
di Donato Salzarulo
Continua la lettura di Vederti è un romanzo (1)di Paola Del Punta
Un solo albero sta in mezzo a un verde prato eppure nessuno lo vede Scendo le scale Nere da te lucidate Dal lucernaio sopra La porta la luce Illumina i tuoi passi Uno a destra e poi uno a sinistra Migliaia di volte hai salito E sceso queste scale ripeto le tue orme la tua presenza Nell’assenza Malinconica mente si attarda nel frastuon di luci e grida di gabbiani Nell’aria della sera Un altro porto straniero Appare e volti e voci Si confondono Qui ora e allora Gira senza sosta La ruota del tempo Dalle maglie Della tua rete Scivolano via Granelli di senso Della vita altrui Ora i miei raccolgo E in una grande tela Li compongo a formare un paesaggio colorato Vedo passare vecchi increspati Che il tempo abbandona Mi rifugio in una nicchia Di tepore Mangio cioccolata. E’ scritto best Sul dorso della ciabatta sotto consunta sfilacciata in mille fili trascina i tuoi affanni . Mi chiedi una magia Silenziose lacrime E il ricordo gioioso di bambina Premono e ammutolisco. Siamo a un filo legati Come panni stesi Da finestra a finestra Ci scaldiamo ai raggi del sole E ritornano parole Segni di lunghi silenzi Sulla pelle incisi Se ne va un uomo Col suo sacchetto Lungo un viale Di alberi di luce In lontananza lo raggiunge La rosa del tramonto
a cura di Pablo Luque Pinilla
El poeta es un condenado a la claridad y al canto1
Ángel Guinda nasce a Saragozza nel 1948. Vive a Madrid dove insegna Lingua e Letteratura in una Scuola Secondaria. La sua consistente opera poetica, esistenziale e minimalista, dagli anni ’70 a oggi è stata raccolta in riviste e libri di poesia. Ha scritto anche le raccolte di aforismi Breviario, 1980-1992 (1992) e Huellas (1992), i manifesti Poesía y subversión (1978) e Poesía útil (1994), e il saggio El mundo del poeta, el poeta en el mundo (2006). Ha tradotto diversi poeti: Cecco Angiolieri dall’italiano, Teixeira de Pascoaes, Florbela Espanca, José Manuel Capêlo e la poetessa brasiliana Ana Cristina Cesar dal portoghese, Àlex Susanna dal catalano. Negli anni ’70 fonda e dirige la collezione Puyal di libri di poesia e alla fine degli anni ’80 la rivista letteraria Malvís. Ha firmato centinaia di articoli di critica letteraria e critica d’arte sulle pagine dei quotidiani “Heraldo de Aragón” e “El Periódico de Aragón”. La sua opera in versi comprende i seguenti titoli: Vida ávida (1980-1990), Cántico corporal (1989), Conocimiento del medio (1990-1995), La llegada del mal tiempo (1995-1996), Biografía de la muerte (1996-2000), La voz de la mirada (2000-2001), Toda la luz del mundo (tradotto nelle lingue ufficiali presenti sul territorio spagnolo e all’interno dell’Unione Europea nel periodo 2000-2003), l’autoantologia La creación poética es un acto de destrucción, 1980-2004 (2004) e Claro interior (2000-2007). Attualmente è in corso di stampa l’edizione canonica della sua poesia completa, Poesía útil, 1970-2007. Un’ampia bibliografia dell’autore può essere consultata in rete all’indirizzo: www.olifante.com/guinda/biblio/index.html Spesso la sua opera ha ricevuto consensi unanimi sia tra i lettori che tra i poeti e i critici letterari, e ha ricevuto il “Premio Pedro Saputo de las Letras Aragonesas” per Biografía de la muerte. Alcune tra le più recenti e importanti antologie degli ultimi anni raccolgono i suoi lavori; tra queste ricordiamo: Antología de la poesía española (1966-2000): Metalingüísticos y sentimentales. 