di Ennio Abate, Paolo Rabissi e Franco Romanò
Partendo da un articolo di Abate, DA RENZO TRAMAGLINO (MERIDIONALE) A SAMIZDAT del 19 febbraio 2018, abbiamo intessuto ricordi personali e politici su un evento al quale ciascuno di noi ha partecipato a modo suo. Sono passati cinquant’anni. Sembriamo ancora accomunati da un giudizio sostanzialmente positivo sul significato storico e politico del ’68. Eppure diversi sono gli accenti, le prospettive e i filtri di lettura che usiamo. Sperando di non aver opacizzato ma reso nelle sue molteplici facce alcune di quelle vicende e i problemi che affiorano nel ripensarle, pubblichiamo in un unico blocco il nostro lungo e laborioso scambio di mail, avvertendo in anticipo che un po’ di fatica la chiediamo ai nostri convenzionali quattro lettori. [E.A., P.R., F. R.]
Da Paolo 26 maggio 2018
Caro Ennio
non sono uno dei vecchi cui poter passare le tue domande così cariche di problemi, non ho capito meglio di te il significato di quell’anno. Di più, io festeggio il ’68 tutti gli anni il 7 dicembre non perché a S. Ambrogio in quell’anno Capanna strigliava i compagni poliziotti davanti a La Scala ma perché più o meno nella stessa piazza (c’era un Motta) io e mia moglie facevamo un piccolo rinfresco dopo il matrimonio della mattina. Non voglio essere irriverente verso l’ennesimo decennale, è che a voler parlare di quegli anni come fai tu (apprezzo il tono che dai alla tua narrazione) verrà sicuramente fuori 1) che il mio ’68 era cominciato nel ’66 (perché ho cominciato a insegnare da studente e che non aveva una lira in tasca, perché ho conosciuto quella che sarebbe diventata la mia compagna e perché ho conosciuto la maggior parte dei compagni di ‘Classe operaia’) e 2) che in realtà per me non è mai finito. Anche a me interesserebbe un po’ di più interloquire con un giovane, precario e disoccupato se proprio vuoi. Ma neanche tanto. Quando arrivano in casa i giovani di Amazon o di altri servizi, postali e non, mi confessano che amano il loro lavoro, durissimo ma pagato abbastanza e non si preoccupano per niente di futuri e di pensioni e di cassa malattia. Tutti a dire poveretti come sono sfruttati e c’è un po’ di miserabilismo intorno a loro e invece poi scopri che fanno lotte non da poco. Ma un amico della logistica ci sta dentro bene, lavora come nessun operaio fordista avrebbe accettato di fare. Però nella logistica fanno lotte non da poco e scoprono daccapo il mutuo soccorso, la solidarietà di un tempo. Accidenti c’è tutto un mondo da cui ricominciare ma io non ho più la forza e interamente nemmeno la voglia, seguo qualche situazione ma bisogna essere disperati come cani randagi. Mi manca l’inchiesta sul campo collettiva, quella con la quale sono nato politicamente, ma era fine ’67 con La classe, operai e studenti uniti nella lotta. Poi c’è stato Potere Operaio, per me solo fino al 71 quando la deriva insurrezionalista fece allontanare quasi tutti noi milanesi con Sergio Bologna, ma Sergio ci aveva già fatto fare il giro tra Pirelli, Alfa e Mirafiori, e dopo il 3 luglio del ’69 non c’era stata quasi più storia studentesca se non operaista: se proprio devo ‘circoscrivere’ come mi ha insegnato lo Zibaldone il ’68 finisce la sua grande ondata nell’80 con la passeggiata dei 40.000. Ma poi continua e oggi sono ancora qui che studio i Grundrisse e il frammento sulle macchine, perché tutto è cominciato da lì, per me ma non solo.
Ma ne sai qualcosa. Abbiamo vicende comuni. La mia tesi con Catalano, dopo avere tradito Della Peruta col quale avevo stabilito una bella amicizia, era come te sui Quaderni Rossi ma poi proseguiva con Classe operaia. Era pronta da tempo ma la militanza mi ha bruciato un paio di anni. Ero, come sempre, fuori tempo massimo con gli studi, come te ho lavorato, dopo la maturità afferrata per il collo, come impiegato contabile (!) per un anno e poi quasi un anno come sguattero a Colonia. Non lo so se ci riuscirò a ricostruire quei miei anni. Ma credo che tutti dovrebbero farlo. Senza piangersi addosso. E recuperare anche alla memoria i nostri anni d’insegnamento perché la scuola come ci abbiamo insegnato noi è stata una bella scuola sul serio, il ’68, studentesco e operaista è andato avanti con noi nella scuola, non a caso abbiamo insegnato negli IPSIA, negli ITIS, ed è stata scuola di democrazia, di conflitto, di rifiuto della parte sclerotizzata del nostro umanesimo. Ma eravamo già da prima nella scuola: con il terzo anno di iscrizione alla Statale ho ottenuto appunto già nel ’66 il mio primo anno scolastico di supplenza, incredibile, era la scuola di massa che avanzava ed è stata prodromica al ’68. La scolarizzazione di massa faceva aprire scuole dappertutto. ll mio ’68, anche in questo senso, era già cominciato. Quella era per se stessa una spallata incredibile all’ancien regime, nelle scuole arrivarono a insegnare studenti che portavano con sé un’aria libertaria e anche un po’ libertina, che sbaraccavano in quattro e quattr’otto metodi e ritmi della scuola. Ma trasmettevamo cultura alternativa, più di quanta noi stessi credessimo. I ragazzi ci volevano bene. I presidi no. L’antiautoritarismo dispiegatosi in quegli anni per me fu quasi un naturale portato di rottura con certi padri, almeno i miei, silenziosi, fascisti, piccolo borghesi, con la verità in tasca, succubi e servi in una città dominata da una borghesia industriale nera, autoritaria e cattiva, che all’università governava come signori feudali. Da allora la scuola non poteva più essere come prima. Magari abbiamo residuato solo coscienza sindacale, beh buttala via oggi, e comunque le tessere sindacali le abbiamo a un certo punto stracciate.
Ma i figli degli operai ai quali abbiamo insegnato il pensiero critico non residuarono solo straccioneria. Molti hanno studiato. Roberto, figlio di un operaio dell’Alfa, mi disse un giorno: guarda le lotte pagano, mio padre non deve più tenere le braccia alzate alla catena e si stanca la metà, io però in fabbrica non ci vado, piuttosto faccio la fame ma non ci vado sotto padrone.
Non sono queste conquiste di libertà da tramandare? Beh, io spero nei miei nipotini (tre)!
Il deserto oggi si è allargato in maniera inverosimile ma qualche oasi (WEB compreso) c’è ancora. Tutto il resto per ora è solo concepito.
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Da Franco Romanò 28 maggio 2018
SUL ’68 DI ENNIO
Caro Ennio, viste le difficoltà crescenti con cui mi avvicino al mio ’68, alla fine ho letto il tuo, molto bello, anche se forse questo aggettivo può sembrare abusato. E invece lo uso con piena consapevolezza. Alla fine del tuo viaggio ho capito che l’approccio che avevo in mente è del tutto analogo e cambia poco se il mio treno non veniva dal sud ma dal profondo nord della Brianza, che è a sua volta – nel mio immaginario – un altro sud. Ho sempre pensato che la Brianza profonda abbia qualcosa che l’assimila antropologicamente all’Alabama e avendolo scritto prima che la Lega Lombarda nascesse penso di avere qualche ragione dalla mia parte. Inoltre, una cospicua parte narrativa di quello che è il mio ’68 è finito in un romanzo.
La ricostruzione del tuo percorso è convincente perché non è solo il tuo ed è scritto in uno stile che permette a ciascuno di ritrovare il proprio ’68: questo mette in moto ricordi e anche un po’ di nostalgia, che non guasta. Infine c’è un passaggio che per me è un vero cammeo: l’eleganza del levriero al guinzaglio della occasionale compagna di Feltrinelli dice molto senza spiegare nulla. Alla fine, ho rinunciato a scrivere del mio ’68.
Però poi, a conclusione del tuo viaggio, poni delle domande politiche che vanno oltre la narrazione ed è su alcune di queste (le riporto qui sotto) che vale la pena invece di soffermarsi e tentare di rispondere ed è quello che cercherò di fare, avendo in testa una linea precisa di ricerca e cioè che il modo politicamente meno angusto di ricordare il ’68 è quello di collocarlo all’interno di un ciclo più lungo della storia italiana che parte dai fatti di Piazza Statuto del 1962 e finisce con la marcia dei 40.000 della Fiat nel 1980. Mi rendo conto che è materia da storici, ma lo è anche da militanti quali, con tutti i limiti e le differenze di ruolo e coinvolgimento personali, siamo entrambi stati. Ripercorrere questa storia significa anche farlo alla luce di quello che sono state le pagine nobili e le sue sconfitte. Queste ultime hanno le loro ragioni negli assetti politici che le potenze vincitrici imposero all’Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Tali ragioni sono state quasi del tutto ignorate da parte di movimenti e forze politiche extra parlamentari che si formarono in quegli anni. La parola ignorate non va presa alla lettera, visto che non facevamo altro che parlar di Cia e del ruolo degli Usa. Ho condensato in un ossimoro di cui ho discusso anche con Paolo Rabissi il senso della parola ignorate: Avevamo ragione su tutto ma non ci abbiamo capito nulla.
Vengo ora alle tue domande, rispondendo alle quali mi auguro anche di sciogliere un po’ il significato dell’ossimoro.
… Ma, vista l’aria che ira oggi, a cinquant’anni dal ‘68, non so più se parlarne possa servire a qualcosa o a qualcuno. E allora, come il mio personaggio, sono tentato io pure di ritirarmi «in un cerchio di solitudine» a riflettere e a farmi domande per conto mio: feci bene a partecipare a quella rivolta di studenti? feci bene a orientarmi verso l’operaismo? perché non avvenne una vera saldatura tra noi in basso e i leader del movimento, i fratelli politici (a volte maggiori di età e a volte minori) ai quali mi accompagnai?
Comincio da queste per dire subito che secondo me facesti bene, come ognuno di noi fece, a partire dal luogo (da non intendersi solo in senso fisico) in cui si trovava quando fu trascinato dalla forza di quegli eventi a farne parte e a cercare di capire. Io ebbi, dopo molte oscillazioni, una propensione verso il maoismo, ma questo è ormai irrilevante. Rilevante è invece ricordare che da quell’ondata, che iniziava da prima di noi e cioè proprio nel 1962, e che avremmo imparato nel tempo a scoprire, nacquero le più grandi conquiste civili di questo paese che metto nell’ordine in cui le ricordo:
- La legge 180 voluta da Franco Basaglia e Franca Ongaro.
- Lo statuto dei lavoratori, grazie alla determinazione di molti e alla cocciutaggine di un uomo che nessuno ricorda: Brodolini.
- La legge 194 sull’interruzione di gravidanza.
- Una copertura sanitaria per alcuni anni fu addirittura totale e sulle spalle delle fiscalità generale.
- L’unificazione del punto unico di scala mobile.
- Le 150 ore
- Laura Conti, Giulio Maccaccaro, Ercole Ferrario, per tutto quello che ci insegnarono e fecero attivamente per denunciare la non neutralità della scienza, per dire che sicurezza sul lavoro e salute non sono monetizzabili e nel concretizzare un discorso ambientale che sapeva unire insieme sua nell’analisi sia nell’azione concreta problemi ambientali e tensione anti capitalistica.
Questi sono solo gli aspetti più istituzionali: ma come non ricordare quello che nasceva e si sviluppava in un rapporto antagonista, a volte, altre volte con accordi parziali, con le istituzioni: dal movimento di occupazione delle case, la nascita dei consultori e dei centri anti violenza, i consigli di fabbrica, l’autocoscienza che ebbe un influsso forte anche sugli uomini, i gruppi di autocura e chissà quante cose ho dimenticato.
Tutto questo, intendiamoci, non è una risposta alla tua ultima domanda, quella forse più pregnante, e cioè perché la saldatura fra i fratelli maggiori e minori non ci fu o ci fu solo in parte. Tuttavia, questa domanda, cui cerco subito di rispondere, non può cancellare a mio avviso tutto quello che ho ricordato in precedenza.
La saldatura in parte ci fu, per esempio con la generazione grazie alla quale scoprimmo o riscoprimmo il valore della Resistenza Antifascista, solo che ci trovammo ad affrontare un dilemma non da poco: un aspetto fondamentale del ’68 fu anche quello di non riconoscersi nei padri e dei padri rifiutavamo anche le tendenze autoritarie presenti nella generazione resistenziale, cui pur guardavamo con sentimenti di riconoscenza. E poi Freud, che scoprivamo in quegli anni, ci insegnava pure che i fratelli, una volta che si sono liberati del padre, non è che sappiano bene cosa fare. Tuttavia, penso che tutto questo sia vero ma che manchi qualcosa di decisivo e cioè che scoprivamo un po’ traumaticamente come uomini che il mondo non era fatto solo di fratelli ma anche di sorelle e che queste ultime si ribellavano ai padri come noi ma anche ai fratelli che noi eravamo.
… erano di gran lunga più potenti e insidiose le sotterranee manovre dei partiti di destra ma anche di quelli di sinistra per bloccare la rivolta e non si fu in grado di respingerle?
Sì, nel breve e nel medio tempo fu così e questa tua domanda mi dà modo di ritornare sull’ossimoro e cercare di spiegarlo. Erano più potenti perché noi ci affacciavamo sulla grande storia e non potevamo di certo conoscerla in partenza o sapere in quel momento dentro quali vincoli internazionali e quanti e quali non detti (da entrambe le parti che combattevano la Guerra Fredda) agivano sotterraneamente. Qualcosa intuivamo eccome, anzi molto di più e questo è il senso della prima parte del mio ossimoro: avevamo ragione su tutto. Lo capivamo però astrattamente – anche dopo la strage di Piazza Fontana – e non nella concretezza fattuale e profondità e dunque non ci abbiamo capito nulla. C’era in questo anche un atteggiamento positivo, cioè dell’andare oltre un limite che, peraltro, nessuno veramente indicava perché per opposte ragioni – che a sinistra talvolta erano anche nobili ma altre volte no – tutti avevano la necessità di difendere ragioni indicibili. In particolare ci mancò la capacità di capire in fretta che la definizione di Guerra Fredda era un’ipocrita e tragica definizione che occultava la realtà dei fatti: una guerra calda e senza esclusione di colpi ma combattuta con i metodi della guerra asimmetrica e del terrorismo di stato; una guerra in cui l’Italia si trovava al centro. La stessa narrazione sui cosiddetti servizi deviati, avallata anche a sinistra, fu un altro strumento di occultamento della realtà.
