Tutto oggi lo scrivo, il poema

di Erminia Passannanti

SELEZIONE DI POESIE

PIOGGIA

Non mi aspettavo di trasportare oggi
nel cesto della mia bicicletta
epoche di storia, un signore in abito nero
accoccolato come
fanciullo nella sporta, secoli di
memoria, pedalando, pedalando
in salita come una geisha – né

di incontrare alla curva
sulla pendenza della casa bianca
ai margini del parco la minaccia
del ramo incongruente della quercia

mentre il merlo cantava
la gaia canzonetta dell’amore tradito
i bambini scomparivano dal mio lieto orizzonte
e il pomeriggio assolato

si disponeva all’improvvisa
pioggia.

(Oxford, 22 giugno 2011)



AURORA

Ebbi stanotte un carro rovesciato
sull’erta dell’aurora
da cui rotolavano a valle sacchi
di grano sullo sfondo
di un grande sole arancio; il mulo
s’era tirato in piedi sulle zampe
e se ne andava a testa china zoppicando
lungo la linea vivida del giorno.

Raccolgo
ai piedi di quell’erta
un sacco strepitante, mi slaccio
il corsetto, gli offro
il mio capezzolo.


LA VITA CONSACRATA

guardami spogliata dei miei beni terreni
che condivido con gli altri il cammino
lungo una strada bianca che si perde,
si perde nei sogni.

vado a testa alta sotto una pioggia di raggi.
la strada è un rifugio possibile.
poco importa che siano mille, le lingue. sposerò
la donna che è in me all’uomo più straniero.
dannati senza terra, con niente da perdere.

all’orizzonte del ritorno questa luce
ci abbaglia, si spande sulle soglie
tra la polvere. al nostro passaggio,
potresti confonderti come una città
invasa da un immenso gregge.



AL FRANTOIO

Ignoro il nuovo,
ho un occhio storto.
Guardo,
ricordo tutto,
eh, sì
ricordo troppo
le storie dei miei avi.

Con un basto pesante sulla groppa
vengo alla grossa macina
di cui mi dico l’asina.
Fui una stupida,
penso talvolta: sono stata
di qualcuno, appartenevo
a un tarlo, alla mola cigolante
il cui peso apprendevo
scavando in tondo un solco,
a testa bassa.

Avevo costantemente
nella testa quell’odore
di sansa, l’intenso
verde-oliva della pietra,
il volo scomposto delle mosche,
mio padre che assaggiava l’olio
con due dita – fuori di lì,
l’aria era bianca.
Lo chiamano percorso.

Se avessero prodotto
vasellame, sarebbe stato,
quel fosso circolare,
una perfetta tomba per l’oggetto.

Io vi stampavo l’orma del mio zoccolo.

Si riduce, il presente,
a una massa pastosa per il torchio,
anno per anno, un giro dopo l’altro,
e distilla una nenia.
Si decanta da sola, sono stanca.




NON PIÙ ERMETICA

Si cercava di starle dietro: se c’era da salire,
arrancavamo su per la collina di pietrisco,
quando precipitava, ne riscendevamo
correndo.

Cos’è questo battere a tempo le mani,
questo disposi in riga all’orizzonte?

È la mia indole, non più ermetica
di tante altre,
ogni mattina a testa bassa, incapace
di evitare quel lieve caro malessere
di estraneità. C’è già qualcuno
dietro la porta.

Ci passano in rassegna
nelle nostre carni bianche,
ci esaminano dall’inguine al calcagno
per quest’estrema magrezza delle rotule:

si infiammano,
a furia di stare inginocchiate.
Alle volte mi andrebbe
di ascoltare la musica, guardare la neve che cade.

**
Un refettorio lurido con un’unica finestra opaca,
le visite mediche, i piedi nudi sul nudo pavimento.
Mi consola il cuscino
a forma di bambino su questo ventre
vuoto,

la stagione dei corvi che volano bassi
nei loro neri abiti, il teso silenzio

nel punto preciso tra le maglie arrugginite del recinto
e il campo sfocato dove segui un fluttuare
di macchie scure sul tuo fondo oculare,
negli attimi di pausa.
Oggi, ad esempio, siamo rimaste ferme.

***
Hanno scavato delle fosse identiche. V’è piovuto dentro
tutto il giorno. Così ho avuto il tempo
di sistemare le mie cose, ripiegare gli abiti,
riporli con cura nell’ armadietto.