50 poetas hacia el nuevo siglo (2007). Come succede sempre nei casi di grande poesia, la sua opera affronta i temi classici più ricorrenti come il tempo, l’amore e la morte. Allo stesso tempo, la sua attenzione si dirige all’esplorazione metapoetica. Per quanto possa sembrare scontato sottolineare la validità di questi interessi, in realtà non lo è: basti pensare a come, nel nostro contesto attuale, vengano esaltati il nonnulla magniloquente e l’originalità priva di contenuto, in un atto di onanismo creativo che confonde il verso con lo spasmo, la letteratura con l’opportunismo dello spot. In maniera completamente diversa, invece, Ángel Guinda affronta la propria scrittura da una preoccupazione per l’umano, esasperata fino all’estremo della rottura del soggetto poetico, fino all’implosione stessa dell’io lirico. Questa scommessa è sostenuta anche da un grande rigore tecnico che si manifesta sia nell’impiego del verso libero che del poema in prosa o del verso sciolto (il più presente). Ma anche attraverso procedimenti espressivi come l’ellissi, il concettismo, la sinestesia e l’uso di un linguaggio attualizzato, convenzionalmente affatto poetico. Solo in alcune occasioni questo diventa più retorico o volutamente letterario; infatti, nella vita, fonte d’ispirazione di questa scrittura, vige il linguaggio nella stessa misura in cui, a volte, succede il contrario. In definitiva, una tematica e un’estetica che, tutto sommato, risultano radicalmente contemporanee. Per il resto, si tratta di un’opera che, come dichiara l’autore stesso, si specchia in quella di Jorge Manrique, Quevedo, Bécquer, Ungaretti, Montale, Quasimodo e Jaime Gil de Biedma; e si fonda su tre idee fondamentali, spesso riportate nei suoi manifesti, in interviste e presentazioni. Innanzitutto, la concezione della poesia come atto di distruzione; quindi la convinzione che, puntualizzando quanto affermava Nebrija che «si scrive come si parla»2 in realtà, innanzitutto, «si scrive come si vive»3 e la coscienza di marginalità di chi va alla ricerca di un lirismo profondo che condanna il poeta a illuminare il mondo e a cantarlo. Con la prima di queste idee, il poeta risulta uno “sterminatore” – come l’ha definito qualcuno – che cerca di liquidare l’ordine prestabilito per edificarne uno nuovo, esente dai pregiudizi che falsano la realtà dell’uomo, guidato dal sentore del vero. Questo per dire che il carattere apparentemente distruttivo della sua poesia nasce da un’inclinazione al rischio e alla profondità, in cui ogni parola viene soppesata e indirizzata per dotare il poema della massima intenzionalità, sia etica che estetica. Ángel Crespo spiegava il medesimo concetto, affermando che questa poesia è «volta a rimuovere gli ostacoli della vita più che a essere messaggera di annichilimento; porta scompiglio, non nell’ordine naturale, ma nel disordine con cui i manichei di tutti tempi hanno cercato di sostituirlo»4. E noi aggiungiamo che questo modo di procedere, basato sull’effetto dei contrari, colloca il nostro poeta agli antipodi del nichilismo. Arriviamo quindi alla conclusione che Ángel Guinda scrive come vive, così come è stato accennato riguardo al secondo aspetto della sua scrittura. Una fame di vita e di esperienze personali che ci rivela nell’opera lo spazio comune delle nostre vite, la fattura dei nostri desideri, delle nostre frustrazioni, speranze, dubbi e certezze. Infine, sulla risultante delle due vie tracciate ritroviamo la terza che abbiamo indicato: il poeta si sente spinto al canto, alla poesia poiché tanta vita che come spesso afferma l’autore è anche tanta morte, non può non essere offerta, donata. In