Barunisse

Narratorio

 

di Ennio Abate

Ma a chi parlare di Barunisse oggi? E perché? Ai poeti, ai poeti morti. A uno come Mandel’štam, di cui sto leggendo “Quaderni di Voronez”, a Cesare Pavese, che ho amato in gioventù, a quelli di allora, di cui qui parlo e che sono nel frattempo morti.

Il mio rapporto con Barunisse (ma in realtà dovrei parlare soprattutto di Casebbarone) è un rapporto intimo. È un tempo e uno spazio perduti. Ancora più con gli anni. Per la serie di rotture dolorose e a volte luttuose nel passaggio a SA, e poi nel passaggio a MI. Anche il recupero di alcuni ricordi è stato difficile. Molte tracce perse: i quaderni scritti a SA finiti non so dove alla morte dei miei; quelli scritti nei primi due anni a MI eliminati al momento del matrimonio con R. Gli altri, tra cui quelli di alcuni ritorni a SA a caccia di notizie da parenti, conservati disordinatamente e tuttora dispersi nel diario ripreso dal 1977. E poi ci sono i ricordi deformati o caricatisi d’altro: dei doveri nel tempo della militanza in AO, dei mascheramenti nei sogni, approssimativamente esaminati nel periodo di crisi matrimoniale e dell’analisi, del disincanto della vecchiaia.

Se Chiero (la maschera che mi sono presa per «A vocazione») fosse rimasto a Casebbarone, cosa ci sarebbe stato al posto della vocazione (religiosa)? Si sarebbe modellato sui cugini A. Anch’essi però gravitavano su SA (per lavoro: Franco, Antonio; per frequentare la scuola d’avviamento: Vincenzo). Certo non entrarono quanto me nell’orbita dell’Azione cattolica. Andavano (più spesso le cugine che loro) alla messa di domenica o accorrevano pure loro a curiosare nella piazzetta quando passava a prucessione. Vivere in campagna e magari andare a studiare a SA in quegli anni avrebbe prolungato il mio rapporto con quello spicchio di mondo contadino. A SA si spezzò. O lo conservai ancora per alcuni anni durante le vacanze estive, ma ormai da estraneo. E anche con la povertà o le difficoltà economiche (sempre degli A ma anche dei loro vicini di casa). O con gli animali. A SA Mineche, mio padre, non volle mai animali in casa. Mi impose subito di riportare ai Martino il cucciolo che mi avevano regalato. Ebbe un cedimento lui stesso solo in due occasioni, forse per nostalgia del periodo passato da ragazzo e da giovane a lavorare in campagna prima della scelta di arruolarsi nei carabinieri. Una volta portò a casa un quaglia, che presto s’ammalò e morì. Un’altra volta mi permise di acquistare la gabbietta per il passero. Me l’aveva regalato Rosario, ma dopo pochi giorni io e mio fratello decidemmo di liberarlo.

Non è poi che la “repressione ” – come poi ho imparato a chiamare quello stato prolungato di ignoranza del mio corpo e dei corpi altrui (maschili e femminili), di sofferenza per un sapere (non solo sessuale) che altri sembravano possedere e che a te mancava, di dirottamento delle energie nello studio, nella lettura, nella socialità ristretta di una parrocchia del dopoguerra – in campagna non ci sarebbe stata. (Penso alle difficoltà non solo mia ma di quasi tutti i miei coetanei di paese e di città nell’avvicinare le ragazze, che stavano in un mondo separato, al blocco di certi innamoramenti per l’intervento ostile di adulti e parenti vari, agli squarci di solitudine, di noia, di tormentosa irrequietezza di tante passeggiate a lungomare o per le vie di SA). Quindi non è che quella campagna d’allora fosse più pagana. (Ricontrollare su Pavese?). O che il rimanere in campagna mi avrebbe procurato meno “repressione” di quella che assorbii frequentando assiduamente la parrocchia di San Domenico a SA. [Vedi «A vocazzione»].

