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quando c’erano gli etruschi

di Angelo Australi

[..] intanto le nuvole gareggiano per il premio di bellezza / e la corsa ad ostacoli sembra più lunga / l’erba mi guarda passare senza lamentarsi. (René Corona dalla poesia Artrosi e dintorni, “I bucaneve dell’altrove”, Book Editore 2023)

Racconti-Fiore! Teniamoli buoni per la brutta stagione… (Annamaria Locatelli, commento al racconto un paesaggio di nuvole, uscito su Poliscritture)

Dopo aver preso la camera in albergo era mia intenzione raggiungere le tombe etrusche disseminate in un percorso di campagna lungo sei chilometri. Un strada da fare a piedi, tra gli olivi. Per non girare a vuoto avevo un dépliant con le indicazioni sul tragitto di strade sterrate e tanto di foto dei siti archeologici che mi aveva dato Spartaco. Abbiamo entrambi lo smartphone, ma quando l’altra sera sono andato a cena da lui, ha insistito a darmi questo pieghevole che aveva conservato da anni. Era una di quelle rimpatriate di vecchi amici che usano la scusa di una cena per parlare della vita e non perdere i contatti. Le facciamo con il pretesto di qualcuno di noi che oramai abita altrove e ogni tanto arriva in paese per una visita veloce. In questo caso, non potevo perdermi l’occasione di salutare Massimo e Lorenza, che vivendo a Torino non vedevamo da svariati mesi. In questi ritrovi è come stare in famiglia perché, può sembrare assurdo, ma anche noi che abitiamo nello stesso paese, a volte passano delle intere settimane senza riuscire ad incontrarci. Non lo facciamo per un motivo, solo che ognuno è preso dal correre dietro alle sue rogne quotidiane. Sicché le cene che facciamo sono importanti per mantenere un legame. Nessuno si sognerebbe mai di mancare, stare insieme una volta ogni tanto è il nostro modo di fregare il tempo che passa. Qualche volta è capitato anche a me, di averli ospiti tutti quanti a casa mia, ma da quando ho divorziato mi sento un essere fuori dal mondo. La cosa è fresca, ci siamo lasciati solo da sei mesi, dopo un annetto che l’ultimo dei nostri figli si era fatto la sua famiglia. Abbiamo tre figli, Mauro, Anna e Roberta, e tutti si sono costruiti una vita lavorando in città molto distanti da Oriale. Mauro, il più grande, circa due anni fa si è trasferito a Barcellona per lavorare da medico in ospedale, la sua compagna partorirà ai primi di febbraio del prossimo anno. Quando si è allontanato anche lui, il nostro modo di vivere è cambiato drasticamente, non riuscivamo a trovare più la passione di fare le cose insieme. Un anno e mezzo è poco tempo, ma stranamente dopo trent’anni di vita coniugale ci siamo sentiti un po’ come degli estranei. Io ho sessantatré anni e penso di andare in pensione nel 2023, cioè fra quattro anni, mentre Sandra dovrà lavorarne ancora una decina. Non ci andava più bene niente di quello che facevamo insieme. Ci abbiamo provato a dare una scossa alle nostre abitudini, ma non è successo granché. Alla fine, pur di lasciarle la nostra casa, in via temporanea ho deciso di ristrutturare alla meglio quelle stanze dove hanno abitato i miei genitori negli ultimi anni, prima di morire nell’arco di pochi mesi uno dall’altra. Non ci siamo separati a cuor leggero, per quanto mi riguarda ci sto ancora male. Era una sofferenza anche quando stavamo insieme, ma adesso è molto peggio, sento come se il dolore fosse entrato nelle ossa, a togliermi lo stimolo vitale in tutto quello che faccio. Evito le compagnie, e quando sono al lavoro penso solo al momento che arrivi questo cazzo di pensione. Non ho più voglia di far niente.
L’idea di trascorrere un fine settimana nei luoghi degli etruschi è nata mentre esponevo a Spartaco i problemi che stavo incontrando con il recente divorzio. Tutti sapevano della nostra separazione, ma questa era la prima volta che ne parlavo entrando in confidenza con gli amici. Alla cena era stata invitata anche Sandra, che all’ultimo momento si era inventata un pretesto per non esserci. L’aveva invitata Ambra, la moglie di Spartaco. All’improvviso lui si è messo a parlare di questo borgo della Maremma pieno di attrattive, dove la mia crisi di solitudine affettiva forse avrebbe trovato una tregua. Non ero così fiducioso di superare il senso di costante isolamento in cui mi aveva lasciato la separazione con Sandra facendo un viaggio nel fine settimana, ma comunque, nel suo modo di parlare, c’era un entusiasmo che mi aveva contagiato. Ci ho pensato due giorni, e visto che Sandra non mi usciva dalla testa, allora ho deciso di seguire il suo consiglio. Il mese di novembre non è il periodo migliore per farsi certe scampagnate, ma se Spartaco vuole aiutarti manda questi segnali a volte anche strampalati. In un certo modo è così riservato che non chiede di confessarti, semmai ti lascia sfogare per mezz’ora, e quando trova un appiglio nei tuoi discorsi, prova ad incuriosirti raccontando qualcosa per distrarti dal magone che ti opprime. Oramai lo conosco, la sua non è indifferenza, lo fa per amicizia.  Solo che, quando inizia a parlare, Spartaco immagina sempre quello che non c’è, ci mette dentro così tanta roba che non puoi non andargli dietro. Di quello che lui dice magari è vero solo una metà, ma quando lo senti parlare non puoi fare a meno di crederci fino in fondo. Oggi abbiamo i capelli bianchi, ma con lui è sempre stato così, per tutta la vita non ha fatto che ingigantire il mondo cercando di trovare qualcosa di positivo anche nella rabbia che ci mette per vivere. Da quando poi si è messo a scrivere, non ne parliamo: ogni volta che c’è modo di stare insieme un po’ di tempo, si ha l’impressione di fare il giro del mondo anche se parla solo di cosa ha immaginato esistesse nelle quattro strade del nostro paese. Magari lì per lì non comprendi dove ti sta portando, ci ripensi sempre un po’ di tempo dopo, quando sei per i fatti tuoi.
Di questa uscita del fine settimana lo avevo accennato telefonando ad una delle figlie, che mi ha subito smontato ogni entusiasmo dicendo fosse una fesseria. In novembre si va per musei in città, le giornate si sono accorciate, e in questi paesi spersi nel nulla si muore di noia. Non le ho dato ascolto, anche perché mica ci tenevo così tanto a stare tra la folla.
La camera sembrava arredata con i modelli che andavano di moda negli anni settanta dell’altro secolo. A cominciare dai mobili per finire al letto, tutto aveva qualcosa di familiare con il tempo che ero stato bambino, qualcosa di cui anche i miei genitori si erano velocemente liberati appena fatti un po’ di soldi lavorando in fabbrica. Un vero disastro, il letto cigolava, in bagno non avevi lo spazio neanche per farsi il bidè in modo decente. Della doccia ricavata in un sottoscala poi non ne parliamo, era tutta un’invenzione che lasciava disgustati. Non c’era uno specchio, nell’impagliatura di una delle sedie ristagnava uno spesso strato di polvere oramai calcificata. Avevo aperto la finestra nonostante il freddo, ma persisteva sempre un forte odore di chiuso. Non lo so, era come se si fosse incrostato sulle pareti. Tanto per restare in tema con il motivo della vacanza, mi sentivo come un tombarolo che entra in una tomba dove nessuno ci ha fatto visita da quando degli etruschi l’avevano sigillata con un masso. Ero in preda allo sconforto, ma il borgo ad alberghi non offriva altro. Imbecille io a venirci di novembre, per visitare un luogo di cui Spartaco mi aveva così tanto parlato senza un accenno alle cose pratiche. Magari lui riesce ad immaginarle e te le vende per vere, ma a livello di ospitalità, con l’albergo si cominciava proprio male. In quel disastro stentavo a percepire qualcosa di bello. Però c’era il dono che dalla finestra il paesaggio sembrava entrare direttamente in quella stanza, la sua ampiezza conquistava lo sguardo con una sicurezza che al mattino quasi squagliava la luce riflessa del sole. La visione sulla pianura si prolungava fino alla città, e intorno c’erano quei monti vestiti dal bosco che bruscamente si slanciavano dal livello pianeggiante fino a trovare sulla cima un borgo come questo a fargli da cappuccio. E poi, sullo sfondo, ma proprio in forma infinitesimale, si scorgeva un angolo di mare che bisognava fissare intensamente per non confonderlo con la nebbia novembrina che si alzava sulla striscia della pineta.