questo senso, Guinda è stato definito come un poeta maledetto, condannato a rendere poetico tutto quanto incontra. Ciò nonostante, ci sembra più adeguato considerare tale aspetto maledetto come l’ombra che la tentazione della concentrazione su se stesso proietta sul suo lavoro, pur se non arriva a materializzarsi. Di fatto, l’autore stesso ha denunciato questo pericolo nel suo saggio El mundo del poeta, el poeta en el mundo. Ci riferiamo alla pretesa che la poesia crei uno stato migliore della realtà e, per questo, migliore rispetto alla realtà, dimenticando che, come ci ricorda Víctor Moreno, lungi dall’essere così, il verso è «una possibilità espressiva in più che abbiamo a nostra disposizione»5 e, come tale, «non né migliore né peggiore di altre»6. Capiamo allora, che se Ángel Guinda dichiara di scrivere contro la realtà, non è perché la detesta, ma perché riconosce in essa l’incapacità di rispondere al suo grido umano, il che, in ultima istanza, non gli fa rinnegare quanto esiste, ma perseguire – quasi implorare -un inizio di risposta, qualcosa che gli sveli su claro interior – la sua chiara interiorità – come recita il titolo dell’ultima raccolta di poesie. La constatazione, in definitiva, che la realtà è segno di un’altra cosa. Infatti, nella poesia intitolata “La realtà” si spiega che, nonostante scriva contro di essa, senza sapere nemmeno se esiste, essa persiste «e questo sì, è un mistero»7. Un ulteriore conferma ci è data da una traiettoria poetica che comprende due tappe: quella che si conclude con il libro Biografía de la muerte e quella successiva a questa pubblicazione. La linea divisoria tra le due sarebbe delineata dall’incontro con la voz de la mirada – la voce dello sguardo – titolo di un’altra sua opera, e punto di inflessione verso una poesia «rivolta al mistero»8. Se in Ángel Guinda è stato possibile questo itinerario, c’è da chiedersi cosa possa definirsi impossibile! Noi lettori aspettiamo ansiosi l’evoluzione del suo lavoro, e questo, per un poeta, è molto significativo. Traduzione di Gloria Bazzocchi
1Ángel Guinda, El Mundo del Poeta. El Poeta en el Mundo, Olifante, Zaragoza, 2007, pp. 7-8. 2Ángel Guinda, Poesía y Subversión: Manifiesto del 78, Zaragoza, Olifante, 1978; cit. Vida ávida, edizione bilingüe in bulgaro e spagnolo, trad. Rada Panchovska, Sofía, Próxima RP editorial, 2006 p. 88. 3Ibid. 4Ángel Crespo, Las cenizas de la flor, Madrid, Júcar, 1987; cit. Vida ávida, edizione bilingue in bulgaro e spagnolo, trad. Rada Panchovska, Sofía, Próxima RP editorial, 2006, pp. 97-98. 5Víctor Moreno (2007), “Lugares comunes sobre el hecho poético”, Cuadernos de Literatura Infantil y Juvenil, 2007, pp. 1-3. 6Ibid. 7Ángel Guinda, Claro interior, Zaragoza, Olifante, 2007, “La realidad”. 8Ángel Guinda, El mundo del poeta, el poeta en el mundo, Zaragoza, Olifante, 2006, p. 10. |
POESIE DI ÁNGEL GUINDA
a cura di Pablo Luque Pinilla
traduzione di Gloria Bazzocchi
Tu boca vertical me escupió oblicuo y no ha dejado tu sangre de rodar; más que en la mesa, al volcarse una botella, su dentro se derrama. Y esa sangre no puede coagular sino en mi pecho, en esa bomba músculo que llaman corazón y yo taberna. Bebo mosto de alumbramiento, negro alcohol espejo de tu ausencia. Llevo toda la vida bebiendo hijo sin fermentar, masticando la madre de mi vino. Toda la vida borracho de soledad tragando muerte.