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La cartella di Fortini

Continuo il recupero degli articoli  dei vecchi siti di Poliscritture non più accessibili on line e ripubblico questo di Velio Abati comparso sul n. 9  cartaceo  del gennaio 2013. [E. A.]

di Velio Abati

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo all’osso, come d’un can, forti.

Il realismo furente di Dante ha incrinato per qualche terzina il silenzio glaciale della palude. L’orrore indicibile si squaderna ora in un esserci eterno. Il passato non muore e ha annientato di colpo il futuro. Tutto l’universo infernale è infatti un viaggio alle radici della selva dove ’l sol tace, al fermentare d’un passato che divora chi vive. La terzina conclusiva incardina l’incubo nella posa definitivamente animalesca della vittima-carnefice, “occhi torti”, e nella fissità d’una coazione senza fine: “riprese ’l teschio”.
Il lettore sa che l’emersione del rimosso, il vis à vis con il suo carico paralizzante d’angoscia è la costanza di ogni scena espiativa, offerta al pellegrino sotto la mediazione vigile del maestro. Così come pervasivo è l’assillo politico che l’accompagna e che l’artificio del viaggio collocato alla vigilia della catastrofe umana – cioè politica, etica, estetica, filosofica ed esistenziale – dell’esilio, rende incombente, ad ogni passo ravvivata da profezie ora stizzose, ora neutre, ora intenzionalmente consolatorie.
Ogni dannato ha la propria fissità e ognuno diversamente rifrange la biografia del pellegrino. Mille sono i modi con cui ciascuno, per dirla con Pirandello, rimane agganciato al proprio assillo.

          Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi alla risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
——-Ma quell’altro magnanimo a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa.

Può, tra le mille, assumere la postura nobile quanto marmorea dell’assillo pubblico, oppure il patetismo trepido e cieco della passione familiare. Ma ciò che inficia alla radice e quindi scaraventa nella discarica infernale energie e sforzi vitali della miriade di dannati è stata l’incapacità di ciascuno di trascendere l’immediato, di allungare lo sguardo verso il futuro: dilettoso monte, da cui solo si può decifrare il passato e vedere il presente.
Fortini conosceva bene questo punto della nostra umana condizione, quando ripeteva: ogni immediatezza, ossia ogni rifiuto della mediazione, è intimamente reazionaria.
Credevo che la mia generazione, esclusi i cinismi e i rampolli dominanti, avesse scoperto per tempo –ai primi anni Ottanta, ricordo – la lezione eroica del prigioniero comunista Antonio Gramsci. Ma non ho mai immaginato che avrei dovuto insegnare la speranza ai miei alunni, che il mio compito sarebbe stato formare alla speranza. Fortini, a un giovane che nel 1993 lo interrogava su che cosa debba fare, come debba vivere la propria quotidianità chi s’affaccia alla vita adulta, rispondeva: “io domando ai giovani con cui lavoro, se vivono con i soldi di papà, se vivono con i propri, quanto guadagnano”. La risposta presuppone una condizione oggi lunare, vivendo i giovani la corrosione, di giorno in giorno maggiore, delle possibilità di lavoro, di sostentamento, di relazione. Nella selva non c’è luce, i sentieri sono false piste.

Gli alberi sembrano identici,
la specie pare fedele.
E sono invece portati via
molto lontano. Nemmeno un grido,
nemmeno un sibilo ne arriva.
Non è il caso di disperarsene,
figlia mia, ma di saperlo
mentre insieme guardiamo gli alberi.