Se restavo in quella camera ancora per molto, mi avrebbe assalito un bagaglio di tristezza incontenibile. Sicché ho messo la borsa da viaggio nell’armadio e sono uscito. Alle dieci del mattino ero già in strada, perché avevo voglia di un caffè. Sono incappato nell’unico bar esistente quasi per caso, seguendo dei cartelli che indicavano la direzione da prendere per uscire dall’abitato e raggiungere la zona delle tombe etrusche. In quel punto della strada le case formano un arco buio per almeno un trenta metri, creando quell’oscurità che persiste in ogni momento della giornata. Dietro a quella porta ad arco che ricordava l’ingresso di una grotta scavato nella viva roccia, non c’era niente che indicasse l’esistenza di un luogo di ristoro. Magari un’insegna. Niente. Non c’era nulla. Era un buco fognoso, che ci si faceva luce a malapena con il pensiero. Mi ero voltato a guardare solo perché da lì usciva della musica ad un volume così alto da risvegliare i morti. Era una canzone degli Inti-Illimani, un gruppo musicale che andava tanto di moda al tempo del golpe di Pinochet in Cile.
Così mi sono incuriosito e ho deciso di entrare in quello spaccio di generi alimentari che era anche edicola e bar tabacchi. Sulla parete del locale dove alcune sedie sparpagliate facevano da contorno ad un paio di tavolini rotondi, stavano appese una moltitudine di vecchie fotografie scattate agli abitanti del borgo. Immagini con gruppi di persone, messe in posa in occasione di qualche ricorrenza, ma anche contadini sull’aia nel giorno della battitura del grano, scorci del paese, botteghe di artigiani, gruppi di minatori che stazionavano accanto ai carrelli da trasporto del materiale di scavo in miniera. La parete opposta ospitava le scaffalature dei generi alimentari. Nella controfacciata dell’ingresso, proprio come in una chiesa, invece era appesa la bandiera rossa con la celebre immagine del “Che”, affiancata a una grande foto che lo ritraeva insieme a Fidel Castro.
Stavo sorseggiando un caffè così lungo che mi sembrava alluvionato, quando un uomo si è avvicinato al banco per ordinare una sambuca che ha ingoiato d’un fiato, dopo di ché si è messo a parlare e a fare battute con la barista, cercando di catturare anche la mia attenzione. Nel frattempo entrava una signora bionda, bella prosperosa, che ha lasciato dei soldi sul banco ordinando una sambuca per se, una per l’uomo che parlava con la barista, e offrendola anche ad un vecchietto seduto ad uno dei tavoli, tutto intento a leggere il giornale. Ha bevuto anche lei ridendo ed entrando in conversazione con le altre persone presenti nel locale, perché a quel punto anche il vecchietto che stava leggendo il quotidiano si è alzato per avvicinarsi al bancone con un gesto vagamente teatrale. Per trovarsi a quel grado di eccitazione nel parlare, avevo l’impressione che di quei gottini un po’ tutti si fossero già impegnati a berne una certa quantità. Anche la donna bionda, pur nascondendosi dietro degli occhiali da sole, secondo me era ubriaca. O ubriaca o pazza. O tutte e due le cose insieme. Uscendo ha lasciato pagati dei bicchieri di vino per alcuni uomini che stavano conversando sotto l’arco, poco distanti dal bar.
Uscita la bionda è entrata un’altra donna sorreggendo un vassoio con delle gigantesche fette di torta alle mele che pretendeva di offrire a tutti i presenti, me compreso. Ho cercato di spiegarle che avevo appena bevuto il caffè, ma lei ha insistito così tanto che, se non avessi accettato, mi sarei sentito una merda. Così ho mangiato la massiccia fetta di torta. A fatica, perché il mattone non andava giù, ma l’ho mangiata.
– Che hai messo nella torta di mele, Celestina? La polverina che fa rizzare l’uccello a tuo marito? – Ha detto l’anziano entrato nel locale subito dietro di me.
– C’ho messo la grullaggine di quando sei ubriaco.
– Lasciamelo dire, sei proprio una maga, quando ci fai assaggiare i tuoi dolci con la polverina.
– E te, quando bevi al mattino, sei il solito bischero – ha risposto lei, ridendo in modo scoglionato.
– Dov’è Ettore?
– All’orto, … sta zappettando le erbacce tra le piante dei carciofi.
– L’ha assaggiata, questa bella tortina di mele?
– Più tardi ne porterò una fetta anche a lui. Puoi stare tranquillo, non lo trascuro il tuo amicone.
– E fai bene Celestina, quell’omino lo devi trattare di lusso. Se lo merita, dopo quello che ha faticato nella vita.
– Giancarlo, ti saluto.
– Stammi bene – ha detto l’uomo.
Prima di uscire dal bar anche quella donna di nome Celestina ha lasciato i soldi sul tavolo per delle bevute che offriva ai presenti.
– Ci scusi, sa – mi ha detto la barista ridendo, – ma se in paese non ci fossero questi quattro o cinque matti, non sapremmo come fare a vivere. Bevono, ma sono divertenti, non hanno addosso il cattivo e se bisticciano lo fanno senza tenersi rancore. Fino a pochi anni fa eravamo quasi seicento abitanti, oggi appena duecento, e meno male che ci sono loro.
– Tanti vecchi, e pochi bambini – ha detto un altro che si era aggregato alla discussione.
– I bambini si contano nelle due mani.
Non ha parlato Giancarlo, ma ancora qualcuno che stava alle mie spalle.
– No – ha precisato la barista, – sono un po’ di più. Per esempio l’altro giorno Alessandra ha partorito una bella bambina di tre chili e mezzo.
– Sì, ma siamo lì… Dieci, dodici… Gemma, quello che voglio dire è che non fa nessuna differenza.
