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Ancora la grande infatuazione: Franny Glass e il libro russo

Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "D.SALINGER FRANNY E ZOOEY"
di Angela Scarparo
Tra gli altri, grandi infatuati della letteratura russa, oltre che della letteratura in generale, c’è Franny Glass. Anche lei, una delle protagoniste di “Franny e Zooey” (Franny and Zooey) di Salinger, perde la testa a causa di un libro, un libro russo.
La passione irragionevole, quella che allontana dalla via prescelta, nel suo caso assume proporzioni enormi durante un incontro, al ristorante, con un coetaneo, studente anche lui, tale Lane Cautell, uno che sulla carta sarebbe pure di suo gradimento. Tanto è vero che ci ha preso un appuntamento.
Il racconto è la storia di questo appuntamento mancato, meglio ancora sarebbe dire fallito. E chi legge vede bene quanto la colpa sia del libro, quel “Racconti di un pellegrino russo” che Franny ha con sé.
“Franny e Zooey”, un romanzo diviso in due lunghi racconti – usciti per la prima volta, rispettivamente, nel 1955 e nel 1957, sul New Yorker – sarà pubblicato in volume nel 1961.
Chi è Franny Glass, fanatica meravigliosa per eccellenza, e come si manifesta, in cosa consiste la sua infatuazione? Di che cosa parla il libro che le ha fatto, letteralmente, perdere la testa?
Uscito nel 1881, “Racconti di un pellegrino russo” narra la storia di un anonimo contadino russo di poco più di trenta anni che, dopo aver perso la moglie, non solo se ne va in giro senza una famiglia e senza lavorare, pellegrinando per tutta la Russia, ma ha anche deciso di sondare i poteri della “preghiera incessante”.
Che cosa è, e in che cosa consiste questa pratica?
Si tratta di una forma di raccoglimento, una preghiera senza interruzione, un po’ come certe forme di devozione, in cui il pregare, proprio come è per il respiro, diventa qualcosa di indipendente dalla volontà.
Ma, religione a parte, in che modo l’infatuazione di Franny le stravolge la vita e con la sua quella di chi le sta attorno? Cosa succede il giorno dell’appuntamento?
Siamo a tavola, al ristorante: c’è Lane, da una parte. Seduto a tavola, mangia le rane. Seziona la carne e intanto si autoincensa per la brillantezza di un suo saggio su Flaubert, un autore di cui ha appena criticato la scarsa virilità nella scrittura. Dall’altra parte c’è lei, Franny. Che si mette a parlare di egoismo, della bruttezza della società in cui sono costretti a vivere, di quanto faccia schifo l’establishment, quello statunitense, del 1955, che si lamenta e dice quanto non ce la fa più.
“Sono stanca di tutti questi io, io, io. Il mio e di quello di tutti gli altri. Mi hanno rotto quelli che vogliono arrivare da qualche parte, fare qualcosa di fondamentale, eccetera; essere un tipo interessante. Fa schifo, fa schifo e basta. Me ne strafotto di quello che pensano”, dice.
Chi, se non “I racconti del pellegrino”, le ha messo in testa quel tono, tutta quella roba?
Togliamo il fatto che chi legge l’ha vista andare in bagno e, subito dopo le lacrime, stringersi melodrammaticamente al petto quel libricino con la copertina “verde pisello”, proprio come se fosse stato un amuleto o un animalino.
Ancora, proprio come è in Virginia Woolf, la lettrice Franny, tramite un libro della tradizione russa, sembra credere a una possibilità di accesso alla “vita vera”, la vita “autentica”, “rivelata”, contrapposta alle convenzioni e al conformismo dell’epoca.
Ma lui, Lane, non la segue. E dove lei avverte una liberazione, lui fiuta un pericolo. Si chiede, e chiede a lei, il perché di tutta quell’agitazione, quel modo di fare.
Invece di smettere, Franny insiste, inserisce anche se stessa nella ruota: “Tutto quello che la gente fa è così… non so. Non sbagliato, no. Neppure stupido e neppure meschino. Solo così insignificante, minuscolo… così deprimente. E il peggio è che se ti metti a fare il bohémien (… ) sei conformista lo stesso”, dice. Poi, mentre sta per prendere il fazzoletto dalla borsa, la apre, involontariamente troppo: abbastanza perché lui veda il libro.
Sarà questa identificazione della ragazza nel pellegrino che prega, nella sua mentalità mistico cristiana, anche lei, come altri, nel vortice dell'”anima russa”, a farla considerare, per sempre, una delle grandi possedute della letteratura, oltre che una che si rovina la vita appresso ai libri. Meglio sarebbe dire, ai libri russi. Sarà proprio questa identificazione ad allontanarla da Lane Coutell.
Il libro, la storia, le religioni, la ricerca della verità a qualsiasi costo, anche se di verità non ce ne sono, come autoconsolazione, risarcimento e amuleto. Il classico della letteratura mistico cristiana dell’ottocento, per Franny, è la risposta che chiude un cerchio. Se è vero che Lane ha deciso, anche lei, inevitabilmente, saprà cosa fare. Non c’è posto per lui nella sua vita.
Qui c’è un altro tema interessante che riguarda la letteratura. Quello del testo come chiave per nascondere un segreto. L’opera che dà, o meno, la possibilità di accedere a una vita più eminentemente privata, e quindi oscura.
Quando lui chiede: “Da dove viene quel libro?” lei risponde di averlo preso in biblioteca. Ma non è vero. Apparteneva a suo fratello, Seymour, morto suicida. Cosa che si scoprirà nel seguito del romanzo. Chi è Seymour?
Vale la pena dire due cose sui Glass. Giovane studentessa intelligente, Franny Glass è, subito dopo lo Zooey del titolo, la minore di una famiglia decisamente particolare. Una famiglia che ha, in qualche modo, segnato anche la storia della letteratura e del cinema, non solo statunitensi.
I Glass: due genitori di mestiere attori, Les e Bassie, e sette figli.
Dei ragazzi, il maggiore, Seymour, è morto suicida durante una vacanza in Florida, sette anni prima. Avrebbe trentotto anni, se fosse ancora vivo all’epoca della storia di cui stiamo parlando.
Poi ci sono Buddy, un giovane scrittore (l’alter ego dello stesso Salinger), e i gemelli: Walt, morto anche lui, dieci anni prima, in guerra, ucciso in Giappone da una bomba, e Waker che invece è vivo, e di lavoro fa il prete gesuita. La sorella Boo Boo, sposata, è madre di tre bambini.
Infine Zachary, anche lui attore, e poi Franny.
La giovane Franny come punto di incontro, meglio sarebbe dire di deflagrazione: un punto che lega il fratello Seymour, l’autocoscienza portata a un grado impossibile di sopportazione, a Lane Coutell, la più spettrale e manifesta forma di esaltazione dell’esteriorità.
Quello che la ragazza vuole, davanti all’ego-ego-ego di Lane, è dissolversi, sparire, e far sparire, pure: tutto. Anche il ragazzo che le sta davanti.
Se il suo atteggiamento sia davvero distruttivo e non riguardi invece una sorta di faticoso cambiamento, Salinger non lo dice. Si limita piuttosto a registrare i fatti.
E così, quando lui le chiede: “Ma tu ci credi sul serio a tutta quella roba?”, lei gli risponde che quella forma di preghiera è patrimonio comune di tante religioni.
Sembra, cioè, tornata in equilibrio.
Come si sa, però, le parole, e i sentimenti che le attraversano, quasi mai percorrono le stesse strade, e anzi, molto più spesso divergono. Vediamo Franny che si alza e si allontana. La vediamo raggiungere il bar, per poi svenire davanti al bancone.
E cosa c’è, di più assimilabile a una scissione interiore, a una deflagrazione, di uno svenimento?
Qualsiasi cosa troverà al momento in cui si riprenderà, ed è giusto che sia chi legge a scoprirlo, sappiamo per certo che “le sue labbra presero a muoversi, formando parole senza suono, a muoversi, senza smettere più”, proprio come il pellegrino, dalle pagine del libro, sembra averle insegnato.
Testi, quindi, volumi: non solo come oggetti che interrompono la tranquillità amicale, oltre che quella familiare, ma libri come risultato ultimo di una tradizione che sta a rappresentare una ricerca continua, costi quel che costi. Non c’è libro importante senza grande infatuazione, e spesso fra i libri importanti ci sono testi della tradizione russa.
Interessante la modalità di cui Salinger si serve per narrare della famiglia Glass: disperde i fatti dei protagonisti in più storie, moltiplica i punti di vista, e così facendo li rende, protagonisti e fatti, potenzialmente infiniti.
“Nove racconti” (Nine Stories), raccoglie le storie dell’autore statunitense dal 1948 al 1953, è uscito in italiano nel 1962.
“Alzate l’architrave, carpentieri. Seymour, introduzione” (“Raise High the Roof Beam, Carpenters and Seymour: An Introduction”) è del 1955, in italiano nel 1965.