È in tale immobilità che germina la disperazione. Non c’è, in se stessi, nell’hic et nunc circostanziale possibilità di lume. Questo è l’acheronte per chi si trovi oggi ad apprendere e a insegnare. Perché la speranza, se è una necessità primaria, non vive senza alimento. Il sapere di cui Fortini parla alla figlia, nelle circostanze date, viene solo da fuori; meglio: dai tempi lunghi.
Da questa béance, prima di tutto esistenziale, in cui insegnante e alunni sono presi, proprio da questa assenza d’ossigeno che grava nell’aula e nelle case, trova vita e scopo la potente lingua dantesca. Il piacere del testo è per il lettore la messa in esperienza dell’uscita da sé, quella che il pellegrino compie con lui. Il lettore, alunno-docente, passo dopo passo, impara a riconoscere con Dante che il male, con la paura che esso genera, non è assoluto, ma ha un’origine e ha una fine.
Ho detto esperienza, perché di essa vive la fatica del concetto, non della spiegazione astratta. Fortini aveva un amore sconfinato per il conversare, come sa chiunque l’abbia incontrato. Le sue lezioni pomeridiane a Lettere in via Fieravecchia si protraevano indefinitivamente. Arrivava con la cartella, elegante, sorridente, bello nella sua capigliatura candida e iniziava la lezione. Ho imparato dalla sua lettura perché un poeta va a capo prima della fine del rigo.
Non c’era un termine formale alla sua lezione, a un certo punto si trasformava in altro. Via via gli studenti si alzavano dalle sedie fino a che rimanevamo i soliti quattro o cinque. Oramai parlava del mondo. Solo quando l’anziano custode – si chiamava Dante, mi ricordava la figura d’un carraio della mia infanzia – suonava la sirena, egli si decideva ad alzarsi, prima che le luci spente ci chiudessero dentro. Nella mesta spensieratezza del Settantasette si leggeva nei muri di Via Fieravecchia una scritta; girava voce che ne fosse autore Gianni Scalia: Franco Fortini, il Lattes a lunga conversazione. Una volta – eravamo già al secondo anno – ci confidò perché non faceva precedere nessuna introduzione al suo corso. Solo la strada percorsa fino alla fine avrebbe potuto spiegare gl’inizi.
“Essere figlio” scrive l’Istat “di un avvocato (cioè avere un’origine borghese) oppure di un operaio non è affatto la stessa cosa: le probabilità di diventare un libero professionista, imprenditore o dirigente – ossia di accedere alle posizioni di vertice della gerarchia sociale – nel primo caso sono relativamente alte, mentre nel secondo sono decisamente più contenute. I figli della borghesia sono in netto vantaggio sui figli degli operai dell’industria e dei servizi anche nelle competizioni per l’accesso alla classe media impiegatizia. Ciò significa che le diseguaglianze di classe continuano a trasmettersi di padre in figlio”. Credo che pochi ragazzi conoscano questi dati che li riguardano. Anche Lettera a una professoressa suona inoffensiva come una carta medioevale; troppo grande è il velo sia dell’ideologia dominante, sia delle apparenze arcaiche di cui quel testo si veste. Credo anche che generalmente sfugga loro, per quanto rapido e imponente sia il fenomeno, il degrado dell’istruzione pubblica, cioè l’aggressione alla forza emancipativa della scolarizzazione di massa dei trenta gloriosi, breve tempo di cui ha beneficiato la mia generazione. Non lo sanno, perché il passaggio dalla condizione di fatto alla sua consapevolezza ha bisogno del rischiaramento della coscienza.
Non sfugge però loro una verità della propria condizione, ovvero la sostanziale impotenza dell’istruzione a modificare il destino già iscritto nella carne della loro famiglia. Solo che ne rimangono atterriti, proprio in conseguenza della loro cecità circa le cause e la natura storica, ossia mediata, di quel destino. Quando domando per quale motivo andare a scuola, mi si risponde “per socializzare”. Per socializzare è di sicuro la constatazione di un’azione positiva esistente. Per socializzare è però anche la verbalizzazione d’un bisogno autenticamente vissuto. È il grido di uno spavento, d’un vuoto: se parli è meno buio, invoca un certo paziente di Freud.
Sono partito militare il primo aprile del ’78, pochi giorni dopo il rapimento di Moro compiuto dalle Brigate Rosse. Ero laureato da qualche mese. Fortini, seppi poi, era corso via dall’Italia, per cercar scampo dall’oppressione. Dalla rabbia, immagino, e dall’impotenza insopportabili. I trenta gloriosi si chiudevano nella tragedia farsesca, nell’imbecillità.
Quando sono tornato dal congedo, ho seguito altre strade, da lontano. Ho incontrato Fortini a intervalli radi. Ogni volta, ricordo, con festoso slancio paterno, a Milano, a Montemarcello, al mio podere. La presenza del suo insegnamento è maturata lentamente, quasi inavvertita. So che se qui davanti avessi i miei primi alunni e quelli attuali farebbero fatica a riconoscere la stessa persona.

[…] Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi

Con altro orecchio leggo oggi, scartando la magniloquenza che da noi puzza da lontano di ridicolo, di fetidume nazionalista, scovando invece e invitando a una verità più mite, fraterna e semmai indomita. Lavorando con i ragazzi, ho scoperto quanto a lungo il ramingo bordeggi rive di morte, dai Sepolcri alle Ultime lettere, fino alla Sera e a In morte del fratello. C’è ben poco di eroico, molto di bisogno di fratellanza, entro cui cercare ostinatamente un orizzonte di senso comune per il quale vivere e soffrire.
Trascinato via dalla risacca – era solo gl’inizi – che scomponeva e ora travolge destini e istituzioni, persi tutti i contatti. Non fui ai funerali di Fortini.
Fu Ruth a ricordarsi di me, di noi, dopo che era rimasta sola. Venne a trovarci. Facevamo delle passeggiate non distratte, quasi serene. Le piaceva ascoltare i canti e la fisarmonica, si cercavano i profumi della macchia. Tornò più volte. Ricordo le giornate piene di sole.
Dice Sartre da qualche parte che se le rivoluzioni costituiscono i momenti in cui i gruppi sociali sono in fusione, l’immobilismo è delle società fredde. Ma la restaurazione capitalistica che è seguita dopo i Settanta e che oggi giunge forse al suo culmine – che è sempre marciume, pestilenza sociale, devastazione di corpi e di anime – è ancora diversa: non c’è alcuna fusione visibile, né staticità, piuttosto un precipitare disperato, perché impotente. La distanza tra ciò che è necessario e ciò che ciascuno di noi può è tale da atterrire le energie più agguerrite, le menti più lucide.
Non si tratta di disperarsene, ma di capirlo.

Oh dei giorni mie fatiche, oh sorrisi
muti scavate e fidi nell’ordito:
– Dov’è l’inferno? dove i paradisi?