Così ho anche scoperto che la barista si chiamava Gemma. Nome azzeccatissimo, perché i suoi capelli brillavano con la lucentezza di un diamante.
All’improvviso si sono messi un po’ tutti a fare dei conti sui bambini del borgo, e intanto sfruttavano l’occasione di bere quanto offerto dalla due donne appena uscite. Finito con le bevute a gratis, il resto lo pagavano di tasca propria. Per non perdere il conto, ad ogni bicchiere lasciavano il dovuto sul banco.
– Durante l’estate, i bambini diventano un centinaio. Con la gente che viene in villeggiatura, il borgo si popola.
– Me lo sapete dire cosa gli conviene a dei giovani metter su famiglia in questo budello di paese? Fare uno, due, magari tre figli?
– Già, è così.
– Io ai miei, non gli ho mai rinfacciato che se ne sono andati per avvicinarsi al posto dove lavorano.
– Per frequentare la scuola, i bambini prendono il pullman del Comune ogni mattina.
– Si fanno delle levatacce che neanche quando si lavorava nei campi, ci si alzava così presto.
– O in miniera.
– Esatto, o in miniera.
– Poveri bambini. Ci vuole una bella costanza.
– Ti metti a compatirli?
– Nient’affatto!!!
– Se dovesse compatirli si berrebbe una damigiana di vino – ha urlato la barista facendo un sorriso.
– Ma qui sembra tutto fermo al tempo degli etruschi! – L’ho fissata negli occhi, nella speranza di capirci qualcosa.
– Magari! – Mi ha risposto mentre strofinava un panno sul piano del bancone. – Almeno quando c’erano gli etruschi, questa era una metropoli.
– Quando a Roma si viveva ancora in capanne fatte di fango – ha precisato il vecchietto che prima leggeva il giornale, – in questa nostra città si campava da nababbi.
– Te avresti comunque lavorato la terra, però.
– E questo che vuole significare?
– Puoi bere quanto ti pare – gli ha detto la barista scuotendo la testa, – ma non devi metterti in testa idee sbagliate.
– Non puoi capire, sei venuta a viverci da fuori, ma io le scuole le ho fatte qui.
– Fino alla quinta elementare – ha precisato Giancarlo, gesticolando con le mani come un direttore d’orchestra.
– Esatto, fino alla quinta elementare. Ma mi è bastato, per vivere.
– Anche a me è bastato, per lavorare come un ciuco.
– C’erano tutte le classi. La prima, la seconda, la terza. La quarta e la quinta.
– Tutti mescolati, bambine e bambini.
– Come no! È così vero che a quell’età, in classe ci si trovava anche moglie.
– Io no, ho sposato una francese – ha detto Giancarlo ridendo, come se in quel punto volesse esprimere uno sfondone.
– Si, … la francese che si chiama Samuela Paciocchi, stava in classe con me.
Ha ribattuto uno dei nuovi arrivati, mentre gli stava dando una pacca sulla spalla. Giancarlo si è voltato.
– Lo sai, davvero, che non lo ricordavo. Sicché come millesimo sei del ’42?
– Come la tua bellissima moglie francese.
– Sei più giovane di appena un anno, eppure rispetto a me sembri già da assistenza senile.
– Tieh!!!
– Vede bene che non posso avere problemi a riempire le giornate?
La barista mi ha guardato, mentre la mano che scivolava sul bancone richiamava con lo straccio chissà quale magica danza.
– Penso di capire.
– Non sono cattivi, fanno solo ridere. Così tengono compagnia. Ubriachi da finire qualche volta a dormire per strada, se uno la moglie non viene a prenderselo, ma non è mai successo che andassero in escandescenze. Con questa desolazione, in paese ce ne sono altri che bevono. Però lo fanno di nascosto… Forse perché si vergognano. La solitudine fa fare dei brutti scherzi al cervello.
Le ho risposto che riuscivo ad immaginarle, certe situazioni dove non si sa come impiegare il tempo.
– È in pensione?
– Ne ho ancora per qualche annetto, da lavorare.
– Anche a mio marito, manca poco più di un anno. E quando lui andrà in pensione, … ho intenzione di chiudere bottega. Tutta questa gente qui non vuole ma, cascasse il mondo, giuro che lo faccio.
Intanto Giancarlo continuava la sua conversazione.
– In estate però ci cambia la vita.
– Te la vedi così, ma io tutta quella confusione la sopporto il giusto – gli ha rimproverato un anziano.
– Solo perché hai il carattere tenebroso, che non ti va mai bene niente.
– Mi va bene tutto quanto invece, ma io il chiasso non lo sopporto.
– Quando eri giovane avevi il coraggio di rompere i coglioni anche al padre eterno.
– Non è vero!
– È vero, sì. Porca paletta!
– No, che non è vero.
– Non te lo ricordi eh, il casino che facevi. Fiutavi la femmina come fanno i cani.
Quello che si chiamava Giancarlo, rideva e si guardava intorno burlescamente per conquistare l’attenzione del gruppo.
Alcuni gli sono andati dietro rispondendo in coro: – Sì, come no!
– Ora lasciami parlare, ci sono tanti modi di fare le cose… E comunque i turisti fanno troppa confusione.
– Che fai la sera, ti infili nel letto quando i polli vanno a dormire?
– No, che c’entra!
– Se il paese in estate si popola, fa bene alle tasche di tutti quanti. Trovare dei vantaggi non è un peccato. Lo fanno in tutto il mondo.
– Ohé, gente…, oggi pomeriggio chiudo la baracca alle sei… Sicché fate i vostri conti.
– Dove vai di bello, Gemma?
– Siamo a cena da mio figlio.
– Vai in città allora?
– Sì, è il compleanno del nostro nipotino.
– E così chiudi prima, … per farti bella.
– Lo sai, io sono sempre stata bella, …
– Lo sappiamo che sei una bellezza. Siamo tutti innamorati di te.
– Giancarlo, sei un tesoro. In un’altra vita ti ricoprirò di baci.
Gli ha ricordato la barista urlando sopra la musica, quando la salutavo uscendo dal locale.