(Vida ávida, 1980-1990)La tua bocca verticale mi espulse di sbieco e non ha smesso il tuo sangue di gorgogliare; più di quando su un tavolo si rovescia una bottiglia, il suo interno si sparge. E quel sangue non può coagulare se non nel mio petto, in quella pompa muscolo che chiamano cuore ed io taverna. Bevo mosto di nascita, nero alcol specchio della tua assenza. È tutta la vita che bevo figlio non fermentato, che mastico la madre del mio vino. Tutta la vita ubriaco di solitudine a ingurgitare morte.PÓSTUMOMe he bebido la vida. La resaca ha dejado en mis labios un torbellino de desdén, y en la mirada toda la ausencia de la lejanía. Convivo con la muerte. Cualquier noche, en lugar de unas manchas sobre un folio y un ruido de palabras martilleantes dando tumbos contra la dentadura, te dejaré la luz de mi silencio, limpio como el mantel desplegado del sol. (Vida ávida, 1980-1990) POSTUMO Mi son bevuto la vita. LA EDAD DE ORO No lamentes (Conocimiento del medio, 1990-1995)
L’ETA’ DELL’ORO Non rimpiangere PARA PERMANECER Je ne vois qu´infini par toutes les fenêtres Sin perder de vista el cielo, (Conocimiento del medio, 1990-1995)
PER PERDURARE Je ne vois qu´infini par toutes les fenêtres Senza perder di vista il cielo,
AUTOBIOGRAFÍA Si mi vida no es esto Me preguntas por mi vida a bocajarro: (La llegada del mal tiempo, 1995-1996)
AUTOBIOGRAFIA Si mi vida no es esto Mi chiedi della mia vita a bruciapelo: REGLAS DEL JUEGO Cuando se es muy joven Cuando se es menos joven Cuando se empieza a envejecer Cuando se es ya viejo Cuando se nubla la vista (La llegada del mal tiempo, 1995-1996) REGOLE DEL GIOCO Quando si è molto giovani Quando si è meno giovani Quando si comincia a invecchiare Quando ormai si è vecchi Quando si annebbia la vista LOS ALMENDROS EN FLOR Cada año Salgo al campo: (La llegada del mal tiempo, 1995-1996)
I MANDORLI IN FIORE Ogni anno Vado in campagna: LA PUERTA DEL SILENCIO Somos gotas de sed, Frente al mar todos callan. (La llegada del mal tiempo, 1995-1996)
LA PORTA DEL SILENZIO Siamo gocce di sete, Di fronte al mare tutti tacciono.
MORIR Morir es no volver a estar (Biografía de la muerte, 1996-2000)
MORIRE Morire è non ritornare UNA VIDA TRANQUILA Antes del fin Me he castigado tanto el cuerpo, el alma, (Biografía de la muerte, 1996-2000) UNA VITA TRANQUILLA Antes del fin Ho castigato tanto il corpo, l’anima, CANCIÓN ESTÉRIL Cómo habría querido darte todo (Biografía de la muerte, 1996-2000)
CANZONE STERILE Come avrei voluto darti tutto ¿Mirar es acercarse o atraer? (La voz de la mirada, 2000-2001)
Guardare è avvicinarsi o attirare?
“Eres la lejanía, que me cerca.” (Toda la luz del mundo, 2000-2002) “Sei la lontananza, che mi circonda.” Qué insaciable beber un agua que tiene sed. (Toda la luz del mundo, 2000-2002) Quanto è insaziabile bere dell’acqua assetata. LAS PALABRAS Cada palabra pesa Hay palabras que viven, Cada palabra pesa (Claro interior, 2000-2007) LE PAROLE Ogni parola pesa Vi sono parole che vivono, Ogni parola pesa LA REALIDAD A pesar de que escribo (Claro interior, 2000-2007) LA REALTÀ Nonostante io scriva MUNDO PROPIO Estar fuera del mundo por llevar un mundo dentro. Si mi mundo no es éste, mi mundo dónde está. (Claro interior, 2000-2007) MONDO PROPRIO Essere fuori dal mondo per avere un mondo dentro. Se il mio mondo non è questo, dov’è il mio mondo. |
© de los poemas en castellano: licencia otorgada por Olifante. Ediciones de Poesía © delle poesie in castigliano: licenza rilasciata da Olifante. Ediciones de Poesíapablo.luque.pinilla@gmail.com gloria.bazzocchi@unibo.it |
Questo saggio è già comparso sul n. 6 – dicembre 2009 di Poliscritture cartacea scaricabile qui
Donato Salzarulo
Con te a volte appuntamento
mancato, ala d’eclissi, soffio
innevato.