Dentro tremo, se fuor v’appaio ardito
che forti e fragili son i cuori e i visi
ma ultima la risposta che v’addito.

Per questo, punto tutte le mie forze a scartare l’erudizione e a coltivare intensa la critica. Mi tornano in mente le riflessioni di Fortini, lo scopro e lo coltivo maestro: agire perché si trovi e si manifesti più verità politica (dico “politica” e subito sbalordisco per la spaventosa distanza dell’odierna pratica posticcia dal suo significato) in una poesia sulle rose che in un documento politico e viceversa. Attivo con pazienza le verità che ho imparato, filtro le antiche sapienze, le metto ogni volta alla prova con le domande mute dei miei alunni, con le loro fatiche, le loro rabbie.
Ruth, dopo che la sua malattia precipitò, non volle più che andassimo a trovarla. La voce ferma e amica al telefono ci ripeteva che avrebbe deciso il tempo.
Ci chiamò in autunno inoltrato, invitandoci per il febbraio. Teneva sotto controllo il dolore con la terapia. Nelle poche ore che stemmo in via Legnano, dalla finestra dove si scorgevano gli alberi, era come sempre energica e determinata. Il non detto non tradiva pressioni sulla sua voce. A metà visita, chiese solo di farle un’iniezione. Spiegò tranquilla il modo a mia moglie, che non osò dirle di non averlo mai fatto. Tutti i pacchetti erano stati preparati, con i foglietti e le istruzioni di chi trasloca.
Sarà per la fiducia nella vocazione dell’uomo al bene, di cui parlava Brecht, o forse per il necesse della speranza, che soprattutto mi capita di ricordare il Fortini ‘cinese’. In un luogo riferisce l’insegnamento del saggio taoista al giovane andato a chiedergli d’istruirlo. Vuoi scoprire il segreto di fabbricare l’oro?, gli risponde press’a poco, comincia a percorrere tutte le mattine dieci chilometri a piedi. Oggi comprendo che la cosa più difficile, ma quella decisiva, non è la meta, bensì la direzione. Oggi comprendo la conseguenza suprema dell’umana condizione: nemo enim nostrum sibi vivit, et nemo sibi moritur. So e scopro ad ogni passo e insegno e comprovo che il futuro è la nostra realtà, è la verità del nostro presente, il senso del nostro passato; che quel futuro è intimamente, appassionatamente di parte. Non qualunque parte. Solo quella degli sconfitti, solo la parte di noi debole e oppressa detiene la ragione e la forza del futuro comune:

“Oppressori e sfruttatori con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro ‘libertà’ non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero. Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini”.

È un giornalista dell’“Unità” a raccogliere nell’agosto, a due mesi dalla morte, le ultime riflessioni, che il quotidiano titolava E se il marxismo fosse il futuro? Più il tempo della mia vita scema, più insegno la passione, la fatica e la forza dei tempi lunghi. In quella primavera Fortini aveva scritto che quanto di te rimane, di tutti rimane, non sono i libri, non sono nemmeno gli affetti, nemmeno l’insegnamento, ma ciò che la tua vita ha cambiato nel rapporto con gli altri uomini.
Quando, di rado, mi capita di andare a tenere qualche discorso pubblico, apro l’armadio. Prendo un morbido sacchetto celestino d’altri tempi, con una grande scritta in nero, Furla. Si chiude con una filza di cordino nero. Appena lo apri, si spande il profumo di cuoio. La cartella marrone sembra appena uscita dalle mani dell’artigiano. Ha un solo graffietto sotto la piega che la chiude. Non una cucitura è strappata. All’interno vi sono tre scomparti per pochi fogli, giusto di formato A4. Su quello anteriore è cucita, a reggipenne, una striscia di vacchetta. La cinghia che sorregge la cartella è lunga e comoda, può essere indossata senza impaccio anche con la giacca blu con cui arrivava a lezione fresco e furioso.
Ci dispongo il foglietto d’appunti, controllo che vi sia un lapis, ripasso a memoria la scaletta. Il borsellino di cuoio nero, fermato su tre lati con la cerniera, lo lascio invece chiuso nello scomparto. So che all’interno porta stampigliato in caratteri gialli una parola, “mundi”.

Questo saluto così e questo segno: siediti!

Ricordando Ruth Leiser

di Ennio Abate e Franca Gianoli Grandinetti

Questa intervista del 2003 era sul primo sito di Poliscritture, purtroppo non più accessibile, la ripropongo [E. A.]

Vado a trovare un’amica, Franca Gianoli Grandinetti, per parlare con lei di Ruth Leiser morta  il 14 marzo 2003. Non posso dire di aver conosciuto Ruth. L’ho vista e ho scambiato con lei qualche parola poche volte: una prima, intorno al 1988, mentre ero a colloquio con Franco Fortini, suo marito, nella loro casa di Via Legnano 28 a Milano; altre in riunioni del Centro studi a lui intitolato e a Fiesole, dove arrivò con dei quadri di Fortini (era in preparazione la mostra dei suoi disegni e dipinti che si tenne poi a Siena nel novembre 2001). Franca invece so che l’ha frequentata per anni e le è stata vicina fino agli ultimi giorni a casa e più brevemente in ospedale.