Cosa si poteva costruire ( sia per me che per i miei cugini) allora in campagna al posto della vocazzione? O quale altra possibile vocazione sarebbe stata possibile almeno per ancora alcuni anni? (Ma il termine vocazzione è corretto? Forse vale per la mia vicenda, ma per la loro? Non andrebbe cambiato con quello più generale di desiderio? O addirittura di bisogno?). Poteva ancora attrarre il lavoro della terra, il rapporto con gli animali domestici, una vita affettiva comunque repressa, ma più a contatto con i boschi, gli alberi, gli animali domestici? Una vita in cui i corpi e le menti vivevano più lentamente e non totalmente e poi sempre più assorbiti dai ritmi convulsi e dai miraggi che s’imporranno con l’industrializzazione attraverso i giornali, i libri, la radio, il cinema, le auto, la tv?

La fatica del lavoro sulla terra io allora neppure riuscivo ad immaginarla. I miei cugini che l’avevano provata la respingevano. Nella famiglia degli A l’unica rimasta all’antica, ostinata a stare nel piccolo mondo contadino in cui era vissuta fu nonna Francesca, che poi era la nonna degli A non la mia. E fin che ebbe forze pretese anche di passare il suo mestiere di contadina ad alcuni dei nipoti. Voleva che proseguissero la sua stentata attività dint’a terre. E per questo forse divenne odiosa ai loro occhi. Tra gli altri parenti lo stesso zi Totonne , fratello di mio padre Mineche, non faceva che litigare con lui. Era rimasto, sì, a lavorare o piezz’e terr’e abbasci’a a Cuperchie che apparteneva al fratello maggiore, ma non ne ricavava da campare o voleva di più e perciò s’era messo a fare anche l’ operaio nella filanda di Fratte. (Aveva un braccio stropio, perché era finito nel nastro di una macchina).
È che la mia famiglia e i miei cugini e in genere i nostri parenti, sia di parte materna che paterna, e i loro vicini (di Casebbarone, di Barunisse, di Antessane, di Acquamele) erano fuori dalla vita re signuri. Tutti erano sospettosi, intimoriti e a parole e gesti ossequiosi verso a ggent’istruite: avvocati, medici, professori, militari. Quel piccolo mondo contadino, che già aveva sopportato le sofferenze della guerra, era in difficoltà e in declino. Quell’economia non reggeva più. Gli adulti che potevano permettersi di mandare i figli a scuola lo facevano nella speranza di farli uscire dalla vita di campagna per salire al gradino degli impiegati. Barunisse stava già diventando per molti di noi la «terra del rimorso» (E. De Martino).

30 pensieri su “Barunisse

  1. Dici di aver smarrito ricordi ma mi pare talmente lucido il tuo pensiero che non so proprio cos’altro … Un abbraccio egidio

  2. Ciao, fratellone….

    A LENGUA RA MALINCUNIE

    Dint’o dialette sto chiagnenne.
    Chest’è lengua e’ malincunie,
    ca parlavene e pariente mje
    pe rusculià storje e mmuorte
    ambresse ambresse.

    Accussì strengevene meglie
    a raggia mmiezz’e riente.

    *Lingua di malinconia
    Piango in dialetto.| Questa è lingua di malinconia,| parlata dai miei parenti| quando rovistavano nelle storie dei [loro] morti | ansiosamente./ Così stringevano meglio | la disperazione fra i denti

    1. Certo che quando Ennio scrive in ‘lingua madre’ dà il meglio del meglio del meglio di tutta una gamma di storie e di sentimenti.
      Bravo!
      Rita

  3. …mi colpisce come, grazie ai viventi, qualche volta i morti ( anonimi sconosciuti, quelli dei ricordi familiari) si possano idealmente incontrare, per comportamenti e scelte analoghe, anche se lo scenario copre località lontane, dal profondo sud al profondo nord, come la nonna Francesca di Ennio e la mia nonna Maria che furono le ultime ad amare, rispettare, provare riconoscenza per la terra, fonte di vita, ma anche di grandi fatiche…Tra noi e loro cinque generazioni di gente confusa, ibrida, mistificata…E poi la malinconia della lontananza, del rimorso…i bastimenti che partono per terre “assai luntane”, inospitali…

  4. “Ma a chi parlare di Barunisse oggi? E perché?” A queste due belle domande iniziali io mi sarei risposto cosi: “E’ doveroso parlare oggi di Barunisse a me stesso per poi tentare di fare della buona letteratura che diventi domani patrimonio spirituale di tutti coloro che vorranno giovarsene”… E se non si ha il dono di creare della buona letteratura ci si accontenti almeno di una scrittura fluente e piacevole… magari evitando, per esempio, di scrivere le sigle delle province per indicare i luoghi!… Buon Anno, caro Ennio!

