppure quella che riesce consapevolmente a scegliere o, più probabile, che è costretto a seguire perché una qualche pulsione glielo “ditta dentro”… Ognuno/a di noi è unico e singolare, ognuno/a ha la sua storia …Come dice il proverbio?…’Chi ha più filo tesse la tela.’ Alla fine, il tempo sarà il vero giudice delle nostre poesie….Ai posteri l’ardua sentenza!… Riparliamone da morti!…»

Meglio
dedicarsi ai morti, alla biblioteca
dei morti, a quelle opere che, come
una volta a scuola s’insegnava,
durano nel tempo…

Una posizione chiaramente autolesionista. Se un lettore, prendesse alla lettera questo suggerimento, perché dovrebbe leggere i “versi malfatti” di “Soffioni boraciferi”?… Infatti, per lo più non li legge. È noto che la stragrande maggioranza della “moltitudine poetante” non legge i versi dei propri fratelli o delle proprie sorelle di “sventura”. O li legge poco.
La speranza dell’Io, a questo punto, è una sola: d’aver scritto versi che dureranno e saranno tramandati nella biblioteca dei morti…Sta dissimulando, ancora una volta, la sua aspirazione all’immortalità?…Probabilmente si.
Il primo vettore depressivo di quest’Io è quindi chiaro: una pulsione alla grandezza, un desiderio di altezza, di verticalità non soddisfatto. Voler essere un “poeta grande” è l’aspirazione. La realtà è diversa, di frustrazione.
La mia opinione è che al fondo di questi Soffioni si agitano questioni relative all’identità, al riconoscimento, ai processi di stima/autostima dell’Io e che proprio la “teatralità” della composizione evidenzia conflitti fra varie parti del Sé.
[ Abate legge, invece, questi versi come «una specie di “ritorno all’ordine” e alla “poesia seria” e “duratura” di una volta». Formalmente i ritorni all’ordine si fanno con sonetti, ballate, odi, versi regolari, ecc. ecc. Qui siamo di fronte a una composizione con strofe-scene che vanno avanti per libera associazione, formate da versi irregolari, compattati da allitterazioni e qualche rima…No, no, non c’è nessun ritorno all’ordine. C’è un desiderio che vorrebbe darsi un ordine.]

4. – La seconda importante causa di depressione viene colta dall’Io nel contesto sociale più generale: «Ancora peggio se dal sito / passo al veleno dei soliti giornali./ “Gli uomini sono esseri mirabili”…/ Infatti, a Goro fanno barricate / contro una decina di rifugiate e / a Calais la polizia sgombera / “la Giungla” degli immigrati…» Qui l’Io, partendo da un episodio di cronaca, ironizza e polemizza con un verso di Fortini. Cos’è in discussione?…Una visione antropologica?…Si intende prendere le distanze dalla visione fortiniana?…
Dopo il commento ironico, l’Io tace, come se si ritirasse dalla scena. Questa viene, allora, occupata da una voce impersonale (una sorta di terza persona ) che propugna una certa idea di poesia. Sostiene che «La poesia non può essere buonista, / pacifista, accogliente. Deve imparare / ad essere tagliente contro il comando / dei prepotenti, contro chi predica / la selezione naturale, la lotta animale / per la sopravvivenza».
È una posizione che viene registrata, ma non accettata. Alla voce impersonale, infatti, vengono opposte tre domande-dubbi:
«Ma non è che / siamo tutti finiti in una grande fabbrica / dell’orrore? Oltre a quelle visibili, / non è che hanno eretto intorno a noi / mura invisibili contro cui sbattiamo, / barriere insormontabili di godimenti / apparenti?… Tutta quest’industria / della comunicazione non ha forse / legato ognuno a una cuccia in cui /dormire e mangiare, esibirsi, / copulare e ogni tanto abbaiare?…»
Qui compare un Noi e verbi alla prima persona plurale del presente indicativo. Nel Noi è inclusa anche la “voce impersonale”.
L’impressione è che la poesia definita “tagliente” è probabile che viva come “tutti” nella stessa “fabbrica dell’orrore” e rischia di ridursi ad un “abbaiare”.
L’Io-autore mostra così un’implicita sfiducia nei confronti della poesia “tagliente”, quella che non può essere “buonista, pacifista, accogliente”. Non sostiene che non si può fare, ma ha riserve e perplessità.

5. – L’amore di Celan per la poesia
era assoluto. Vagando per gli scaffali,
ho raccolto tutte le sue opere,
le ho posate sul tavolo, ho aperto
«La sabbia delle urne» e mi sono
rimesso al lavoro.