Chi pretese di capire di più e per questo scelse la lotta armata (cercando appoggi più o meno consapevoli con il campo socialista) cercò una scorciatoia che si rivelò la catastrofe che sappiamo, tutti gli altri furono presi nel mezzo, ma non si riuscì a fare molto di più. Non credo però che possiamo essere mal giudicati per questo: anzi a me sembra un miracolo che abbiamo contribuito nel tempo a tenere comunque vive certe istanze.
Ora sappiamo tutto e non sto usando un’iperbole, anzi mi prendo la responsabilità di affermare che di misteri non ce ne sono più, dopo la pubblicazione recente di alcuni libri – fra cui in primis quelli di Fasanella e Giannuli.
Ci sono dei dettagli da chiarire, il ruolo di alcuni personaggi chiave può essere ritenuto ambiguo, ma il perimetro politico in cui s’inscrivono e il senso complessivo di certi fatti, a cominciare da Portella della Ginestra, poi dal Piano Solo del 1964, per passare dalle stragi e per finire con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, sono chiari ed evidenti. Il puzzle è finito e se qualche casella rimane ancora vuota, oppure può essere riempita da attori e figurine diverse, questo non impedisce di leggere bene la figura. Anzi, continuare nella narrazione che avalla l’esistenza di misteri significa a questo punto non fare i conti con la realtà, significa non voler vedere e non voler sentire che in Italia non manca appunto lo scioglimento dei misteri, bensì un discorso sulla verità che forse non verrà mai ma che trovo assurdo non chiedere comunque. Penso a un gesto come quello che compì Willy Brandt davanti al monumento di Auschwitz. Un establishment come quello italiano non è in grado di farlo, ma penso sia legittimo pretenderlo o sollevare il problema.
Infine, cito l’ultima parte del tuo scritto:
… mi accorsi presto – e ancora devo citare Brecht – che anche nel movimento degli studenti «Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe!» (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo!).[15] Quando poi s’interruppe quel frenetico ma fecondo lavoro di contrabbando intellettuale tra università e esterno (bisognerebbe informarsi sull’ormai dimenticata esperienza delle «150 ore» partite nel 1973!), mi accorsi che dal ’68 avevo imparato comunque che è possibile lottare assieme agli altri; e che potevo continuare a cercare compagni con cui farlo. Sì, «sul fondo», anche scrivendo da solo i miei poverissimi samizdat ciclostilati in proprio e distribuiti a poche persone.
Ecco, e se fosse tempo di ricominciare?
*
Da Ennio 31 maggio 2018
ANCORA SU ALCUNI NODI DEL ’68
1.
La nostra giovinezza è stata attraversata da un lampo di eroici furori politici. Imprevisto, eccezionale, mondiale. Ma il ’68 non deve diventare una sirena che impedisca alla memoria di ritornare all’*adesso*. (“Storia adesso” è il titolo di una rubrica di Poliscritture). E, visto che abbiamo avuto la fortuna o la sfortuna di assistere a ben 5 decennali del ’68 con l’angoscia (parlo per me) di dover subire un rito manipolato e di saperne l’irripetibilità, non vorrei annoiarmi o annoiare. Spingerei perciò verso una discussione più spietata.
2.
D’accordo, pensiamo il ‘68 «senza piangersi addosso» né cancellare quella felicità assaggiata. Contrastiamo a testa alta i liquidatori di quella esperienza straordinaria. Ricontrolliamo quel battito accelerato del cuore democratico di questo Paese che si fece sentire più forte in quell’anno. Ricordiamo pure i suoi echi prolungati negli anni successivi (« le più grandi conquiste civili di questo paese» dal movimento di occupazione delle case, la nascita dei consultori e dei centri anti violenza, l’autocoscienza che ebbe un influsso forte anche sugli uomini, i gruppi di autocura e chissà quante cose»), come dice Franco. E nel bilancio mettiamo pure, come fa Paolo, i nostri anni d’insegnamento in «una bella scuola» . Ma poi? Di fronte alla «buona scuola» di Renzi che ha preso il posto della «bella scuola» evocata da Paolo? All’abolizione dello Statuto dei lavoratori e all’arbitrio padronale nella gestione del lavoro? Al deserto politico e alla miseria dell’ oggi? Stiamo all’«adesso», al «poi» (“reazionario”? “controrivoluzionario”?) che ci hanno imposto, all’ombra che ha eclissato, deformato o accomodato il ’68 alle esigenze dei vincitori dello scontro degli anni ’70.
3.
E ancora. Possiamo tacere o sorvolare su quel *di più* immaginato e tentato allora? Sull’idea di un futuro non dominato dal capitalismo? Sulla volontà di rottura coi padri della Sinistra “progressista”? Certo non tutti i partecipanti al ‘68 si posero quei problemi. Il movimento fu composito. C’erano quelli che volevano “cambiare la vita” e quelli che volevano “cambiare il sistema”. A me interessano soprattutto le ragioni dei secondi (compresi quelli che cercarono i loro strumenti nella tradizione armata della Resistenza non imbalsamata dai democristiani piccisti e socialisti) e capire il perché della sconfitta. Meno le pur rispettabili ragioni di quanti vissero il ’68 come rivolta contro l’«autoritarismo».
4.
E, perciò, credo di non condividere l’ottica diciamo pure psicanalitica (in senso lato) che fa scrivere a Franco:
«ci trovammo ad affrontare un dilemma non da poco: un aspetto fondamentale del ’68 fu anche quello di non riconoscersi nei padri e dei padri rifiutavamo anche le tendenze autoritarie presenti nella generazione resistenziale, cui pur guardavamo con sentimenti di riconoscenza. E poi Freud, che scoprivamo in quegli anni, ci insegnava pure che i fratelli, una volta che si sono liberati del padre, non è che sappiano bene cosa fare. Tuttavia, penso che tutto questo sia vero ma che manchi qualcosa di decisivo e cioè che scoprivamo un po’ traumaticamente come uomini che il mondo non era fatto solo di fratelli ma anche di sorelle e che queste ultime si ribellavano ai padri come noi ma anche ai fratelli che noi eravamo».
Sono nodi complicati. Emersi nel dibattito proprio in quell’anno. Ricordate lo scontro simbolico tra Fortini e Fachinelli (riassunto dal primo in quell’articolo sui Quaderni Piacentini, «Il dissenso e l’autorità»)? Nodi che si complicano se, come fa Franco (e credo in piena sintonia con Paolo), aggiunge il riferimento (benevolo) alle «sorelle» che « si ribellavano ai padri come noi ma anche ai fratelli che noi eravamo». Sospetto di non essere molto in sintonia con le conclusioni a cui siete arrivati. Del femminismo ho parlato ( anche a livello personale) in «Donne seni petrosi». E in tanti anni ho discusso con punte aspre di contrasto anche in Poliscritture. Al momento mi sento di dire che la lotta all’antiautoritarismo permette di stabilire una certa continuità tra il ’68 e il femminismo degli anni ’70, la democratizzazione o modernizzazione della “vita” ( dei costumi sessuali, della mentalità e dei comportamenti quotidiani). Ma – questa è la mia convinzione – al fallimento nel costruire quel *di più* che si voleva raggiungere (magari attraverso la costruzione di un nuovo partito capace di orientare la lotta anticapitalista in modo più deciso rispetto a PCI e PSI) ha contribuito anche l’incapacità di distinguere tra autoritarismo e autorità (e – per citare parole di Franco – tra « tendenze autoritarie presenti nella generazione resistenziale» e necessità – dico io con il vecchio Fortini – di costruire *diversa autorità*). A me poi non pare che «i fratelli» (maggiori, aggiungo) si fossero veramente «liberati del padre» (PCI,PSI, DC). E pare, invece, che le «sorelle», nel ribellarsi ai padri e ai fratelli, non abbiano fatto quella rivoluzione/liberazione che pretendono di aver fatto. Perché hanno accettato di condurla all’americana *dentro il capitalismo* , staccandosi e sbeffeggiando la prospettiva anticapitalista in cui ci si stava muovendo.
5.
Il ’68 è stato un lampo. Presto è stato collocato in un’eternità astorica, mitica (forse simile a quella in cui si è collocato anche un *certo* femminismo). Solo così mi pare possibile prolungarlo fino all’’80, come voi dite. Ma di sicuro non fino all’ oggi, come dice Paolo. Il fatto che esso resiste come figura mitica nella memoria di qualcuno e questo qualcuno sia ancora capace di occuparsi di alcuni temi “classici” di allora (studiare i “Grundrisse” ad esempio) mi pare davvero poca cosa per parlare di continuità.
6.
No, il ’68 è «finito» quasi subito. Ed è meglio pensarlo così: compiuto, terminato, irripetibile. È stata una effimera “età dell’oro”, da tenere sì a mente (come Leopardi faceva con gli antichi) ma riconoscendo però che – già con le bombe a piazza Fontana – fummo inchiodati (e continuammo a restare inchiodati, malgrado l’energia profusa in tante lotte) in un’età che non so se di ferro o di piombo, ma che comunque impose scelte niente affatto felici né innocenti. Per alcuni furono drastiche, distruttive, autodistruttive e disperate (il terrorismo). Per altri (noi compresi, credo) furono di auto isolamento. Per altri ancora ( tra cui molte «sorelle») furono di adesione alla “modernizzazione”. ( Me li ricordo come un incubo certi loro discorsi contro il miserabilismo; e poi del “darsi autorità” tra sorelle e poi, scivolando in giù, sulle “quote rosa”).
7.
In parte concordo con Franco quando scrive: « il modo politicamente meno angusto di ricordare il ’68 è quello di collocarlo all’interno di un ciclo più lungo della storia italiana che parte dai fatti di Piazza Statuto del 1962 e finisce con la marcia dei 40.000 della Fiat nel 1980». Istintivamente io pure recuperai un panorama più ampio di quello 68- ’80; e risalii al dopoguerra e al Sud del dopoguerra. E in quella mia “Poesia della crisi lunga” scrissi:
«dopo tanto sentir oscuro/ e pensar grigio/ in quest’ultimo anno/ il più ricco/ non per caso/ d’attentati/ solo un torpore/una pigrizia/ la rabbia/ e qualche intelligenza/ che ci volge indietro/ a un passato/ orecchiato sommerso/ sprofondato assieme/ alla gente magramente contadina/ con cui vivemmo/ acri giorni/ senza ribe11ioni / e si disegnano i profili di generazioni/ che si danno tremando la mano/ attraverso questo lungo/ difforme/ dopoguerra/ ne seguiamo il ricamo/ e le cuciture/ con affanno/ e scetticismo/ intaschiamo/ mormoranti e incerti / come monaci di fronte a resti/ di classicheggianti paganerie/ mentre fuori i barbari/ già si ritirano/ e nessuno capisce perché/ e si dice che torneranno/ e non si sa per fare che».
8.
Risalivo, cioè, dalla sconfitta politica degli anni ’70 ad una sconfitta (ancora più pesante). La mia la esprimevo in versi esistenziali o da “terra del rimorso” demartiniano. Ma ora – leggendo quanto scrive Franco sia per il lavoro fatto in diversi anni sulla storia del Novecento – mi è più chiaro il senso politico di quella sconfitta e mi è più facile nominarla come sconfitta della Resistenza. Concordo, dunque, con lui: è proprio sugli « assetti politici che le potenze vincitrici imposero all’Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale» che si giocò (e tuttora si gioca) la partita che impedisce qualsiasi ‘68. Sì, forse certi aspetti della storia italiana «sono state quasi del tutto ignorate da parte di movimenti e forze politiche extra parlamentari». E purtroppo ci lavorarono da sole – ahi noi – le Brigate Rosse.
9.
«Avevamo ragione su tutto ma non ci abbiamo capito nulla» ( Franco). A prima vista mi è davvero un’affermazione troppo ossimorica, forse pasoliniana. Come o in che senso potevamo aver ragione se non avevamo capito?( Specie se – dico io – molti si fermarono all’antiautoritarismo e le «sorelle» se ne fregarono del capitalismo, della dimensione storica del suo potere). Ma forse una verità la contiene: il modo, non solo personale ma proprio della “gente comune” costretta a lottare in basso ( Brecht), a partecipare alla lotta civile e politica sempre stando nel gorgo senza poterlo del tutto intendere e sapere veramente che fare.( E qui ancora di più brucia la mancata costruzione di quel “partito rivoluzionario” di cui tanto si parlò!) E guardando all’«adesso» – purtroppo di segno tutto cambiato rispetto alle speranze o alle illusioni del ’68 – mi devo riconoscere, ancor più di allora Renzo Tramaglino; e peggio ancora non nella condizione del giovane che fui ma del vecchio isolato. (Tra parentesi a Paolo. Che ai giovani di Amazon la vita d’oggi – non il nostro ’68 – appaia sempre carica di promesse o attraversabile con impavida leggerezza o incoscienza, non mi stupisce. Da giovani chi pensa alla pensione o alle malattie che possono colpire a tradimento? E quanti non finiscono gli studi in tempo o li interrompono…).
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Da Paolo Rabissi 18 giugno 2018
Caro Ennio
Rilevo qui velocemente, senza argomentare, che schiacci troppo il femminismo nella sua versione emancipazionista e ignori il suo sforzo teorico e pratico di liberazione. Lì dentro c’è qualche analisi che spiega anche perché è lecito tornare a studiare Marx e rilevare l’autoritarismo di posizioni legate comunque al patriarcato. Pur che serva a guardare al futuro senza lasciarsi sommergere dal presente. Paolo.
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Da Ennio Abate 18 giugno 2018
Caro Paolo
sul femminismo per ora dico solo questo: aver dovuto in questi anni contrastare il femminismo murariano di Cristiana Fischer, che mi ha creato non pochi casini in Poliscritture, mi ha reso forse particolarmente “cattivello”. Ne parleremo quando vuoi e puoi.