J. D. Salinger, ‘Franny and Zooey”, tr. R. C. Cerrone e R. Bianchi, To, 1963

Nota

L’articolo è ripreso dalla pagina FB di Angela Scarparo (qui) con la sua autorizzazione.

La recita o la vita

di Lorenzo Merlo

“Gli era chiaro come uscire dalla storia” afferma la voce parlante di questo racconto. Oh, fosse possibile dirlo non solo a singoli più o meno eccezionali che, “osservando se stessi”, sperimentano “ciò che alcuni chiamano risveglio”! Ho letto con divertito scetticismo (anche per i riferimenti ad autori – Watzlawick, Jung, Castaneda – che mi sono rimasti abbastanza estranei) questo racconto di Lorenzo Merlo, ma lo propongo all’attenzione di altri lettori più sensibili a quelle che a me paiono soltanto vie di fuga spirituali impraticabili dai milioni di viventi costretti in condizioni di precarietà o schiacciati dalle emergenze (questa del coronavirus è solo una delle tante) o dalla povertà. A loro – lo dico amaramente – toccano purtroppo ben altri risvegli. [E. A.]

Può capitare, osservando se stessi, di avvertire ciò che alcuni chiamano risveglio. La magia che si compie comporta di vedere il reale diverso da come era prima, pur essendo lui, sempre identico. È una magia a più livelli, prospettive o combinazioni. Essa include infatti anche la chiara comprensione che la realtà esce – e non, entra – dai nostri occhi. Include che non ci si senta più monadi separate dall´universo; che l´infinito che siamo è sempre mortificato da quello che crediamo; che l´energia compone il cosmo, tra cui noi stessi. 

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