C’è una poesia della raccolta «Composita solvantur» (Einaudi, 1994) che non mi risulta abbia ricevuto sinora molta attenzione o commenti. Eppure Fortini le attribuì una posizione “strategica”: collocandola all’inizio; facendola stampare in corsivo, con un carattere tipografico diverso dalle altre; dandole una funzione di apertura e di “illuminazione” del clima generale della raccolta, di guida implicita, ecc. In breve, un insieme di segnali che il lettore non può non notare. La poesia, senza titolo, è questa:
Per quanto cerchi di dividere
con voi dal vero le parole
la fede opaca di che vivo
è solo mia. La tento ancora
e l’occhio guizza, la saliva
brilla sull’orlo dei canini,
o incerti amici, o incerte prove.
*
Per quanto cerchi di conoscere
che cosa guarda dal sereno
dove il celeste posa in sé,
di questo sono certo e fermo:
i globi chiari, i lenti globi
templari cumuli dei venti
non sono me.
Quattordici versi in tutto, orchestrati meravigliosamente e con incomparabile sapienza. Quattordici versi suddivisi in due tempi perfettamente equivalenti: sette e sette. Evidente la simmetria. La composizione è una, ma è divisa come una foglia di alloro in due parti. Sia i sette versi della prima che quelli della seconda sono distribuiti in coppie di novenari. Ancora il due, quindi, e ancora la simmetria. Ma i versi sono dispari e uno alla fine resta solo (“o incerti amici, o incerte prove.”, “non sono me.”). L’ultimo verso tronco è mimesi della poesia che si tronca e smette di dire. «L’uno che in sé si separa e contraddice, e tu fissalo; finché non sia più uno. E poi torni ad esserlo, e ti porti via» aveva scritto Fortini in «Una volta per sempre» (Einaudi, 1987)Una volta per sempre».
I primi versi di ambedue le prime coppie sono sdruccioli e in rima tra loro (“Per quanto cerchi di dividere”, “Per quanto cerchi di conoscere”). Sette: numero sacro per eccellenza, espressione della mediazione fra umano e divino. Sette sono le luci del candelabro ebraico, simbolo della fede perennemente accesa; sette i sacramenti, sette i peccati capitali, sette le virtù (quattro cardinali e tre teologali), sette le note musicali, sette i giorni della settimana, ecc. ecc. Il simbolismo del sette è ricchissimo. Poi, l’Uno che è in sé Due. Le coppie di novenari della prima e della seconda parte sono tre e tre. Altro numero di carattere indubbiamente simbolico, come il padre Dante e tutta la storia del cristianesimo insegna. Del resto anche la scelta di una misura metrica come il novenario non è certo dovuta al caso. Il simbolismo del sette, l’Uno che è in sé Due, la distribuzione trinitaria delle coppie, il ritorno della solitudine dell’Uno, le pause ritmiche del novenario, il verso tronco finale… Fortini ha insegnato che in poesia la forma è il contenuto. Il come di questo testo dice, allora, già molto di sé. Vorrei soltanto ricordare che «Composita solvantur» è l’ultima opera di questo poeta e rappresenta un po’ il suo testamento.
Sulla tessitura musicale non voglio dilungarmi più di tanto: appare come è evidente fitta di ripetizioni e variazioni attraverso rime, assonanze e consonanze, ecc. Nella circostanza, preferisco andare ad un’analisi più ravvicinata del testo: sia il primo verso sdrucciolo della prima parte che quello della seconda sono aperti da una locuzione congiuntiva, di natura concessiva, che ha implicitamente il sapore e il tono di un bilancio interiore: “Per quanto cerchi di dividere”, “Per quanto cerchi di conoscere”. Il gesto del cercare di dividere (che vale sul piano semantico sia come “condividere”, “rendersi partecipe” che come “frazionare”, “distinguere”) e quello del cercare di conoscere appaiono ripetuti come tentativi tenaci anche se condotti su terreni sdrucciolevoli e incerti nei loro risultati.