L’occasione di questo nostro colloquio su Ruth è rituale: vogliamo dedicarle un ricordo su INOLTRE. Senza pretese, amichevole, possibilmente non banale e chiuso ai pettegolezzi; e magari cercando anche di evitare lo stereotipo della “moglie del  grande scrittore”. Non ci sono troppi rischi in questa direzione. Penso, infatti, alla tenace riservatezza con cui Ruth ha curato, enza strafare, a memoria del marito, mettendo a disposizione del Centro Studi a Siena e della rivista L’ospite ingrato documenti, inediti, informazioni preziose; e, per contrasto, all’eclisse subita dall’immagine di Fortini dopo la sua morte.

Non parlare della «moglie di Franco Fortini». Ma ha senso? Per lungo tempo il mondodi lei ha coinciso con quello del marito: ideologicamente, politicamente e moralmente. Ed è stata innanzitutto sua moglie, anche se non soltanto “ moglie”, ma traduttrice, madre, terapeuta, compagna. È il lavoro di terapeuta che ha fatto nascere l’amicizia fra Franca e Ruth; e quando  comincia a parlare di lei, Franca sottolinea subito proprio la sua discrezione di moglie “classica” e contemporaneamente autonoma[1].  Autonomia di moglie, non di single, dunque:

 Ho conosciuto Ruth molto tempo dopo aver conosciuto Franco. Lui lo incontravo dal 1946 all’ Avanti!. Era appena tornato dalla Svizzera. C’erano riunioni con Nenni. Allora anch’io ero socialista. Ruth avrei potuto incontrarla già a quei tempi, in quest’ambito politico. Invece non capitò. Lei esercitava – seppi dopo –  un lavoro che aveva a che fare con la ginnastica e il training autogeno. Fu solo intorno alla metà degli anni Settanta, quando persi mio padre, che entrai in contatto con lei. Ero molto giù e  una comune amica mi disse: «Perché non vai da Ruth Leiser, ti troverai bene». Ho telefonato. Mi ha risposto Franco. Ogni tanto ci sentivamo. Tempo prima era stato anche gentile con me, quando in un momento difficile io avevo perso il lavoro e cercavo un aiuto. Ma allora anche per lui era dura. Era appena venuto via dall’Olivetti. «Sarà l’occasione che ci vediamo» gli dissi al telefono «perché ho sentito che tua moglie fa queste cose meravigliose…».

Quindi vado per la prima volta da questa signora, che si presenta bellissima[2] (era bella ancora adesso che erano gli ultimi momenti) e molto gentile. Abbiamo fatto subito amicizia. Sai, sono quei rapporti che vanno subito bene. Mi ha detto: diamoci del tu e così via…

Le sedute di training erano individuali. Ci sono alcuni movimenti di carattere ginnico che ti conducono a un rilassamento. La persona che gestisce  ti fa sdraiare, ti dice alcune cose, ti  spinge ad immaginare. So che ci sono persone che si addormentano anche. A me non è mai  successo. Poi, quando finiva la lezione (chiamiamola così…), Ruth m’invitava sempre a prendere il the in cucina. Era il the  verde e ho imparato a prenderlo da lei. Prima conoscevo solo  il volgarissimo the, che si comprava tutti in quegli anni. Ricordo anche che in casa c’era la figlia che studiava violino e dopo un paio di volte me l’ha presentata.  Io ho purtroppo una voce alta. Ho fatto l’insegnante di lingue e, per farmi sentire bene dagli studenti, mi sono abituata a tenere alto il tono di voce. E la figlia ad un certo momento dice: «Ah, quella tua amica dalla voce squillante…». La parola «squillante» mi fece rimanere  un po’così, la vedevo  in negativo.

So in partenza che un’amicizia fra donne è un continente  che non sveleranno mai. Quanto mi dirà Franca su Ruth e sulla loro amicizia  sarà una piccola parte di un vissuto che suppongo più complesso e ricco di sfumature. Ci saranno aspetti più  delicati e fuggevoli che non affioreranno neppure nel nostro colloquio. La memoria si bloccherà automaticamente. (Già la voce della Franca s’abbassa, quando spunta nelle sue parole la figuradi Livia, la figlia adottiva di Ruth e Franco). Non importa. Non si deve saper tutto delle persone a cui vogliamo bene o che semplicemente stimiamo. Immediatamente nella rievocazione di Franca emerge questo rapporto individuale di aiuto psicologico e corporeo. Franca era angosciata dalla morte recente di suo  padre. Ruth l’accoglie, si fa carico della sua ansia, le fa posto nel suo mondo: la stanza dove svolgeva il suo lavoro di terapeuta, ma anche la cucina che è luogo per eccellenza femminile. L’affascina con la sua bellezza, con la semplicità e franchezza dei modi («diamoci del tu»). Le fa intravedere  anche un altro stile di vita, abitudini di un altro paese, la Svizzera, una realtà  ancora a parte rispetto all’Italia, meno massificata. Il the verde, sottolinea Franca,  era allora poco diffuso, ma la stessa terapia del training autogeno era rara in Italia.  Hanno poi conversato (per quanti anni!). In quest’amicizia tra donne si  tessono parole. Di tanto in tanto s’inserisce Fortini stesso, il marito, il poeta, lo scrittore. Il tono cambia (dalla musica da camera alla sinfonia?):