  5. Buon anno, Paolo! Ma devo dire che a me le sigle piacciono. Le ha riprese da Kafka (Josef K mi suggeri un mio personaggio: Karl Bis) e ci sono affezionato. Nel caso delle “sigle delle province per indicare i luoghi” le uso sia come * segnalibro* in un lavoro ancora in corso e sia per capire cos’è rimasto nella mia memoria dopo la perdita (o l’abbandono) di certi luoghi e anche della “buona letteratura”.

  6. … ma “dopo la perdita (o l’abbandono) di certi luoghi e anche della “buona letteratura”” che altro rimane?…

  7. Pagine bellissime, Ennio. Si ha l’impressione che l’uomo di oggi voglia correre in soccorso all’uomo che è stato. E’ un’azione di psicoanalisi, un po’ come in altri tuoi libri. Capisco che tu non possa immaginare quale sarà la comprensione finale di questo percorso. Si ha la sensazione di una scrittura onirica, sebbene governata dalla ragione. Non si tratta semplicemente di entrare nei ricordi. Missione difficile.
    Colgo l’occasione per rinnovarti il mio abbraccio, così come a tutti gli amici lettori di questa rivista.
    Mayoor

  8. … Il mio sincero augurio di Buon Anno a Lucio Mayor Tosi…. certo che giudicare “pagine bellissime” questi – so che Ennio è un uomo intelligente, autocritico e buono e mai me ne vorrà! – che oggettivamente sono per ora solo appunti per eventuali futuri organici racconti che immagino risciacquati in molti fiumi della nostra bella lingua italiana, è un ulteriore segno della decadenza dei tempi…

    1. @ Ottaviani

      I complimenti (di Mayoor, nel caso) possono far piacere, ma anche far deviare dalla giusta analisi critica dei testi.
      Ho percepito fin dal tuo primo commento delle riserve ( il richiamo alla ” buona letteratura”, il fastidio per le “sigle”). Sarebbe meglio però se esplicitassi più apertamente e dettagliatamente quello che non va a tuo parere in questo mio testo (o in altri simili) in modo da uscire dal vago e discuterne insieme lealmente. Proprio perché siamo tutti/e qui abbastanza intelligenti, autocritici e (forse) buoni.

      1. Un essere dalla forma umanoide, avvolto in una tunica si materializzò alle loro spalle. La cosa non li stupì affatto. Di questo furono stupiti.
        – E tu che demoniaca creatura dovresti essere? – Chiese Chisciotte.
        NON SONO UNA CREATURA DEMONIACA, SONO UN CONTROLLORE DELLA REALTA’.
        – E cosa controlleresti?
        LA REALTA’!
        – Più precisamente…
        IL MIO COMPITO E’ EVITARE CHE SI CREINO FRATTURE NEL CONTINUUM DEL MULTIVERSO.
        – Cosa vuoi da noi?- Chiese Sancho.
        VOI STATE RISCHIANDO DI CREARE UN FRATTURA NEL…
        – Sì, sì, ma come?
        RIFIUTANDOVI DI FARE CIO’ CHE E’ STABILITO CHE FACCIATE.
        – E’ già stabilito ciò che dobbiamo fare?
        IN OGNI PIU’ PICCOLO PARTICOLARE.
        (Dal Don Chisciotte di Cervantes)

