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…per fare poesia occorre saper trattenere la poesia…

di Angelo Australi

Di Alberta Bigagli già avevo scritto proprio su questa rubrica nell’ottobre del 2018, riportando una testimonianza sull’inizio della nostra conoscenza e le tante collaborazioni, quella che segue è una breve riflessione sul suo lavoro, stimolata dall’incontro dello scorso 17 gennaio a Firenze, organizzato da PIANETA POESIA nella sede della Società delle Belle Arti – Circolo degli Artisti Casa di Dante Alighieri, dove è stato presentato il volume di poesie e saggi critici di Alberta Bigagli Sì, comincio. Parola, poesia, linguaggio espressivo, curato da Fiorella Falteri e Manuela Buzzigoli. Oltre alle curatrici e a Giuseppe Baldassarre in veste di editore, sono stato chiamato anch’io a portare un contributo, insieme a Maria Elena Favilla e Annalisa Macchia, mentre gli attori Matteo Pecorini e Matteo Brighetti hanno fatto alcune letture.

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Prof Samizdat (prova 4)


Narratorio. Versione  2020.

di Ennio Abate

Gli studenti (e i suoi due figli? perché era un  prof Samizdat con figli, lui) stavano già tutti  altrove.  Anche se erano nell’altra stanza accanto alla sua a leggersi fumetti. O in classe, lì, visibili, davanti ai suoi occhi.  Altrove, ma dove?
Prof Samizdat gli faceva domande. (Gli poneva questioni, diceva lui, serio, credendo alla sua serietà).
Ogni tanto capitava, sì, che una parola, una frase, che aveva  viaggiato per conto suo assieme ai rumori, ai borbottii, nel flusso del discorso – somma della sua voce e delle loro – che nelle due ore  di fila si costruiva nell’aula, avesse un inatteso effetto. O, più terra terra, uno di loro, interrompendo fantasie inafferrabili o  ispirato da chissà cosa,   gli faceva  una  domanda. All’improvviso. Imprevista. Fuori luogo. Continua la lettura di Prof Samizdat (prova 4)

Su Daniele Del Giudice

di Angelo Australi

La morte di Daniele Del Giudice non mi ha colto di sorpresa, da anni era affetto da una grave malattia neurologica che non gli permetteva più di scrivere. Di questo grave male, del suo non più scrivere, lo abbiamo saputo dai giornali, più o meno nel 2019, quando Einaudi ha ristampato Atlante occidentale arricchito, rispetto all’edizione del 1985, del diario scritto nei giorni del sopralluogo al Cern di Ginevra, fatto prima di scrivere il romanzo. Ma del resto non ci aveva abituato a uscite troppo frequenti dei suoi libri, è sempre stato uno scrittore molto parsimonioso. Dal 1983 con Lo stadio di Wimbledon, alla raccolta de I racconti, pubblicato nel 2016 (racconti in massima parte già editi), Del Giudice ci lascia in eredità sei/sette libri davvero straordinari, usciti a distanza di anni l’uno dall’altro. E questa parsimonia dice tanto della sua serietà, del suo amore per una letteratura in grado di interpretare le tematiche del reale in anticipo sui tempi, di una narrativa capace di prendere le distanze da certi stereotipi, di stare allo stesso livello delle altre aree del sapere, di tentare una sua originale e sincera forma di ricerca, una sua idea di sperimentazione. Scrive Italo Calvino nella presentazione a Lo stadio di Wimbledon, apparsa nella quarta di copertina della prima edizione (uno dei motivi per il quale fui incuriosito ad acquistare il libro): Dalle domande che egli pone, pare lo interessino le ragioni per cui quell’uomo (Roberto Bazlen), pur avendo una coscienza letteraria molto esigente – anzi, forse proprio per questo, – invece di scrivere preferisce agire direttamente sulla vita delle persone. È la scelta tra « scrivere » e « non scrivere » che il giovane vuol risolvere?  Personalmente, da questo punto di vista, proprio perché si pone un certo tipo di dubbi, penso che Del Giudice sia uno degli scrittori più importanti degli ultimi decenni del Novecento, e non solo per il panorama italiano, uno dei pochi da tornare a leggere più volte, scoprendo nella sua scrittura sempre qualcosa di nuovo del suo mondo, e del mio, del perché nell’uomo ci sia questo bisogno di raccontare delle storie, un bisogno sempre da rimettere in discussione giocando sull’equilibrio tra un metodo imposto dalle regole e la sorpresa dell’imprevisto che può nascere sorprendentemente dalla finzione.