 E dopo un po’, se c’era a Milano, arrivava Franco. Allora la conversazione  si faceva generale. Alcune volte era un vero piacere. Ad esempio, una volta lui tradusse il Lycidas  di Milton. Lo tradusse magnificamente e volle che glielo leggessi in inglese, perché voleva risentire dal vivo i suoni, il ritmo  dei versi. E quello è stato un momento per me  quasi magico. Perché dopo averlo letto a scuola in inglese e riapprezzato all’università, sentire una traduzione fatta così bene mi ha dato davvero una grande gioia intellettuale… Questo succedeva  quando Franco era a Milano, perché spesso per il suo incarico era a Siena, all’università.

Ma torniamo a Ruth. Dove aveva imparato il training?

 In Svizzera e mi aveva anche detto da chi, una persona molto valida. Adesso non ricordo il nome. Allora, a Milano, non era ancora una terapia di moda. Erano  poche persone a conoscerla. Era come per l’agopuntura. I primi tempi a esercitare la professione erano in quattro in tutta Milano, ed erano italiani. Poi c’è stata l’immigrazione anche di terapeuti cinesi. Con Ruth l’amicizia è diventata subito una cosa bellissima.

Col tempo l’amicizia dei primi tempi si è trasformata in confidenza. In certi momenti Ruth, la terapeuta, per il difficile rapporto con Livia, la figlia, ha a sua volta avuto bisogno dell’ascolto  di Franca, che era stata fino a quel momento la sua paziente. Questo groppo durerà anni e si complicherà. Franca giustamente non vuole parlarne per non tradire la fiducia di Ruth e di Franco. Io pure penso sia giusto rimandare la questione a qualche serio biografo di Fortini e non concedere nulla al revisionismo storiografico imperante, che riduce gli approfondimenti a piccoli scandali paraletterari. Mi faccio perciò dire di cos’era fatta la loro amicizia. Era fatta di «piccole cose», di riti quotidiani o stagionali, di scambi di cortesie e di aiuti:

Lei veniva qui da noi, ci si trovava spesso e ci invitava a cena anche a casa sua. In vacanza no. Una volta sola io sono andata su, a quella villa che loro avevano sopra Bocca di Magra e per una ragione concretissima.  Io ed Eugenio [marito di Franca] tornavamo dalle nostre vacanze in Calabria. La loro auto aveva  avuto un piccolo incidente, era rimasta ferma sulla strada e lei doveva andarla a recuperare. Allora l’ho accompagnata. E poi abbiamo dormito lì e ci hanno portato a mangiare in certi posti dove si stava davvero bene.  Siamo andati anche a vedere Monte Marcello.

A Milano invece la frequentazione è stata più intensa e ha riguardato sempre quelle che io chiamo «piccole cose». Ad esempio il cucinare. Sì, lei si era adeguata alla cucina italiana. Immaginati, con un toscano poi!  Ho in mente come faceva la salsa. La faceva durante le vacanze, lì al paese e poi la portava qua, a Milano. Era un’abitudine tipicamente mediterranea e lei l’aveva adottata.

Poi, quando Franco andava a Siena, si portava dietro 4-5 di queste salse. Sai che stare in albergo a Siena era ed è carissimo. Lui andava in un posto un po’ fuori della città, un posto molto bello, dove dormiva pagando  un prezzo decente. Però si doveva cucinare, almeno a sera. Magari a mezzogiorno se ne andava alla mensa universitaria.

In casa poi Ruth teneva moltissimo all’ordine. In questo era proprio svizzera.  Anche ultimamente le cose dovevano essere a loro posto. Avevo ammirato  queste sue bellissime pentole in cucina; e c’erano anche dei pentolini che negli ultimi tempi dovevo prendere per cucinarle alle sette di sera,   quando cenava. E sono stata anche sgridata da lei, perché una volta non avevo messo  le pentole nel posto giusto. E poi ci teneva ai fiori.   Aveva una fioriera di ciclamini sul davanzale. L’aveva coperta con fogli di plastica e ogni volta dovevo controllare  se c’era l’acqua. Ci teneva moltissimo.  Non l’avresti detto. Mi ha stupito, anche se so che ogni persona, pure un uomo, può amare i fiori,  goderseli e avere il piacere di curarli.