Le indicazioni per raggiungere le tombe etrusche consigliavano di passare nelle vicinanze di una chiesetta con il tetto a capanna, dove all’interno era segnalato un affresco di scuola senese del XIV secolo che, essendo chiusa, non ho potuto visitare. Sul lato sinistro, guardando alla facciata, si alzano le mura ciclopiche che delimitavano l’antica città etrusca, un susseguirsi di immensi macigni squadrati dal peso di qualche tonnellata che si alzano fino a dove ci si appoggia la costruzione di una rocca medioevale. Guardando invece a destra della facciata della chiesa, si aprono le colline minerarie che descrive anche Luciano Bianciardi nei suoi libri. Mi sono seduto sul parapetto in pietra, con sotto una serie di tetti che spiovendo scendevano ripidamente su tre ordini. Ogni tanto guardavo le pietre, e ogni tanto mi perdevo con lo sguardo verso le colline metallifere così ricche di vegetazione.
Di ritorno dal giro alle tombe, stanco morto mi sono seduto in una panchina che si trovava nel parcheggio antistante il museo. Non so, saranno state al massimo le tre del pomeriggio. Il museo era aperto, ma ho preferito sedermi su quella panchina, prima di entrare. Poco dopo, proprio dove stavo seduto a controllare dei messaggi sullo smartphone, ha parcheggiato un’auto in retromarcia, dalla quale sono sbucate le gambe di un uomo che si è messo a mangiare un panino. Stava con lo sportello aperto, la testa in fuori, allineata con la punta della scarpe, probabilmente per non far cadere le briciole nell’auto. Poi si è avvicinato allo sportello posteriore, ha appoggiato sul tettuccio il panino rinvoltato nel suo incartamento e, alzando il piano che nasconde la ruota di scorta, ha estratto una bottiglia dell’acqua minerale colma di vino che si è messo a bere. Nonostante la panchina quasi sfiorasse il marciapiede, dietro l’auto lui si stava comportando come se non ci fosse nessuno.
Ero stanco morto. Nel fare il giro delle tombe etrusche, anda e rianda avevo fatto ben più di dieci chilometri. Mi sono stravaccato un po’ sulla panchina. Se anche non pisolavo, con quel tipo che girava a sbevucchiare intorno all’auto, prima di visitare il museo mi sarei riposato un po’.
Intanto l’uomo ogni due morsi al panino usciva di macchina, apriva lo sportello posteriore a tracannava un bel sorso di vino. Festa grande: una vacanza di novembre, vissuta in compagnia degli ubriachi. Mi è venuto di pensare.
Ho cercato di dormire ma non ci riuscivo, perché la panchina era maledettamente scomoda. Così sono entrato a visitare il museo.