Non voglio e non posso scrivere un saggio, dico solo che tutte le volte che leggo un suo libro, per alcuni giorni sento addosso il peso e l’importanza della scrittura, e per un po’ la bellezza della lettura fa dimenticare anche il bisogno di scrivere. Al mio paese negli ultimi anni abbiamo messo in piedi un gruppo di lettura che si incontra presso il Centro Sociale Il Giardino, dove mi è capitato spesso di proporre una discussione sui suoi libri. Del racconto Nel museo di Reims, per esempio, ne ho parlato e fatto letture pubbliche in svariate occasioni, questa storia che si sviluppa tra un uomo che sta perdendo la vista e una donna che con la sua voce lo guida per le sale del museo, inventando dettagli sensoriali intorno ai colori dei quadri, racchiude in sé il forte potere evocativo della parola sospesa tra capacità creativa e menzogna, racchiude in sé quel misterioso vortice di pensieri e sensazioni che è la letteratura, attiva la discussione sui dettagli e ampia la prospettiva su cosa sia il reale.

Dal 1983, con Lo stadio di Wimbledon, romanzo che si sviluppa come una ricerca sulle tracce del triestino Roberto Bazlen, personaggio quasi da romanzo lui stesso, grande amante della letteratura e consulente di importanti case editrici, che però non ha mai scritto opere creative, passando poi per Atlante occidentale, un romanzo che si misura con le nuove scoperte della fisica per portarci a riflettere su alcune trasformazioni irreversibili del nostro tempo, e poi le raccolte di racconti Staccando l’ombra da terra (1994) e Mania (1997), e lo strano romanzo/diario/documento storico Orizzonte mobile (2009), nel quale Del Giudice, raccontando del proprio viaggio in Antartide sulle tracce scritte di precedenti spedizioni fatte da uomini avventurosi e spesso finite tragicamente, racconta l’urgenza, il dovere che ha uno scrittore di allargare i punti di vista sul limite di una frontiera del reale dove persiste un fondo estremo, crudo, atroce, da guardare in faccia, da toccare, sperando di raggiungere ancora dei segreti da svelare. Sono solo questi i libri che ha scritto, oltre a In questa luce, una raccolta di saggi uscita nel 2013, saggi che poi sono sempre anche un po’ racconti che custodiscono le ossessioni, le manie dell’autore, come quest’ultimi, cioè i suoi racconti, sono sempre anche un po’ dei saggi.

Ho avuto la fortuna di conoscerlo, prima per corrispondenza, a fine agosto 1987, quando con il Circolo Letterario Semmelweis organizzavamo una serie di conferenze dal titolo MOVIMENTI CONTRATTI – Il ruolo dello spazio quotidiano di azione individuale in una società tecnologicamente avanzata. Il mondo negli anni Ottanta stava cambiando drasticamente le sue prospettive sociali, non aveva più nelle città un centro di diramazione propositiva e noi in provincia volevamo capirci qualcosa, raccontare la nostra esperienza in modo autentico proprio con l’aiuto della letteratura che in questo ciclo di conferenze si confrontava ad ogni incontro con una diversa forma espressiva. Daniele Del Giudice accettò volentieri di partecipare al confronto tra letteratura e scienza insieme al fisico fiorentino Giuliano Toraldo di Francia, a me e a Fabrizio Bagatti. Nelle sua lettera di accettazione scriveva: Partecipo volentieri, dato che il tema mi interessa e lo sento abbastanza vicino a quanto cerco di fare con il mio lavoro. Questa comparazione tra scienza e letteratura era stata inserita proprio pensando a lui e al suo libro Atlante Occidentale (era ancora il tempo in cui la presenza di un libro – se importante – sul mercato poteva resistere alcuni anni), dove i protagonisti sono il vecchio scrittore di successo, in odore di Nobel, Ira Epstein, e il giovane fisico italiano Pietro Brahe, che lavora nel grande centro di ricerca di Ginevra, dove si trova l’acceleratore di particelle del Cern.