FOSSATO

tutto oggi
lo scrivo
il poema

perché troppi secoli sono
trascorsi e troppe nubi
correndo sulla terra e troppi voli
specchiandosi nell’acqua

e troppe notti pazienti
la civetta e troppi giorni
il grillo la cicala
tutto oggi lo scrivo

il poema
perché a lungo ho
tratto esperienza
e ora

canto
come canta il vento
su un campo
d’erba come cola dalla corteccia

linfa
e corrono i fiati corrono
i branchi corre
la necessità
nel cibo

tutto visto
appreso assimilato
nelle mie oscure viscere
io poema

io scritto
e tradotto
ritorto nelle profonde
fibre

nelle
elucubrazioni della vena
nella
trascuratezza delle tane

nell’esattezza
dei tuffi delle rane
come d’agilità

che fugge
come il terrore
o l’impeto
che tutto

oggi lo scrive
il poema
ora che a una pozza melmosa
si disseta

che a bocca piena
chiede: Voi
non restate a cena?



LUMACA

Così, presa
nel flusso, presa
nella cadenza, chissà
cosa mi suscita il diamante
che mi dai. Cado

nel fango, il fango
dell’oblio. È
tutto un concerto.

Voglio pensare
a quello che penso, quaggiù
nel burrone dei sogni.

Li vedo, li descrivo,
è tutto frastagliato.
Vedo la tua faccia
voltarsi nel vuoto,

il vuoto immenso,
una svolta, il bivio.
Ho un cielo stellato, c’è
chi mi guarda
e invoca. Voglio restare

in questo fango beato
che mi hai mostrato.
Ci ho messo trent’anni a tornare.
Le mie possibilità sono altre:
decidere di essere un altro animale.



W LA REVOLUÇIÓN

I Signori dell’educazione
predicano bene
lungo i muri
e delle cose
mostrano il pallore.
Sono già morto

nella mia camera d’albergo,
ad ogni nuova pausa le ragioni
di un pazzo: come convergono
Legge e Contraddizione
in quella forma elusa
del mistero insondabile,

vale a dire la Storia.
Già freddo riconsidero
i miei diritti naturali,
le estremità composte
in un sogno d’inverno
a trapassare

il confine del vissuto.
Tutto nel mondo
ritorna al silenzio
stiracchiando le frasi intorpidite
come se nulla
fosse accaduto.

E dal letto alla piazza
nel mio occhio rifletto
le legioni affamate
dalle vecchie abitudini,
due regimi tenuti
tra la lama ed il ceppo.


PULSANO I QUARTIERI

pulsano i quartieri
come cuori
come lontane
stelle tachicardiche
nei flussi al neon
di arterie brulicanti.

Parlo una strana
lingua consonantica
trascino piedi
avvolti in bende strette



COME QUANDO NEL PAESE È FESTA

L’insolitamente colto partecipa alle trasmissioni nazionali
quale surrogato del sapere, indossa un abito talare
desunto da illustrazioni enciclopediche,
dietro richiesta mostra alle telecamere
le mani sue stigmatizzate e offre
ampie delucidazioni in merito.

Messo a tacere il malcontento popolare
con premi e lotterie,
hanno disposto in semicerchio i dotti
simili a grassi santi
a gustare il tepore degli applausi in diretta,
interrotti da arguti comunicati commerciali.

Ai liceali in ressa fuori porta vengono distribuiti inviti
a desistere, concili improvvisati nelle sale-stampa
promettono clemenza e tolleranza.

Bande armate di bambini attendono tra le colonne di cartapesta
l’inizio dei loro spettacolo, sfogliano opuscoli illustrati,
sistemano ordigni sotto il coprivivande del buffet
col beneplacito del Comitato di Sicurezza.

Alle disposizioni puntuali del regista, l’elettricista
monta tralicci addizionali, tende cavi sopra la platea.
Il dispendio sembra invogli a una festosa compresenza.
Il custode mette in guardia l’insolitamente colto
circa i rischi effettivi di una massa.

Nelle pause contemplative, circospezione tra i chiamati
ad obbedire ai molti imperativi. Sotto il palco
nella penombra, l’orchestra dei pensionati sonnecchia,
il trombone russa, la viola ha appoggiato la testa
alla spalla dei clavicembalo.