Un caro saluto. Ennio
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Da Paolo 20 giugno 2018
Caro Ennio
Quanto al femminismo murariano, conosco Muraro non Fischer ma mi basta e avanza. Lasciamo pure perdere la sua deriva misticheggiante, il femminismo della differenza prospetta soltanto l’affiancamento di una primazia femminile a quella maschile con però un valore aggiunto che è quello della madre con tutti i corollari annessi, non si tratta di semplice emancipazionismo perché affonda l’analisi dentro una prospettiva di un cambiamento radicale nel rapporto uomo donna (con appunto l’accento decisivo sul primato derivante dalla maternità), tuttavia non mette affatto in discussione le strutture materiali, economiche e la loro ideologizzazione né ovviamente la divisione sessuale del lavoro, l’intreccio di lavoro produttivo e quello riproduttivo (lavoro di cura ecc.). I media danno più rilievo a questo femminismo perché fa un discorso contro le ingiustizie e le discriminazioni sulle donne, inaccettabili in un contesto di evoluzione dei diritti civili, ma non mette proprio in crisi il sistema economico e sociale che chiamiamo capitalismo, neoliberismo, ordoliberismo e come vuoi. Il femminismo che lo fa è comunque diffuso e sempre più in rete.
Si parva licet: OverLeft è impegnato su questa linea ma trovi facilmente in rete documenti di nonunadimeno, di S. Federici, di L. Melandri, di A. Picchio, di J. Butler, ecc
Già che ci siamo: ho avuto uno scontro personale con Muraro in un convegno, la dichiarazione di reciproca disistima in quell’occasione è irrilevante, terribile invece fu la dichiarazione di un paio di noti poeti milanesi, o sedicenti tali, che fecero una sorta di dichiarazione di fede verso la Muraro accertando che il proprio percorso poetico andava proprio nella direzione da lei auspicata. Ognuno ha diritto alle proprie idee ma con quella dichiarazione pubblica di fede ho sepolto il femminismo della differenza e la stima verso certi poeti e poete.
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Da Ennio 20 giugno 2018
La tua (e quella di OverLeft, cui ogni tanto do un’occhiata) è anche la mia posizione. E, pur a distanza, seguo e spesso ho segnalato le cose scritte da Melandri e dalle altre che citi. Purtroppo mi è capitato di conoscere proprio la Fischer. Se t’incuriosisse capire che tipo di discussione aspra c’è stata tra noi, dai un’occhiata qui:
https://www.poliscritture.it/2016/04/15/volto-ambiguo-di-calibano/
A presto
Ennio
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Da Paolo Rabissi 20 luglio 2018
Caro Ennio e caro Franco
è passato quasi un mese dal nostro scambio, Riprendo il discorso e riparto dalla risposta di Franco a Ennio e dal commento ulteriore di Ennio.
A rileggere insieme tutto mi sembra che ci sia un fuoco intorno al quale forse vale la pena ragionare ancora. Parlo di autoritarismo e di antiautoritarismo, di autorità e di ribellione ad essa. La ribellione all’autorità investe è vero i nostri padri personali ma non esaurisce la ribellione a quanto i vecchi in generale pretendevano di passarci come autorevole. Ennio rammenta l’autoritarismo di cui erano portatori certi vecchi cattedratici nel ’68; ma costoro, nonostante il disprezzo con cui trattavano gli studenti impreparati, erano tuttavia buoni padri? Ma poi. I compagni – i fratelli – di Potere Operaio e poco dopo quelli di Lotta Continua che hanno pestato nelle loro prime assemblee le donne che rivendicavano diritto alla critica e separatezza di organizzazione che compagni erano e che padri sono stati?
L’autorità della tradizione era sospesa in tutti i sensi. Il giudizio morale dei vecchi di allora a partire da un certo punto non ebbe non aveva più la stessa forza. Nemmeno di quelli cui andava tutta la nostra ammirazione per aver svelato, come dice Ennio, la menzogna che l’URSS fosse il comunismo. In Statale certuni spegnevano sulla moquette dell’aula magna le sigarette. Ma perché? che senso ha? ci chiese Fortini a cena. Avevo assistito anch’io a una scena del genere, un atto che io non avrei mai fatto ma quella sera difesi d’istinto il cretino. Perché? Credo sia stato perché non riconoscevo nemmeno a quell’uomo così altrimenti degno di rispetto il diritto di manifestare la sua sofferenza e la condanna per l’intemperanza di un figlio. Dare fuoco alla casa dei padri non era nemmeno lontanamente la mia cifra di contestatore, semmai prima ancora di dare un rilievo propriamente politico al mio contestare avevo maturato una coscienza esistenziale critica sulle pagine di altri cattivi maestri di marca letteraria, su tutti Kafka, Joyce e Musil con Sartre e Brecht a sottofondo.
Il disincanto era totale per me già prima del ’68 e, quando è arrivato, il politico in me si era ormai strutturato nella coscienza di classe. Lo studentismo – a me che, dal ’66, terzo anno di università, mi alzavo alle cinque del mattino per raggiungere a Casatenovo altissima Brianza una scuola media, non mi ha mai coinvolto più di tanto. Ma le sue lotte antiautoritarie per me incrociavano quelle di fabbrica (un operaio di una grande fabbrica farmaceutica mi diceva voi studenti dovete fare il massimo casino possibile a scuola, all’autoritarismo del padrone in fabbrica ci pensiamo noi). Nell’insieme lotta di classe e antiautoritarismo per me significarono dare definitiva legittimazione a una tabula rasa che relegava tutti i padri nell’indistinto amorale da qualunque parte provenissero. Solo così con questa torsione irrazionale era per me possibile viaggiare dentro una prospettiva di totale cambiamento che aveva davanti i tempi lunghi di una rivoluzione organizzata sì sulla soggettività operaia ma che aveva grande sostanza in quella diffusa cultura antiautoritaria dei compagni di strada a tutti i livelli che Franco ha rammentato nella sua sintesi. Il sentimento di coerenza estrema verso quel progetto nascondeva esiti drammatici. Dovevamo saperlo che anche la passione per la coerenza crea mostri. I compagni che scelsero la lotta armata ci rimproveravano di non essere coerenti con quella volontà di trasformazione ma quando vidi un mio compagno guidare una classe di ragazzini di scuola media al grido ‘il potere sta nella canna del fucile’ provai un senso di dolorosa ribellione che in fondo non era dissimile da quello che Fortini aveva provato per il cretino. Forse una nuova autorità andava ricercata. Ma non era così, i percorsi dell’antiautoritarismo – del resto così sbeffeggiati da un certo stalinismo diffuso nella Statale – non erano affatto terminati, c’era ancora una stagione nuova da attraversare.
Io ho sbattuto letteralmente il muso nell’assioma ‘il personale è politico’. Ero così lontano dal coglierne il significato che quando mia moglie lo usò per la prima volta io intesi che lei intendesse rivendicare per compagni e compagne il diritto a considerarsi personale politico della rivoluzione a tutti gli effetti. In realtà come sappiamo si trattava solo (!) di risignificare politicamente tutto ciò che era considerato appartenente alla sfera privata, alle relazioni uomo donna. Ma che scoperta era? Non era la stessa cosa delle parole d’ordine della manifestazione del 3 luglio ’69? Lì le donne tiravano in testa ai poliziotti vasi di fiori e bottiglie dall’alto della case dei quartieri intorno alla Fiat, non era quella la dimostrazione di come anche le donne partecipassero alla lotta di classe con motivazioni specifiche del loro ruolo denunciando i costi dei servizi, l’aumento dei prezzi, le discriminazioni sul posto di lavoro, ecc? Non era così.
La critica dura non era diretta solo a chi dirigeva il sistema, coinvolgeva anche e soprattutto i compagni di strada, persino quelli che, come me, condividevano da sempre il lavoro di cura della casa, dei bambini, e che proprio per questo non capivano le ragioni della separatezza. Il cielo lo volevamo popolato non a metà. Mi ci è voluto un bel po’ per capire qualcosa. Però la lotta armata, la dura repressione contro i miei compagni di Potere Operaio e la reazione alla FIAT nell”80 mi hanno completamente destabilizzato. In quell’anno io e mia moglie ci siamo separati, ci siamo riuniti dopo un anno e mezzo. La discesa nel mio personale è stato dover fare i conti con le mie origini, la mia educazione, la mia confusione di uomo, di maschio, di rivoluzionario e dell’ansia da prestazione che mi ha governato e mi governa. Non è che oggi sia tutto chiaro, anzi. Ma non considero più ‘naturale’ la divisione sessuale dei ruoli, distinguo tra lavoro ‘produttivo’ e lavoro di cura, mi chiedo come possano convergere in una lotta comune.
E dunque chi ci crede più a una rivoluzione se non dentro tutte le contraddizioni messe a nudo dall’antiautoritarismo iniziato con i primi anni sessanta e di cui il ’68 è stato momento apicale da cui ha iniziato ad articolarsi un progetto diverso e differenziato su mille rivoli?
A scuola per tutti i settanta il nostro antiautoritarismo ha preservato secondo me molti dalla lotta armata. Le suggestioni provenienti da essa hanno avvelenato qualche giovane nell’istituto professionale dove ho insegnato per quasi dieci anni e dove le BR facevano arrivare puntualmente i loro volantini, ma credo che la nostra versione dell’antiautoritarismo li abbia trattenuti. Avevamo ragioni rivoluzionarie contro la violenza del sistema senza pretendere troppo rispetto alle forze che avevamo. Forse oggi di ragioni ne abbiamo anche di più, ma alla domanda che pone Ennio su cosa fare del presente ho poche risposte. Capisco però che sulla divisione sessuale dei ruoli c’è da lavorare un bel po’. E rivisitare i Grundrisse per rintracciare nessi tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo (di cura) può sembrare come dice Ennio poca cosa, ma non smetto di pensare che dove qualcosa ha avuto inizio c’è qualche traccia del presente, tanto più che in quei quaderni Marx non è ancora ricardiano e quindi tutto economico ma è ancora hegeliano con sguardo filosofico antropologico, il che continua ad essere considerato negativo da molti. Del resto molti – non tutti – dei compagni di strada su questi temi non ci sentono proprio, non sanno che farsene. Al contrario molti giovani uomini e donne si avvicinano con curiosità e scoprono i lasciti profondamente autoritari del patriarcato che governano il mondo.
Concedetemi per finire questi miei versi del 2012, tratti dal poemetto ‘Le cicogne di Micene’
…
Ci teniamo noi a passioni pazienti di lumi
e non di incendi. La tua mano a lui la mia a lei
voltiamo le spalle a Micene, abbiamo un patto nuovo
all’altro capo del sentiero, dividere tra tutti
il tempo di cura dell’aria, dell’acqua, della terra,
del fuoco e di tutte le nostre risorse.
Finché il pianeta ci tenga.
*
da Ennio Abate 29 luglio 2018
Caro Paolo,
vado subito al nodo e te lo confesso: non ho mai capito il tuo entusiasmo per il femminismo; e, se guardo alla tua provenienza dall’operaismo, mi verrebbe quasi da ironizzare su questa folgorazione alla Paolo di Tarso sulla via di Damasco.
Vale comunque la pena, anche in vecchiaia, di confrontarci lealmente. Per capire le diverse conclusioni che tiriamo dalle nostre esperienze; e, sì, chi tra noi due ha più ragione: io che, come scrissi nella nota a «Donne seni petrosi», «ho preferito una riconsiderazione storica sia del comunismo che del femminismo: entrambi per me rovine di un fine Novecento da interrogare e reinterpretare per leggere nelle trasformazioni in corso – non certo benefiche per i molti uomini e donne del pianeta – qualcosa d’altro.». O tu che giudichi positivamente (così mi pare) l’antiautoritarismo in sé (e lo fai coincidere in fondo con la «lotta di classe»),avendo esso avuto il merito di preservare negli anni Settanta molti dalla tentazione della lotta armata; e soprattutto il femminismo che, svelando la innaturale divisione sessuale dei ruoli imposta dal patriarcato, sostituirebbe (lo fai intendere in maniera implicita) il comunismo e si porrebbe come nuova, inderogabile, prospettiva di emancipazione per il genere umano.
Il problema che il nostro confronto pone è appunto questo: come mai un giovane “rivoluzionario” nel ’68-’69 (più o meno “operaista” come lo ero io), poi «destabilizzato» dalla sconfitta (più o meno come me), sia diventato, a differenza di me, convinto “femminista” (e, tra l’altro, anche critico troppo sbrigativo del lottarmatismo di quegli anni). Come mai, pur riconoscendo io il fallimento della prospettiva comunista (marxiana), non me la sento di mettere il femminismo al posto del comunismo? E come mai, sebbene consideri io pure il lottarmatismo nelle varie forme assunte negli anni Settanta un vicolo cieco, non mi sento di concedere alcun merito né all’antiautoritarismo, come tu fai, e ritengo che la problematica della violenza nella storia non possa essere accantonata o ricondotta esclusivamente all’«infamia originaria»?
Intendiamoci. Non ho la pretesa di aver ragione io. Voglio però far presente che molti dei tuoi giudizi che hai espresso nella tua ultima mail mi appaiono irrealistici e falsanti. Neppure nei momenti più alti della rivolta del ’68-’69 mi pare si possa dire che «l’autorità della tradizione era sospesa in tutti i sensi». Non lo fu per tutto il decennio. E specie nella forma netta e decisa della «tabula rasa che relegava tutti i padri nell’indistinto amorale da qualunque parte provenissero.», come tu dici. Lo fu magari nell’immaginario di parecchi che parteciparono a quei movimenti. Non di tutti però, né della maggioranza. Né l’antiautoritarismo a me parve coincidesse con la «lotta di classe» o portasse automaticamente ad essa.
Oggi io ridimensionerei anche l’ammirazione verso alcuni “ buoni padri” (ad esempio, per me, Fortini o il gruppo dirigente de «il manifesto»), poiché la giudico in me e negli altri un sentimento abbastanza passivo e politicamente approssimativo. Questi “buoni padri” ci svelarono davvero «la menzogna che l’URSS fosse il comunismo»? Lo “svelamento” fu cauto e incerto. Prese spesso le forme dogmatiche e settarie dell’”antirevisionismo” e utilizzò disordinatamente vecchie analisi delle dissidenze antisovietiche (sia anarchiche, come quelle di Serge, che antistaliniste: dalle trotzkiste ad altre “eresie”). E non attecchì in maniera né salda né irreversibile neppure nelle stesse aree extraparlamentari. Tant’è vero che molti tornarono poi all’ovile PCI. E in fin dei conti, malgrado generosi sforzi teorici e pratici, il problema di come uscire dalla crisi di quel comunismo (sovietico, stalinista, maoista) finì per essere abbandonato. Ed ho l’impressione che in molti ex tale abbandono, più o meno disinvolto, sia stato camuffato proprio da una apologia – interessata, enfatica, psicanaleggiante, astorica e troppo stridente con le affermazioni operaistiche e classiste precedenti – del femminismo (alla Muraro o meno). Allo stesso modo non mi convince la lettura ambigua e sempre astorica del rapporto padri/figli. Ad esempio, quella che tu fai partendo dal gesto di spegnere «sulla moquette dell’aula magna le sigarette». Mi pare che tu oscilli: parteggiare per l’intemperanza del figlio o per la sofferenza e la condanna del padre? Ma c’era bisogno di essere un padre degno di rispetto per capire che quel gesto era infantile, inutile e di un simbolismo sciocco? O forse l’essere figlio è in sé un valore superiore all’essere padre? O viceversa? E poi, quando arrivi ad ammettere l’esigenza di una «nuova autorità», perché attribuirla proprio al femminismo con il suo «assioma ‘il personale è politico’», che per me – anticipo – è parte di quella crisi del movimento del ’68-’69 (e della sue istanze comuniste)?