Anche se il museo era pieno di reperti, quelli importanti stavano collocati in quello della città, dove ci sono più visitatori. Di tutto ciò che avevo visto, quando sono uscito mi restava nella mente un elmo da guerriero ben conservato e un’urna cineraria di terracotta, fatta a forma di capanna.
Proprio nei pressi dell’albergo c’era una piazzetta panoramica. Al muricciolo che si affacciava sulla pianura sottostante, da dove giunge il profumo di salsedine anche nel mese di novembre, ho intravisto Giancarlo, che mi ha subito riconosciuto. Stava seduto sul muretto insieme a qualche conoscente. Nessuno di questi era tra quelli incontrati al bar di mattina. Allora mi sono avvicinato, per poterci parlare.
– E’ stato a visitare le tombe?
– Sì, ho fatto anche una bella faticata – gli ho risposto ridendo.
– In collina funziona così, è tutto un saliscendi. Però deve visitare anche l’acropoli, per capire quanto era grande la nostra città quando ci vivevano gli etruschi.
– Lo farò domani, in mattinata.
– Ci sono dei punti che le mura della città sono costruite con massi grandi come una casa, che forse sono riusciti a trasportarli solo con una specie di magia.
– Ne ho già ammirato un tratto, vicino alla chiesetta. In fondo al paese.
– Ma quello non è niente, rispetto alle muraglie nascoste dal bosco.
Nel parlarmi le parole gli si impastavano in bocca, ma aveva gli occhi che ancora ridevano come al mattino.
– Dove sono i suoi amici di stamani?
– Non lo saprei dire.
– Forse al bar?
– Mah! … Il bar è una tappa del nostro girare intorno al paese. Si gira e rigira, come dei bambocci, specialmente in questa stagione che non c’è niente da fare nemmeno all’orto.
– E i bambini del paese, quanti sono allora?
– Con Gemma siamo arrivati a dire che sono quindici.
– Se aumentano con il passare delle ore, domani ne spunteranno altri – gli ho risposto ammiccando. – Bambini che sbocciano come i fiori. Le sembra poco?
– Mezzo brillo come sono sempre, dovrei essere io a vederli raddoppiati, ma mi sa che non funziona così. Di coppie giovani che possono fare dei figli al paese ne restano poche. Lei ha dei nipotini?
– Non ancora. Ma se tutto va come dovrebbe, a febbraio del prossimo anno sarò nonno di una bella bambina.
– Io ne ho due, che non vivono in paese.
– Pensa un po’, mio figlio e la sua compagna abitano a Barcellona. Fa il medico in un prestigioso ospedale della città.
– Boia! Mica è qui, … dietro l’angolo.
– Sì, in effetti, non è che ci possiamo incontrare molto spesso. Però, mi creda, il mondo è piccolo lo stesso.
– Mia figlia per fortuna vive nella città che si vede in fondo alla valle. Se non si fanno vivi, dopo quindici giorni prendo l’auto e li raggiungo a casa sua. Sono io che ci tengo, … e, alla fine, anche mia moglie mi perseguita per andare a trovarli.
– I bambini mettono voglia di fare.
– Con l’auto arriviamo in mezz’ora.
– Lo so dov’è la città, per venire qui ci sono passato.
Non gli ho detto che ero divorziato, ma che senz’altro, quando nasceva la bambina di Marco e Caterina, sarei andato a conoscerla insieme a Sandra. Poi l’ho salutato dandogli appuntamento al bar per il giorno dopo, dove avremmo fatto colazione insieme. Con quel fare colazione insieme, era sottinteso che gli avrei offerto da bere. In fondo Giancarlo mi restava simpatico.
Andato giù il sole faceva buio molto in fretta e il freddo umido era diventato all’improvviso più pungente. Rientrando in albergo poi ho trovato il coraggio per farmi una doccia calda in quello sgabuzzino di bagno che mi era concesso.

