UN CONVEGNO SULLA CITTADINANZA IDEALE
Continua la lettura di Al Museo Italiano dell’Immaginario Folklorico
UN CONVEGNO SULLA CITTADINANZA IDEALE
Continua la lettura di Al Museo Italiano dell’Immaginario Folklorico
di Angela Villa
«Io vengo anche quando non ci sono prenotazioni».
Così, Carmela Pupillo, guida turistica abilitata della regione Puglia, racconta la sua resistenza culturale a Peschici. Quotidianamente lotta, per promuovere le bellezze artistiche e culturali di questa località turistica, contro le tante difficoltà che rendono difficile il suo lavoro, a cominciare dalla necessità di collocare un piccolo cartello per segnalare la presenza di un bene culturale e storico così prezioso. Sto parlando dell’Abbazia di Calena. Scendiamo dalla macchina e aspettiamo il custode che venga ad aprire il grande portone antico, di qua le piante, di là il pozzo secolare. Siamo un piccolo gruppo di turisti, curiosi e desiderosi di conoscere la storia di questa Abbazia. Un raggio di sole colpisce il campanile e illumina l’immagine dell’antica madonnina, ha una forma strana del vestito, sembra quasi una sirena bicaudata, come se ne vedono tante nei paesi del sud che si affacciano sul mare. Seguiamo Carmelina all’interno dell’edificio, i lunghi capelli ricci le incorniciano il volto racconta con amore e passione di un luogo che pochi conoscono. L’Abbazia di Calena è un vero gioiello di architettura, ricco di storia e bellezza. Come nasce questa Abazia? Grazie ai Benedettini che arrivarono a Calena, da un altro luogo molto importante, dall’abbazia principale, Santa Maria a Mare delle isole Tremiti che era già molto importante e grandiosa. Poi è divenuta autonoma. La parola Calena in greco vuol dire “Bella” e quindi si può capire l’intenzione dei monaci di stabilirsi in quella zona. Il primo documento in cui si parla di questa antica Abbazia risale al 1023. Un vescovo di Siponto, l’antica Manfredonia, dona questa località compresa l’abbazia, alla più grande chiesa madre che si trovava sulle Tremiti. Questo ci fa capire che l’abbazia esisteva da tempo, non abbiamo fonti sicure ma probabilmente già Federico II di Svevia la conosceva. Intorno al 1100-1200 arrivano i monaci cistercensi. Dal 1450 fino al 1500 l’abbazia diventa sempre più florida, prende tributi da terre e paesi limitrofi. Tutto apparteneva all’abbazia, i due laghi costieri, le chiese di Ischitella di Vico, i territori di Peschici stessa, alcune chiese di Vieste. I frati gestivano tutta questa grande parte territoriale e raccoglievano le tasse. Durante le diverse dominazioni l’abbazia è passata sotto il controllo dei Borboni che lasciarono ai frati solo le chiese e acquisirono i tributi, con i Francesi la situazione si impoverisce, poiché il governo francese acquisisce anche le chiese e tutto viene messo in vendita, così alla fine del 1800 questo gioiello architettonico, diventa un bene privato e viene acquisito dai Martucci che avevano già molti terreni in queste zone. D’allora passa da ruolo di abbazia ad azienda agricola, viene collocato nei locali di Calena un grande frantoio aperto a tutti. Le porte erano sempre aperte e si dava il diritto di entrare a tutti, perché c’era il grande pozzo nel cortile. Nella grande chiesa per tantissimo tempo si celebrava la messa. Calena nell’antichità, inoltre, era un punto importante di passaggio, i frati accoglievano i viandanti che andavano a Monte Sant’Angelo a vedere la grotta di San Miche Arcangelo. Si partiva da Mont Saint-Michel o da Santiago de Compostela, si scendeva poi fino a Brindisi per andare a Gerusalemme. Erano percorsi che duravano tre o quattro anni. Questi pellegrini spesso lo facevano per scelta, oppure obbligati dal padrone che gli chiedeva di farlo al posto suo. Ci sono molti segni e graffiti lasciati da questi viandanti, partivano scalzi, con pochi denari e tornavano, dopo diversi anni, ricchi di esperienze e di conoscenze rispetto al loro padrone che era rimasto a casa. Per testimoniare il loro passaggio, lasciavano segni, impronte delle mani o dei piedi, semplici croci. I segni più antichi in assoluto, trovati anche a Calena sono quelli esoterici e di iniziazione, spesso difficili da spiegare. Ce n’è uno che appartiene alla Triplice Cinta Sacra. Simboli concentrici rettangolari, che hanno una datazione remota e sono stati ritrovati anche in Afghanistan. Simboli lasciati da cavalieri antichi ad indicare che quel luogo aveva un valore importantissimo dal punto di vista spirituale. Un luogo dove tempo e spazio assumono una dimensione più ampia, in collegamento con altri luoghi delle Terra. Chi per caso si trova a Peschici per villeggiare può recarsi alla Pro Loco del paese e scoprire le altre iniziative alla scoperta delle tradizioni del Gargano, come la visita al centro storico di Peschici e di Vico.