Le scene della navigazione sul sito di Poliscritture e della lettura velenosa dei “soliti giornali” terminano, come abbiamo visto, con tre interrogativi retorici dell’Io-autore. Il suo pensiero-sentimento è che siamo finiti socialmente e culturalmente in una “fabbrica dell’orrore”, murati (visibilmente e invisibilmente) dentro barriere che appaiono insormontabili, accucciati come cani dentro “quest’industria della comunicazione” che ci consente di “dormire e mangiare, esibirsi” (cultura del narcisismo), “copulare e ogni tanto abbaiare”.
Come uscirne?…L’Io non lo sa. Forse alla “fabbrica dell’orrore”, più che l’esperienza di una poesia tagliente, non buonista, pacifista, accogliente (in una parola, politicizzata) si può opporre l’esperienza di Celan, il cui amore per la poesia era assoluto. Perché tira in ballo Celan?…Non solo perché qualche giorno prima ha pubblicato una nota di lettura su questo poeta proprio su Poliscritture, ma perché crede che lo sterminio, l’orrore, i muri, le barriere, la comunicazione falsa e illusoria siano stati materia dei suoi versi e delle sue opere. Chi meglio di lui può insegnargli il che fare?…Da Edna O’Brien a Dante a Celan… Sotto sotto quest’Io poetante continua a compiere mosse che non lo portano fuori dai suoi problemi. Comunque, l’Io vaga per scaffali, raccoglie tutte le opere che ha in casa di Celan, apre «La sabbia delle urne» (titolo sintomatico: ecco cosa rimarrà, caro Io, dopo la tua morte!) e dichiara di rimettersi “al lavoro”. È quasi certamente l’unica attività capace di combattere l’atmosfera nera che l’affligge dal mattino. La pulsione di morte un po’ si rimuove, un po’ si combatte con l’azione creativa…Fatto sta che appena si mette a scrivere, nota un miglioramento della situazione psichica:

Sto scrivendo
e mentre lo faccio m’accorgo
che mi sta passando quell’atmosfera
un po’ nera che stamattina mi
circolava per la mente.

Inutile, quindi, tante teorie sulle ragioni dello scrivere e della poesia. Meglio attenersi agli effetti psichici concreti che si sperimentano individualmente. Scindendosi, l’Io dice allora al suo Tu

Ecco, perché scrivi.
Per tirarti su, per trovare ragioni
alle tue delusioni. Per ripararti,
rimetterti in sesto. Anche perché
qualcuno aspetta i tuoi versi

Perché l’Io si scinde?…Probabilmente per attribuire l’esperienza che sta compiendo ad un’altra parte del Sé. Per non prendersi del tutto la responsabilità di ciò che sosterrà. Per lasciarsi le mani libere. Per rendersi aperto ad altre eventualità. È come se l’Io dicesse al Tu, dandogli ragione: «Si, in effetti, la scrittura può essere terapeutica, può aiutare a tirarti su, a trovare il perché delle tue delusioni, può riparare la tua psiche malandata, può rimetterti in ordine, riportarti a una normalità perduta, a una situazione positiva…»
Inutile dire che questa concezione della scrittura come cura e terapia di cui l’Io-Tu sta facendo per l’occasione esperienza diretta, ha una bibliografia sterminata al suo attivo: dai lavori pedagogici di Duccio Demetrio («Raccontarsi», «Autoanalisi per non pazienti», «La scrittura clinica», ecc.) alle pubblicazioni-mostre di art brut e di arte-terapia, al titolo di un libro, per restare nel campo dei poeti, di Seamus Heaney: «La riparazione della poesia. Lezioni di Oxford», ecc.
L’Io al Tu non dice solo questo. Aggiunge un motivo decisivo: «Anche perché / qualcuno aspetta i tuoi versi.» Ma chi aspetta i versi di quest’Io-Tu?…A chi dovrà fare questi regali?…C’è qualche lettore/lettrice in attesa?…
Che ci sia o non ci sia, questa scrittura è fatto sociale. Non è azione privata, diario scritto per sé. È questo che l’Io fa capire al suo Tu. È vero che la condizione di ognuno di noi in questa “fabbrica dell’orrore” e in “quest’industria della comunicazione” è di vivere murati; abbi fede, però!, qualcuno sicuramente c’è che attende i tuoi versi. Magari è un tuo simile, vivo o morto, mirabile o non mirabile, qualcuno su cui puoi contare, che ti rilancia, che ti dà una mano.

Che siano fantasmi
di morti o siano mirabili, l’inferno,
come diceva Sartre, sono i nostri
simili. Allora, bisogna appoggiarsi
alle persone che inferno non sono,
occorre frequentare chi ci rilancia,
chi ci dona una mano con amore
per condurci oltre il presente
squallore.

Sono versi-quasi citazioni di Sartre esplicitamente nominato e di Italo Calvino (non nominato).

Ma era proprio questo che Celan
non amava, questa poesia-terapia,
questa sublimazione che favorisce
lo spirito di riconciliazione
con questo modo immondo d’essere
del mondo.
Non è la bellezza
che devi cercare, né il piacere,
né la seduzione. Muta la rosa,
muta la ginestra, la verità è veleno
di cicuta.