Nei tuoi ragionamenti sugli anni Settanta, perciò, si crea per me un vuoto nel momento in cui, al posto del Capitale sostituisci il patriarcato. Cambi strada, abbandonando la precedente senza spiegazioni solide. (E, continuandone – aggiungerei – lo stile settario). Hai, infatti, un bel dire:« Capisco però che sulla divisione sessuale dei ruoli c’è da lavorare un bel po’». O che bisogna «rivisitare i Grundrisse per rintracciare nessi tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo.
Il femminismo nel suo insieme imboccò da subito un‘altra strada, perché veniva da un’altra tradizione culturale; e nelle sue maggiori rappresentanti fu indifferente o ostile a Marx, ai «Grundrisse» e a Hegel. Questo non è secondario. Esso spaccò dall’interno quell’inizio di rivolta ancora indeterminata nei suoi possibili sbocchi (quasi come fece, per altri versi e con altre motivazioni, il lottarmatismo, che invece nell’”album di famiglia” c’era). Quella sua critica dura diretta non «solo a chi dirigeva il sistema», ma «anche e soprattutto [a]i compagni di strada», mirò a farne – prendere o lasciare – dei “femministi” o li costrinse ad essere “antifemministi”: i primi da usare per quel che potevano essere usati (come si teorizzò a lungo per gli intellettuali d’estrazione borghese o per i piccolo borghesi nella scolastica marxista), i secondi da trattare come nemici.( Ma vedi sotto la mia riflessione del 2010 in Appendice)
Io, dunque, vedo il femminismo come parte della crisi di quel movimento iniziato nel’ 68-‘69 (e delle sue istanze comuniste) non come indicazione certa e affidabile di una nuova strada. O almeno di una nuova strada per tutti/e. E la stessa cosa penso del lottarmatismo. Di sicuro, nell’area che aveva maturato una visione anticapitalistica più decisa di quella della Sinistra storica, ci furono reali resistenze (ma non del tutto ingiustificate o semplicisticamente “reazionarie”). L’esclusione programmatica da parte delle femministe separatiste dei “compagni maschi” dal discorso in fieri ripeté, però, lo stesso schema settario che era stato dell’operaismo (non quello di Panzieri ma trontiano), separatosi in modi simili da una visione universalistica e magari troppo ingenuamente ottimistica del comunismo (cfr. Visalli sempre in Appendice) per trovarla già in nuce – nuovo assoluto – soltanto entro di sé (nella classe operaia, nelle donne). E perciò vedo, se non tutto il femminismo, almeno un certo femminismo come una visione che ha sostituito e seppellito per sempre ogni prospettiva di comunismo. E ritengo la rivolta delle femministe (non delle donne) – al massimo e a voler essere ottimisti – una incognita tuttora ambigua.
Non capisco perciò certi tuoi “omaggi”. Perché chiamare «discesa nel mio personale» quel «dover fare i conti» con il proprio percorso di vita o con la propria autobiografia, che è una tradizione di lunga data sia in filosofia che letteratura: da Agostino a Rousseau a Proust a Saba e a tanti altri (e altre, è vero)? Né mi sento di attribuire all’«antiautoritarismo», ambivalente e adolescenziale (vedi Fachinelli) il merito di aver preservato «molti dalla lotta armata». Come se la scelta della lotta armata fosse stata di per sé l’unica peggiore, l’unica demoniaca, l’unica sterile; e non, come ho detto, una delle forme (quella tragica) della sconfitta. Perché occultare o non dare peso ai danni fatti da un antiautoritarismo “normalmente” cieco e narcisistico? O da un femminismo “normalmente” modaiolo?
Ciao
Ennio
APPENDICE
- Nota mia a DONNE SENI PETROSI A metà anni Settanta, come non pochi militanti della cosiddetta «nuova sinistra», mi inoltrai nei territori “forti” del femminismo. Era un’epoca in cui marxismo e psicanalisi parevano in via d’avvicinamento. Sembravano confermarlo certe mie letture di testi femministi (di Mitchell, Melandri, della stessa Irigaray), i dialoghi serrati con compagne, amiche e soprattutto con la donna - moglie, compagna e madre dei miei primi due figli – con la quale da tempo vivevo. Mi ci inoltrai con la stessa (sventata?) volontà di apprendista del mestiere di vivere, che all'inizio degli anni '60 m'aveva sostenuto nel trapianto a Milano da una città del Sud (Salerno), poi come lavoratore-studente nell’occupazione della Università Statale di Milano tra fine '67 e inizi del '68 e poi nello studio di Marx, Lenin, Gramsci, Fortini ed altri, autori prima a me ignoti. Presto però le femministe scombinarono le mediazioni, calcolate o ingenue, architettate per “addomesticarle”. E furono proprio i gruppi di sole donne, le loro manifestazioni separate dagli altri cortei del movimento nella Milano convulsa e plumbea della fine degli anni Settanta a preannunciarmi la fine della «rivoluzione». La comunità dei compagni (o il sartriano gruppo in fusione) si svelò più ingessata e asfittica di prima, quando il disagio di appartenervi mi veniva dalla percezione dello scarto di potere (mascherato o taciuto) tra dirigenti e diretti. Ora, sotto la pressione femminista, la sentivo arroccarsi nell’ambivalenza di chi è di fronte a un aut aut imprevisto: o rinunciare al potere ordinatore dell’organizzazione politica (e fu la scelta che fece «Lotta Continua» “sciogliendosi”); o mantenerlo anche a costo d'irrigidirsi in formule dogmatiche e catechistiche, che schiacciavano i nuovi bisogni delle compagne, le quali - testarde, insolenti, arrabbiate, agguerrite, separatiste - pretendevano di essere soltanto donne e soprattutto contro quel noi, che pareva com-prenderle. Dopo varie avvisaglie, la tempesta femminista, seguita da uno stillicidio di separazioni di coppie di compagni, amici, amiche, conoscenti, arrivò anche addosso a me, che forse m’illudevo di evitarla per la singolarità della mia esperienza solitaria di immigrato esterno ai branchi di “soli maschi”. E dovetti recitare, da attore impreparato e allo sbando, nel dramma di una separazione impostami da una «sposa amara, luccicante di lacrime e tenace nell’amore più proibito», di botto estranea e in più spalleggiata nel suo pur dolente distacco da una a me inaccessibile comunità di donne. In quel frangente il femminismo fu per me il nome della lama di coltello che proprio la donna con me da anni - riserva (in un immaginario arcaico e patriarcale?) quasi certa d’amore e d’affetto, cuscinetto tra me e il mondo più crudo e ostile – usava (ferendomi) per allontanarsi. Un lutto amoroso s'aggiungeva al lutto politico per la perdita della comunità dei compagni. In anni successivi, rielaborando quel doppio lutto, ho accostato la sofferenza mia e della nostra generazione (penso di poter dire) a quella dei tanti sconfitti della storia, di cui parlò Ernesto De Martino.1 [1 La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali,Einaudi, Torino 1977[ Eppure – mi sono detto - c’è una differenza: io/noi non possedevamo un mondo, un consolidato Eden, piccolo o grande, dal quale a un certo momento venivamo scacciati. Avevamo appena iniziato a costruirlo il possibile mondo, la possibile città futura. Ne avevamo tirato su appena un simulacro provvisorio (o un’allegoria) – tale mi pareva il Partito che insieme si voleva costruire - per contrastare un Potere di classe, questo sì potente e radicato da secoli nelle menti e nella realtà materiale. E, mentre una Ristrutturazione tuttora sconvolgente già erodeva e poi travolgeva quella classe operaia, alla quale avevamo legato le speranze di riscatto anche dalla nostra condizione subordinata di intellettuali di massa, vedevamo sorgere dall’interno del comune cantiere, una forza femminile e femminista avversa e minacciosa, che lo smantellava, sostituiva i precedenti simboli con altri esclusivi e propri; e, in certi casi, non esitava ad allearsi con il «Nemico», sbarazzandosi di noi senza esitazioni. La scrittura anche di questa mia terza raccolta poetica s’è mossa per anni attorno a questo nucleo di sconfitta personale e storico. È ripartita dal “terra terra”, perché lì ero finito. Per esprimerne i grumi più pesanti e le fasi della sofferenza ho indossato tre maschere (Robinson, il discendente del pastore errante, don Giovanni pezzente). Sono archetipi di un passato letterario a me caro e a cui avevo avuto accesso. Li ho desublimati, trapiantandoli in una periferia galleggiante in un vasto chissà dove. Sono serviti per abbandonare - in parte scrivendo da solo, in parte col sostegno di un giovane analista – quel mio mondo finito in pezzi. Aggirandomi nel mio Ade, tali maschere hanno calamitato, rabbonito, indotto a compassione o a collaborazione una folla notturna di fantasmi, di certo più oscura, immobile e a tratti quasi indecifrabile di quella diurna, che in anni precedenti – gli anni della politica – avevo più agevolmente avvicinato grazie alle scorrevoli mediazioni della donna che mi viveva accanto, dei compagni e delle compagne. Al narratorio di versi-prosa di quel «periodo nero» ho aggiunto - omogenei per contenuto e forma - i disegni a carboncino del mio alter ego artistico, Tabea Nineo. Lo pubblico tardi, postumo quasi: lontanissime le vicende trasformate in parole e le psico-scritture successive, con le quali ho rovistato nei fondi scuri del sogno e della memoria d’infanzia. Nella sua genesi e sistemazione hanno contato il silenzio di figure reali qui evocate e le perplessità di amiche e amici, che hanno letto la bozza. E anche il fallimento di un tentativo quasi di simbolica riconciliazione col femminismo, che si era delineato alcuni anni fa, quando io e un'amica poetessa femminista progettammo di pubblicare in un unico volumetto, in parallelo e in modo quasi complementare, questa mia raccolta assieme a una sua. Erano nate indipendenti l’una dall’altra ma sul medesimo tema: un rapporto amoroso uomo-donna. Risultò invece vana (per caso?) la ricerca di un padrino e una madrina, che avrebbero dovuto scrivere le rispettive prefazioni. E neppure ha poi avuto seguito l’intenzione di presentarcele noi: io la sua, lei la mia. Per un crescente (e reciproco) scetticismo, credo. Alla fine – e qui parlo solo per me - non me la sono sentita di essere il rappresentante di una scrittura “maschile” o “al maschile” né di riconoscere lei come la portavoce di una scrittura “femminile” o “al femminile”. Anzi il dubbio che l’immaginario non sia così nettamente separabile in maschile e femminile, come lasciano credere i mass media o si ibridi facilmente secondo un certo psicanalismo, si è rafforzato in me. Assieme al sospetto che la disinvoltura con cui si trattano tali questioni nasconda la rimozione e il venir meno di una riflessione critica sullo scontro storico che ha visto, a fine Novecento, la sconfitta sia dell’ipotesi comunista sia dell’ipotesi femminista. Se prima, nelle società occidentali, il conflitto di classe oscurava il conflitto di genere, oggi anche quello di genere, venuto per brevi anni in evidenza politica e culturale dopo il ’68, s'è opacizzato: in parte riassorbito dalla società dello spettacolo; in altra parte fluente carsicamente nelle pieghe della società e pensato solo nelle “catacombe” di alcuni circoli di donne; e in altra parte ancora accolto (non senza reali resistenze) liberalmentesoprattutto in ambienti accademici (gender studies). Alla vulgata sia della fine della storia che del postfemminismo o della femminilizzazione trionfante nel lavoro delle società post-fordiste, ho preferito una riconsiderazione storica sia del comunismo che del femminismo: entrambi per me rovine di un fine Novecento da interrogare e reinterpretare per leggere nelle trasformazioni in corso - non certo benefiche per i molti uomini e donne del pianeta - qualcosa d’ altro. Non credo che il mio narratorio sia misogino o antifemminista, ma più monologante che dialogante di quanto desideravo, sì. Per costrizioni esterne e per scelta meditata e consapevole poi. Da qui l'attestarmi in una pacata difesa del vissuto che sta alla base di Donne seni petrosi. E anche della forma – amara, smorzata, cupa, “cruda” - di certi testi e dello stesso titolo. Considero tali aspetti “da vecchio”, quale sono in effetti diventato, una faticosa conquista compiuta soprattutto attraverso la scrittura. E voglio conservarli, discuterli pure, ma non scioglierli con disincanto in una tardiva, impossibile, astorica, artificiosa nuova armonia tra uomo e donna, tra “maschile” e “femminile”. [12 maggio 2010]
– Alessandro Visalli
A chi può interessare ed a chi è sensibile al tema: "Per i suoi principi il comunismo è al di sopra del dissidio tra borghesia e proletariato, poiché lo considera giustificato nel suo significato storico soltanto per il presente, non per il futuro; esso intende appunto sopprimere tale dissidio. Riconosce perciò, finché il dissidio permane, che il risentimento del proletariato contro i suoi oppressori è una necessità, che rappresenta la leva più importante del movimento operaio ai suoi inizi; ma va oltre tale risentimento, perché il comunismo è appunto una causa di tutta l'umanità, non soltanto degli operai. Del resto, nessun comunista ha in mente di voler compiere vendette sui singoli, o in generale di credere che il singolo borghese potrebbe agire nelle condizioni esistenti diversamente da come agisce. Il socialismo (cioè il comunismo) inglese si fonda apertamente sul principio della irresponsabilità del singolo". Friedrich Engels, 1844, "La situazione della classe operaia in Inghilterra", p.379.
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da Paolo Rabissi 31 luglio 2018
Riparto dall’inizio della tua [di Ennio] precedente mail:
Caro Paolo,
vado subito al nodo e te lo confesso: non ho mai capito il tuo entusiasmo per il femminismo; e, se guardo alla tua provenienza dall’operaismo, mi verrebbe quasi da ironizzare su questa folgorazione alla Paolo di Tarso sulla via di Damasco.