Ruth   per me era  una donna completa e attenta a certi riti minimi. Noi, ad esempio, quando andiamo in Calabria, troviamo un sacco di alloro. Però lei ci doveva portare l’alloro dalla Liguria. Non ce lo portavamo da giù, perché pensavamo che si potesse offendere. Ci teneva moltissimo a donarci il suo alloro della Liguria. E noi le davamo in cambio l’origano. Lei l’aspettava, perché diceva che era più profumato di quello che nasceva lì in Liguria. Sentire Ruth  che raccontava di tutte le personalità che incontravano Franco era interessante. Ma, in generale, parlare con lei era un  arricchimento continuo. Diceva sempre delle cose che servivano. Moltissime sono state le letture che ho fatto spinta dai suoi suggerimenti. Ad esempio il libro abbastanza recente di John Cooley, Una guerra empia, sulla guerra in Afghanistan. E t’accorgevi di quanto gli altri la stimavano, perché ad un  bel momento si scopriva cos’era Ruth, chi era veramente…

L’ambiente di  vita di Ruth e Franco non è stato molto comune. Circolavano  attorno a loro personaggi diventati importanti per la politica e la cultura dell’Italia del secondo Novecento.  Franca ne parla tradendo il fascino che questi racconti di Ruth le procuravano. Ma la singolarità di Ruth non  pare appannata o deformata dall’ambiente borghese e intellettuale in cui si muovevano i Fortini. «Ad un bel momento si scopriva cos’era la Ruth.. chi era veramente», dice Franca. Chi era Ruth veramente? Cosa la distingueva dal marito, dall’ambiente  delle amicizie o delle conoscenze che la fama di lui le faceva roteare attorno? Franca si muove per approssimazioni:

 Non so. Su il manifesto hanno ricordato Ruth con  due articoli. Mi pare che quello del palestinese Ali Rashid, che l’ha definita «nemica implacabile della disonestà intellettuale», l’ha capita a fondo. La famiglia da cui veniva era severa e so che era stata  educata molto rigidamente e sapeva  controllare le emozioni. A proposito dell’educazione, mi  viene in mente un piccolo episodio recente.  Quando negli ultimi tempi, noi amiche si andava a casa a darle una mano, io le dicevo: «Ruth, perché non mangi mai il pesce? Ti farebbe bene. Non è possibile che tu mangi solo verdura o quella bistecchina, quella roba lì…». E lei: «No, in casa mia non si mangiava il pesce, perché a mio padre non piaceva». Ma dico: «Come, a Bienne (lei era nativa di Bienne), una città bellissima che ha anche un lago vicino così pulito!». «No»  mi ripeté «siccome a mio padre non piaceva, il pesce non  entrava in casa e io non mi sono mai abituata a mangiarne».

Era una donna che «sapeva controllare le emozioni». Ecco il primo elemento di un possibile ritratto di Ruth, penso. È un dato  che sembra avvicinarla alla personalità marito. Ma quello di un uomo è lo stesso tipo di controllo che sa esercitare una donna? Quello di lei lo immagino più pacato. Fortini ha invece spesso dichiarato quanta fatica gli costasse controllarsi, e come fosse per lui un obbiettivo che gli sfuggiva, quasi un ideale. Un bel contrasto fra mondo protestante e mondo latino-cattolico? Mi piace pensare a Ruth come una donna dell’Europa del nord, educata in famiglia ad uno stile di vita  severo, patriarcale, d’altri tempi. Ma forse si tratta di fantasmi derivati da letture storiche. Ruth era una donna moderna e intraprendente, aveva potuto studiare e studiare lingue:

 Gli studi lei li aveva fatti  al liceo di Zurigo. Non so se poi avesse completato un corso universitario vero  e proprio. All’inizio la sua attività professionale era quella di traduttrice. Conosceva benissimo anche il russo. Conosceva cinque lingue, chiaro: tedesco, italiano e francese, perché si era formata in Svizzera. E poi: inglese e russo. In Svizzera non faceva la traduttrice. È venuta via abbastanza presto. Era del 1923. S’è sposata giovanissima e nel 45’-‘46 era già in Italia. In uno dei suoi scritti Franco ha sottolineato che Ruth aveva voluto seguirlo anche nell’Italia distrutta dalla guerra. Aveva cominciato a lavorare come traduttrice in Italia con delle persone che avevano una specie di agenzia. E negli ultimi tempi ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere questa simpaticissima signora, il cui marito fa questi lavori. Ruth mi  disse: «Io ho lavorato molto con Mariesa ai tempi…».

Era una donna laboriosa  e discreta, che alimentava la ricerca del marito ma non competeva con lui sul campo letterario che egli s’era scelto né viveva dei riflessi della sua notorietà:

Il lavoro di traduttore di Franco deve moltissimo a Ruth. Penso che parecchia  roba sia stata fatta proprio da lei. Poi Franco rivedeva, rimaneggiava, rendeva poetica la parola. Ma il grosso del lavoro, quello che si dice «di base», lo faceva Ruth. Forse l’italiano all’inizio era la lingua che meno conosceva, ma la sua esperienza delle altre è stata preziosa per Franco. Poi lei ha imparato anche l’italiano alla perfezione. In uno di questi ultimi giorni mi fece leggere una sua lettera. Le dico: «Ruth, ti sei impossessata così bene dell’italiano e ci vedo l’impronta di Franco». E lei ha ammesso: «Sì, hai ragione…». Una come lei sapeva assorbire. Sono tutte piccole cose, queste. Ma ti dicono com’era Ruth.