Il tempo è scaduto, saluto Carmelina Pelullo, per qualsiasi altra informazione si può consultare il suo blog www.carmelapulillo.it , mi ha lasciato dentro una piccola gioia perché mio nonno, Don Peppino (così lo chiamavano a Peschici), ha dedicato molti anni della sua vita a studiare la storia antica delle famiglie di Peschici, e le vicende di questa abbazia, da ragazza l’ho accompagnato diverse volte, a visitare le mura antiche, poi non sono più riuscita a tornare, la vita ci prende nel vortice dei desideri che non conosciamo. Ritorno a casa prendo il sentiero che fiancheggia la Foresta Umbra, i grandi pini marittimi con le chiome curve verso il mare, se ne vanno in fila come i pellegrini, compagni del mio ritorno.
Peschici, 15 agosto 2024
di Angela Villa
A Peschici, c’è un piccolo luogo dove il tempo ha preso una pausa dal suo divenire. Nella stradina medioevale che porta al castello antico, c’è una bottega artigianale, quasi un museo all’interno di una grotta, con oggetti realizzati a mano: vasi, bicchieri, piatti, stelle marine, conchiglie, granchi, lune e mezze lune, un’eterogeneità di oggetti, una contaminazione di forme e colori, fra cui domina: l’azzurro del mare, il verde e il grigio della foresta Umbra. Il laboratorio si trova in Via Forno 22, chi entra con l’intenzione di capire e non solo comprare, lo nota subito: ogni oggetto rimanda a ricordi, racconti, testimonianze. Entrare in questa bottega è un’esperienza dello spirito, si può vedere gli artigiani lavorare e si possono ascoltare le antiche leggende come quella della Palummella, la messaggera dell’amore che porta alla giovane “Rusinella” il messaggio dell’amato “Totonno”.
I protagonisti di questo luogo incantato sono i FRAMMICHELE, due fratelli, Rocco e Peppino. Da anni, con la loro attività compiono un lavoro importante di tutela delle tradizioni storiche, legate alle attività artigianali e alla cultura immateriale. Si compensano e si aiutano a vicenda, ognuno ha un proprio ruolo preciso; Peppino prepara le miscele e i colori, dipinge in stile arcaico e secondo l’antica tradizione del Gargano; Rocco modella la materia prima al tornio, prendono forma così oggetti di vario genere: ultima loro produzione le bamboline dell’amore, le messaggere degli innamorati. Se provi a chiedere: «Da quanto tempo lavorate insieme?» In genere rispondono: «Da sempre!» La dimensione del tempo per loro è relativa.
Rocco e Peppino vivono in un tempo ancora più antico del nostro, un tempo mitico, quello delle storie che si nascondono dentro le loro creazioni. Ogni oggetto è unico, impossibile trovare qualcosa di uguale, anche nel caso delle composizioni di bicchieri, se si osserva bene, ognuno è diverso.
Le loro produzioni artistiche sono storie, teatrini di ceramica, con veri e propri personaggi; la loro ultima composizione parla di una Palummella che porta la buona novella, i messaggi che fanno bene al cuore, e aiuta gli innamorati a coronare il loro sogno d’amore.