Se capisco bene, l’ironia starebbe nel fatto che operaismo e femminismo non è che in generale vadano entusiasti l’uno dell’altro. Verissimo. I miei compagni di strada dell’operaismo (Tronti ne decretò la fine con la fine della rivista Classe operaia, più o meno nel ’66 proprio quando io invece entrai in contatto con tutti quelli che ritenevano possibile un prolungamento dell’esperienza) erano una realtà molto differenziata, tra loro c’erano anche gli americanisti (di ritorno dagli USA dove inseguivano Marx a Detroit) dai quali (perlopiù uomini) ho (abbiamo) avuto notizia del femminismo. Da allora mi sono sempre sentito inserito in una doppia ricerca. Talvolta invalidante, che spiega ritardi e arresti miei e spiega anche la diversità di posizioni verso il femminismo, peraltro criticato sempre ignorato mai.
E allora le folgorazioni come vedi in realtà sono state due e contemporanee. Un doppio piano di ricerca che mi si è offerto in quegli anni a dare senso alla mia vita. Forse il luogo dove riesco meglio a parlarne sono i versi, valgano quello che valgono nell’empireo poetico, spero solo di riuscire una volta o l’altra a pubblicare il mio Inverno a Colonia.
Se ho conosciuto nell’operaismo la lotta di classe e la sua evoluzione, nel femminismo e nella sua evoluzione ho conosciuto altri strumenti di analisi. Quando parlo di discesa nel mio personale parlo di mia madre. Novantanove dei miei compagni di strada (anche quelli seminati in tutte le città dove sono cresciuto) hanno avuto madri oblative. Madri che hanno destinato loro un paio di decenni di cure più o meno amorose più o meno entusiaste. Mia madre invece è stata una donna che ha rotto in qualche modo i ruoli, ha mandato ‘a remengo’ come diceva in triestino la loro ‘naturalità’ e ha mollato il figlio un po’ qua e un po’ là e ha seguito il marito nei suoi – di lui – sogni d’artista. Ma sono cose che avrai letto a proposito di Cosma. Quando la riflessione sul personale è diventata cogente mi ha aiutato a capire i miei sbandamenti, i miei rancori, la mia confusione, come ho già detto, certo mia madre non era stata la prima ma il femminismo mi ha aiutato a dare un senso meno personalistico alla sofferenza che mi aveva procurato nell’infanzia. In questo contrariamente a quanto dici ancora più giù, non è stata la letteratura che citi ad aiutarmi. Agostino? E’ quello che ha definito la donna la ‘cloaca’ dove l’uomo può spurgare i suoi liquidi. Rousseau? E’ quello che, a capitalismo incipiente, ha sistemato organicamente la donna per l’eternità nel suo ruolo di madre e di cura (oltre ovviamente a incoronarla di tutti i buoni sentimenti). Lascio a te Proust e mi tengo semmai Saba – triestino come me anche se sono stato triestino per poco – che la madre la nasconde ma mi ha fatto capire il modo per tenermi lontano dalla psicanalisi che conosceva lui e che solo l’antiautoritarismo ha messo in crisi.
Cosa ne è oggi di operaismo e femminismo. Due percorsi di ricerca diversi eppure paralleli, entrambi mi hanno messo dentro la strada che tenta di dare spazio a quanto può essere in grado di inceppare i meccanismi di riproduzione del capitalismo. Addirittura. E allora cosa se no?
Comunismo? Mah. Tu parli di forme della sconfitta. Nemmeno io posso fare a meno di aggirarmi tra le macerie (e dubito che ci sia intorno a noi il cantore cieco di Foscolo che interroga le rovine) ma non mi piace portare il lutto e dare spazio ai cultori della fine della storia.
Quello che Preve dice qui sotto ha per me ancora senso, e non è a caso che sia l’introduzione ai Manoscritti, di un giovanissimo Marx, si tratta ancora di andare alle origini, di scendere nel nostro personale background di formazione. Lì dentro c’è spazio, c’è aria.
“Marx ritiene di poter parlare di una futura “società comunista”, anche se chiarisce immediatamente di non “voler scrivere ricette per i ristoranti del futuro”, e di non voler lasciarsi andare a previsioni dettagliate come era stato il caso per i cosiddetti “falansteri” di Fourier. Egli ricava il comunismo concettualmente per “differenza specifica” con il capitalismo, e questo lo porta di fatto ad utilizzare una sorta di teologia negativa alla Dionigi l’Areopagita, o se si vuole di dialettica negativa all’Adorno. Certo, Marx non può non parlare di “comunismo”, e lo definisce sia dinamicamente (il comunismo è quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti) sia staticamente (il comunismo è quella società in cui ognuno darà secondo la sua capacità e riceverà secondo i suoi bisogni). Si tratta certamente di concetti non sufficientemente determinati, e sarebbe sciocco nasconderlo per ragioni di appartenenza ideologica o di carità di patria. E tuttavia, nonostante alcuni aspetti francamente utopistici (chi scrive – ad esempio – non crede alla teoria della cosiddetta “estinzione dello stato”), sappiamo dalla filologia marxiana che Marx aveva una concezione storica e non soltanto naturalistico–frugale del concetto di “bisogno”, e che intendeva il comunismo non certo come società autoritaria, organicistica e pacificata (da fine della storia, cioè), ma come un momento della progettualità umana sociale concreta (più tardi il vecchio Lukács parlò correttamente di agire “teleologico”, e non certo di esito necessitato di una dialettica della natura). In definitiva, il bilancio del comunismo storico novecentesco falsifica certo popperianamente un certo modo di costruire il socialismo, ma passa largamente a lato del concetto di comunismo che Marx per la prima volta cercò di concretizzare nei suoi Manoscritti giovanili. “
*
da Franco Romanò 10 agosto 2018
Cari Ennio e Paolo
In questo secondo intervento faccio mio citandolo direttamente l’inizio dell’intervento di Ennio:
1.
La nostra giovinezza è stata attraversata da un lampo di eroici furori politici. Imprevisto, eccezionale, mondiale. Ma il ’68 non deve diventare una sirena che impedisca alla memoria di ritornare all’*adesso*. (“Storia adesso” è il titolo di una rubrica di Poliscritture). E, visto che abbiamo avuto la fortuna o la sfortuna di assistere a ben 5 decennali del ’68 con l’angoscia (parlo per me) di dover subire un rito manipolato e di saperne l’irripetibilità, non vorrei annoiarmi o annoiare. Spingerei perciò verso una discussione più spietata.
La sfida che è contenuta in questo brano, per me, è Storia adesso, titolo di una rubrica di Poliscritture ma anche invito che almeno io accolgo così, un po’ alla buona. Va bene tutto ma adesso che abbiamo capito un po’ di più che si fa? Cerchiamo di voltare pagina. Provo a raccogliere proprio tale invito avendo in mente due spunti: quello che afferma Paolo sul di più che possiamo dire su autoritarismo e antiautoritarismo e tutta la parte del discorso di Ennio che riguarda il femminismo, che ne scrive criticamente, specialmente nel suo ultimissimo intervento, e questo apre una discussione fattiva. Storia adesso, tuttavia, per me significa anche politica in senso ampio e cioè recuperare il senso di una storicità non storicistica, oppure che sia solo materia da storici.
Nel di più di Paolo, io colgo sinteticamente i nodi che riguardano la riformulazione del concetto di democrazia e la sua costruzione dall’alto e non dal basso (la democrazia dal basso è il governo giallo verde, nel contesto di oggi) e il ragionare su autorevolezza e autorità, che richiama anche il discorso sui padri e sul potere. Di mio aggiungerei la necessità di un’analisi del sistema capitalistico che metta al primo posto i suoi limiti fisici (Arrighi, Wallenstein, Scholl, Kurz) e il deterioramento dei rapporti sociali e ambientali (O’ Connor), infine dalla riscoperta attualizzata di un grande dimenticato come Piero Sraffa, piuttosto che le contraddizioni interne che dovrebbero portarlo a esplodere, come era e come è tutt’ora nella concezione tardo leninista espressa anche da Eros Barone – citato da Paolo – e che anch’io lascerei dove si trova. In questo senso il ritorno al Marx dei Grundrisse, dei Manoscritti economico-filosofici, il Marx catena lavoro vivo-lavoro/morto-macchine-general intellect, mi sembra assai importante a due condizioni: che lo si ripensi tenendo Sraffa nell’altra mano e che si strappi il general intellect al bla bla contemporaneo che ne ha fatto una specie di costante di Plank infilata nei discorsi, dimenticandosi però che la costante di Plank è un numero funzione che indica un’entità fisica e non una formula magica.
Intorno alla questione delle soggettività plurali, invece, tutto il discorso critico di Ennio sul femminismo, costituisce a mio giudizio il nodo essenziale da cui ripartire. Possiamo cercare di farlo anche recuperando discorsi su autorevolezza e autorità e anche perché, se vogliamo voltare pagina forse oggi siamo in grado di liberarci – cito Paolo – della necessità di dover dare per forza definitiva legittimazione a una tabula rasa che relegava tutti i padri nell’indistinto amorale da qualunque parte provenissero. Tanto di padri non ne abbiamo comunque più perché sono stati sconfitti o si sono suicidati indipendentemente dalle nostre critiche e dunque se non ci decidiamo neppure adesso a diventare padri di noi stessi prima ancora che dei nostri figli e nipoti, possiamo chiudere bottega. Strada facendo recupereremo poi quello che va recuperato perché sappiamo che sulla tabula rasa si costruisce poco. Anch’io a conclusione di questa ampia premessa vi allego l’ultimo testo di Veglia Europa:
1789-1989.
La carta dei diritti
l’aldiqua luminoso
e poi l’assalto al cielo.
Il lampo centennale si spegne
annotta ed è il deserto
una polvere fine, invisibile
ha sommerso il sogno profano
la conoscono i passi dell’esodo
i millenni dell’oppressione.
I campi, le strade e le città
sono state la sua casa, ha fatto
paura ai potenti, trionfato e perso.
Il poeta della storia è un albatro
di nuovo ai ceppi imprigionato.
Scrivere un diverso statuto
sulla dura pietra di una fabbrica
richiedeva tempo e qualcosa di più
della fratellanza, del pane insieme
compagni…
ma tutto rodeva ai fianchi
del camminare goffo.
Ora in una gabbia che non ha sbarre
ma filosofie sofisticate e
insegne che piegano all’ignavia,
al nichlismo d’occasione
ai suoi poeti e falsi maestri narcisi
ad ali basse guarda la strada…
ma il sarto di Ulm continua a tornare
nei sogni, nel balenio improvviso
e risveglio dal sonno letale,
a dire che sì, si può
imparare a volare.
Lo abbiamo visto nella condizione
aurorale a ogni latitudine,
che fu un attimo
prima di nuove distruzioni.
Un diverso cammino,
a piedi in mezzo a una polvere che è
deserto e veleno, passo dell’esodo
e accampamenti
lontano dal cielo, nell’ora e nel qui
che stanno nella via di mezzo e noi
non più natura,
non ancora cultura
al passo claudicante di sempre.
- Antiautoritarismo e democrazia.
L’antiautoritarismo ha molte facce e alcune erano inquinate dall’inizio, per esempio la componente hippy di origine statunitense che fu un veicolo di diffusione delle droghe a livello di massa: la desecretazione dei documenti della Cia ha messo nero su bianco il ruolo che Timothy Leary ebbe proprio in questo come lo ebbero probabilmente anche alcuni inconsapevoli esponenti della Beat Generation, che furono usati per quello scopo. La faccia europea dell’antiautoritarismo veniva dalla Francia e s’intreccerà (ma più tardi) anche con alcune correnti eretiche della psicoanalisi e con Foucault: parlo di Debord e dei situazionisti e di Primo Moroni in Italia. Tralasciando il fenomeno hippy che in fondo non ebbe poi una grande influenza nell’immediato, la novità italiana e solo italiana fu a mio avviso l’incontro di questa seconda componente europea e francese dell’anti autoritarismo con riviste e movimenti che erano nati nel pieno degli anni ’60 e che con la loro pratica e anche con i loro strumenti teorici avevano messo in crisi l’egemonia del Pci e della cultura stalinista da sinistra e insisto sull’espressione ‘da sinistra’, perché tutta l’esperienza del partiti comunisti occidentali era che dallo stalinismo si poteva uscire solo con la rinuncia alla lotta anticapitalistica radicale e accettando di fatto i limiti della democrazia parlamentare e rappresentativa. L’operaismo fu una gran parte di questo movimento e l’incontro fra queste due componenti è a mio avviso alla base dell’anno aureo che fu proprio ’68 perché è da quella amalgama che scaturì una critica di massa sia della cultura borghese sia del marxismo ossificato. Se guardiamo attentamente agli slogan e anche ad alcuni momenti di prassi vediamo proprio le loro diverse provenienze convergere, alimentandosi l’un l’altra invece di confliggere. Così, se nelle università, per cultura borghese s’intendeva prima di tutto la scissione fra teoria e prassi (per esempio la preminenza dei manuali sulla lettura dei testi originali), oppure il ruolo dei condizionamenti di massa (vedi quotidiani a grande tiratura, non ancora la televisione), dalle componenti operaiste veniva il concetto di autonomia della classe, di critica della delega che sfocerà nei consigli. In università i contro corsi non erano solo una contestazione dello statuto dell’insegnamento che veniva impartito, ma anche – per esempio – la denuncia della terza pagina dei giornali come porto franco, dove si potevano confrontare in punta di fioretto intellettuali borghesi e marxisti mentre sulla prima pagina degli stessi quotidiani si bastonavano operai e studenti ribelli. Le manifestazione di massa contro le uccisioni dei braccianti di Avola e l’assalto al Corriere della Sera non furono forse il precipitato di tutto questo? L’onda lunga di questa confluenza sarebbe arrivata fino al ’69 operaio che imparò eccome anche dal movimento degli studenti; a questo proposito, tuttavia, accolgo l’invito di Paolo a rinunciare definitivamente alla parola sessantottini, troppo connotata in senso studentesco. La strage di piazza Fontana creò una cesura di cui ho già detto e su cui non voglio ritornare, se non per un aspetto. La stretta che tale evento determinò, fece emergere in breve tempo il limite maggiore dell’arcipelago antiautoritario nelle sue componenti virtuose: l’incapacità riformulare un concetto di democrazia che andasse oltre l’assemblearismo come espressione massima del rifiuto della delega nelle università, assemblearismo che si sarebbe presto tramutato nelle occupazioni universitarie, in forme spurie di maggioranze plebiscitarie che si formavano intorno a leader più o meno occasionali. L’operaismo soffrì di una medesima carenza, forse per ragioni diverse che stanno nel contrasto Tronti-Panzieri e in quello che dice Paolo, ma riuscì tuttavia influenzare la nascita dei consigli operai, che erano proprio un tentativo di coniugare una cultura antiautoritaria con un’organizzazione democratica del conflitto dal basso (allora si poteva); ma su questo attendo se mai maggiori lumi da voi perché nel ’68 io mancavo di una storia precedente, se non per avere avuto un insegnante come Franco Fortini. Quanto al situazionismo, anch’esso non offriva un modello alternativo, ma una serie di azioni esemplari che rompevano di certo gli assetti di potere, ma lo facevano più spesso a livello simbolico e linguistico, ma non potevano sedimentare alcunché e in fondo lo dice proprio Primo Moroni nell’intervista che rilasciò nel 1995 a Tiziana Villani, di cui riporto uno stralcio:
Era proprio come una sorta di luogo tumultuoso, con gli emissari che vanno verso il mare. Un lago forza nove in cui erano confluiti tutti tentativi iniziati nel dopoguerra di trovare un percorso di liberazione che andasse oltre la rivolta antiautoritaria, ma anche ben al di là dei tentativi politici di trovare soluzione alla contraddizione tra organizzazione e composizione di classe, tra spontaneità e forma partito: credo che in questo senso abbiamo messo in atto un percorso profondamente e necessariamente distruttivo. Per dirla ancora con Debord: “Si trattò del miglior programma possibile per gettare nel sospetto l’insieme della società: famiglia, classi e divisione del lavoro, lavoro e tempo libero, merce e urbanesimo, ideologia e stato”. Abbiamo cercato di dimostrare che era tutto da buttar via, ma insieme a questo percorso abbiamo anche e fondamentalmente contribuito a portare a termine e reso irreversibile l’intero modello taylorista-fordista che aveva raggiunto la sua tarda maturità.