Sono uscito di nuovo per cenare in un ristorante immerso tra gli olivi. Qui è venuto a preparare il tavolo l’ometto del pomeriggio. Sì, quello del vino tenuto nel portabagagli della sua auto che, quando prendeva la bottiglia dal nascondiglio, sembrava considerare la sostanza di un tesoro stratosferico. Era il proprietario, oramai ubriaco fradicio, che a questo punto ho immaginato bevesse di nascosto ai suoi familiari. Mentre apparecchiava e prendeva le ordinazioni ha detto che non ero una faccia nuova. Era serio, quando mi parlava. Di un serio quasi diffidente.
– E’ già stato qui, … a mangiare da noi?
– No, questa è la prima volta.
Ho ordinato una sorta di minestrone tipico della tradizione etrusca che oltre alle verdure dell’orto aveva in aggiunta delle erbe di campo tra cui il timo, la cicoria selvatica e la nipitella. Per secondo, invece mi sono mangiato uno stufato di manzo cotto con funghi e fagioli.  Da quella fetta di torta alle mele che mi era stata offerta la mattina nel bar, in tutto il giorno non avevo mangiato nient’altro, e dopo una giornata all’aria aperta adesso sentivo un grande appetito, sicché, per finire in bellezza, come dessert ho preso anche una bella porzione di zuppa inglese. Poi ho chiesto il conto.
– Pagamento in contanti o con il bancomat?
– In contanti, … in contanti.
– Eppure lei non è una faccia nuova. L’ho vista da qualche parte, ma non ricordo dove. Forse in Tv?
– No, per carità – gli ho risposto scuotendo la testa. – Semmai per le strade del paese, visto che è da stamani che lo sto percorrendo in lungo e in largo.
– No, in paese no. Sono rimasto tutto il giorno qui, intorno al mio ristorante. Però la sua faccia non mi è nuova, ne sono certo.
Non dicendo dove mi avesse incrociato ho voluto essere discreto, per non metterlo in difficoltà. Lui ormai aveva gli occhi rossi e le pupille deconcentrate, e camminava a passi piccoli e lenti, tanto che temevo inciampasse nei suoi piedi da un momento all’altro. Qualcosa di simile doveva provare anche sua moglie, o la figlia, che ogni tanto si affacciavano con imbarazzo dalla cucina per assicurarsi non combinasse un guaio.