  9. Due o tre giorni fa – di primo meriggio c’era ancora un certo tiepidore – sul battente dello scuro, si era posata una vanessa cardui (ci sono in zona delle serre che ospitano questi lepidotteri): vista così fuori stagione, era bella inquietante e magica, e mi aveva richiamato il titolo del libro di O. Soriano (1974), “Triste, solitario y final”.
    Voleva dire qualche cosa alla mia inquieta e sofferta vecchiaia? Non lo so! E’ un ‘giallo’ da scrivere così come la nostra vita: ci sono degli indizi per cui ti sembra di ‘aver trovato’ un qualche bandolo e poi invece non è così e procedi in attesa di nuovi elementi.
    Questo preambolo per ‘dispiegare’ come leggendo “ A lengua ra malinconie” mi sono commossa.
    Ma è sufficiente la commozione? Se fine a se stessa no! Però se permette di trovare ancora la forza di andare a curiosare altrove, sì, e fare delle ipotesi sul senso della bellezza e del ricordo, pure.
    Mi era venuto in mente (oltre all’aspetto della caducità nel Faust – quindi non temi nuovi! -), anche la poesia di B. Brecht, a proposito della nuvola che non può scordare in “Ricordo di Maria A.”: Questa ricordo e non potrò scordare/era molto bianca e veniva giù dall’alto./ Forse i susini fioriscono ancora/ e quella donna ha forse sette figli/ ma quella nuvola fiorì solo un istante/ e quando riguardai sparì nel vento.
    Poi, sullo stile, in Barunisse, non essendo un critico letterario, non posso entrare nel merito.

    R.S.

  10. @Ennio Abate
    Velocemente solo le cose più evidenti: le belle e giuste domande iniziali non possono e non debbono far parte integrante del racconto. Fatte a se stesso in quella sede devono trovare risposta. Altrimenti tecnicamente siamo già, prima ancora di cominciare, nella “meta-narratologia” (termine assai fastidioso ma ora non ne trovo un altro). Cominciare poi con un’avversativa “Ma a chi parlare..” è la manifestazione palese di un problema che l’autore non ha completamente risolto e che certo non favorisce la curiosità e l’attenzione dei lettori e potrebbe anche indisporre i più sensibili fra questi. Tutto lo scritto si muove su questo piano ambiguo che toglie pienezza di respiro al racconto e men che meno accorda il passato memoriale con i nuovi problemi del presente. Bello invece sarebbe stato un inizio “Mio padre non volle mai animali in casa” e da lì continuare a descrivere motivazioni psicologiche, vita reale d’allora, aria di paese e di campagna ecc., ecc… cosi come accade nella poesia “A LENGUA RA MALINCUNIE” di struggente bellezza, giustamente non appesantita dalle analisi storico-economico-sociologiche tipo: “Quell’economia non reggeva più”. La forza e l’attualità del racconto non deve aver bisogno – dopo averli però studiati profondissimamente – degli storici, dei sociologi ecc., ecc. Altrimenti, anche non volendo, si fa loro un torto e inevitabilmente si nuoce alla bellezza e all’attualità del racconto che si vuole scrivere…. ci sarebbero molte altre cose ma, per essere capodanno, può bastare così…

    1. @ Ottaviani

      Obiezioni comprensibili anche sotto capodanno, Paolo. A mia difesa posso per ora solo aggiungere queste note schematiche:

      – ho pubblicato finora solo alcuni assaggi del lavoro che chiamo *narratorio* (‘Barunisse’, il cap. 1 di ‘A vocazzione’ e, in passato, alcuni “capitoletti” di UNIO), scegliendoli casualmente, per avere un qualche riscontro dagli amici che mi conoscono per lo più come polemista e commentatore critico;

      – chiamo *narratorio* questo lavoro perché sento che non si può risolvere ( a meno di inaspettati sviluppi, di cui dovrei convincermi ma che per ora non intravvedo) in *racconto*, come comunemente inteso e come tu suggerisci;

      – sì, sento di dovermi muovere – non so se temporaneamente o meno – proprio sul “piano ambiguo” ( o meglio: pluridirezionale), che si sporca di “meta-narratologia” (all’ingrosso) e di preoccupazioni “storico-economico-sociologiche” o, come mi ha fatto notare Rita Simonitto, in senso lato “scientifiche”, non avendo chiaro il *destino* ( o la *destinazione*) di questo lavoro. Come mi pare abbia intuito Mayoor quando scrive: “Capisco che tu non possa immaginare quale sarà la comprensione finale di questo percorso”, anche se non mi sento di dire con sicurezza che si tratti di “una scrittura onirica, sebbene governata dalla ragione”.