L’Io è onesto. Al suo Tu fa capire che, con la poesia-terapia, ha imboccato una strada diversa da quella di Celan. Contro “la fabbrica dell’orrore” e l’industria della comunicazione può rifarsi solo parzialmente a quell’esperienza: magari per l’assolutezza dell’amore nei confronti della poesia, non certo per la sua verità finale. Al termine, infatti, c’è la scelta tragica del suicidio. Non importa che il mezzo storicamente non sia stato quello socratico della cicuta, ma La Senna. Lo è stato, comunque, socialmente. Lo sterminio stermina psichicamente anche i sopravvissuti. Forse anche perché le dinamiche innescate rendono muta “la rosa” dantesca (ossia, una visione cristiana) e “la ginestra” di Leopardi (l’alleanza del consorzio umano). Il “modo immondo d’essere del mondo” uccide o favorisce il suicidio.
A sostenere l’Io nel processo di differenziazione e presa di distanza da questa innegabile verità appare in scena, a questo punto, una figura femminile, una Lei senza nome che l’ha ascoltato: «La verità è il fuoco del giorno…», gli dice. Ossia, combustione quotidiana di elementi, bagliore, calore, energia. Torna l’Io “vulcanico”.
Non mi azzardo neanche minimamente a sottolineare l’importanza del fuoco nella vita delle civiltà. Importanza materiale e culturale.
«La poesia / non può amare gli altri se non ama / se stessa…» continua la donna, riprendendo e adattando il secondo Comandamento (“Amerai il prossimo tuo come te stesso”). Trite parole indubbiamente, per chi l’ha ascoltato innumerevoli volte sin da bambino, ma dall’innegabile contenuto di verità. A prestare attenzione, però, la figura femminile dall’imperativo futuro, passa all’indicativo e ciò che il Comandamento dà per scontato (l’amore per se stessi), viene collocato prima dell’amore per gli altri (“altri” che è termine più generico di “prossimo”). Perché?…Perchè nella predominante cultura narcisistica, non è detto che si sappia davvero amare se stessi. Il narcisismo, infatti, è un diffuso disturbo patologico di quest’amore.
Chiarito questo, la donna spiega all’Io che cos’è la poesia («È cosa, linguaggio-mondo») e dove può trovarla:

La trovi ovunque c’è luce, passante,
bosco incantato o non incantato,
metropoli fremente, attenzione
al salice piangente, alla foglia in bilico,
fragile germoglio, pietra, fiume, ombra,
preghiera, sguardo intento, tormento di
un monte, sorriso, silenzio, occhi…

L’elenco, musicalmente compattato, sembra buttato lì a caso. Un po’ lo è, un po’ no. Ad esempio, di “luce” è piena la Commedia di Dante (in particolar mondo, il Paradiso) e chissà quante poesie di quanti altri autori, “A una passante” è il titolo di un celebre sonetto di Baudelaire, il “bosco” è un topos di molteplici testi, “metropoli fremente” rimanda ancora a Baudelaire e a tanti altri poeti dopo di lui che hanno assunto il tema della città come materia poetante, “il salice” piangente o meno è protagonista di una poesia di Quasimodo (“Alle fronde dei salici”), “la foglia” non ne parliamo (Leopardi: “Lungi dal proprio ramo / povera foglia frale / dove vai tu?”), “germoglio” è il titolo di una Myricae di Pascoli, “pietra” (“pietra scritta” è il sottotilo di “Ieri deserto regnante” di Bonnefoy), “fiume” (“I fiumi” è una celebre poesia di Ungaretti), “ombra” (“Elogio dell’ombra” è il titolo di una bellissima poesia di Borges sulla vecchiaia), “preghiera” (“Preghiera” è il titolo di una meravigliosa poesia di Giorgio Caproni dedicata alla madre Anna Picchi), “sguardo” (È il titolo di una bella poesia di Khalil Gibran), “monte” ( “Di pensier in pensier, di monte in monte” Amore conduce Petrarca tormentato da Laura), “sorriso” ( “Toglimi il pane, se vuoi / toglimi l’aria, ma / non togliermi il tuo sorriso” prega Pablo Neruda in una poesia intitolata appunto “Il tuo sorriso”), “silenzio” (altro titolo di una poesia di Ungaretti), “occhi” ( “I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi / che tu venga all’ospedale o in prigione /nei tuoi occhi porti sempre il sole” dichiara Nazim Hikmet in una poesia intitolata “I tuoi occhi”)…
Sono sicuro che lei avrebbe potuto continuare l’elenco. Infatti, ci ha messo tre puntini sospensivi e poteva, magari, aggiungere foglio, via, alberi, lampi, magnolia, limoni, seppia, ossi, trombettina, guerra, Natale, ecc. ecc.
Per quanto mi riguarda, sono certo che si sarebbe attenuto ad un unico criterio: indicare un nome concreto. Perché la poesia, come dice nel versetto finale composto da quest’unica parola: “C’è.”
E perché c’è? Per rispondere a quale bisogno? Devo ammettere che ha qualche difficoltà ad indicarlo. Legata, come lei preferisce alla concretezza dei sensi, ricorre allora a sinestesie, ad alcune formule paradossali del tipo: dire la nota di ciò che non si può dire, il sapore della pioggia, il colore di un atomo invisibile, l’abbaglio di un profumo di sole, ecc…
L’intento è sottolineare che la poesia ha più bisogno di sensi che di concetti, più di tensione verso l’invisibile che di adattamento al visibile, più di quadri, musiche, scene che di argomentazioni, filosofie più o meno fondate, battaglie iperuraniche di idee… Qual è la nota musicale dominante di un viso addolorato che sta lasciando il suo paese?…Di che sa il sorriso di un bambino che riabbraccia sua madre?…Ecco, il tipo di domande che occorrerebbe farsi. Certo, anche immaginare il nodo scorsoio che il boia sta infilando sul nostro collo…Non fu Villon a scrivere una “ballata degli impiccati”?…