La Palummella non si fa mai ingannare riconosce il vero amore, il primo amore, quello che veramente conta, che nasce dalla profondità del sentimento, fatto di intimità e desiderio di conoscenza. L’antica leggenda della Palummella si trova anche nella tradizione della canzone napoletana. C’è una nenia dal titolo “La Palummella” o “Palummella, zompa e vola”, una rielaborazione di un testo del XVIII secolo, che probabilmente traeva ispirazione da “La molinarella” di Niccolò Piccinni (messo in scena forse nel 1766). Successivamente il brano assunse anche un significato politico e patriottico.
Il messaggio dell’antica canzone è molto simile alla storia delle ceramiche dei FRAMMICHELE: l’innamorato di turno affida a una “palomma” (cioè una farfalla o probabilmente una colombina) il compito di portare il suo messaggio d’amore all’amata. La canzone si ritrova anche in un testo teatrale di Antonio Petito, nel quale si racconta di un giovane innamorato della sua Palummella. In rete si trovano diverse versioni di questa canzone, la più antica è eseguita da Fernando De Lucia: “Palummella, zompa e vola”, (settembre 1921). C’è la rielaborazione di Roberto De Simone con la compagnia del Canto Popolare, c’è la versione più recente di Massimo Ranieri. Io preferisco quella di Sergio Bruni perché è eseguita con canto puro, con stile lieve e delicato, con attenzione unica ad ogni singola parola del testo.
Chiedo ai fratelli se conoscevano questa canzone napoletana e se in qualche modo sono stati ispirati. Mi rispondono di no, la loro Palummella viene da un’antica storia tramandata oralmente. Si può parlare di una cultura mediterranea che unisce narrazioni e vicende, un filo rosso, un legame, un patrimonio ideologico, sociale e culturale che lega i popoli del “mare di mezzo”. Rocco e Peppino, con la loro arte ne sono testimoni, nei loro volti e nelle loro mani è scolpita la pazienza di chi facendo piccoli passi alla volta, difende una cultura del fare, nel consumismo dei prodotti usa e getta, del turismo mordi e fuggi.
di Angela Villa Continua la lettura di La follia di Lady Macbeth
di Angela Villa
Sono tratti dalla raccolta “Il mare non esiste”, un monologo per cinque voci e un personaggio. La punteggiatura non soddisfa le regole grammaticali ma indica il tipico modo di parlare dei bambini. Gli “a capo” del testo non hanno la pretesa di essere versi ma pause recitative, momenti di respiro e silenzi, indicazioni per l’attrice. Continua la lettura di Due testi da recitare
di Angela Villa
Il termine “Scherzo” nella musica classica esisteva già a partire dal Seicento, indicava brani molto brevi, dinamici, di ispirazione popolare. A partire dal Settecento, lo Scherzo diventa sempre più simile ad un minuetto fino a sostituirlo completamente; presenta, in genere, due temi in diverse tonalità: il primo ha un carattere forte, deciso, il secondo è più lirico e melodioso. Nell’Ottocento lo Scherzo prende sempre più la forma di Sonata, Chopin lo rivoluziona dandogli nuova vita, rendendolo più complesso nella struttura e più innovativo. In particolare, amo molto il Primo Scherzo, perché ho potuto ascoltarlo dal vivo, eseguito da Maurizio Pollini.
Lo “Scherzo n. 1 in si minore per pianoforte, op. 20”, ha una forza notevole: i due temi appaiono quasi contraddittori ma rappresentano un unico dolore, quello dell’abbandono. Nella prima parte sullo spartito si legge: “Presto con fuoco”, il tempo è veloce ed incalzante con accordi decisi; la seconda: “Molto più lento sotto voce e ben legato” è quasi una nenia, è una melodia talmente dolce che chi l’ascolta ha il desiderio di riascoltarla, ancora e ancora, come nell’abbraccio dell’amato. Composto nel 1831 e pubblicato successivamente nel 1835, è dedicato all’amico Thomas Albrecht, che lo convinse a rimanere a Vienna, lontano dalla sua patria, per coltivare la sua arte. A quel tempo, in Polonia, era in atto una ribellione, contro la dominazione russa, Chopin era profondamente addolorato. A differenza degli Scherzi tradizionali, che sono generalmente leggeri e giocosi, quelli di Chopin sono opere dense, cariche di dramma e contrasti. Lo Scherzo n.1 è diventato uno dei pilastri del repertorio pianistico, amato sia dagli esecutori che dal pubblico. La sua combinazione di virtuosismo e passionalità, lo rende un pezzo ideale dal punto di vista tecnico. Molti grandi pianisti, a partire da Horowitz fino alla Argerich, hanno offerto interpretazioni memorabili di questo pezzo, tra questi Pollini, che sapeva affrontare le sue parti complesse con decisione e dolcezza, riuscendo a fondere insieme passione, malinconia e speranza.