Era pronta a ricevere e a dare con naturalezza.  E senza essere “appendice”, né “specchio”: non viveva di riflesso della fama del marito. Certo è stata sempre accanto a lui e nella sua ombra, perché non voleva mettersi in mostra. In una certa circostanza  che  preferisco non  precisare mi  disse: «Io non voglio fare come quella lì, che quando è diventata vedova, si è ostentata da tutte le parti». Lei è sempre stata di una discrezione persino troppo castigata. Non so, adesso che è morta,  come si dice,  nisi bonum.. Però lei era proprio così: te lo può confermare chiunque l’abbia conosciuta. Franco veniva invitato spesso anche all’estero. Ricordo un loro viaggio  in Canada, dove Franco andò a tenere una serie di conferenze. Ruth l’ha seguito,   ma  perché amava viaggiare. Aveva fatto tantissimi viaggi anche da sola.  Per esempio in Cina: erano andati prima insieme, lei e Franco, ma poi lei ci ritornò da sola,  perché voleva vedere certe cose che le interessavano.  Quindi,   quando lo seguiva all’estero,  contava la componente   della sua innata curiosità per il mondo e per gli altri e non il fatto di presentarsi come la moglie di…

Era una donna innamorata e legata al marito:

 Una volta mi disse: «Mi sarei fatta ammazzare per lui…». Per dire che tipo di sentimento forte aveva questa donna controllata, ecc. E sono stati per tutta la vita molto legati. Ricordo un episodio di  poco prima che Franco morisse, quando era ricoverato in ospedale a Casorate.  Lei,  Ruth, si era rotta un piede andando a trovarlo al Fatenebenefratelli, qui a Milano, dov’era stato all’inizio della malattia. Quindi non poteva camminare. Io ed Eugenio abbiamo voluto fargli una sorpresa e abbiamo portato in auto Ruth con il piede ingessato a Casorate.  Quando siamo arrivati, Franco dice: «Mi avete fatto il più grande regalo che mi si poteva fare:  mi avete portato Ruth».  C’era questo  grande affetto  fra loro. Del lavoro di Franco  mi parlava solo occasionalmente.   Dalle sue parole veniva fuori soprattutto la stima che aveva per lui, politicamente parlando. Come lui non ce n’erano tanti. Era consapevole della sua  onestà intellettuale,  della sua dirittura politica, del suo rischiare. Perché effettivamente Franco non aveva un carattere facile,   lo sappiamo,  e “bisticciava” sempre  intellettualmente   con parecchie persone.

Era una donna coraggiosa che non temeva di affrontare il dolore e la morte:

Era severa con se stessa prima che con gli altri. Io la trovavo eccezionale: riusciva a mantenere  delle coerenze   che con gli anni non sono facili da portare avanti.  Per questo, man mano che la conoscevo di più,   dicevo: «Ma Ruth sei straordinaria…Ma come hai fatto…». Per esempio, ha voluto operarsi di cataratta    a ottobre. Così è venuta a casa nostra.  Noi abbiamo un oculista nel palazzo. Si è fatta visitare e lui però le ha detto che c’erano poche speranze. Aveva la cornea  rovinata, non so se per processi naturali o dalla chemio che aveva fatto e ancora faceva. Comunque, lei  ha voluto lo stesso fare l’operazione. Certo, si sa che oggi giorno quest’operazione non è una cosa difficile. Ma io mi chiedevo come facesse ad avere quella decisione, visto tutto quello che aveva addosso. Perché,  oltre alla faccenda tumorale, c’era la storia di quella maledetta cervicale. Aveva in tutte le cose un grande rigore, un rigore morale. E non  perché fosse credente, no:  era solo nata protestante, quella era   la religione in cui l’avevano educata. Tuttavia, ultimamente mi disse una volta: «Sai che io non piango mai. Questa volta ho pianto…». È stato quando forse ha capito che non  c’era più niente da fare. Parliamo ancora di gennaio.

Ed era attenta agli altri, quasi una forma elementare di  comunismo:

I rapporti coi suoi fratelli li ha sempre conservati. Ma aveva soprattutto un grande legame con una sorella   e con una nipote. Quest’ultima purtroppo morì giovanissima. Mancò per asma. Era  andata a vivere col marito sul Juras, in una zona agricola sovvenzionata dal governo svizzero. Vivevano lontani dai centri abitati.  Lei  ha avuto una crisi notturna  d’asma e non hanno fatto in tempo a portarla in ospedale.

 Degli amici e nemici di Franco? Ti dirò che Ruth non era una persona pettegola. Era soprattutto molto rispettosa: prima di lanciarsi in un giudizio su qualcuno ci pensava. In politica   tutti sanno quello che lei ha fatto per Emergency: l’asilo per i palestinesi, ad esempio. L’ultimo giorno che si è sentita male ed è stata portata all’ospedale, ero a casa sua in Via Legnano e c’era questa signora venuta da Genova,  che credo fosse una delle donne in nero. Io ero preoccupata, perché me la teneva a parlare tanto tempo. Non volevo che parlasse troppo,  che si affaticasse. Invece Ruth non ha voluto smettere e poi mi disse: «No, era una cosa molto importante…».

