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La vita che volevo

di Cristiana Fischer

Poter ripercorrere gli ultimi 50 anni della vita politica del nostro paese attraverso le parole di una protagonista delle istituzioni, nota a tutti ma sconosciuta come persona, ecco il messaggio che la pubblicità del libro di Ilda Boccassini, La stanza numero 30,  trasmetteva.
Poco più giovane di me, quindi si trattava anche della mia storia, l’offerta era appetitosa. Al supermercato  ho trovato subito il libro, a destra dell’ingresso e sopra un tavolo basso, fra pile di libri di altro genere. Ho cominciato a leggerlo e in poco tempo lo ho finito, fissando nella mente due osservazioni: la nettezza dell’impegno preso con se stessa e mai un dubbio sul valore del servizio cui si era dedicata.
Proveniente da una famiglia di magistrati: padre, nonno e zio, e determinata a percorrere la stessa carriera, affronta subito un conflitto che mette in scena il suo essere una donna.
Sposata giovanissima e già con un bimbo piccolo affronta l’esame per entrare in magistratura. “Studiare e fare la mamma è stata una esperienza molto dura […] La mia vita privata era inesistente […] Per di più guadagnavo pochissimo contando solo su una borsa di studio collegata alla cattedra di Diritto penale. Mi pesava molto dover ricorrere all’aiuto dei miei genitori né loro mancavano di farmelo notare.”
Supera il concorso. “Telefonai subito ai miei genitori: pianse perfino mio padre e io potei finalmente dirgli che non l’avevo deluso, visto che quando mi ero sposata -così giovane e con un figlio in arrivo- si era detto convinto che mai avrei affrontato la fatica del concorso, che avevo buttato via la mia vita.”
Un secondo passo che coinvolge il suo essere una donna e il suo lavoro di magistrato (il maschile è la terminazione che lei usa sempre) è la guida che si sceglie: valoriale e professionale. E’ un uomo conosciuto in tutto il mondo, umanamente ricco e profondo, su cui si allacciano conflitti politici e psicologici, la miseria umana e l’ambizione, invidia e menzogna, finché perderà la vita nello scontro tra stato e crimine: è Giovanni Falcone.
Se ne innamora e lo amerà sempre, anche dopo la morte.
Le difficoltà che Falcone sta affrontando annunciano anche a lei quelle che dovrà affrontare nel lavoro. Ed è una donna, bella, e di carattere impetuoso e deciso. Ilda la rossa (cura molto la sua chioma come il suo vestire), selvaggia, come la definì Falcone.

 “Eravamo ancora in auto e a metà strada tra l’aeroporto e la città, tenendomi vicino a sé, puntò il dito verso l’Isola delle femmine. Con il suo sorriso sornione disse: ‘Sai perché si chiama Isola delle femmine? Perché lì venivano confinate le donne un po’ troppo ribelli. Ecco, anche tu meriteresti lo stesso trattamento.’ Restai per un momento interdetta perché mi parve un rimprovero, ma quello che aggiunse subito dopo mi sciolse il cuore: ‘Sei una ribelle, ma comunque verrei ogni giorno a nuoto pur di vederti’.”

Come lui, combatterà il crimine organizzato e la “zona grigia”, quella fascia di professionisti di cui il crimine ha bisogno.

Tutte le indagini hanno riscontrato la presenza di figure riconducibili al paradigma della ‘borghesia mafiosa’ e dimostrano che nessuna categoria professionale è risparmiata da tali presenze, che assumono il volto di imprenditori, notai, commercialisti, medici, appartenenti alle forze di polizia, magistrati, avvocati, funzionari pubblici di alto grado, uomini politici.

Troverà anche nel suo ambiente la zona grigia, meschinità, carrierismo, che freneranno per “mancanza di etica” il suo lavoro e non riconosceranno i suoi meriti.
Tuttavia è convinta che

Resistere alle lusinghe del potere, respingerne gli attacchi, rinunciare al carrierismo è una strada possibile. Sono convinta che le giovani donne magistrato del futuro potrebbero fare la differenza se – come mi auguro – sapranno smarcarsi dai falsi miti, dai cattivi maestri e dalle cattive maestre. E se saranno capaci di frenare la deriva attuale facendo argine con la loro umiltà, coerenza, solidarietà, passione per le istituzioni.

 Numerosi sono i riconoscimenti del valore di donne che hanno lavorato con lei, magistrate e appartenenti alla forze di polizia, amiche, consuocere, mediche e infermiere.
Conclusa la vita professionale trova la pace per potersi dedicare a un’altra vita. Il bilancio che fa è in questa frase:  “ho vissuto la vita che volevo e proprio come volevo viverla”.

 Vedere le rondini in cielo e osservare senza fretta il volto innocente dei miei nipoti mentre dormono. […] Rimarrò una combattente? Credo di sì. E queste righe vogliono dire che ho raccolto la mia ennesima sfida, perché so che il racconto della mia vita non piacerà a tanti, soprattutto a molti miei colleghi.