Per dire la nota di ciò che non
si può dire, il sapore della pioggia,
il colore di un atomo invisibile,
l’abbaglio di un profumo di sole…
La poesia non raddrizza le violenze
della storia…Immagina soltanto
un altro mondo, un’altra via… »

Sulla poesia che non raddrizza le violenze della storia, sicuramente la donna sta pensando al verso di Fortini di “Traducendo Brecht”: «La poesia /non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.».
Devo consigliarle di tener presente una poesia di Vivian Lamarque, letta recentemente. Si intitola “Cambiare il mondo”:

«Invece sì, invece forse sì
le poesie lo cambieranno un poco
il mondo.
Però tra tanto
tanto di quel tempo
sì me lo sento
che dalle poesie verrà un poco
di cambiamento
ma come un nevicare lento lento lento»

Lamarque è più fiduciosa della Lei che fa da angelo custode al nostro Io poetante. Evidentemente la sua orfanità e la criptocitazione del Pascoli dell’ultimo verso (“La neve fiocca lenta, lenta, lenta”) l’aiutano a sostenere di più questa credenza.

Così dalla camera
del cuore si sprigiona
l’ultimo soffio
di vapore.

Ultimo soffio di vapore. Il che vuol dire che l’atmosfera nera si è diradata. La scrittura poetica ha riparato, almeno temporaneamente, la psiche di un Io disordinato, conflittuale, magmatico che deve tenere a bada pulsioni interne e stimoli esterni contrastanti, frustranti, contraddittori. Si può imparare qualcosa da quest’Io?…Non so.

1 dicembre 2016

5 pensieri su “Scena di soffioni

  1. …queste riflessioni di Donato, in prosa con incursioni nella poesia, sui testi poetici “Soffioni boraciferi”, dove la poesia esonda nella prosa, sono molto interessanti…un esempio di scrittura ad ampio spettro su come sviluppare un’autoanalisi approfondita dei propri pensieri, sentimenti e, nello stesso tempo, sollecitare molti interrogativi in chi legge. Personalmente mi hanno invitato a cercare di chiarirmi le idee circa:
    – La poesia, e la scrittura in generale, su cosa fonda il suo valore ed è in grado di produrre cambiamenti significativi negli animi umani, nella storia?
    – La memoria cosa è in grado, vuole o deve trattenere del passato e del presente e consegnare al futuro?
    – (con i nostri scritti, versi ) “Saremo capaci di travolgere il tempo? Con il tema annesso dell’ “ammirazione- invidia” dell'”Oggetto d’amore”
    – il rapporto presente nell’io tra soggettività individuale e oggettività del contesto ambientale e storico…
    Centrale, secondo me, è il problema della memoria, su cui chissà quanto ci sarebbe da dire…che è selettiva, tende a ricordare il punto di vista della parte dominante, che non è pietosa, che è limitata quanto l’essere umano, spesso ingiusta…Ma la poesia sull’argomento è intervenuta e mi viene in mente la poesia di B. Brecht: “Tebe dalle sette porte, chi la costruì? / Ci sono i nomi dei re dentro i libri/ Sono stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?…”, dove con versi di una lucidità assoluta il poeta si pone la riflessione sulla memoria di parte e quella che fa giustizia…Ma c’è anche una memoria che vorrebbe ricordare proprio tutto: che di ogni foglia (colore, venatura, forma) si conservasse la memoria…Una memoria sull’esperienza esistenziale, sulla natura, sugli affetti…Non contrasta con la poesia-memoria esodante, che è una scelta di campo, ma si intreccia con essa: faccio riferimento alle riflessioni di El[v]io Fachinelli sull’intelligenza umana, per il quale, già dalla nascita, le due istanze sono indissolubilmente intrecciate…Anzi, per me, l’una fa da guardiana all’altra.
    Riguardo al leitmotiv presente nello scritto di Donato : “Saremo capaci di travolgere il tempo?” mi sembra di importanza secondaria…non sono convinta che sia un pensiero centrale per la “moltitudine poetante” e che non sempre l’ammirazione sia accompagnata all’invidia per gli autori passati alla letteratura…Almeno io ho altri oggetti di invidia…” Due sono le costellazioni della vita: la salute e l’amore, tutto il resto è inutile rumore”( D. Salzarulo), questi valori mi muovono all’invidia…Li desidero per me e per gli altri, quindi intreccio due istanze…