Anche quando ormai era già malata, ha fatto un lavoro enorme per salvare tutti i materiali di Franco. Ha imparato persino a usare il computer per recuperare ogni cosa. Il primissimo materiale era stato dato a Maria Corti,  a Pavia. Poi tutto il resto fu dato a Siena [al Centro studi Franco Fortini]. Ricordo un pomeriggio che ero lì con lei, in una delle ultime giornate. Ho ricevuto questa telefonata da Siena. Lei aveva detto: «Mi raccomando, perché è la nostra vita. Mi raccomando molto, perché io posso peggiorare da un momento all’altro. Venite presto». Lei ha messo a posto tutto: per il Centro studi, per la figlia, per la nipote,   per Emergency,  per l’asilo dei palestinesi.  Ha  sistemato ogni cosa.

Non credo di poterti dire altro. Per me è stata una cosa bella, un’amicizia sentita. E un’amicizia che non escludeva la politica: parlavamo sempre di politica. «Io sono comunista» diceva. Fa un po’ impressione sentirlo dire oggi e da una svizzera.  Mi pare che da queste cose emerga una donnina proprio straordinaria.

Niente le è stato risparmiato. Avevo cominciato a dirti degli occhi.  I medici la ricoverano per una notte dopo l’operazione. Per prudenza,  perché si teme l’infezione. E lei ha preso l’infezione.  Era indebolita nelle difese organiche dalla chemio. Negli ultimi tempi, quando sapeva  del tumore (a parte che lei voleva morire   già da questa estate), le abbiamo telefonato sia a Trieste, dov’era stata in un primo tempo, che in provincia di Belluno da un’amica.  Già allora faceva discorsi di morte. Poi a settembre: «Io sto male, non ce la faccio più, desidero solo morire».

Negli ultimi anni, dopo la morte di Franco,   aveva ottenuto l’aiuto di una signora marocchina. E poi c’era la moglie del portinaio di  Via Legnano, che andava a stirarle i panni o a  lavarle i vetri.  Mi aveva fatto promettere (non solo a me, a tutte): «Non fatemi andare in ospedale», ma è stato impossibile. Non voleva. Diceva: «Vedi, questa casa è piena di sole. Io qui cammino…». Io invece me la ricordavo buia  la casa, ma poi mi sono ricreduta: è davvero piena di luce.

 L’ultimo giorno che la vidi   era sotto morfina, però capiva. Aveva su la maschera  e mi ha fatto così, un cenno con la mano e con gli occhi. Mi ha invitato a sedermi. Le ultime parole che ha detto: «Acqua di mele». Voleva l’acqua di mele da bere; e invece gliel’hanno proibita. Non so perché, non doveva bere. Dopo il disturbo (occlusione intestinale e anche renale)  forse non doveva bere. E allora ci dicono che dovevamo bagnarle le labbra. Sono stata lì un po’ a farle questo. Poi è venuta altra gente. Me ne sono andata che dormiva.  Ecco, questo saluto così e questo segno: siediti!  Sempre gentile, pronta a  pensare all’altra persona.

 Possiamo chiudere. Franca ripensa alle immagini ancora nitide di Ruth moribonda. Io, salutandola, penso a questa piccola comunità di sole donne, quasi tutte anziane, che hanno saputo stare accanto a Ruth accompagnandola fino al punto estremo. Solo le donne sono capaci di essere così attente alla materialità dei corpi che si ammalano e si disfano?

 aprile 2003

[1] Anche Edoarda Masi ha rivendicato «la sua formazione di donna libera e spregiudicata: lontanissima dal provincialismo di tante donne italiane di sfera colta e magari femminista, vera cittadina del mondo, capace di parlare e scrivere cinque lingue, ha saputo coltivare pura una propria sfera indipendente di rapporti e di conoscenze e ha inventato un proprio lavoro di terapeuta, oltre quello di  traduttrice in collaborazione col marito» (il manifesto, 15 marzo 2003).

[2] «Una volta su insistenza della figlia Livia, parecchio tempo fa, Ruth mi fece vedere una foto di quando era giovane. Era  di profilo, veramente bellissima. Sembrava un’attrice.  Era molto giovane,   avrà avuto un 24-25 anni, immagino.  Capelli biondi, questo nasino…».

I Quaderni di Italo III

sereni al lavoro

di Italo Lo Vecchio

La Troika, che non è il traino a tre cavalli delle carrozze russe e nemmeno una signora della steppa kazaka nota per i facili costumi, ma il Trio di potentati che dà ordini all’Europa (per gli amanti degli acronimi: FMI, BCE, CE), è di nuovo in Grecia (1° febbraio 2016). A darle manforte s’è aggiunto il Fondo Salva-Stati (per quelli di sopra: ESM). In ballo: la verifica dell’attuazione del programma economico (secondo il nuovo Memorandum: neolingua). Nel mirino: la riforma delle pensioni che ha in animo di varare il governo greco. In soldoni: ulteriore taglio alla spesa previdenziale di 1,8 miliardi di euri, ulteriore riduzione del 15% sugli assegni pensionistici, pensione minima stabilita a 348 euri mensili, e via troikando nello sport preferito da Lorsignori: cavare il sangue ai cittadini greci già abbondantemente vampirizzati. A fare gli onori di casa stavolta è Alexis Tsipras (spero si noti la finezza dell’aver espunto dal nome l’appellativo “compagno”). Continua la lettura di I Quaderni di Italo III