È un componimento che mostra chiaramente il dolore dell’abbandono a causa della guerra e il desiderio di vivere tempi migliori; la speranza di un futuro di pace si avverte nella nenia dolcissima della seconda parte, che richiama una melodia natalizia probabilmente Polacca. Gli Scherzi di Chopin appartenevano al repertorio di Pollini. Per la Deutsche Grammophon aveva registrato i 4 Scherzi con inclusa Berceuse e Barcarolle; consiglio l’ascolto per la bellezza dei brani e la purezza dell’esecuzione. Pollini era il massimo esecutore del grande pianista polacco. A diciotto anni si era affermato nel concorso più importante e difficile al mondo, il concorso Chopin di Varsavia, Rubinstein, che era presidente della giuria, sentendolo suonare esclamò: «Suona tecnicamente meglio di tutti noi!», frase che è diventata emblematica, ma probabilmente, come racconta lo stesso Pollini in un’intervista, Rubinstein voleva semplicemente essere scherzoso e provocatorio nei confronti dei colleghi della giuria; da allora Pollini ha continuato a dedicarsi a Chopin studiandolo a fondo nelle strutture armoniche e regalando le migliori interpretazioni, ma non solo, ha avuto la capacità di portare la musica contemporanea nelle grandi sale da concerto riuscendo a farla amare e comprendere ad un pubblico più vasto. Io ho avuto la fortuna di poterlo ascoltare dal vivo alla Scala il 13 Febbraio del 2023, nella sua ultima esibizione. In quell’occasione Pollini ha regalato al pubblico Scaligero due serie di Klavierstücke di Schönberg, le opere 11 e 19, proseguendo con «…sofferte onde serene…» per pianoforte e nastro magnetico di Luigi Nono, e nella seconda parte si è dedicato a Chopin: una Barcarola e lo Scherzo n. 1. Qualche critico musicale, abituato a sentir suonare Pollini sin dagli inizi, si è chiesto: perché? Perché continuare a suonare se non puoi dare più il massimo? Il Maestro appariva affaticato, sono riuscita a cogliere un piccolo rimprovero nei confronti della pianista incaricata di girare le pagine dello spartito. Perché sottoporsi a tanto stress? Il perché va ricercato nella storia di Pollini e nel suo amore per la musica, nella sua passione di uomo che ha dedicato una vita al pianoforte, un uomo ammirevole che non ha avuto paura di esporsi politicamente, di sicuro non scherzava quando si espresse apertamente contro il federalismo e il presidenzialismo, all’epoca del referendum, pericolose derive, per la concentrazione del potere nelle mani di uno solo, criticando in tal modo il governo Berlusconi per il degrado e la corruzione. Suonò per gli operai di una piccola fabbrica a Genova, suonò per i lavoratori e gli studenti alla Scala; aderendo al progetto di Paolo Grassi, è stato un divulgatore oltre che un virtuoso del piano. Un uomo coerente fino all’ultimo, che ha rappresentato la massima espressione poetica del pianoforte, perché dovrebbe aver timore di suonare ad ottant’anni? L’emozione che ho ricevuto quella sera è stata molto forte e gli sarò sempre grata di avermi regalato dal vivo quei brani. Il ricordo è ancora vivo in me: il concerto è finito, molti gli applausi, tutti in piedi per ringraziare il Maestro, con passo lento ma deciso, Pollini si inchina al pubblico, con la mano si appoggia al piano, ancora un inchino e poi via. Un dialogo di tutta una vita con la tastiera, una vita dedicata a quei tasti bianchi e neri, un interprete attento, sia tecnicamente che emotivamente, ci sarà ancora qualcuno dopo di lui? Forse sì, ma chi avrà il coraggio di definirsi suo erede? Amante di tutte le arti considerava la musica una forma di comunicazione:
«Quando prendo in mano una partitura o studio un pezzo, io punto innanzitutto alla ricerca di aspetti comunicativi, a cose che davvero possano darci gioia (…)» C’è nella musica un elemento soggettivo che riguarda il dialogo fra esecutore e pubblico, in questo desiderio di comunicare di sentirsi messaggero, portatore di un sogno, c’è la consapevolezza di dover suonare per il suo pubblico fino all’ultimo, suonando con gli spartiti consunti studiati fino allo sfinimento, provando e riprovando, studiando ogni minimo dettaglio dello spartito, come lui stesso ha precisato in un’intervista.