La prima coppia concessiva recita: “Per quanto cerchi di dividere / con voi dal vero le parole”. C’è un Io poetico, quindi, che si rivolge a un Voi con cui sembra avere in comune un’attività: quella di condividere con loro e/o di distinguere “dal vero le parole”. Sì, perché le parole, pare di intendere, non sempre provengono dal vero o non sempre sono capaci di rivelarlo. Ricercare e indagare su quelle parole che segnalano e mostrano il vero è perciò attività assolutamente importante. Ma questo vero di che natura è? Non è sicuramente quello a portata di mano, quello per cui alla domanda se in questo momento stia piovendo, una persona possa rispondere vero o falso. Il vero che l’Io poetico cerca di percepire e distinguere con quel Voi a cui si rivolge è tale che si trascina dietro un’importantissima confessione: “la fede opaca di che vivo / è solo mia.” È un vero, allora, in relazione con la fede, che richiede una risposta personale, coinvolgente, impegnativa. Sottolineo: non è in questione un’opinione più o meno fondata, la verifica di un’ipotesi scientifica o la dimostrazione di un teorema. Fede è adesione piena di una persona, credenza profonda di cuore e mente, di sensibilità e ragione. Riguarda il tutto.
Il mettere in primo piano questa certezza personale, non credo comporti una preconcetta svalutazione di quel Voi collettivo, impegnato, come l’Io poetico, nella ricerca del vero. È consapevole, però, di muoversi su un terreno scivoloso, incerto (“o incerti amici”). È probabile, infatti, che non tutte le persone di quel Voi siano impegnati allo stesso modo, con lo stesso sforzo e la stessa intensità nella ricerca. Da qui il tono di una confessione intima e, allo stesso tempo, risoluta; libera e necessaria; partecipata e tuttavia distaccata. Una dichiarazione di fede che appartiene alla vita dell’Io e che coinvolge tutte le fibre della sua esistenza individuale e sociale. “Fede opaca”, scrive Fortini. E bisogna intendersi. Opaca è aggettivo che oscilla dal “non trasparente” al “poco comprensibile”, dal “poco luminoso” al “poco rischiarato”, allo “stare in ombra”. Non penso che Fortini attraverso l’aggettivo voglia sminuire il sostantivo, dargli meno valore. È poeta che so traduttore di figure limpide come Simone Weil. Scrivendo “fede opaca”, è probabile che avesse presente Giovanni della Croce o altri mistici per i quali la fede è «notte oscura dell’anima». Non è luce, produce luce. È certezza interiore che appartiene in modo esclusivo e totale al singolo. Non è credenza cieca, superstiziosa, dogma incrollabile e inattaccabile. Di queste credenze anche collettive possono a volte alimentarsi le ecclesie. È confessione esplicita di certezza, punto fermo in ombra, poco luminoso che, forse proprio per questa sua opacità, riesce a produrre, come sostenevo prima, grani di luce; è, comunque, un nutrimento (“di che vivo”) da sperimentare, da mettere ancora alla prova nella vita quotidiana (“La tento ancora”). Nutrimento che produce sul piano individuale effetti salutari come mostrano proprio i versi successivi della poesia: “e l’occhio guizza, la saliva / brilla sull’orlo dei canini”. Guizzare, brillare. Azioni indubbiamente vitali, scatti, segnali di vivacità e luce. Così quest’Io, che ancora una volta mette alla prova la sua “fede opaca”, ne trae benefici per nulla disprezzabili: l’organo della vista risulta potenziato e si muove dinamico e brioso; e, come nel famoso esperimento di Pavlov, di fronte allo stimolo che essa rappresenta, aumenta la salivazione del soggetto. L’acquolina in bocca è riflesso condizionato; è, però, anche manifestazione della voglia di mangiare, assimilare e nutrirsi; segnale di presa di possesso, pulsione e desiderio forte, per certi versi, aggressivo di mordere e afferrare il cibo. Ma qui il cibo da afferrare, mordere, assimilare, il pane e vino da mangiare e da bere sono le relazioni sociali dell’Io col Voi, sono quegli “oggetti d’amore” e conoscenza rappresentati dai tentativi ostinati di condividere e individuare le parole dal vero. Conclusione dell’Io poetico: “o incerti amici, o incerte prove”. Il tono è un po’ sconsolato, ma non rassegnato e rinunciatario.