  2. Lo svolgimento per associazioni mentali, psicologiche e tematiche, dei Soffioni boraciferi in effetti era facile da seguire, e forse si poteva anche capire che la critica di Abate *sforzava* il meccanismo associativo della poesia, contrapponendo “raccoglimento e ritorno all’ordine e alla poesia di una volta”, alla “aspirazione/frustrazione” di cui scrive Donato Salzarulo nella sua autolettura dei Soffioni.
    Qui Donato si presenta come un singolo individuo, della sua età, della sua vita, con la sua attività lavorativa e intellettuale, che ama quella particolare oggettivazione di se stesso che avviene con la scrittura. Perchè lo fai?, chiede a se stesso. Per me e per altri, risponde, la scrittura è un fatto sociale, almeno fin che non arriva al limite del silenzio. Anzi, è fatto amoroso, scrittura dialogante nei confronti di sé, e colloquiale nel porgersi a chi legge. Amore della “cosa” che “c’è” ed è un altro, anzi l’Altra che glielo ricorda/insegna.
    Il poeta culmine umano, esempio di eccellenza, la sua persona come modello sociale e intellettuale, è venuto meno con la diminuita importanza della scrittura come “supporto materiale” degli intrecci tra le pratiche umane. Il poeta è un soggetto singolare, coincide con la sua persona, uno senza alcun valore di modello. Il raccontarsi di Donato in un suo processo di scrittura non indica niente altro che il suo stare nella scrittura come un singolo, uno dei molti, senza alcuna funzione esemplare o riassuntiva. “Si può imparare qualcosa da quest’Io?…Non so.”

  3. BEATRICE BATTE FORTINI TRE A ZERO!

    Con Donato [Salzarulo] è dal ’68 che concordiamo/discordiamo, e stavolta ancora non concordo.
    Alla domanda che s’aggira come un fantasma in Poliscritture: «Quale poesia oggi?», in questa sua «Scena di Soffioni» egli dà una risposta per me chiara: distanziamoci dal Noi (i confusi e un po’ rozzi “moltinpoesia” di cui pur sente di far parte), impariamo dai Grandi Poeti o Spiriti Magni [1] e dai loro ideali di eternità, torniamo al’Io e con quello costruiamo una poesia oggetto d’amore che rimandi all’infanzia e all’amore materno sotto la guida di una femminile consigliera (Ah, Beatrice!).

    È chiaramente il contrario (o quasi) dell’ipotesi – del resto rimasta mia faccenda quasi personale – che ho affacciato in questi anni parlando di “moltinpoesia”, di “poesia esodante”, di “Io/Noi”. Non trovando il tempo per rispondere analiticamente al suo complesso e ben meditato scritto, mi limito per ora a questi schematici appunti di dissenso:

    1. Il dosaggio sincerità/finzione.

    A prima vista colpisce la sincerità di «Scena di Soffioni». Che indubbiamente c’è. Siamo di fronte all’autoanalisi di un Io inquieto, a tratti persino spietata, quando, ad esempio, ricorre a Melania Klein per alludere al groviglio di «invidia e ammirazione» che egli/noi prova/proviamo di fronte al Poeta famoso. Eppure non scordiamoci che qui c’è la finzione, c’è la ritualità della comunicazione letteraria. È questa che s’impone di più e scaccia il discorso da fare (secondo me) sul “reale”, l’”extrapoetico”, la condizione dei tanti (quasi sempre ignoti) che non hanno ancora il pane e manco le rose. Il discorso, invece, si restringe alle attese dei Poeti (di una volta) o dell’odierno pubblico della poesia. Un esempio? Quando Donato pone la domanda, per me tipicamente da poeta letterato a poeti letterati: «quale verso hai scritto / da tramandare a memoria nei / prossimi cinquemila anni?…»).

    È forse indispensabile che quel che scriviamo debba durare? È sicuro che un verso tramandato a memoria per vari secoli abbia giovato agli umani? Non sarebbe meglio continuarsi ad interrogare (con Fortini e Sartre sullo sfondo) sulla malafede che spesso inquina la poesia e la letteratura?