La mancanza di un’alternativa radicale al modello leninista, determinata anche da un rifiuto pregiudiziale di qualsiasi forma organizzativa stabile, favorì il ritorno in altre forme del modello leninista medesimo sia come scimmiottamento, sia come rifugio di fronte a un’offensiva criminale come quella delle stragi. Da che cosa ripartire ripensando a storia adesso? Proprio da questo: da una entità che definisco in modo assai cauto e quindi solo come entità appunto, che sappia riformulare un concetto di democrazia che sia, prima di tutto, uno stile di comportamento e di regole interne all’entità che prefiguri un tessuto relazionale diverso qui e ora e non in un fantomatico secondo tempo. Cosa va ripreso oggi dall’operaismo? Il concetto di autonomia e ontologia dei soggetti sociali che manifestano una critica radicale dello stato di cose presenti e che sono i titolari della trasformazione, cioè il loro primato rispetto alle declinazioni politiche (necessarie) che possono assumere in un momento o nell’altro. Saranno però dei soggetti plurali e non una aggregazione di alleanze sociali intorno alla classe operaia. Non parlo più delle ragioni che tuttavia spinsero a una scelta o all’altra in quegli anni. Se vogliamo andare avanti dovremmo una volta per tutte essere oblativi con i nostri errori ma anche capire che fummo travolti da una forza superiore alle nostre. Quando Moroni dice, sulla scorta di Debord, che portammo alla fine con le nostre lotte il modello fordista, possibile che non riusciamo comunque a vedere in questo un’azione vincente e che almeno in Italia vide proprio la confluenza di tutte le componenti che ho citato? Potevamo fare di più? Forse sì, ma quando fra trecento anni gli storici si occuperanno del ventesimo secolo, scriveranno probabilmente che la fine del socialismo reale fu in realtà bene altro e cioè il disfacimento di un assetto geopolitico che durava da Pietro il Grande, un evento che infondo non è molto diverso dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente! I primi fenomeni migratori, per esempio, furono dovuti alla fine di quell’assetto: guerra di Cecenia, Nagorno Karaback, 200.000 profughi provenienti dalla ex Jugoslavia ecc. ecc. Per il momento mi fermo qui su questo punto.
- Antiautoritarismo e femminismo.
La scissione fra antiautoritarismo e istanze di classe fu una tragedia, forse inevitabile nel contesto di quegli anni; ma tragedia fu e aprì le porte a molte altre tragedie, piccole e grandi. Chi raccolse a modo proprio la spinta antiautoritaria fu proprio il femminismo, ma lo raccolse scindendolo dalla lotta di classe. Su questo, almeno come origine, penso che le tue obiezioni Ennio siano sensate: però ti invito a ragionare su una domanda corredata da una serie di fatti. Mettiamo in fila alcune cose e alcuni fatti. Tu Ennio citi a un certo punto Hegel e qui vieni sul mio terreno, almeno per quanto concerne l’Hegel della Fenomenologia e quello della Scienza della logica. Nell’Hegel che tu citi ci sono due concetti decisivi: il primo è la macchina dialettica, il secondo, altrettanto fondamentale è il concetto di riconoscimento, cui forse oggi dovremmo dedicare le maggiori attenzioni. Ebbene, se alle istanze di separatismo, per quanto estreme, così come a qualunque istanza posta da un soggetto che si sta autodeterminando, la risposta non è il riconoscimento ma addirittura lo scontro fisico, forse si apre un problema: che altro dovevano fare dopo? Da quella mancanza di riconoscimento sono nate tutta una serie di conseguenze che ci trasciniamo ancora dietro. La deriva emancipazionista, fino alle quote rosa, la scissione fra diritti sociali e diritti civili vecchi e nuovi fu anche la conseguenza di quella rottura, che mise prima di tutto in difficoltà quella parte del femminismo che non dimenticava la lotta di classe. Nel contesto italiano prevalsero poi correnti come il pensiero della differenza, che andranno in una direzione ancora diversa finendo nelle derive di un pensiero spesso magico (Maria Gimbutas ecc.); mancano forse esempi di derive simili in altri mondi? Che dire dei molti eredi del ’68 finiti alla corte di Berlusconi oppure semplicemente a ritirarsi dalla scena più o meno dignitosamente? Forse bisogna mutare almeno in parte il punto di vista. Forse esistono i femminismi e non il femminismo e quello emancipazionista ha vinto e le correnti materialiste interne al femminismo, sono state sconfitte come sono stati sconfitti alla lunga i movimenti degli anni ’70. Forse dovremmo riprendere in mano il concetto gramsciamo di rivoluzione passiva, che spiega molto di quanto avvenuto: per esempio lo scambio fra la parola liberazione – che presuppone sempre un processo collettivo perché non ci si libera da soli – con quello liberale di libertà che è tutt’altra cosa. Nella ripresa attuale dei movimenti femminili e femministi in tutto il mondo c’è di tutto e non tutto è condivisibile, ma sono anche gli unici ad avere una visione che una volta si sarebbe detta internazionalista, mentre tanto pensiero di sinistra si aggira nei meandri di analisi geopolitiche inconcludenti e suscitatrici di zero prassi. Per concludere provvisoriamente segnalo a entrambi un post che ho pubblicato nel mio blog (vi mando il link come messaggio personale in Facebook). Lo faccio, oltre che per quello che scrivo io, anche perché al suo interno cito integralmente, dividendolo in due parti, un recente intervento di Lea Melandri che forse avrete già letto e che secondo me può essere utile anche per continuare questo nostro confronto.
*
Da Paolo Rabissi 10 agosto 2018
Caro Franco
riprendo da questo tuo passo di stamattina 10 agosto:
L’operaismo soffrì di una medesima carenza, forse per ragioni diverse che stanno nel contrasto Tronti-Panzieri e in quello che dice Paolo, ma riuscì tuttavia influenzare la nascita dei consigli operai, che erano proprio un tentativo di coniugare una cultura antiautoritaria con un’organizzazione democratica del conflitto dal basso (allora si poteva); ma su questo attendo se mai maggiori lumi da voi perché nel ’68 io mancavo di una storia precedente, se non per avere avuto un insegnante come Franco Fortini.
Dico che la storia del ’68 nasce agli inizi degli anni sessanta o meglio ancora dai primi scioperi importanti del dopoguerra per il contratto degli elettromeccanici del ’57, poi da piazza Statuto del ’62, dai Quaderni rossi di quegli anni, dai Quaderni piacentini che nascono nel ’62, poi da Classe Operaia ‘63-‘66, da Avola, Battipaglia ecc. L’ho già detto ma volendo non ci manca spazio e tempo per approfondire. Mi ripeto, l’antiautoritarismo nasce nel momento in cui operai e molti intellettuali si ribellano alle autorità, ciascuno partendo dalla propria esperienza e dal proprio posto di lavoro. E se non prendiamo come punto di partenza la sconfitta inferta dalle lotte autonome degli operai (quei CUB così simili ai Consigli di Pietroburgo nel ’17 e a quelli del biennio rosso, ecc.) al capitale costringendolo a modificare le forme di produzione dal taylorismo-fordismo al toyotismo neoliberal non teniamo conto abbastanza che ‘storia adesso’ deve poter significare per noi mettere in fila le conquiste dell’antiautoritarismo, stando ben dentro la consapevolezza che lo scontro operai capitale è anch’essa una storia di relazioni.
Dici bene che il femminismo ha raccolto l’antiautoritarismo. Ma anche qui occorre fare ‘storia adesso’ ribellandosi all’occultamento interessato delle sue forme di lotta. E sì, hai ragione, occorre smettere di parlare di femminismo (come di sessantottini) e parlare di femminismi. E’ indubbio che il femminismo legato alla lotta di classe è stato emarginato, non solo ha avuto spazio e riconoscimento all’inizio ma esiste tuttora, certo di più in Francia e negli USA che non in Italia dove a eliminare Lotta femminista e le altre (Dalla Costa, Federici, ecc.) ci ha pensato, oltre che un certo femminismo, il mainstream dell’emancipazionismo, quello oliato dal bunga bunga e da quella che Melandri chiamò la pornografia dei sentimenti dove il ‘personale’ come ricerca politica venne stravolto dallo sdoganamento del privato, dalla messa in scena dei buoni sentimenti della famiglia e dello stato e non dei rapporti di potere e di conflitto ad essi sottesi.
Concludo anch’io con Hegel, sputare sul quale era infondo u n prendere le distanze dalla metafisica tradizionale, ma sappiamo, e su questo ti sono debitore, che nella ‘fenomenologia dello spirito’ la dialettica servo padrone prova a lanciare una sfida importante che è quella appunto del riconoscimento di cui parli: ne parlo nella quarta strofa in ‘Di signoria e servitù, la mutazione che prende avvio dal desiderio’:
Che perfezione fanno le ibis rosse quando
striano il cielo perfezionano il volo come
fosse un lavoro da consegnarci sempre uguale,
la sagoma acuta riflessa nel mare quando
sazie abbandonano le rive dei rossi molluschi
coperte dall’alta marea. Che perfezione
fanno i castori del loro ingegno a costruire dighe
come fosse un lavoro simile al nostro.
Mai visti animali che si congratulano fra loro
dei propri manufatti, mai vista un’ape sulla
soglia dell’alveare di un’altra fermarsi a dire
bel lavoro. Il riconoscimento fra sapientes
è desiderio, desiderio materiale come il cibo.
Dispone alla mutazione il lavoro servile
apre spazi al desiderio fino al rischio della vita
vinta la paura ancestrale del bisogno.
*
Da Franco Romanò 11 agosto 2018
Rispondo brevemente a Paolo. Quando dicevo che a me allora mi mancava la storia precedente e questo per esempio non mi permise di capire l’importanza dell’operaismo, Fortini per me fu importante per il mio processo di alfabetizzazione politica e anche per la scrittura. Non intendevo ritornare a quello che poi ho capito , ma dopo Quaderni piacentini li lessi proprio nel ’68 e da lì andai indietro a riscoprire tutto il resto. Tutta la ricostruzione storica dal ’62 ecc. è acquisita. I due punti indicati alla fine sono poi punti di partenza. Proseguo nel mio studio su Sraffa.
*
Da Paolo Rabissi 11 agosto 2018
Ok Franco per la tua precisazione, mi chiedevo che lumi potessi aggiungere io, Ennio magari sì. Quanto a Sraffa buon lavoro, sei sicuramente avanti e con difficoltà maggiori, in questi due mesi io non ho fatto nient’altro che il nonno, anche perché, Grundrisse a parte, mi manca qualche libro.
Lo dico qui perché magari interessa anche Ennio, se non l’avete già letti, ho trovato molto interessante l’analisi di F. Mometti su quanto avviene a Pietrogrado tra il febbraio e l’ottobre, Pietrogrado 1917 dentro la rivoluzione, sconnessioni precarie, e anche di K. Moody Il nuovo terreno della lotta di classe On New Terrain. How Capital is Reshaping the Battleground of Class War (Chicago, Haymarket Books, 2017) sempre su connessioniprecarie.org dove c’è una recensione.
SEGNALAZIONE
Il ‘68 tra passato e presente
Scritto da Beppe Corlito – 26 Settembre 2018
https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/il-presente-e-noi/836-il-%E2%80%9868-tra-passato-e-presente.html
Stralcio:
Si potrebbe dedurre troppo facilmente che questo processo produce un “nuovo proletariato”, quello della terza rivoluzione industriale, che in questo momento sta davanti ai computer e a tutte le macchine elettroniche. Nel movimento del ‘68 la massificazione della scuola e dell’università mise in moto un movimento antagonista rispetto alla riorganizzazione ed innovazione che il grande capitale stava promuovendo allora. Il movimento produsse nuove forme di organizzazione di massa, legate alle assemblee e alla democrazia diretta, fondata sul ritiro della delega. Era una “critica della politica”, che voleva rifondare la politica partendo dal basso , cioè partendo dalle auto-organizzazioni di base. Questa idea riprendeva i fermenti “consiliari” del movimento operaio primo novecentesco ed escludeva la “forma-partito” centralistica tipica della Terza Internazionale, modellata sullo stato centralistico che voleva distruggere, ma alla fine ci rimanemmo impigliati. Avremmo dovuto introdurre un’altra forma di partito “a rete”, modellata sull’attuale modello decentrato di gestione del potere, a cui allora non avevamo neppure gli strumenti per pensare, mentre il capitalismo cominciava a produrre la propria rete elettronica estensibile a tutto il pianeta. Oggi non sembrano neppure esistere “i seppellitori della borghesia” di cui Marx e Engels parlavano nel 1848: il “nuovo proletariato”, di cui dicevo sopra, che potenzialmente avrebbe maggiori capacità tecniche e culturali di quello precedente, è atomizzato e frammentato: ognuno è solo davanti al proprio computer, questo ha rivoluzionato la capacità concentrazionaria della fabbrica novecentesca. Tale processo è ulteriormente accentuato dalle forme di lavoro precario, che conosciamo, e dalle ideologie individualistiche che la grande borghesia ha prodotto negli ultimi decenni e che ci spiegano l’enfasi mediatica data alla modernizzazione come tratto saliente del ‘68. In una sola parola: questo nuovo proletariato è poco organizzabile ed è più difficile che si attivino i percorsi necessari al costituirsi di una coscienza di classe. Ciò non vuol dire che essi non siano possibili, ma perché questo avvenga è necessario che un nuovo movimento di massa si produca e sia capace di recuperare la parte migliore del movimento del ’68. Questo spiega come mai la classe dominante e i pennivendoli ad essa legati si accaniscano a cancellare anche la memoria di quanto avvenne allora o comunque ad intorbidare le acque perché non avvenga la necessaria saldatura tra le giovani generazioni di oggi e quelle di allora. La misura di questo accanimento così duraturo è la misura diretta della fondatezza delle nostre ragioni.