***

Non ricordo come in quegli stessi giorni ho incontrato, forse nell’articolo di una rivista online, Barbara Balzerani. Una donna, anche lei una protagonista, ma di ben altri scenari. Sarà dirigente delle BR e avrà un ruolo in rapimenti e azioni armate, anche nel rapimento e nel delitto Moro.
Scelte che hanno impresso alla sua vita (ha la stessa età di Boccassini e quindi pochi anni meno di me) un marchio duro e doloroso: dare la morte, viverla nei compagni e nel rischio continuo della propria vita.
Entrando nelle BR deve contrattare con se stessa la rinuncia ad affermare la sua differenza  femminile. In un’epoca che è segnata dal femminismo della differenza, lei pratica una “reale” uguaglianza.

In tutta evidenza il suo essere comunista era entrato in rotta di collisione con l’espressione femminista dell’essere donna […] I suoi erano tempi in cui le donne sparavano come gli uomini, in una guerra che non prevedeva territori liberati, né mariti, né figli […] Tra quei compagni, quasi sempre, avrei visto imporsi la legge non del maggior potere ma della maggiore autorevolezza. Coniugarsi la più grande responsabilità con l’assenza di qualunque privilegio. Con loro avrei imparato cosa significhi veramente non aver niente di proprio. A superare piccole e grandi meschinità nel dare e ricevere, come accade quando persino la propria incolumità fisica riposa nell’affidamento reciproco.(Compagna luna, DeriveApprodi, 2°ed. 2021)

E tuttavia oggi rileva non solo il maschilismo dei compagni ma la deformazione che quella falsa uguaglianza produceva sulle compagne.

Ripensando alla strumentalizzazione machista del carisma politico di molti capi e capetti del movimento, utile anche ad attirare, più degli altri, lo sguardo delle compagne. Atteggiamenti odiosi, illibertari, vecchi, che l’avevano confermata nell’idea che solo necessità prioritarie potevano imporre il rimando a dopo di certe questioni, quando condizioni più favorevoli avrebbero permesso di affrontare anche il nemico interno. […] Lì ha incontrato donne che giocavano la loro femminilità in deformante competizione con uno stereotipo maschile in armi. Le peggiori.

Liberata nel 2011 dopo 26 anni di carcerazione, nei numerosi libri scritti anche durante la detenzione, e nelle interviste rilasciate in seguito, sembra risultarle necessario spiegare, e forse giustificare, le azioni compiute. “Queste pagine non vogliono offendere nessuno, soprattutto quanti se ne sentiranno offesi. Se ci fossero ancora, mi piacerebbe le leggessero soprattutto mia madre e mio padre.”
La lotta armata “in una democrazia parlamentare a capitalismo maturo, fuori dunque dalla tradizione resistenziale e altra cosa dalle guerriglie nazionaliste e terzomondiste”, fu in realtà socialmente radicata nelle fabbriche e nel mondo del lavoro per più di un decennio.
La scelta armata, di “guerra alla guerra”, a un certo punto si continua come in un meccanismo che non lascia più scampo, come era il Fato per gli antichi, la pronuncia di una necessità superiore che travolge chi compie l’errore iniziale che porterà alla rovina. Mi viene in mente la frase: Dio confonde coloro che vuole perdere.

A pensarci adesso non è facile ricordare dove trovassero tanta incosciente fermezza nel giocarsi la vita. Non erano che gruppetti di giovani compagni, insofferenti dei tentennamenti di una sinistra extraparlamentare messa alle corde, con nient’altro che la determinazione a cercare nuove strade per continuare quella rivoluzione che aveva consumato in fretta l’innocenza dei primi entusiasmi di fronte al volto livido di un Potere assassino e stragista e di una sinistra istituzionale che perfezionava la sua paranoide sindrome rinunciataria da accerchiamento.

Ma c’è anche un altro quadro sul cui sfondo Barbara Balzerani giustifica le scelte fatte, ed è la crisi generale del pianeta, natura e popoli, che il capitalismo produce con l’ombra cupa dello sfruttamento, che forse vincerà la capacità di rivolta degli oppressi.

Adesso che la furia della produzione capitalistica ha diradato tante nebbie, possiamo vedere con un po’ più di chiarezza quanto gli stati con i loro confini, le proprietà della terra con le loro recinzioni, la produzione con lo sfruttamento del lavoro e dei territori, le biotecnologie abbiano messo in forse alla vita di continuare. Forse è tempo di celebrare il fallimento di questa macchina di morte che nessuna versione ecologica può riesumare. Di incepparne il funzionamento. Anche senza tutte le rifiniture di programma, è questo il tempo. Per gli irregolari, gli illegali, gli scarti, gli indios, i comunardi. L’impasto che può metterci all’altezza di un’altra storia, interamente umana (ultime righe, di conclusione, del libro Lettera a mio padre, DeriveApprodi, 2021)

***

La sua visione generale, legata alla lotta di classe, la stringe a idee generali sulla storia e sulla umanità, che sconfina in termini che di solito rimandano al divino. Una generalità che trascende la democrazia.
Viviamo in un tempo in cui le scelte si dispongono tutte, equivalenti, sul piano della offerta  letteraria, ragionata, pubblica. Si tratta di comunicazione, di libri, di social. Alla democrazia invece mi rivolgo, per il concreto rimando a un criterio di verità cui si rifà la filosofa Franca D’Agostini, che affronta da par suo il tema della Verità in rapporto alla legalità e alla giustizia.
Concludo con due citazioni che richiamano appunto al confronto per orientare la vita umana e le istituzioni.