Maurizio Pollini è morto a Milano il 23 marzo 2024 all’età di 82 anni. La camera ardente è stata allestita il 26 marzo nel foyer del Teatro alla Scala, la sua seconda casa; dal debutto dell’11 ottobre 1958, all’ultimo recital il 13 febbraio 2023, ha suonato alla Scala 168 volte, cui si aggiungono gli incontri con gli studenti e le partecipazioni a giurie e convegni. I funerali sono stati celebrati in forma privata. “Il Maestro è nell’anima” e Pollini non aveva paura di mostrare l’anima in scena, spesso parlava di esecuzione ed aspetti legati all’inconscio e fino all’ultimo lo ha fatto. L’anima di Pollini era dedicata al pianoforte, ai compositori con cui dialogava, nei suoi studi attenti e rigorosi e, naturalmente, a tutti noi. Ci ha lasciato testimonianze indimenticabili. Per chi abbia desiderio di ascoltarlo, di “comunicare” con lui…Buon ascolto.
di Angela Villa
Milano, linea verde, fermata della metropolitana Romolo, il percorso sembra facile per arrivare in largo Mahler, dove ha sede l’Auditorium, quindi, mi avventuro, preferisco la seconda opzione indicata dal navigatore, una bella passeggiata, a piedi, per le vie della città, piuttosto che il tram. Tutto bene, ma non avevo previsto la pioggia e il navigatore impazzito: un percorso di quindici minuti, passando accanto al Naviglio Grande, è diventato tutt’altro: mezz’ora a piedi sotto la pioggia, senza ombrello, perché sono una persona ottimista e penso che non pioverà mai così tanto come indicano le previsioni, che del resto non guardo mai. Per fortuna indosso sempre giubbini col cappuccio. Dopo aver girato invano per strade e stradine, arrivo anche di fronte alla sede dello Iulm, che scambio per l’Auditorium, ma un signore un po’ scontroso mi dice che non è l’Auditorium, è l’università privata e lui odia le università private, dovrebbero essere tutte pubbliche e gratuite e che comunque sono fuori strada perché l’Auditorium è molto lontano, gira le spalle e se ne va, quasi, quasi, torno indietro, mi siedo al pc e cerco qualche registrazione, il primo marzo è stato trasmesso in diretta su Radio3 Suite, ci sono anche delle registrazioni interessanti su RaiPlay e Rai Cultura. Ma poi mi viene in mente il libro di Benjamin avevo letto qualche pagina la sera prima, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, vedere un concerto dal vivo, è un’emozione unica. Quindi rimetto in moto le risorse, spengo il cellulare, prendo la cartina, che per fortuna porto sempre con me nella borsa e trovo la strada. Mi dico ma perché non ci hai pensato prima? Perché a volte ci fidiamo di più delle nostre macchinette.
Eccola, finalmente davanti a me, la bella sala dell’Auditorium, entro, il concerto è iniziato da cinque minuti. “La faremo sedere nelle ultime file alla prima pausa, va bene per lei?” Mi dice gentilmente la maschera. Va benissimo, è già tanto che sono arrivata. Felice di non aver rinunciato, il sabotatore interno è sempre in agguato, mi sento in pace nell’ultima fila, occupata solo da me. L’Auditorium di Milano ha un’acustica perfetta, si vede e si sente bene ovunque.