L’insolitamente colto non concepisce l’idea del riposo,
ne approfitta per compilare Errata, ideare smentite,
oppresso dal sospetto di essere frainteso o preso
troppo alla lettera.

Flagellanti, chierici, profeti, rei confessi
stanno ordinatamente in fila dinanzi a un camerino
per sottoporsi al supplizio del trucco. I più sfrontati
sfoggiano cilici, uniformi d’aculei, sguardi bianchi. Boriose, le
passerelle dinanzi agli ascensori,
allo scader dei turni.

Ballerine in lamé offrono assistenza volontaria ai deboli
di cuore, rammendano arterie, spillano valvole artificiali,
reggono la fronte a chi ha la nausea. Nelle sputacchiere il livello sale.

Quasi trabocca. L’insolitamente colto getta
uno sguardo a quella calca e si allontana con un moto di ripulsa.

Nell’andirivieni di lettighe e portantine, la trasmissione
consolida la sua audience, pupille si dilatano,
crollano i volti.

Brevemente stupite tra i vapori alcolici
dei video, le bande armate sono schiere blu
di angeli, nel loro sogni cattedrali di fuochi pirotecnici.


SE ALMENO UNO

se almeno uno
dei fuochi che vedo
e che temo
fosse un fuoco sincero
e non lava di vetro
dalle stelle all’ardente
fianco dei giorni

se almeno uno
fosse un semplice fuoco
per un falò di fieno


IN FUGA

Un soldato è un soldato
a meno che non marci all’indietro
disperso diverso con la cravatta
gialla.

Allora non lo diresti un soldato –

alla conquista di un moto perpetuo
un moto non privo di disagi code
di due chilometri sulla corsia di marcia
in direzione opposta venti al valico
dove il soldato svolta

l’anima a un raccordo
libera senza divisa l’anima
che mentre guida
pensa ai grilli alle more
tra le macchie-memoria.



DOPOGUERRA

Che abbiano saputo intendere
il gergo dei carnefici – quelli che tramarono
le distinzioni capitali, taluni con addosso
i sai, altri, pur seri, in ghingheri
tra le vedove al party in onore dei morti – non
mi sorprende. Brindavano
con gesti cadenzati all’orrore dei tempi.

Fu l’estate dei segni
obliqui. Tra le siepi,
intercettavano i vinti
come lucciole, per fame
i disertori scelsero un’uniforme,
i pochi eroi, nobilitati e sazi, inchiodarono
a un vizio queste sillabe:

Dovunque sia, ciò
per cui siamo attende.


FINE SECOLO

e fuori dalle mie ossa sibila
l’inconsuetudine
ma un verbo all’imperfetto
lettere apocrife senza talento
ancora attribuiscono
la vita singolare a un falso flusso
spasmi direzionali
a organismi innaturali
questi solitari dolori
a stereofonici deliri

tutto già postumo
tutto finale ultimo
e come meco veniva
come l’altrui presente disdegnava
e nella cavità rotta del petto confondeva
un’eco elementare l’attimo di cedimento
con la resa – la mia sillaba afona
e al mio tempo senza significato
e senza tregua come roco sorgeva
a violare la gola
un nome impersonale

– pure fissando innanzi
io lo taceva
– l’occhio vitreo di un video
incapace di sollevare le braccia
emulando la pietra


COSÌ SPESSA

Così spessa
così spessa terra
così spessa corteccia
polverosa

granulosa sostanza
a volte assume
e sgretola e spezza
la mia volontà

scura crosta di un cuore
grumosa fibra vecchia
che si spacca

così intrappola voli
così castra
casta casta terra
castigo.



IN QUESTA NOSTRA ALBA
A Marcello

ha scricchiolato la sedia
ad un pensiero anonimo

vedo la traccia vermiglia
sul tuo polso.
in questa nostra
alba

sono pregna.
di te porto in grembo
il seme. pesante giogo.

replicare a un disegno
o assecondare le immodeste richieste
del corpo.

tutti i racconti nel nostro cuore ateo
sono tentativi che la mano ha fallito: passa
in un baleno. è l’occhio del ciclone.

sottomettersi, così, al tuo volere,
aprirsi a un monologo.
avevo solo questa sottile corda.

s’infrange la lingua.
il vetro freme e tu
siedi composto.

questo freddo pensiero ha il mio nome,
è la farfalla rapita
dal tuo sguardo.