Chiediamoci: perché la libertà di espressione non è solo un bene individuale (la possibilità di esprimere se stessi manifestando le proprie idee) ma è anche un bene collettivo, che deve essere salvaguardato? Una delle ragioni è sicuramente il fatto che è uno strumento fondamentale per completare le verità incomplete di cui ciascuno di noi dispone (cfr. Aristotele) evitando gli errori e gli inganni. Anzi, avere la possibilità di confrontare diverse versioni di uno stesso fatto o fenomeno è (accanto alle funzioni inferenziali) la prima forma di completamento delle verità empiriche.  (da qui)

Capire il tipo di realtà che è caratteristico di ciò che non esiste può essere importante. Per esempio, un’analisi degli oggetti inesistenti fornisce un rendiconto delle realtà di finzione, per esempio quelle che leggiamo nei romanzi. E spiega come funzionano. Ora nella filosofia politica le ideologie sono finzioni. Il mondo non funziona in un certo modo, ma noi creiamo – la classe dominante crea – una sorta di romanzo sul funzionamento del mondo e naturalmente lo usa per i suoi fini strategici. Capire le finzioni significa in definitiva capire le ideologie. (da qui)

 

Tre riepiloghi sul ’68

di Ennio Abate, Paolo Rabissi e Franco Romanò

 

Partendo da un articolo di Abate, DA RENZO TRAMAGLINO (MERIDIONALE) A SAMIZDAT  del 19 febbraio 2018,  abbiamo intessuto ricordi  personali e politici  su un evento al quale ciascuno di noi ha partecipato a modo suo. Sono passati cinquant’anni. Sembriamo ancora accomunati da un giudizio sostanzialmente positivo sul significato storico e politico del ’68. Eppure diversi sono  gli accenti, le prospettive e i filtri di lettura che usiamo. Sperando di non aver opacizzato  ma reso nelle sue molteplici facce  alcune di quelle vicende e i problemi che affiorano nel ripensarle, pubblichiamo in un unico blocco il nostro lungo e  laborioso scambio di mail, avvertendo in anticipo che un po’ di fatica la chiediamo ai nostri convenzionali quattro lettori. [E.A., P.R., F. R.]

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Memoria. Tre sessantottini.

Pubblico  le riflessioni  che Paolo Rabissi e Franco Romanò  hanno fatto  leggendo il racconto del mio ’68 ( qui ). [E. A.]  

 

IL MIO ’68 ERA COMINCIATO NEL ’66
di Paolo Rabissi

Caro Ennio

non sono uno dei vecchi cui poter passare le tue domande così cariche di problemi, non ho capito meglio di te il significato di quell’anno. Di più, io festeggio il ’68 tutti gli anni il 7 dicembre non perché a S. Ambrogio in quell’anno Capanna strigliava i compagni poliziotti Continua la lettura di Memoria. Tre sessantottini.

Politica del nemico

 di Ezio Partesana

 

La propaganda confonde spesso le cose, per convenienza e per effetto, ma più ancora impoverisce il linguaggio e i concetti, li riduce a uno e, quanto è possibile, a un poco meno di uno; poiché non deve mutare la realtà non è legata alla comprensione, ma il suo termine di riferimento sono le coscienze che deve far piombare nell’ignoranza, e dunque semplifica dove può.

Un esempio è l’uso della parola “terrorismo”. La violenza è accetta quando può essere ricondotta alla natura – sia essa un terremoto o il prezzo della manodopera immigrata – ma diventa un tabù non appena si rasenti la linea di confini che passa, invisibile oggi, tra le leggi del mondo e quella della giustizia.

“Terroristi” si chiamano a vicenda tutti quelli che sono in conflitto, perché “terrorista” è un termine spregevole, e essere un terrorista è una mala cosa. Sono terroristi gli Stati Uniti, i Palestinesi, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, Fidel Castro (anche se morto), i partigiani a mano a mano che non ne resta nessuno a chiedere conto, gli ebrei tutti, per definizione, e via seguendo con le multinazionali del farmaco o le Brigate rosse. Ora non è questione di etica della violenza: si può essere teneri come una colomba, ma anche le colombe hanno diritto a sapere di che cosa si parla. Vorrei allora proporre alcuni punti di riconoscimento, o un abbozzo di mappa, per navigare nelle notizie per lo più terribili che giungono, filtrate, a noi da ogni parte del mondo. E da casa nostra. Continua la lettura di Politica del nemico