I fratelli Arthur e Lucas Jussen, hanno appena terminato di eseguire i “Quindici canti contadini ungheresi” di Bartók seduti uno di fronte all’altro, giacche attillate un po’ retrò, capelli biondi e ciuffetti, sembrano due folletti dei boschi, uno di quei boschi che il compositore amava percorrere in lungo e largo a caccia di suoni popolari. Bartók viene ricordato dagli studiosi come il pioniere dell’etnomusicologia. In particolare, si dedicò alla raccolta dei repertori musicali folklorici di Ungheria, Slovenia, Romania e Bulgaria. Il suo linguaggio musicale riuscì ad assimilare e rilanciare nella modernità il patrimonio delle musiche dei contadini. Affiancati, alle percussioni, da Viviana Mologni e Simone Beneventi con l’orchestra diretta da Jaume Santonja, i fratelli Jussen rallegrano la sala con la loro vivacità e il loro entusiasmo, fra molti applausi. La metà del programma è dedicata al “Concerto per due pianoforti, percussioni e orchestra Sz. 115”. Bartók, in questa composizione, mette in campo un’armonica combinazione di suoni, utilizzando, strumenti a percussione, xilofono, tamburi, timpani, piatti, triangoli, in dialogo con le parti musicali dei due pianoforti. Tutti gli elementi tipici dello di Bartók, sono in gioco: temi brevi, ritmi carichi di energia, uso del contrappunto, atmosfere notturne ed elementi delle melodie popolari, ritmici dinamici, che anticipano i movimenti musicali futuri, come quelli del jazz. La prima esecuzione, nella versione rivista e ampliata, ebbe luogo a New York nel gennaio 1943. Bartók era in esilio volontario a causa del nazismo.
A chiudere la serata, la “Sinfonia n. 2 in Re maggiore op.73” di Johannes Brahms. L’accostamento tra Bartók e Brahms è usuale, nei concerti, entrambi i compositori, si ispiravano alle melodie della tradizione con introduzione di strumenti inusuali nell’epoca, corni, tromboni, percussioni e strumenti ritmici. La Seconda di Brahms è stata da alcuni definita come la “Decima” di Beethoven per i suoi elementi pastorali, o come una sinfonia schubertiana. Altri invece ritengono che la sua specificità vada ricercata in alcuni elementi mozartiani. È caratterizzata da suoni armoniosi che trasmettono gioiosità e senso di pace, questa sinfonia si fa notare per la bellezza dei temi, per la forza dei contrasti, per abilità della tecnica contrappuntistica. Dopo circa un’ora e mezza di bellezza, il concerto termina fra tanti applausi e un bis. Molto apprezzata anche l’esecuzione precisa, del direttore: Jaume Santonja, attento alle dinamiche e alle sfumature. Esco dalla sala, con un pezzo di “aura” in tasca e bel po’ di spensieratezza conquistata grazie all’esecuzione degli artisti, piove ancora. La via del ritorno è sempre più breve, chissà perché, percorro la stradina di fianco al Naviglio Grande, dell’antica campagna non è rimasto più nulla, alla mia destra, in una piccola pozza d’acqua, vedo un airone, ha un lungo becco arancione, sembra smarrito, in cerca di qualcosa, forse i verdi campi di una volta, apre le ali e spicca il volo, no, non cerca la campagna, forse, torna dalla sua compagna.
Auditorium di Milano 3 marzo 2024
di Angela Villa
La Fondazione Ambrosianeum di Milano, dedica un ciclo di incontri ai giganti della musica classica. Adriano Bassi, musicologo, concertista di pianoforte, compositore e direttore d’orchestra, presidente del Comitato di Milano della Società Dante Alighieri, racconta i primi anni di vita di Wolfgang Amadeus Mozart (al battesimo Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus; Salisburgo, 27 gennaio 1756 – Vienna, 5 dicembre 1791). Bassi parla al microfono e poi al pianoforte, mostra alcuni esempi musicali. Evidenzia diversi aspetti della vita di Mozart, raccontando, in