SEGNALAZIONE
Cornelius Castoriadis e il Maggio 68
Francesco Bellusci
https://www.doppiozero.com/materiali/cornelius-castoriadis-e-il-maggio-68
Stralcio:
Castoriadis, nelle sue considerazioni conclusive, non parla del 68 nei termini di una rivoluzione fallita, ma di una “rivoluzione anticipata” e affida ancora le sue speranze al nuovo potenziale vettore di cambiamento, emerso in quel mese, rappresentato da giovani, studenti, educatori, addetti all’industria culturale.
Diciotto anni dopo, nel 1986, in un lungo articolo scritto per la rivista Pouvoirs, anche se la “rivoluzione” giovanile contro la burocrazia e la gerarchia non ha avuto lo sbocco creativo e rigenerativo sperato, sul piano politico-istituzionale, Castoriadis difenderà Maggio 68 e, più in generale, i movimenti sociali e giovanili degli anni sessanta, da coloro che, con le loro interpretazioni posteriori, finiscono per stravolgere, o addirittura rovesciare, il senso di quegli avvenimenti, mettendone in discussione la portata culturale innovatrice. Castoriadis non è d’accordo con quanti come Régis Debray, Jacques Lacan, Gilles Lypovetsky, vedono negli studenti e nei giovani di maggio le truppe di achei che trascinano nella società, che vorrebbero espugnare, il cavallo di Troia del definitivo trionfo della “ragione produttivista” o del “discorso del capitalista” sul godimento illimitato, alla base dell’ideologia consumista, o dell’“individualismo contemporaneo” con la sua inequivocabile cifra edonistica (interpretazioni che trovano il loro pendant, in Italia, nelle invettive di Pasolini). Né è d’accordo con Luc Ferry e Alain Renaut che, in un libro uscito l’anno prima, associano il “pensiero 68” al successo negli anni seguenti dello strutturalismo, che, secondo Castoriadis, con la sua costellazione ideologica e teorica di “morti” (del soggetto, dell’uomo, del senso, della storia) è da spiegare piuttosto con lo scacco del movimento, il quale, per converso, ha rappresentato un risveglio della fiducia nelle possibilità inventive umane.
I movimenti degli anni sessanta hanno espresso forme di fraternizzazione, un desiderio di risocializzazione, la critica dell’ordine burocratico-capitalista, il rifiuto dell’autoritarismo, attraverso la concezione di nuovi rapporti tra i sessi, tra genitori e figli, tra insegnanti e allievi, con le minoranze razziali, per aprire il varco a nuove libertà, nuovi diritti, nuove garanzie, nuove mentalità, che altrimenti non avrebbero sedimentato. Pertanto, secondo Castoriadis, i movimenti degli anni sessanta e, a valle, il Maggio 68, hanno interrotto, seppure provvisoriamente, ma non senza effetti, il processo biunivoco di burocratizzazione sociale e di privatizzazione e apatia politica degli individui, in cui si avvitano le società occidentali dopo la guerra, lungo una deriva che trasforma le democrazie in “oligarchie liberali” e impronta gli atteggiamenti diffusi a un “conformismo generalizzato”, che diventano il principale bersaglio polemico di Castoriadis negli ultimi anni della sua produzione intellettuale. La dissoluzione di quei movimenti segna, quindi, “l’inizio della nuova fase di regressione della vita politica nelle società occidentali” e se, quell’anno, come disse Jacques Signorelli, compagno di avventura del filosofo greco-francese nel gruppo di SoB, sin dagli esordi, la vita ebbe un nuovo colore, è perché Maggio 68 è l’ultimo di quei sussulti della storia e dello spirito creativo e istituente, dopo il 1789, il 1848, il 1871, il 1917, “il cui senso è stato il tentativo di far accadere altre possibilità dell’esistenza umana”.
*Non sapevo che Bia Sarasini, morta in questi giorni, fosse salernitana. Questo ricordo del ’68 sta bene accanto ai nostri. [E. A.]
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La Compagna con il maggiolino blu (estratto di Bia Sarasini)
(https://enzocastaldi.wordpress.com/2018/10/14/la-compagna-con-il-maggiolino-blu-estratto-di-bia-sarasini/)
Questo breve scritto è un estratto inedito dal libro mio e di Ubaldo Baldi “Operai e studenti uniti nella lotta” che Bia Sarasini inviò circa un anno fa ad Ubaldo.
Bia Sarasini, salernitana ma trapiantata a Roma negli anni ’70, fu tra le promotrici della nascita del Manifesto salernitano e quando seppe di questo progetto (il libro) volle partecipare con un ricordo personale di quegli anni. Ricordo che abbiamo poi successivamente deciso di pubblicare.
Un abbraccio alla sua famiglia
Enzo Castaldi
Del ’68 ricordo la grande manifestazione per la pace in Vietnam, contro l’escalation militare americana. Non so dire esattamente il giorno, credo verso la fine di Maggio, confrontando varie cronologie. Un corteo imponente che veniva dal Carmine, scese per via dei Principati, non ricordo dove si concluse. Allora frequentavo la classe terza, sezione B, liceo classico “Tasso”, dove vigeva la separazione tra sezioni maschili e sezioni femminili. Anche gli ingressi erano separati. Noi ragazze usavamo quello principale, su piazza San Francesco, i ragazzi entravano ed uscivano sul retro. È un particolare importante, perché quel giorno un gruppo di “femmine” partecipò al corteo. Era la prima volta, in precedenza c’erano già stati scioperi dei ragazzi che non ci avevano però coinvolte. Della mia classe ricordo Lucia Annunziata, Lucilla Vocca, Giugliana Garagnani, forse altre. Buona parte delle altre entrò regolarmente a lezione. Fu un punto di rottura.
Frequentavo il gruppo cattolico che prima alla Chiesa del Crocifisso, poi alla Chiesa dell’Addolorata, con don Franco Petrone aveva cominciato a lavorare sulle nuove liturgie, in sintonia con lo spirito del Concilio e delle comunità di base. Un impegno che è stato parallelo e costante con il nuovo impegno politico, con incontri e conoscenze forti. È con quel gruppo, per esempio, che andammo al manicomio di Materdomini in un incontro con Sergio Piro, un contatto con i ricoverati e il lavoro in corso di trasformazione che fu un’esperienza forte e formativa.
Finito il liceo con Lucia, Arturo Ricciardi, Gigi Spina, Lorenzo Bifone, Giuliana Garagnani e altri, creammo un gruppo detto “Gruppo zero”. Tra le varie attività, oltre a teatro e filmati, entrati in contatto come “gruppo spontaneo” con operatori dell’ENAIP (Idreno Ramaccioni e Paola Toniolo), curammo una controscuola nel quartiere Mariconda. In pratica preparammo all’esame di terza media un gruppo di ragazzine e ragazzini. Fece parte del lavoro realizzare un superotto, con una favola destrutturata, girato e custodito da Gigi Spina. I ragazzi furono promossi, suppongo fosse il ’69.
Questo gruppo spontaneista fu tra i fondatori del Manifesto salernitano. In verità fummo solo in tre, Lucia Annunziata, Arturo Ricciardi e io. Gigi Spina viveva già a Napoli e di fatto la sua vicenda con il Manifesto è stata vissuta in quella sede.
Ricordo bene l’entusiasmo iniziale, i corsi di marxismo tenuti a noi inesperti da Enzo Sarli e Nicola Paolino. La sede di via Arce. Il ciclostile. A questo proposito un ricordo speciale: in un’incursione notturna i fascisti ci avevano rubato il ciclostile. Eravamo in difficoltà, non c’erano soldi in cassa e dovevamo produrre volantini. Allora portai i compagni nella sede del mio gruppo ecclesiale, che volentieri mise a disposizione il proprio. Una vicenda che suscitò l’interesse della polizia politica e che si colloca nel ’70, cioè nella fase iniziale. Ricavo le date dal fatto che quando nel Dicembre del 1970 fui eletta segretaria nazionale del Movimento Studenti di Azione Cattolica, in una lista alternativa a quella centrale e in una storia di cui qui è inutile entrare nei dettagli(*), questo episodio mi pose al centro di un’attenzione particolare. In pratica ero sorvegliata perché considerata, sulla base delle informazioni arrivate, una potenziale infiltrata comunista. Questo naturalmente l’ho scoperto molto dopo.
Del lavoro politico ricordo con particolare vivezza l’intervento al quartiere Petrosino. Un lavoro capillare, porta per porta, megafonaggio, fatto da tutte noi compagne.
Pur trasferita a Roma, e cominciando a frequentare il Manifesto lì, ho continuato a rientrare a Salerno, frequentare le riunioni, tornare apposta per le manifestazioni o alcune urgenze politiche. Tra tutti ricordo la campagna elettorale. Possedevo una delle poche auto personali, tra i compagni. Un maggiolino azzurro con cui ho girato con il nostro candidato, Antonio Caiella, in tantissimi paesini. Io iniziavo e gli davo la parola. La mia presenza incuriosiva – una ragazza che faceva l’autista era ancora una curiosità – magari ci guardavano dalle finestre. Ricordo l’ultimo giorno della campagna a Salerno, la mia auto che girava su e giù, tra lungomare, le salite, fino a Mercatello e poi ritorno, coperta di striscioni e bandiere rosse. E oltre agli slogan dall’altoparlante diffondevamo l’Internazionale e anche l’inno di Potere Operaio: “La classe operaia, compagni, è all’attacco(…)”
Un ricordo indelebile.
Bia Sarasini
(*) sarebbe invece molto interessante approfondire la vicenda. Invito chi legge e ne sa di più di contattarmi in privato all’indirizzo mail che trovate nella pagina “su me stesso”.
* Franco Calamida, ex dirigente di Avanguardia Operaia sta raccogliendo testimonianze sul ’68. Per oggi segnalo questo intervento. Altri se ne trovano sul sito da lui curato a questo link: http://www.lasinistrainzona.it/
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“Gli elementi essenziali ” di M.G.Meriggi
http://www.lasinistrainzona.it/index.php?option=com_content&task=view&id=1533&Itemid=1
Stralcio:
In occasione di presentazioni di libri su quegli anni e più in generale di quel decennio mi è capitato di notare che si fa molta fatica a comunicare come vedevamo il rapporto con la legalità. Senza feticismo dell’illegalità, non si può avere nemmeno il culto della legge quando la si vuole rifondare ogni giorno! A un protagonista del Brancaccio che non cito per non personalizzare troppo che mi diceva che certo la mia generazione doveva avere un pesante senso di colpa mi venne spontaneo di dire che semmai ci pentivamo di non avere fatto abbastanza…
Per tutte queste ragioni – che per anni ci hanno fatto vivere ogni giorno come la preparazione al momento della rottura creativa – la generazione che ha vissuto quel “biennio rosso” non concepiva nemmeno che si potesse dividere le lotte per i diritti sociali, economici e politici. Dalla fabbrica alla società ridefinire gerarchie e finalità del produrre significava anche conquistare percorsi di libertà per i singoli, per i corpi e per l’immaginazione.
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Conversazione con Adriano Sofri (da Facebook)
16 ottobre alle ore 08:44 ·
Un romanzo nel ’68
Pierluigi Sullo è stato – è ancora, immagino – militante e giornalista di spicco nella nuova sinistra (Quotidiano dei lavoratori, vent’anni al Manifesto, Carta…). Ha appena pubblicato “La rivoluzione dei piccoli pianeti”, sottotitolo “un romanzo nel ‘68” (Lastarìa editrice, 15 euro). Prezioso, il sottotitolo, a non farlo passare per un romanzo “sul” ’68: i romanzi “su” sono condannati, e quelli sul ’68 ancora prima della lettura. Sullo ha scritto la sua Educazione sentimentale, e del piccolo gruppo di compagni di scuola e amici e le loro famiglie. Un libro molto bello, e singolarmente sincero. Romantico: si può dire, lo diceva di sé Flaubert. L’ho letto con un’iniziale diffidenza e molta curiosità. Il protagonista è un liceale alla soglia dell’esame di maturità, nel ’68 io facevo il concorso per diventare di ruolo. Bastava quella manciata di anni a distanziare di un’epoca le rispettive educazioni sentimentali. La distanza che ce ne separa oggi ha ridotto le differenze e produce uno slittamento delle priorità: veniva solennemente prima, o così sembrava, la rivoluzione, e gli amori ne occupavano gli intervalli, i resti di notti, poi la memoria inverte l’ordine. Ma il romanzo di Sullo non è retrospettivo, anzi si svolge in parte come un diario, recupera pagine di esperimenti poetici e non riduce personaggi e avvenimenti a precursori e premesse di quello che è venuto dopo. Il racconto è così pieno di libertà, di promesse, che quando, ormai in prossimità della fine, si intuisce che qualcosa sta per precipitare dolorosamente, si è tentati di fermare là la lettura, qualche decina di pagine prima, mentre tutto è ancora aperto. La precipitazione riguarda uno dei compagni, la cui vicenda personale è un suggestivo, commovente controcanto all’abusato Pasolini di via Giulia.
Il Frédéric dell’Educazione sentimentale ha 18 anni nella prima pagina, dovrà aspettarne otto prima di arrivare al suo ’48. Il protagonista di Sullo compie i suoi 18 anni nel ’68, e se ne accorge quasi per caso in una trasferta milanese, piazza del Duomo invasa dagli operai in tuta e dal loro urlo compatto, fino a che un canto nasce da un angolo della piazza e si trasmette dovunque: “Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo…”. “Enrico disse: ‘Mi è venuto in mente che oggi è il mio compleanno, l’avevo dimenticato’. Annamaria si fermò, lo guardò fisso: ‘Spero che sia il più bello della tua vita’. ‘Lo è’.” Tutto poteva ancora succedere.