Quando mi sono incamminato verso l’albergo per andare a dormire, ho incrociato solo un gatto che attraversava la strada per finire a rimpiattarsi sotto un’auto del parcheggio. Di fianco ad una fonte che buttava appena un pisciolo d’acqua, c’era un tabernacolo con dentro la riproduzione incorniciata di una famosa natività del Ghirlandaio. L’immagine, esposta alle intemperie, era molto danneggiata. Sopra la fonte un’antica lapide di marmo portava incisa la scritta FONTE LATTAIA, e una data in numeri romani: MDCCXXXV. A quell’ora la luna ritagliava una striscia di luce dietro la fila di case che era più forte di quella di un lampione seminascosto tra gli alberi.

BREVE NOTA: il racconto è stato ispirato da Lo Sceriffo di Daniele Barni. Un racconto anch’esso pubblicato su Poliscritture, a settembre di quest’anno. Nella foto è riprodotto un tratto di mura ciclopiche dell’antica città etrusca di Vetulonia, ma in verità, per quanto riguarda l’ambientazione, il borgo è l’insieme di tanti piccoli paesi reali della Maremma visitati spesso nel corso degli anni, che nella manipolazione della scrittura ne fanno una località immaginaria. Perché a nessuno venga il desiderio di cercarci un paese reale dove tutti si ubriacano, ho preferito non dargli un nome.

novembre 2023

Anche i fenicotteri (sporchi) emigrano

NARRATORIO/PROF SAMIZDAT (AGOSTO 1982)

di Ennio Abate

Sto lavorando al mio “narratorio” in prosa.  Ho chiare in mente le sue suddivisioni principali, che in qualche occasione ho già indicato (Salernitudine, Immigratorio, Samizdat, ecc.).  Mi è difficile, però, riordinare e sintetizzare i troppo  numerosi e spesso ripetitivi appunti che – non so se obbedendo a qualche strategia da “narratore interruptus” o in preda a  certe nevrosi  da scrittori clandestini e isolati – ho seminato, spesso dimenticandomene, qua e là in molti anni (almeno dagli Ottanta). In  quaderni, taccuini e foglietti volanti scritti a mano. In dattiloscritti  di decenni fa (fino a metà dei Novanta) mai più riletti.   E più di recente in file sul PC più facilmente consultabili. Ogni tanto trovo e rielaboro qualche testo come questo. Che appare a me stesso di non facile interpretazione e collocazione  nello schema-progetto che mi sono fatto.  [E. A.]