L’iniziativa si tenne poi il 7 maggio del 1988, presso la Biblioteca Comunale Marsilio Ficino di Figline Valdarno. Del Giudice ci raggiunse in treno arrivando con mezz’ora di ritardo, suscitando un po’ di insofferenza nei partecipanti, ma poi la discussione fu interessante e ricca di spunti di riflessione per tutti, almeno io e gli amici dell’associazione ne parlammo per giorni. Non esistevano ancora i cellulari, sicché aspettavamo impazienti sperando nel suo arrivo. Ricordo che entrando nel salone della biblioteca sorrise timidamente scusandosi, il treno da Venezia era partito in ritardo ed aveva perso la coincidenza alla Stazione di Santa Maria Novella. « Fortuna che nel pomeriggio ci sono molti treni locali per il trasporto dei pendolari che lavorano a Firenze » gli dissi scherzosamente, mentre ci presentavamo. «Australi, … molto bello; un cognome da scrittore ». Lui sorrise di nuovo, e mi strinse la mano.

  

La parola bendata

di Marina Massenz

E’ a un metro di distanza
che si arresta lo scandire dei piedi
questa voce ovattata
che oltrepassa la siepe dei denti
oltre la bocca bendata
ancora ci parliamo cara
ci diciamo di ieri di domani
di cosa cucini stasera 
del nostro lavoro sospeso
del silenzio metropolitano
ancora ci diciamo cose
e persino ci sorridiamo
sollevando la benda nel sole
trasgrediamo? Forse può essere
sì, ma così poco pochissimo
che oltrepassiamo appena la linea
che svaghiamo la mente
e c’è pure il cielo, che ancora c’é.

4 opere di Mary Blindflowers

La casa delle bambole, tecnica mista su tela, (The Doll’s Room, mixed media on canvas) 150 x 100 cm.

Appunti di Ennio Abate

1.

Parto dalle mie impressioni dirette. Cosa vedo al primo impatto in questi quattro quadri di Mary Blindflowers?

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Che bello fotografare

di Arnaldo Éderle

Da tempo Arnaldo Éderle aveva scelto Poliscritture come luogo ospitale per i suoi poemetti. E me li ha mandati, sempre più numerosi,  in questi anni che hanno preceduto la sua improvvisa morte. Avevo pattuito con lui che li avrei pubblicati mano mano, distanziati nel tempo. Tre me ne sono rimasti in lista. Questo sulla  fotografia stabilisce un confronto tra immagine e parola e ribadisce, proprio in un’epoca che la sta negando, la fiducia nel primato della parola poetica che « miracolosamente, salva lo spirito/ nella sua eternità». [E. A.]

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E distolse gli occhi

 

di Arnaldo Éderle

E distolse gli occhi dalle care immagini
della parete sinistra e li rivolse
all’armadio grande che sta di fronte al letto.
Quella era la posizione che teneva sdraiato
com’era nel suo ampio letto con la testa appoggiata
a due cuscini. Da lì poteva guardare tutta la
camera e, come un immobile, godere della sua
ampia visuale. Continua la lettura di E distolse gli occhi

Sugli  «inediti 1986-2016» di Leopoldo Attolico

di Ennio Abate

Ho letto e riletto questi «Inediti 1986- 2016» (qui) con in mente il pensiero che coprono un trentennio di stagnazione e involuzione del Paese in cui viviamo. E li ho poi  riordinati lungo una linea che parte dai suoi temi più generali  per giungere a quelli più particolari o locali o intimi. Forzando, dunque, l’ordine  espositivo forse più casuale che l’autore in un primo momento gli ha dato. La mia potrebbe sembrare scelta arbitraria di un lettore tendenzioso. E non la voglio suggerire o imporre a nessuno. Eppure,  così facendo, a me pare di cogliere con più chiarezza che  Attolico, pur nella costanza del tratto lirico-ironico del suo complessivo lavoro poetico,  qui riveli un’oscillazione significativa, perché non è solo sua ma di molti poeti oggi ancora operanti.  Anticipando la mia tesi, a me pare che in questi inediti Attolico si ritiri  nella difesa di un io intimo e della sua autenticità offesa. Lo fa  ironizzando (soprattutto  nei confronti di alcuni letterati di fama, a cui troppo ha guardato) e autoironizzando; ma in alcuni componimenti, che poi indicherò, si toglie il suo abito palazzeschiano  e  svela un  accenno di noi  epico-politico, fondamentalmente cristiano e anticlericale,  che me lo rende fraterno e più vicino ai discorsi sulla poesia esodante, che ho tentato negli ultimi anni. Continua la lettura di Sugli  «inediti 1986-2016» di Leopoldo Attolico