particolare, il periodo dei viaggi in Europa. Dimentichiamo Mozart del film di Milos Forman “Amadeus” (1985), dimentichiamo Mozart dei diversi passaggi pubblicitari, degli spettacoli teatrali e concentriamoci per un momento su un bambino che, già in tenera età, faceva lunghi e scomodi viaggi in carrozza, per esibirsi nelle principali corti d’Europa. Viaggi, molto faticosi che finiranno per minare la sua fragile salute. Spostamenti che si svolgevano in condizioni precarie: umide e traballanti carrozze, che percorrevano, fra l’altro, strade dissestate e insicure. Il piccolo Amadeus, spinto dal padre, che lo mostrava come un fenomeno da baraccone, viaggiava da una corte all’altra, immaginiamo la sua infanzia, con questa figura incombente, quali dolori fisici e mentali avrà dovuto sopportare? Ecco il Mozart su cui si sofferma Adriano Bassi, un bambino che a sei anni, già padroneggiava il clavicembalo, il violino e l’organo, suonando senza spartito. Durante questi viaggi, vengono composte le prime sonate per violino e clavicembalo, la prima sinfonia, “N. 1 in mi bemolle maggiore K 16”, un oratorio e la prima opera buffa: “La finta semplice”. Viaggi faticosi, ma che hanno permesso al piccolo genio, di poter approfondire le sue conoscenze, di sviluppare il suo talento e di conoscere i più grandi compositori di quel periodo storico. Solo per fare un esempio, a Milano il 23 gennaio del 1770 trovò un comodo alloggio nella canonica della chiesa di San Marco, ebbe modo di conoscere e ascoltare la musica di Niccolò Piccinni, uno degli ultimi grandi rappresentanti della Scuola Napoletana. Il tempo è molto limitato per parlare di un gigante della musica e forse occorrerebbe fermarsi su un aspetto in particolare, impossibile analizzare il Pianeta Mozart in novanta minuti, ma Adriano Bassi riesce comunque a dare qualche stimolo, evidenziando nei passaggi al pianoforte, la ricchezza e la modernità del compositore. Una modernità che si coglie nello stile delle sue composizioni, nel suo forte desiderio di sperimentare, modulando, passando da una tonalità all’altra, utilizzando accordi di settima, creando in tal modo aperture e sorprese in ogni sua composizione. Altro elemento di modernità lo si può cogliere nella visione della musica come linguaggio, come modalità di comunicare messaggi, comprensibili a tutti. Mozart riuscì, in tal modo, a compiere una rottura molto forte con i poteri ecclesiastici, una rottura che pagò personalmente allontanandosi dal padre. Cercò di vivere la sua musica da uomo libero, in un periodo storico in cui questo era impossibile. Purtroppo fu molto sfortunato, perché morì proprio nel momento in cui le sue opere si stavano diffondendo in Europa. Si sforzò, andando sempre controcorrente, di seguire il suo intuito, il suo talento, impresa difficile, perché a quel tempo, il musicista dipendeva totalmente dal mecenate, dal clero, che commissionava opere sacre. Ma lui seguiva il suo genio. Per questo motivo rimase sempre più isolato, fino agli ultimi momenti di vita.
Altre novità significative nella ricerca musicale di Mozart, riguardano due aspetti in particolare:
1. Lo sviluppo della forma sonata di Haydn, dandogli maggiore drammaticità, forza e tensione (aspetti evidenti nella prima “Sinfonia K183 e K503” caratterizzata da repentini cambi di tonalità).
2. La sua visione del teatro: nelle opere teatrali troviamo personaggi che rispecchiano la realtà, parlano attraverso l’orchestra che diventa l’anima della storia. Ciò che le parole non possono esprimere, viene raccontato dagli strumenti musicali. La realtà con le sue contraddizioni, con le sue contaminazioni, il tragico e il comico, emerge nei suoni e nelle variazioni di ogni singola nota.