  11. …secondo me, la poesia in dialetto di Ennio commuove tanto perchè in qualche modo diventa l’apice della narrazione precedente, il luogo ove coralmente concedersi “A lengua ra malincunie” per raccontarsi storie e storie di famiglia dal finale sempre triste, mentre prima si sono cercati i passaggi di vite familiari che hanno coperto più generazioni analizzandone i processi di trasformazione sociale, economica, quindi un maniera apparentemente impersonale e distaccata…alla maniera verista credo…che lascia tuttavia trapelare squarci di intensa tensione: chi scrive è ben presente…Ma forse bisogna averne letti diversi per vedere il filo rosso che unisce questi racconti…

  12. @Ennio Abate
    No, Ennio, le mie obiezioni non ti sono affatto “comprensibili” visto che nella sostanza le respingi in toto. Ma va bene così. Ognuno deve essere convinto del suo percorso. Anche se non me lo avessi espressamente chiesto ti avrei sempre “lealmente” manifestato il mio pensiero. Devo dirti allora che talvolta leggendo i tuoi “assaggi” di “narratorio” (parola che potrebbe essere cancellata da ogni dizionario della lingua italiana senza danno alcuno) – per non parlare dei documenti di Poliscritture 2 – ho avuto la netta sensazione di essermi inflitto un’autopunizione. Un’ autopunizione certo non così terribile come può capitare leggendo ciò che scrive un energumeno della letteratura che imperversa in altri blog, ma comunque capace di provocare un qualche fastidio. Dal momento che ho deciso di volermi un po’ più di bene è probabile che ti leggerò meno spesso. Ma tu continua pure convinto del tuo “narratorio”, della “rifondazione” e delle varie cose “esodanti” che ti saltano in mente. Non è detto che abbiamo ragione entrambi: tu a tenere in piedi “Poliscritture”, io a nutrirmi di altre letture. Un saluto

    1. @ Ottaviani

      A PROPOSITO DI COSE “ESODANTI”

      Forse recuperare questo scambio del 25 settembre 2015 può servire a riflettere sulle nostre ragioni contrapposte:

      • Paolo Ottaviani
      Grazie di cuore, caro Ennio. Davvero bello e di grande interesse questo tuo percorso artistico binario di poeta e pittore. Comincio finalmente anche io a capire cosa intendi quando parli di “poesia esodante”… ma quanto sarebbe stato più semplice e più bello dire subito “poesia dell’esodo”!… Mai avere paura di espressioni antiche se sono animate da spirito nuovo!

      • Ennio Abate
      Sì, “poesia dell’esodo” è più elegante e rassicurante. “Esodante” lo è meno perché rimanda alla fatica, alle incertezze, allo scontro in agguato, all’angoscia di quando non hai più una meta chiara, alla morte…

      • Paolo Ottaviani
      Più “elegante”, ma soprattutto più semplice e comprensibile certamente. Più “rassicurante” no. L’esodo verso l’ignoto – e senza neppure un Mosè – non può rassicurare nessuno.

      Ennio Abate
      Siamo quasi d’accordo: è quello che c’è dietro la parola – sia essa ‘esodo’ o ‘esodante’ – che non è chiaro. Se riusciremo a intendere di più, sarà più facile capire se era più adatta l’espressione antica o quella più “brutta”. Ci sono esperienze da fare e che oggi paiono impossibili, perché forse ci siamo troppo consolidati su quelle che abbiamo vissuto. E poi è il contesto, l’esterno che ci pressa. Io sento la potenza negativa di questo contesto e dico ‘esodante’, “abbruttendo” la lingua. Tu forse sei più fiducioso che l’espressione antica ti protegga da questa potenza negativa e la usi con maggiore convinzione. Forse…

  13. @ Ottaviani

    No, non va bene così. Comprendere le tue obiezioni non vuol dire che le debba condividere. Le ho respinte sì, ma argomentando. Tu replichi con nuove punzecchiature nei miei confronti e tiri in ballo anche il documento di Poliscritture 2 ( che è lavoro non solo mio ma dell’attuale redazione) e ti dici infastidito senza chiarire le ragioni. Non ha senso continuare a dialogare. Ti auguro buone letture.