Che cos’è la poesia…

“Uomini fummo e or siamo fatti sterpi” opera su stoffa, collage di carta, fili e ricamo di Cristina Ghiglia

di Luca Chiarei

Dal Blog di Franco Arminio riporto un intervento del 18/9/2017  che mi ha fatto ancora una volta riflettere:

1. La poesia è una forma di pentimento. Tentiamo di farci il bene dopo che ci siamo fatti del male.
  2.La poesia è il corpo che decide di parlare, è un’insurrezione della carne.
  3.La poesia viene sempre da un confine, non è mai centrale.
  4.La poesia è sguardo messo ad asciugare. Lo sguardo messo ad asciugare diventa parola.
  5.La poesia non si fa con le tue parole, non ne hai. E non si fa neppure con le parole degli altri, non ci servono.
  6.La poesia è un fallimento con le conseguenze migliori, ma è comunque un fallimento.
  7.La poesia non c’entra niente con le cose che si capiscono e neppure con quelle che non si capiscono.
  8.La poesia è un messaggio che viene dal corpo, una fitta dietro l’orecchio, un’arancia nascosta dietro un ginocchio, il fegato che chiede acqua, una piccola vela nella testa.
  9.La poesia non sa e non deve sapere. La poesia deve vedere.
  10.La poesia è un’intimità provvisoria col mistero. La poesia se ne va, resta il mistero.

Certamente se rivolgessimo la domanda, ma più che altro una affermazione, che pone Franco Arminio a 100 poeti o a 100 lettori di poesia, riceveremmo senz’altro 200 risposte diverse. Questo esito lo possiamo anche ritenere inevitabile e legittimo in quanto le diversità non possono certamente né essere “compresse” né censurate per quanto possano essere estranee alle nostre convinzioni; allo stesso tempo non possiamo limitarci a prenderne semplicemente atto come le “democrazia espansiva” dei social ci vorrebbe insegnare. Al contrario di questo orientamento prevalente che in nome della diversità da “valorizzare” accetta qualsiasi opinione in merito alla poesia (e non solo) senza discuterne, credo che sulle risposte possibili si debba ragionare perché non tutte sono equivalenti e alcune possono essere più convincenti di altre.

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Tutto il resto non è letteratura

A proposito di poesia e canzone ‘d’autore’

di Marco Gaetani

Di cosa sia segno il Nobel per la letteratura a Bob Dylan si è molto discusso negli ultimi mesi. Segnalo alcuni degli interventi che ho seguito (quiqui e qui,  in  certi casi dicendo anche la mia opinione (qui). Questo di Marco Gaetani pone con vigore la questione di fondo (sartriana): cos’è la letteratura. [E. A.]

 

Non capita spesso che nel dibattito pubblico – oggi per la verità quasi interamente surrogato dal chiacchierio mediatico – divenga oggetto di confronto, o appunto anche soltanto di chiacchiera, la questione concernente che cosa sia, o debba essere, la letteratura. Domanda che Sartre, per esempio, non ebbe timore di porre apertamente, e che però un esponente prestigioso della critica e della teoria letteraria di orientamento strutturalista, neppure tra i più stolidi, osò una volta quasi dileggiare, in margine a uno dei suoi più influenti lavori; ma questione che – piaccia o meno – trova il modo di ri-presentarsi periodicamente: come tutte quelle che, con l’imperfezione o l’approssimazione di cui possono indubbiamente caricarsi, interrogano veramente, e suscitano l’esigenza non tanto di risposte definitive quanto, perlomeno, di un supplemento di riflessione, di un nuovo indugio, di un’ennesima inchiesta. Continua la lettura di Tutto il resto non è letteratura