    Intendiamoci: la scrittura di Donato non è tutta finzione o condotta a freddo. Non ha a che spartire con il cinismo disincantato del Manganelli di «La letteratura come menzogna» . Donato – in questo vicino al disagio e alle ambivalenze dei “moltinpoesia” – inserisce nella sua scrittura sempre elementi autobiografici ed esistenziali “veri”: «Il Tu-Io poetante “vulcanico” sta vivendo una fase di stagnazione del corpo oppure si trova in un periodo autunnale (o terminale) della vita». Quando tratta di poesia, però, invece di spalancarsi sul quadro sociale, sull’extrapoetico (in cui rientrerebbero i “moltinpoesia” e i “molti non in poesia”, il mondo confittuale di secoli fa, di ieri e di oggi, con le guerre le crisi i migranti i neonazisti i terroristi, ecc.) si fa troppo tentare dall’immaginario “piccolo mondo antico”; e si mette volentieri (sotto la spinta venutagli dalle sue letture di psicologia e psicanalisi) coi poeti-fanciullini che inseguono l’”oggetto d’amore” dell’Io.

    2. La poesia come oggetto d’amore che rimanda all’infanzia e all’amore materno

    Scrive: «Il ritorno all’infanzia pugliese dell’Io e l’invidia/ammirazione nei confronti dell’”oggetto d’amore” (titolo del libro di O’Brien) attivano probabilmente pulsioni inconsce depressive nei confronti dell’”oggetto d’amore” dell’Io: la madre e per contiguità metonimica la sua “maternità creativa” dello scrivere e fare poesia».

    Proprio l’equazione “erotica” (indiscutibile?) madre-poesia conferma che il tono prevalente di «Soffioni boraciferi» è in generale – come ho detto – di «raccoglimento e serenità» e di «piacere intimo e personalissimo». (Anche se io lo coglievo pure nella «situazione iniziale» della poesia, dove per Donato non c’è). Esso c’è di sicuro nella resa stilistica dei contenuti, nella scrittura piana, nella sintassi pacata, nel lessico seduttivo e familiare. La depressione, presente in chi scrive, scompare appunto scrivendo. Non si insinua nella scrittura, viene tenuta a bada, persino “autodiagnosticata” con il ricorso al sapere psicologico e psicanalitico.

    3. L’Io che si distanzia dal Noi

    Quando s’interroga su quali siano le strade della poesia da seguire oggi, problema che gli altri – quelli di Poliscritture – dicono o credono di affrontare, Donato evita di entrare nella discussione sul piano argomentativo e analitico. Si appella esclusivamente al suo sentire “intimo”:
    «Quali vie volete che percorra la poesia?…La mia!…” Pensa, senza dirlo, quest’Io “vulcanico”, temporaneamente depresso dal suo problema (non risolto) di produrre versi duraturi».

    E sublima in modo elegante la sua aggressività dichiarandola e mascherandola allo stesso tempo. Cela, infatti, il suo fastidio per chi si arrabatta su certi problemi, sta attento a non apparire «sconveniente», a non cedere alla «cultura narcisistica dell’epoca», a non svelare «un tratto morale aristocratico in conflitto con l’umiltà del suo “passato contadino”». Per me – sinceramente – svicola proprio dichiarando che sta adottando un “meccanismo di difesa”. E disarma gli eventuali critici accusandoli (ma sempre indirettamente) di preoccuparsi e di discutere «della materia, degli argomenti, dei temi su cui verseggiare».
    Mentre il problema “vero” è un altro: «quello dell’”oggetto d’amore”, della qualità della scrittura e dei versi»; quello dell’eternità dei versi («Saranno capaci di travolgere il tempo?…»); quello della morte che lui si porrebbe e gli altri no: « Il problema di quest’Io è la sua morte, il suo attraversamento. La prima causa della nuvola di vapore che gli esala sulla fronte è quella che Freud chiama “pulsione di morte”».

    In fondo, preso da questi pensieri, non ha voglia neppure di contrastare i suoi colleghi poeti “impegnati”. Che, secondo lui, vorrebbero «convincere chi scrive poesia a farlo secondo una poetica collettiva». (È finito il “comunismo da caserma», vogliamo cominciare con la “poesia da caserma”? Giammai!).
    Preferisce – si diceva una volta – praticare il suo obiettivo. Con umiltà e modestia:
    «L’Io dovrebbe dire ciò che si agita nella sua mente, ma non lo fa. Preferisce continuare a indossare l’abito umile. In realtà, il suo comportamento poetico parla per lui».
    Si allontana dai “moltinpoesia” che fanno troppa ammujna e si perdono nei loro problemucci e torna ai Grandi, agli Spiriti Magni, quelli sì invidiati ammirati.