Conclusione mia, provvisoria, riferita a questi primi sette versi: il testo è attraversato da una dialettica di certezza-incertezza. La prima è relativa alla fede personale, la seconda alle condivisioni sociali, ai tentativi e alle prove che vengono effettuate per distinguere insieme agli altri “dal vero le parole”. Generalizzando si potrebbe dire: sul terreno sociale e/o “ecclesiale” dell’appartenenza, che rappresenta sia il momento della “tentazione” della propria fede, del metterla alla prova e sperimentarla, sia quello della vitalità e vivacità esistenziale, domina l’incertezza. Nella storia sociale e politica mentre le “amicizie” di ognuno di noi sono incerte e incerti sono i tentativi che facciamo per raggiungere le verità, è certa, invece, la fede opaca che ognuno si porta dentro e con cui nutre le sue prove di esistenza.
La dialettica certezza-incertezza domina anche nella seconda parte della poesia. L’incertezza questa volta è relativa agli atti conoscitivi, soprattutto quelli rivolti al “che cosa guarda dal sereno // dove il celeste posa in sé”. Il “celeste”: aggettivo sostantivato. Relativo al cielo, cioè ad un luogo in cui qualcosa che sta tra un “corpo”, un “regno”, un “padre” più o meno sublime e ineffabile, è immobile, fermo in sé, sia nel senso dell’adagiarsi, calmarsi, sia nel senso dell’appoggiarsi e aver fondamento. È qui, da questo luogo sereno, terso, privo di affanni che proviene uno sguardo verso un oggetto, un “che cosa” impossibile da conoscere nella sua totalità e completezza, per quanto l’Io poetante tenacemente si sforzi. A fronte di questa incertezza, in antitesi, c’è l’annuncio poetico di una certezza e di una fermezza un po’ simile a quel posarsi in sé del celeste: “di questo sono certo e fermo:” E su cosa non ha dubbi e tentennamenti quest’Io? “i globi chiari, i lenti globi / templari cumuli dei venti // non sono me.” La parola ripetuta, che fa da baricentro è “globi”, cioè le sfere terrestri e celesti. Ma potrebbero essere anche i globi oculari di quel celeste che guarda dal sereno. Comunque, i globi sono il soggetto della proposizione che, dopo alcune apposizioni, si conclude con la sottolineatura di una non identificazione: “non sono me”. La certezza dell’Io è dunque questa: pianeti e universi luminosi, tersi come quel sereno in cui “il celeste posa in sé”, conosciuti e lenti nei loro movimenti, ammassi religiosamente sovrani (“templari”) dei venti (del divenire e della trasformazione), non s’identificano con il me, oggettivato dall’Io. “Dove il celeste posa in sé […] non sono me”. La rima precipita il significato verso questa non identificazione del Sé celestiale e del Me poetico. Come dire? Questi Me, questi accusativi che ognuno di noi produce fino alla morte, queste oggettivazioni artistiche, poetiche della propria esistenza sono altra cosa rispetto al Sé immobile e autoriflesso che guarda dal suo luogo sereno non si sa bene cosa, con globi contenenti cumuli di divenire. Se è vera questa non identificazione e se il sereno col “celeste che posa in sé” rappresentano modi di indicare il Divino, se ne deve dedurre che esso non è solo o prevalentemente una “costruzione” degli esseri umani. Non è il frutto delle loro illusioni e alienazioni.