Infine Adriano Bassi si sofferma ad analizzare il mistero della sua morte. C’è quasi un catalogo, come quello di Leporello, più di cento ipotesi fra cui, influenza, febbre miliare acuta, infezione da streptococco, emorragia cerebrale, obesità, trichinosi (patologia che colpisce i consumatori di carne di maiale poco cotta), l’avvelenamento per mano di Antonio Salieri, fino alla teoria più recente, trauma cranico in seguito ad un’aggressione, di un marito geloso, molte di queste ipotesi, come quella più recente dell’aggressione, sono state recentemente confutate, dagli storici, perché prive di fondamento o di fonti storiche attendibili. Difficile stabilire cosa lo abbia veramente ucciso. Quello che gli studiosi hanno potuto capire, dalle testimonianze della moglie Costanza e dai documenti scritti dai medici del tempo, fu che Mozart si ammalò a partire dal 20 novembre del 1791, dopo un intenso periodo produttivo in cui compose “Il Flauto Magico”, “La Clemenza di Tito” e parti del “Requiem”. Nei giorni successivi fu colpito da vomito, febbre, sudorazione eccessiva, morì il 5 dicembre del 1791. Aveva appena trentacinque anni. Avrebbe ancora composto altre opere immortali? Oppure, giunto al vertice della sua creatività non avrebbe scritto più nulla? Come accadde per esempio nel caso di Rossini. Impossibile saperlo. Possiamo però capire perché, uomini e donne di ogni generazione, continuano ad ascoltarlo a trarre piacere dalle sue composizioni. Alcuni studi parlano dell’Effetto Mozart, l’ascolto delle sue composizioni aumenterebbe la capacità di concentrazione e attenzione, anche questa è una controversa teoria scientifica. Credo poco a questo utilizzo utilitaristico, io personalmente lo ascolto per cogliere, nello spazio fra le note, l’infinito che c’è, e poiché ogni spartito ha un inizio e una fine, l’infinito che c’è, è proprio là, nel finito.
Nota
Una guida all’ascolto ben articolata, ricca di registrazioni, la si può trovare nel sito: www.flamioonline.it (L’ORCHESTRA VIRTUALE DEL FLAMINIO).Esistono inoltre diverse biografie ben documentate sulla vita di Mozart. Sono illuminanti e molto profondi, i testi di Massimo Mila.
Prossimi appuntamenti musicali della Fondazione:
GIOVEDÌ 29 FEBBRAIO ORE 18:30: PIANETA BEETHOVEN
GIOVEDÌ 14 MARZO 2024 ORE 18:30: PIANETA VERDI
GIOVEDÌ 28 MARZO 2024 ORE 18:30: PIANETA ROSSINI
Milano, Fondazione Ambrosianeum, 15 febbraio 2024
di Angela Villa
Cosa ci tiene uniti? L’umanità. Cosa ci tiene separati? L’umanità.
Gli uomini riescono a creare e distruggere legami con estrema facilità. “Ecco perché anche se è un’impresa disperata, una scommessa persa in partenza bisogna continuare a credere nel sogno di vivere insieme” (da Tous des oiseaux – Come gli uccelli)
Marco Lorenzi, mette in scena il testo di Wajdi Mouawad, COME GLI UCCELLI. Tratto dall’opera originale “Tous des oiseaux”. (Adattamento di Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi). Un progetto de Il Mulino di Amleto, una compagnia teatrale che nasce grazie a un gruppo di giovani attori diplomati alla Scuola del Teatro Stabile di Torino e diretta da Marco Lorenzi e Barbara Mazzi. La ricca cartella stampa che ho ricevuto, mette in luce il lavoro profondo e il lungo percorso svolto, per realizzare la messa in scena. Obiettivo principale della compagnia: ‹‹Affrontare i classici come fossero testi contemporanei e i testi contemporanei come fossero testi classici››. Su questo duplice percorso si muove Il Mulino di Amleto, considerata tra le più significative della nuova generazione teatrale (premio ANCT nel 2021). Nel corso degli anni la compagnia si è distinta per produzioni molto diverse tra loro, spesso riletture di testi noti e altri meno noti, in cui centrale rimane sempre il lavoro d’attore e di regia e il piacere, ogni volta, di intraprendere sfide drammaturgiche nuove, in questo percorso si inserisce il lavoro poetico teatrale “Come gli uccelli” in scena fino al 4 febbraio al Teatro Sala Fontana di Milano. Occorre una grande sinergia e un lavoro di squadra per mettere in scena un testo che contiene in sé molti elementi simbolici, che raccontano in modo originale un presente contemporaneo tormentato. Continua la lettura di Come gli uccelli
Peripezie di un’associazione culturale a Cologno Monzese
di Ennio Abate
Lavorando al mio Riordinadiario, ritorno sulle «peripezie di Ipsilon». Ne avevo scritto a caldo già nel 1999 in Samizdat Colognom n. 2 (“foglio semiclandestino per l’esodo”) e poi nel 2009 (qui ). Ad ogni rilettura mi rifaccio le stesse domande: perché ci dividemmo? era inevitabile? cosa non capii io o non capirono gli altri le altre (qui sopra nella foto)?
Continua la lettura di Dieci anni di IPSILON