    4. Il rapporto di soggezione verso i Grandi o gli Spiriti Magni

    Appellandosi ancora alla psicanalisi e alle figure archetipiche del Padre e della Madre (« I sentimenti inconsci di ammirazione/invidia, relativi alla scrittura-oggetto d’amore, dalla scrittrice irlandese si trasferiscono, quasi certamente, sul poeta fiorentino, la cui opera dura nel tempo. Il padre Dante con la madre irlandese che gli ricorda l’infanzia pugliese per produrre una figlia-poesia eterna!.»), Donato – mi permetto lo sfottò – scioglie all’urna (della Poesia) un cantico che forse non morrà:
    «Cari poeti, anche se lo negate, lo so che ognuno di voi vorrebbe “erigere un monumento più duraturo del bronzo” e crede che i propri versi resisteranno al vento, alla pioggia e alla corsa del tempo… Anch’io, del resto, sono tormentato dallo stesso desiderio di gloria e immortalità e vorrei vederlo soddisfatto coi miei versi. Allora, non perdiamo tempo, ognuno si faccia le proprie poesie, parli se vuole di un’infanzia pugliese o del macello della storia, di una sua attesa amorosa alla stazione o del ludibrio della politica, di vittime e carnefici, del darwinismo sociale imperante, l’importante è che segua la strada dei propri desideri oppure quella che riesce consapevolmente a scegliere o, più probabile, che è costretto a seguire perché una qualche pulsione glielo “ditta dentro”… Ognuno/a di noi è unico e singolare, ognuno/a ha la sua storia …Come dice il proverbio?…’Chi ha più filo tesse la tela.’ Alla fine, il tempo sarà il vero giudice delle nostre poesie….Ai posteri l’ardua sentenza!… Riparliamone da morti!…».

    E poi quell’accenno alla depressione! Chi se la sentirebbe oggi di infierire su un poeta depresso? Persino io faccio fatica a obiettare: Ma perché il ritorno all’ordine dovrebbe avvenire solo quando si scrivono « sonetti, ballate, odi, versi regolari, ecc. ecc. »? Oppure a sussurrare: Ma non è che sarebbe necessario mettere in discussione proprio l’ammirazione/invidia per gli Spiriti Magni e praticare ancora un po’ di kantiano sapere aude? E cosa dire della evidente voglia dell’Io di staccarsi dai problemucci dei “moltinpoesia” per seguire la “propria strada”?

    5. I “cattivi” e i “buoni” maestri

    «L’Io, partendo da un episodio di cronaca, ironizza e polemizza con un verso di Fortini». Il quale – poveretto – avrebbe sostenuto che «la poesia non può essere buonista, / pacifista, accogliente. Deve imparare / ad essere tagliente contro il comando / dei prepotenti, contro chi predica / la selezione naturale, la lotta animale / per la sopravvivenza».
    Donato svaluta il poeta che s’impiastriccia troppo con la melma puzzolente della storia:
    « L’impressione è che la poesia definita “tagliente” è probabile che viva come “tutti” nella stessa “fabbrica dell’orrore” e rischia di ridursi ad un “abbaiare”».
    E gli contrappone Celan, « il cui amore per la poesia era assoluto» e non come quello di Fortini così disturbato dalla politica e dalla storia:
    « Chi meglio di lui [Celan] può insegnargli il che fare?».
    Di conseguenza, basta con le teorizzazioni, i ragionamenti:
    «Inutile, quindi, tante teorie sulle ragioni dello scrivere e della poesia. Meglio attenersi agli effetti psichici concreti che si sperimentano individualmente: la poesia «è quasi certamente l’unica attività capace di combattere l’atmosfera nera che l’affligge dal mattino. La pulsione di morte un po’ si rimuove, un po’ si combatte con l’azione creativa…Fatto sta che appena [il poeta] si mette a scrivere, nota un miglioramento della situazione psichica».
    E poi, «è vero che la condizione di ognuno di noi in questa “fabbrica dell’orrore” e in “quest’industria della comunicazione” è di vivere murati». Ma: «abbi fede, però!, qualcuno sicuramente c’è che attende i tuoi versi».
    A questo punto anche Celan col suo tragicismo diventa un tipo poco raccomandabile: «L’Io è onesto. Al suo Tu fa capire che, con la poesia-terapia, ha imboccato una strada diversa da quella di Celan. Contro “la fabbrica dell’orrore” e l’industria della comunicazione può rifarsi solo parzialmente a quell’esperienza: magari per l’assolutezza dell’amore nei confronti della poesia, non certo per la sua verità finale. Al termine, infatti, c’è la scelta tragica del suicidio».