Difficile trarre conclusioni meno che provvisorie da questo modesto tentativo di lettura. A me sembra che in questi versi circolino pensieri importanti relativi alle seguenti questioni:
Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.
Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro di loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.
La poesia è datata 1960-1962. Partire è un po’ morire, dice il proverbio. Prima di morire davvero, Fortini ci regalò ancora per oltre un trentennio le note acute dei suoi pensieri e delle sue riflessioni. È significativo, però che nel 1991, riproponeva questo componimento. Dentro c’è l’Iddio: questo “antico morso”, “dolore terribile”, “ago del mondo” conficcato nella sua e forse nella nostra carne. È il Dio dell’Antico Testamento, il “grande fosforo imperiale”.
Bisognerebbe togliere credo la poesia iniziale che ho cercato di commentare dal suo splendido isolamento, connetterla con altre sorelle e con altri testi. Obiettivo: comprendere meglio la dimensione religiosa di Fortini insieme alla sua saldatura con quella politica e culturale. «La religione non può essere identificata col misticismo o con l’irrazionalità. Hegel lo sapeva. E anche Marx.» scrisse il poeta in «Insistenze» (Garzanti, 1985). Esplorare i molteplici sensi di questa “fede opaca”, capire come alimenta energie vitali e produce importanti visioni dialettiche, rimane perciò compito fondamentale di ognuno di noi. Le nostre fedi, come quella di Fortini, dovrebbero saper scendere per le vie, incontrare i volti vecchi e nuovi del lavoro sfruttato e produrre, anche sulle questioni ultime e penultime, salutari eresie e intelligenti combattimenti culturali e sociali.
26 Ottobre 2009
Editore: youcanprint, Formato: EPUB, € 1,99
di Cristiana Fischer
Della materia vivente la parte femminile è più o meno oscuramente autore consapevole. L’Ignoto Assoluto invece, ugualmente vivente non biologico, forse si nutre dello stesso amore.
di Donato Salzarulo
Se incontro l’ombra che attrista il tuo viso, con questa torcia l’accerchio e confondo.
Oltre che al poeta, desidero fare un omaggio al Grandinetti professore. Per l’occasione desidero ripetere ciò che lui ha fatto innumerevoli volte. Prendere una poesia e spiegarla, parafrasarla, commentarla. In questo caso sceglierne una sua fra le 3.500/4.000 (fonte Luciano Aguzzi) scritte in quaranta anni, mi è difficile. Anche perché onestamente non le conosco tutte. Sceglierò allora quella che Abate (un altro suo attento lettore) ha pubblicato sul sito di POLISCRITTURE nel giorno della sua scomparsa. Immagino che Abate l’abbia scelta perché abbia sentito in quei versi qualcosa di definitivo. Forse l’immagine di un ritratto. Forse l’immagine di parole, pensieri e sentimenti che riescono a comunicare, una volta per sempre, un’identità. La poesia ha per titolo “OMBRE E VICENDE” ed è tratta dalla raccolta “DISAMORARSI D’ESSERE”.
Continua la lettura di Lettura di «Ombre e vicende» di Eugenio Grandinettidi Alberto Mari
Al di là del loro senso illimitato “scritture e realtà” sono termini a volte contrastanti che comunque difficilmente si integrano. Se poi parliamo di fruibilità, per la scrittura, specialmente quella poetica, è notte fonda. Continua la lettura di La visione delle parole
di Sonia Lambertini
*
Per sottrazione, mi ripeto. Continua la lettura di Tre poesie da “Danzeranno gli insetti”
di Leopoldo Attolico
ANTAGONISTI MANCATI
( gli orrendi anni ’80 )
Alla mia generazione è sempre mancata
l’ambizione di colpire e sparire
come conviene ai guastatori;
il genio della guerriglia
di cui era maestro Garibaldi Continua la lettura di Inediti 1986-2016