  14. Mi chiedo se abbia senso pensare che tutte le poesie dovrebbero essere scritte per levarsi dal tempo. Quando un autore ci riesce, come ha fatto Paolo Ottaviani con la poesia “Fiorita dopo un anno” ( su La presenza di Erato), allora non si avrebbe niente da ridire – anche se Ottaviani tende a lucidare la tradizione .
    In questa sua nuova fatica, Ennio scrive da sommozzatore, totalmente immerso nel tempo. Serve un linguaggio trattenuto; anche perché immagino che non si vorrebbe scrivere un romanzo. Né un poema. Niente di quello che è stato andrebbe bene.
    Secondo me così ragiona un vero autore.

  15. @ Ottaviani

    E anche questo commento:

    11 luglio 2015 alle 19:02

    @ Ottaviani

    in esodo, ti dico, in esodo
    vai anche da vecchio solo
    non chiedere compagnia d’altri
    scruta le loro parole ma scostatene –
    metti le tue non nel lattiginoso silenzio d’infanzia
    ma nel secco rugoso tempo della vecchiaia
    esiste un filo tra le letture che qui si fanno
    e le poesie che si scrivono a notte o all’alba? forse
    ma abbiamo problemi di vele afflosciate
    lamenti grida e nenie di comunità disfatte
    e il testardo fanciullesco io – io che sempre lui! –
    reclama coccole tra le braccia di decrepiti saggi
    stacci sui blog – ma non crederci! riga dopo riga
    mentono sgambettano azzoppano ghignano
    nella brace d’opinioni cerca solo i tizzoni ardenti
    ancora – afferrali, soffiaci su, cammina svelto e solo
    compagni per ora non ce ne sono

    1. Sempre fedele alla lezione di Fortini. Notare che (purtroppo) anche lui se n’è ito. Difficile congiungere lo sguardo “fuori” con lo sguardo “dentro”. Per mia esperienza dico che serve uno stop, una parentesi di – solo apparente – egoismo.

  16. @Lucio Mayoor Tosi
    “Un vero autore” non si occupa granché della propria opera certo che saprà affrontare da sola le intemperie del mondo e sopravvivere.
    Chi invece sta lì continuamente a difendere il suo operato, si offende per le critiche e le ironie e ossessivamente ne chiede puntuali spiegazioni razionali si comporta come quel genitore che non si fida del proprio figliuolo. Certo che se il pargolo ha seri problemi…

    1. @ Ottaviani

      Vedi che il pargoletto acido sei tu. Presentandoti con “faccia d’uom giusto” (“Ennio è un uomo intelligente, autocritico e buono e mai me ne vorrà!”), ti sei messo a fare le pulci al mio lavoro come un arcigno professore di liceo. E continui a sbeffeggiarmi indirettamente, senza nominarmi. Mi spiace solo di aver tentato ancora di dialogare con te. Chiuso.

  17. Ho sognato Franco Fortini. Era seduto sulla cattedra di una scuola elementare. Nei primi banchi c’era un bambino in grembiulino nero e fiocco azzurro come si usava ancora negli cinquanta del secolo scorso. A un certo punto il Maestro Fortini si alza dalla sua sedia e si dirige velocemente verso il banco del bambino urlando: “io ho detto ‘in esodo’ e tu hai storpiato questa parola sacra, somaro!” E giù, un sonoro ceffone. Allora intervengo io, un po’ intimorito, ma intenzionato a difendere il malcapitato: “Ma Maestro! Ennio ha sbagliato ma non voleva offendere…”. “I cretini non vogliono mai offendere!” Fu la bruciante risposta. Poi, rivolto a me con voce ormai rasserenata: “Io e te ci vediamo dopo”. Nel dubbio di aver ricevuto una minaccia o una promessa mi sono svegliato.