    6. Oh, Beatrice, sempre tu!

    E siamo “quasi” al Paradiso. A salvare l’Io non è un Noi che si butta nella storia (come capitò al giovane Lukács quando fu tentato dall’idea di suicidarsi) ma la femminile e ormai sempiterna (per i poeti e comunque archetipica qui da noi) Beatrice, magari in jeans:
    «A sostenere l’Io nel processo di differenziazione e presa di distanza da questa innegabile verità appare in scena, a questo punto, una figura femminile, una Lei senza nome che l’ha ascoltato: «La verità è il fuoco del giorno…», gli dice. Ossia, combustione quotidiana di elementi, bagliore, calore, energia. Torna l’Io “vulcanico”.».
    È Lei che «spiega all’Io che cos’è la poesia («È cosa, linguaggio-mondo») e dove può trovarla. È Lei che lo accompagna a far visita a Dante, Baudelaire, Quasimodo, Leopardi, Pascoli Bonnefoy ecc. (ma in un angolino c’è anche la coniunctio oppositorum: Fortini assieme a Vivien Lamarque!). È Lei che gli svela che «la poesia ha più bisogno di sensi che di concetti, più di tensione verso l’invisibile che di adattamento al visibile, più di quadri, musiche, scene che di argomentazioni, filosofie più o meno fondate, battaglie iperuraniche di idee…».
    Che dire di più?
    Me ne scappo con la coda della “poesia esodante” in mezzo alle gambe e con un ultimo dubbio: Ma questo è ritorno all’Ordine (della Madre, direbbe la Fischer!) o no?

    [1] Anni fa, nel 2011, scrissi due dialoghetti “Samizdat e il poeta esodante”:

    http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/05/critica-ennio-abate-dialoghetto-n1-tra.html

    http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/06/critica-ennio-abate-samizdat-e-il-poeta.html

    Avrei dovuto continuare, ma poi non ce l’ho fatta. Avevano a che fare con le questioni qui trattate.

  4. Se non venissi tirata in ballo nell’ultima riga da Ennio Abate, non mi intrufolerei in questa allegra finta baruffa tra vecchi amici e compagni (e cito: “mi permetto lo sfottò”, “Chi se la sentirebbe oggi di infierire su un poeta depresso? Persino io faccio fatica a obiettare”).
    Quando sono giunta alla fine, con il punto 6, della opposizione ideologica -ideologia in senso forte!- tra poesia extratemporale, il “problema (non risolto) di produrre versi duraturi”, e poesia immersa nel “mondo confittuale di secoli fa, di ieri e di oggi, con le guerre le crisi i migranti i neonazisti i terroristi”, mi sono ritrovata sostenitrice di un possibile Ordine della madre in cui una Beatrice (spero meno acciaccata e bisbetica di me) “lo accompagna a far visita a Dante, Baudelaire, Quasimodo, Leopardi […] gli svela che ‘la poesia ha più bisogno di sensi che di concetti, più di tensione verso l’invisibile che di adattamento al visibile’, ecc ecc”.
    Ebbene, signornò! A parte che devo sottolineare che l’Ordine della madre di Luisa Muraro è quello simbolico, che ordina significativamente l’aprirsi dei figli al mondo e viceversa, (laddove Beatrice accompagna Dante in luoghi extramondani, e allora forse Laura di Petrarca sarebbe più opportuna nelle funzioni richiamate da Ennio), dirò che la mia idea di ordine della madre è più empirica della idea originaria di Luisa. Il mio empirico ordine della madre è quello di figlia insieme ad altri. E l’ho espresso nell'”essere i molti” della poesia: “Il poeta è un soggetto singolare, coincide con la sua persona, uno senza alcun valore di modello […] stare nella scrittura come un singolo, uno dei molti, senza alcuna funzione esemplare o riassuntiva”.
    Ho valutato però anche che far entrare una Lei accanto al poeta, da parte di Donato, serve a rappresentare l’essere mondo della poesia, e il rivolgersi per questo agli altri. Che sia una Lei e non un Lui a rappresentare gli altri accentua il fatto che la poesia si rivolge al vero Altro di sè: segnatamente l’Altra significa un mondo in cui la differenza fa ordine e lo rende accogliente, e solo dio sa quanto c’è n’è bisogno.

  5. Ringrazio vivamente Anna Maria, Cristiana e Ennio per i loro interventi. Leggo pensieri e annotazioni che rappresentano per me un vero tesoro. Ci rifletterò su e troverò il modo di riprenderli nelle prossime occasioni.
    Al momento, desidero soltanto precisare al mio amico che l’Io di Soffioni polemizza con un verso di Fortini, non con la sua concezione della poesia.
    La terza persona che scrive «la poesia non può essere buonista, / pacifista, accogliente. Deve imparare / ad essere tagliente contro il comando / dei prepotenti, contro chi predica / la selezione naturale, la lotta animale / per la sopravvivenza» non ha in mente Fortini, ma Abate. Cfr., infatti, punto 2:
    «Non so se l’intento di quest’Io sia quello di “liquidare” la posizione di Abate, posizione che sicuramente deformata, schematizzata, stilizzata a me sembra riassunta nei versi pronunciati dalla “voce impersonale” che più avanti, a un certo punto, sottolinea l’esigenza di una poesia «tagliente contro il comando / dei prepotenti» (sintagma che strizza l’occhio a “comando del capitale”, diffuso in certi ambienti) e che, proprio per questo, «non può essere buonista, / pacifista, accogliente.»
    Conclusione: Beatrice non batte Fortini tre a zero, ma, al massimo Abate!…

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