*Il ’68 degli assistenti universitari…
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Il respiro poetico del sapere
Intervista a Antonio Prete
24 OTTOBRE 2018 DI MASSIMO CAPPITTI
http://www.ospiteingrato.unisi.it/il-respiro-poetico-del-sapereintervista-a-antonio-prete/#more-3675
Stralcio:
Come hai vissuto il ’68? Hai voglia di parlare della tua esperienza politica?
Mi è accaduto qualche tempo fa di scrivere sulla rivista «Doppiozero» intorno al Sessantotto: ho rievocato, pensando a quei mesi, il senso di un inizio, un inizio che annuncia e non precede né fonda. Una fascinazione dell’inizio, insomma, che coincide con uno stato di desiderio («desiderio dissidente» lo definiva in quei mesi Fachinelli su «Quaderni piacentini»). Certo, in questo senso dell’inizio precipitavano storie soggettive ed eventi culturali e politici precedenti, ma c’era soprattutto il dischiudersi di una sensibilità generazionale per la quale le ferite lontane – di popoli e individui – divenivano visibili, prossime, parte del proprio mondo, dei propri pensieri. Era forse questo, insieme con quel senso dell’inizio, il carattere più proprio del movimento. Certo, quel che precede finisce con l’agire ma come in un’aria nuova: le inchieste sulla fabbrica e sull’emigrazione, la critica delle istituzioni totali, l’antipsichiatria, i movimenti di rivolta in Paesi dell’area comunista come Cecoslovacchia e Polonia, le lotte di liberazione in Africa e nell’America latina, la teologia della liberazione, Frantz Fanon e il terzomondismo, tutto questo e molto altro giungeva nel movimento ma come sottoposto a un vento che dislocava ogni cosa verso un orizzonte possibile pur essendo un miraggio, ritenuto prossimo pur essendo solo ideale e assoluto.
Il Sessantotto per me iniziò il 16 dicembre del 1967, giorno del congedo dal servizio militare svolto in gran parte a Firenze (ero partito poco prima dell’alluvione del novembre ’66). Nel pomeriggio ero già di ritorno a Milano, nell’Università Cattolica occupata, in una riunione dell’Associazione dei giovani assistenti volontari alla quale appartenevo: da quel momento mi ritroverò con altri amici, anch’essi laureati da poco e assistenti, a vivere giorno per giorno, e in certi periodi anche notte per notte, insieme con gli studenti, decisioni, scelte, avvenimenti, assemblee e manifestazioni. Al mattino insegnavo al liceo, dove avevo la cattedra di italiano e latino, nei pomeriggi ero in Università, dove tenevo un seminario su Avanguardia e neoavanguardia: una piccola aula, con i libri a portata di mano, gli incontri protratti anche nei giorni di occupazione, tentando di provare a vivere un’esperienza seminariale nuova e libera, “antistituzionale”. Il racconto di quei mesi allineerebbe ricordi personali, letture, discussioni, e considerazioni sul movimento, sul suo impeto, sulla sua multanime vitalità, sui limiti, sui fantasmi della politicizzazione sempre in agguato – politicizzazione della vita! –, sulla nascita dei leader, sui rapporti con il mondo del cosiddetto “giornalismo democratico” (per un certo tempo ero addetto a scrivere i comunicati stampa su quel che accadeva nel movimento e a portarli direttamente ai giornali milanesi). Testimonianza e narrazione di storie singolari e flusso dei ricordi si mescolerebbero. Due aree che in quei mesi mi trovai a frequentare furono quelle della “non violenza” – una componente rilevante, con riferimenti a Gandhi ma anche alla “disobbedienza civile” – e quella dei situazionisti, che a Milano si riunivano alla Statale. Sin dall’autunno di quell’anno mi ritrovai poi in quello che a Milano si definì «Movimento insegnanti medi»: in quel gruppo, e nei suoi vari svolgimenti, partecipai attivamente occupandomi, con stesura di documenti e di analisi, dei problemi della scuola. Subito dopo, come insegnante al Liceo Parini, mi trovai a vivere da vicino, nel vivo di una microsocietà milanese, le risonanze e i rimbalzi del Sessantotto. Molti dei colleghi dei licei erano, come me, anche studiosi, e questo permetteva di vivere la politica senza mai allentare il confronto culturale. A un certo punto, con Giancarlo Majorino, Franco Loi, Tiziano Rossi e altri poeti facemmo delle riunioni con l’obiettivo di fare un foglio di poesia che circolasse nel movimento. Un altro riferimento era «il manifesto» rivista, e quando nacque il quotidiano e il “manifesto” si organizzò in una rete di gruppi, finii col partecipare attivamente al gruppo di Milano, che aveva sede in corso San Gottardo, al 3, non lontano dal mio monolocale sul Naviglio pavese. Un altro luogo di impegno fu la libreria Celuc, nata nel clima del Sessantotto e gestita da studenti e giovani laureati (una parte di essi partecipò poi alla nascita del giornale «Lotta continua»). Un’altra area di riferimento, per amicizie e frequentazioni, fu quella dei «Quaderni piacentini».
Ripensando al fervore di quegli anni, al tempo dedicato agli incontri e alle attività politiche e culturali, mi sorprende riconoscere che lo studio, le letture, le ore in Biblioteca, e la stessa scrittura non ne risentivano molto, e avevano in certo senso la stessa intensità. Era la giovinezza a moltiplicare miracolosamente le energie e a dilatare il tempo.
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* Roberto Contu, nato nel 1976 legge il “mito” del ’68 attraverso il romanzo di Luperini. Che è sicuramente un romanzo ben scritto e interpreta eventi e personaggi «in modo onesto». Però in questo saggio a ma pare ci sia troppo zelo citazionista da discepolo e una ingenua fiducia nel fatto che un romanzo possa dire «cosa fu veramente il 1968». [E. A.]
L’uso della vita. Il ’68 di Romano Luperini
Scritto da Roberto Contu –
https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/882-l%E2%80%99uso-della-vita-il-%E2%80%9968-di-romano-luperini.htmlSe?fbclid=IwAR3penGTWC0nXpS0kPnt5pqo-lCnDU7U3Xy-MJlZ6w7E9fOzTruTpsxW6QQStralcio:
Ma il personaggio di Fortini è anche paradigmatico della rottura che l’anno del maggio cristallizzò tra due generazioni che persero definitivamente contatto e riconoscimento reciproco. Marcello e Ottavio vanno a trovare Fortini subito dopo Valle Giulia e Il PCI ai giovani!. Fortini, che predica la rivoluzione ma arranca lentissimo con il suo maggiolino per raggiungere in collina una trattoria, sostiene con Sofri nel quinto capitolo un duro scontro sul tema della funzione dell’intellettuale, proprio a partire dalla querelle con Pasolini nella quale l’autore di Verifica dei poteri aveva liquidato l’ex-amico[15] con parole percepite da Marcello come geniali: «Non ti bastava essere D’Annunzio, hai voluto essere anche Malaparte». Sarà Fortini, che a causa del terremoto sessantottesco si troverà a dovere licenziare una nuova prefazione di Verifica dei poteri proprio sulla ridefinizione del mandato, a fornire nell’ultimo capitolo a un Marcello oramai diverso la chiave di lettura di quell’anno straordinario:
«La forma» concluse, «è attributo delle classi dominanti e insieme anticipazione dell’uso formale della vita, che è il fine e la fine del comunismo». L’uso formale della vita, l’uso formale della vita, si ripeteva Marcello seduto sul vagone del ritorno, adeguando il ritmo della formula a quello del treno e nello stesso tempo cercando di afferrarne sino in fondo il significato.
Se Franco Fortini e Adriano Sofri sono i due personaggi storici più caratterizzati, altrettanto significativo, anche se più laterale nel dispositivo narrativo, è il personaggio di Massimo D’Alema, giovane rappresentante di quello stesso apparato di partito che all’inizio della storia mette sotto processo il giovane Marcello. La presenza del futuro leader politico è sempre contraddistinta dalla capacità di sapere scivolare indenne sulle contestazioni continue a cui è sottoposto. L’ultima apparizione, nel dodicesimo capitolo, lo vede allontanarsi beffardo in automobile insieme alla fidanzata Gioia dalla zona dei disordini alla Bussola, in direzione opposta a quella di Marcello che tenta di raggiungere i compagni, non senza prima avere offerto anche a lui una comoda via d’uscita:
«Oramai la situazione è degenerata… I tuoi amici stanno facendo le barricate. D’altronde è l’unica cosa che sanno fare» rispose beffardo D’Alema. «Ma la polizia spara… Ho visto le fiammate degli spari» obiettò lei. «Meglio andarsene subito da qui, vuoi un passaggio?» aggiunse. «No, ho la macchina» disse lui. Ma aveva già deciso di andare avanti.
Un discorso a parte meriterebbe invece la figura del giovane Soriano Ceccanti, tragico protagonista storico dei fatti della Bussola e del finale del libro, ma decisivo ancora prima nel fare percepire a Marcello un ulteriore futuro iato tra la propria generazione, comunque appesantita dal conto politico pagato alla generazione dei padri, e quella successiva che un giorno si sarebbe presa la scena in quell’esperienza assolutamente altra dal Sessantotto che fu il Settantasette. Altri personaggi storici noti sono infine presenti con apparizioni più fugaci. Tra questi vale la pena ricordare la figura di Luciano Della Mea, contraltare mite dell’esuberanza di Sofri, ma anche quella di uno dei futuri ricusatori dell’anno del maggio, quel Giampiero Mughini che viene liquidato da Marcello con un gesto senza appelli:
Quando due giorni dopo gli arrivò una lettera di Giampiero Mughini, che cominciava «Quando ho letto la notizia del tuo arresto sul giornale, ti confesso che il primo sentimento che ho avuto per te è stata l’invidia», appallottolò il foglio e lo gettò nel cesso-lavandino senza proseguire la lettura.
Segnalo uno scambio avvenuto sulla mia bacheca FB a proposito de “L’uso della vita di Luperini:
Claudio Accio Di Scalzo
Sorvolo sul Luperini romanziere che si prende a distanza di anni, rendendosi protagonista (di cosa poi? della Lega dei Comunisti che erano si e no dieci persone coltissime) di eventi vissuti da “imboscato”. Mai visto in una manifestazione dove volasse qualche manganellata. O ad una occupazione rischiosa! Le vendette su Sofri sono meschine. Lui ha calcato cattedre universitarie, scritto manuali scolastici, diffuso una confusa teoria sull’allegoria ubriacandosi con i Gruppi tipo 93… insomma è stato un barone rosso… Sofri ha vissuto la galera per il caso Calabresi. E dinanzi al fallimento di Lotta Continua – che è sicuramente un movimento sovversivo con potenzialità eterodosse sconosciute alle altre organizzazioni e per certo romanzesche anche nei personaggi negativi – ha scelto di non ricavarne saggistica o romanzo. Ma i suoi testi sul carcere e sulle crisi politiche nel mondo comparsi anche su La Repubblica sono ottima saggistica. Non ho tempo invece per romanzi a tesi da leggere.Già Tabucchi, a Siena, considerava Luperini negato ad ogni forma letteraria. D’Alema? Il signorino raccomandato dall’apparato PCI era lì a difendere le conquiste del PCUS in materia di diritto “socialista”! e definiva traditori i trotskijsti. E Soriano Ceccanti… da giovinetto per subita pallottola, mio amico e vicino a pochi metri quella dannata sera in Versilia, sta su di una sedia a rotelle da una vita…ha insegnato a tutti cosa vuol dire essere rivoluzionari. Se l’andava a trovare il professore Luperini e ci parlava forse trovava qualche scatto narrativo migliore (Accio)
Ennio Abate
Accio, non sono d’accordo. Il ’68 non ha fallito (o non è finito) perché Luperini si sarebbe “imboscato” né è continuato più a lungo, malgrado Sofri sia finito in galera. Il fallimento, in modi diversi, è stato per tutti quelli che vi hanno partecipato: coraggiosi o meno coraggiosi, imboscati o in prima fila durante gli scontri, militanti pronti all’azione e militanti più intellettuali. A distanza di cinquant’anni si deve ragionare su una sconfitta *comune*, pur valutando tutte le responsabilità per quanto possibile. Altrimenti restiamo fissati ai settarismi di allora tra i vari gruppi e alla rivendicazione (magari velata) della “superiorità” del gruppo a cui abbiamo partecipato. È un lavoro sui documenti, le interpretazioni, le memorie anche soggettive che possiamo fare ancora oggi. E Luperini ha offerto il suo tassello a questa ricostruzione. Non so se tu abbia letto «L’uso della vita» o ti basi solo su questo scritto di Contu o squalifichi addirittura il romanzo solo perché lo consideri «a tesi» o ti basi su un giudizio (quantomeno discutibile) di Tabucchi.
Trovo, però, troppo sprezzante il giudizio sulla Lega dei Comunisti e ingiusta l’accusa a Luperini di aver vissuto gli eventi del ’68 «da “imboscato”». Per me, non ha senso neppure stabilire – in base a quale criterio poi: il coraggio individuale nelle manifestazioni di piazza o nelle occupazioni rischiose? – chi furono i veri rivoluzionari distinguendoli dai falsi, visto che di rivoluzione non se n’è vista. Ci furono soggettività diverse e contrapposte, certamente, ma il loro valore va commisurato agli eventi e a quel contesto. Aver indicato il contrasto tra «protagonismo» o «esuberanza» di Adriano Sofri e «mitezza» di Luciano Della Mea o rigore intellettuale di Fortini non dovrebbe essere scambiato per una forma di vendetta meschina contro Sofri. Anche i percorsi successivi (Luperini cattedratico, Sofri prima in galera per il caso Calabresi e poi saggista e giornalista) andrebbero valutati nel contesto seguito alla sconfitta.
Ma perché non valutare il seguito (appena… 50 anni)? perché vedere i 50 anni seguenti solo come allontanamento o continuazione? Ma chi lo dice che allora fu il clou, la rosa nella croce di Hegel, la summa del possibile rispetto alla decadenza del reale? Avevo 23 anni e ne ho vissuti altri 50 dopo, nutriti di ben altro come tutti, credo. E se vogliamo parlare di “storia”, come parlare di quello venuto dopo solo in rapporto all'”evento”?
Si sta parlando di un libro, “L’uso della vita” che parla del ’68. I modi con cui parlarne ciascuno se li sceglie come vuole.