VALÌ

Te ne vai in giro simile a ninfetta
avvolta nella tua minutezza
con ghirlande nastri di carta e cesti
o alla maniera di una principessa futurista
che si proietta in rosee lontananze

così presente eppure inaccessibile
nella tua limpidezza di occhi e gesti e discorsetti
bisbigliati solo a te stessa
ticchettando sulle mie scarpe alte per le stanze
un po’ dolce un po’ altera come dea.
Netta, nella tua luce netta;

sei anni,
cometa, mia cometa
che trascini dietro i tuoi sorrisi
le mie speranze d’oro, come trascini il velo.


PICCOLO UOMO
a Marco


In questo lungo pomeriggio estivo, l’uomo
ammirava il suo piede affusolato, la falange, il ritmo
prolungato delle sue fantasie,

le braccia aperte
contro il cielo come un piccolo uomo
crocefisso in un lento pomeriggio estivo. Contemplava

l’azzurro del cielo privo di profondità, la fascia
setosa all’orizzonte, a cuore spalancato ponderava

il suo essere
un piccolo uomo
in un mondo alla portata di tutti,

un mondo senza confini, senza ritegno, senza tempo,
il mondo assuefatto alle emozioni,

il mondo incalcolabile
che azzurro si distende senza prospettive

dinanzi al suo piede affusolato. In questo lento
pomeriggio estivo, calcolava la sua capacità d’amore,

straziava di nostalgia il ricordo, questo piccolo uomo,
una volta bambino, indifferente al presente.



RELIQUIA

(A mio fratello)

La prima impressione è
di uno strato di polvere bianca
sottile e delicata come cipria
di pallidissima Madonna
e tu, con lo stupore della vergine,

ne riemergi all’aria, finemente,
con la tua antica vita,
la faccia rapita,

respirando l’incontro
con il tuo amato figlio,
ringiovanita.


MUSICA DAL PAESE DEI MORTI

Fuggi dal mondo imbarbarito della difesa
D’una piazza, d’un metro di stoffa, poesia
Voltabandiera.

All’ultimo binario del tumulto
Inverti faccia e rotta.

Anzi, con acque dinanzi, lidi di fianco,
Dalla pianura baleni la rovinata
Allegria.

Musica dal paese
Dei morti, la ribellione innocente
Che ti aspetta.

(24 gennaio 2006)




PASSEGGIATA DICEMBRINA

Il mio sangue s’è messo il cappotto
Ed è uscito per strada
Intirizzito

Ha incontrato
Due cani ad una svolta
Che si lenivano l’un l’altro
Le ferite

Dopo aver attraversato la piazza
S’è diretto
Dove fluttuavano a mezz’aria
I suicidi

Aveva bisogno
D’una caldarrosta

Quella posta in cima alla catasta
Dei vivi affastellati
In via Frattina


(3 dicembre 2001)




PERFETTIBILE

I miei uomini di carta straccia
Sono solo terzi nella lista
Degli incappottati incappellati
Laceri perfettibili
Al banco della razione di pane e acqua.

L’ultimo della fila
Con la ciotola di latta
Stretta nella mano rattrappita
Parla a stento il suo idioma
A labbra screpolate
Narrando non di sé
Ma di ciò che in lui vediamo.

Utilizzato dal sistema in questa fredda
Mattina, che scorre lenta e aliena
Sotto un cielo straniero, calunniato – piombo e terra
L’aspettano su questo suolo ingrato.


(10 novembre 2006)




L’AMORE È UNA STRANA CHIESA…

L’amore è una strana chiesa
che alla domenica scampana,
chiesa fiera e festosa
che a sé tutto richiama,

per noi feriale solitudine ventosa
sotto vetrate e arcate,
eppure cattedrale
con le sue litanie
e le novene di ginestre e rose,

chiesa addobbata
tra dolci salmodie,
nell’ampollina sacra
le tue attese le mie.

Chiesa votata
agli uffici delle tenebre,
chiusa e deserta a notte
coi cimiteri d’edere.



Erminia Passannanti © All Rights Reserved

Poesie incluse nelle raccolte Macchina (Manni 2000) e Musica dal Paese dei Morti (Academia,edu, 2004)

Siti Web:

https://ucl.academia.edu/ErminiaPassannanti

https://erminiapassannanti.blogspot.com/



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