  18. Abate apre dichiarando che parla ai poeti morti, i poeti di allora, che nel frattempo sono morti. Perché invece parli a quei poeti morti dobbiamo scoprirlo nel testo. (Forse non è congrua la risposta che “si darebbe” Ottaviani.) Significa che compie un viaggio agli inferi, anch’egli, poeta, tra ciò che non esiste più – non *esiste* ma *è* – in un viaggio/dimensione fuori dal reale presente, ma nella realtà della parola, poi scrittura. E poi letteratura, una sottocartella.
    Il viaggio fuori dal tempo è anche la non continuità della vita, le rotture di cui è composta, rispetto alla continuità e linearità delle scansioni del tempo calendarizzato. Adagiare la successione vitale in un alveo fisico, sia pure accidentato come quello di un fiume (il fiume della vita), è gia una impresa “per la serie di rotture dolorose e a volte luttuose […] i ricordi deformati o caricatisi d’altro: dei doveri … dei mascheramenti nei sogni “. E poi ci sono le intersezioni, contaminazioni, espropriazioni, cessioni di sé. Da tutto ciò si può forse immaginare una nascita complessa, come da un uovo o da una placenta da cui occorre liberarsi (ma un tempo erano i “nati con la camicia”).
    Successivamente Abate esplora il tema del caso, ipotesi ucroniche, di storia controfattuale: se… se… sarei ancora io? Chi sono (Chiero) oltre gli eventi che mi hanno  forgiato? Ma allora le scelte di andarmene dove si innestano, sono casuali o hanno una profonda radice? Nel caso, o in un ancora sconosciuto me stesso?
    La prima rottura è Salerno, ma rimanere a Barunisse non avrebbe garantito una continuità naturalistica e pagana “non è poi … che il rimanere in campagna mi avrebbe procurato meno ‘repressione’ di quella che assorbii frequentando assiduamente la parrocchia di San Domenico a SA”.
    Non solo la povertà inaridisce l’anima e la coarta perchè fa introiettare l’oppressione (per quanto nonna Francesca “fin che ebbe forze pretese anche di passare il suo mestiere di contadina ad alcuni dei nipoti. Voleva che proseguissero la sua stentata attività dint’a terre. E per questo forse divenne odiosa ai loro occhi” perchè “quell’economia non reggeva più”, si lavorava anche in fabbrica, e si poteva finire storpi), ma la stessa vocazzione non deve essere riportata alle più generali categorie di desiderio e di bisogno?
    Giustamente scrive Mayoor che “non si tratta semplicemente di entrare nei ricordi”, ma “di ‘aver trovato’ un qualche bandolo e poi invece non è così” scrive Rita Simonitto “e procedi in attesa di nuovi elementi”. Quindi, ha notato Mayoor, “capisco che tu [Ennio] non possa immaginare quale sarà la comprensione finale di questo percorso.”
    Già in precedenza, nel testo A vocazzione, Ennio era intervenuto su Autore e Narratore, Chiero, chi-sono, “e chi-sono (o credono di essere; o credo siano) quelli con cui vivo mentre scrivo…” tagliando le questioni con la necessità sì e no della maschera. “Tanto io … mi regolerò di testa mia”, appunto! Io chi? la mia testa?
    Testa vale etimologicamente per vaso; ma testis, per Benveniste, nel Vocabolario delle istituzioni europee, è colui che assiste come terza parte in un affare che ne coinvolge due. Probabilmente non c’entra con il capo, ma nell’immaginazione…

  19. …nelle narrazioni memoriali di Ennio Abate ritrovo spesso la mia come quelle di molte altre persone della stessa generazione (e limitrofi) che ormai si dispiega su due secoli, una parabola con molti punti in comune: dalla campagna delle origine alla città, dall’oratorio ad altri credi, dalle varie rivoluzioni alle delusioni e ai fallimenti, sino ad una ripresa sofferta di convinzioni e di azioni…Per questo rivestono un valore personale e collettivo insieme. Si tratta comunque di storie aperte, ben lontane da un finale preconfigurato, aperte al dubbio ma anche alla vita e al futuro e lontane anni luce da ogni forma di rigidità mentale (mortale)

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