Continua la lettura di Anche i fenicotteri (sporchi) emigrano

Il Tonto e la società dello spettacolo

 

di Giulio Toffoli

Sono a fare il checkup semestrale alla Poliambulanza.
Entro e dopo aver atteso il mio turno agli sportelli mi avvio verso la zona dei prelievi. Sono lì seduto in attesa che esca sul monitor il mio numero e vedo uno, tutto scarmigliato, che cammina a larghe falcate per il corridoio con uno strano soprabito che sembra quasi un camice, bianco e lungo, con due code che si perdono nell’aria. Lo guardo bene e dico fra me e me:
“Ma sì, è lui – allora lo apostrofo ad alta voce con il classico – Ehi Tonto come va?”
Si voltano verso di me in quattro o cinque e mi guardano in cagnesco, quasi a dirmi:
“Ma chi l’ha autorizzata? A chi dà del tonto … Non si permetta …” Continua la lettura di Il Tonto e la società dello spettacolo

Il Tonto e la ragion (sessual) sufficiente

Dialogando con il Tonto (18)

 

di Giulio Toffoli

“Sai – mi dice il Tonto mentre siamo seduti al solito caffè – ieri ho fatto un sogno incredibile. Mi è quasi parso di rivivere un pezzo della mia giovinezza. Ho vissuto uno straordinario stato di tensione come mai prima. Stavo per uscirne pazzo”.
Visto che è noto che il Tonto è un tipo originale, altrimenti perché lo avremmo chiamato così?, ma poi alla fin fine è una persona di buon senso, mi sono preoccupato e gli ho chiesto, cercando di prenderla con un tono scherzoso: “Ma diavolo, alla fin fine è stato solo un sogno …”.
“Lo dici tu … Io ero lì …”
“Ma lì dove?” mi son permesso di aggiungere visto che continuava a parlare in modo concitato.
“Vabbè, allora ti racconto tutto dall’inizio. Continua la lettura di Il Tonto e la ragion (sessual) sufficiente

Cip, Ciap e la cosina

Manara_DonnadiCuori

di Franco Nova

Cip e Ciap appartenevano al genere dei cosini. Questi ultimi, tuttavia, sono in genere furbi e svelti, non si incantano mai davanti a nessun problema della vita. Cip e Ciap, al contrario, erano proprio due esserini sbiaditi in tutto; sia come fisico che come cervello. D’altra parte, erano rimasti orfani assai presto ed una vecchia nonna, discretamente rimbambita, li aveva allevati come meglio aveva potuto. Essi erano anche poveri, pur se dignitosi nella loro quasi miseria (perché si sa che i poveri sono in genere sempre dignitosi, così come i ricchi sono sempre infelici, in preda a continue crisi esistenziali). Possedevano un solo abito; a scanso di equivoci, va chiarito che ognuno dei due possedeva un abito. Erano però estremamente puliti; e, non a caso, il piccolo bagno della loro minuscola casa era un autentico specchio, brillava come una pietra preziosa. Continua la lettura di Cip, Ciap e la cosina

Viaggio oltre cortina

Čakovec,_zimi_-_Građanska_kuća_iz_1816

di Giorgio Mannacio

In un anno imprecisato, ma certo di molto antecedente la Caduta del famoso muro, mi avventurai in macchina verso Budapest. Non mi interessava tanto vedere le condizioni dell’Est europeo quanto visitare la città, protagonista di diversi romanzi che avevo letto da ragazzo. Varcai la frontiera tra l’ex Jugoslavia e l’Ungheria in una località prossima a Cacovez che mi ostinava a pronunciare come era scritta . Qui guardie confinarie magiare mi perquisirono attentamente smontando persino i cerchioni delle ruote. A Budapest si celebrava in quei giorni il Festival mondiale della caccia e trovare un albergo fu un vero problema. Come la lingua davvero lontana da ogni riferimento occidentale che – con ingenuità e una certa dose di stoltezza – continuavo ad invocare. Al ritorno mi fermai qualche giorno sulla costa dell’attuale Croazia e il giorno dopo il mio rientro a Milano fui colto da una febbre violentissima e asintomatica .Erano tempi in cui si moriva di epatite e tale sospetto indusse il mio medico a disporre il ricovero in un ospedale di isolamento per infettivi (Agostino Bassi) che più non esiste. Si trovava in via Conte Verde, zona Dergano. Ne uscii guarito e senza diagnosi. [G.M.]
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