Compianto sul Sessantotto

Su “Il Sessantotto e noi” di Romano Luperini e Beppe Corlito

di Ennio Abate

«Nessun maggior dolore 
che ricordarsi del tempo felice 
ne la miseria

Ho letto prima la Prefazione (qui) e ora il libro, Il Sessantotto e noi. Testimonianze a due voci (Castelvecchi 2024) di Romano Luperini e Beppe Corlito.
Il volume – circa 160 pagine – è suddiviso in: una
Premessa. Un paradosso ironico; due parti (una prima di tre capitoli, una seconda di undici); le Conclusioni; e una Appendice con un’intervista all’avvocato Ezio Menzione, difensore di Ovidio Bompressi nel processo per l’omicidio di Calabresi. Nella Parte prima tre capitoli trattano le questioni: dell’unità o pluralità del Sessantotto come fenomeno globale, planetario; delle sue cause  e dei suoi inizi; del Sessantotto italiano “lungo” (rispetto a quello francese). Nella Parte seconda, dal capitolo 4° all’11°, vengono esaminati i temi: dell’assemblea,  dell’organizzazione e della democrazia diretta; della militanza; della corporeità, sessualità e questione femminile; della cultura del Sessantotto; della violenza, del terrorismo e dell’omicidio Calabresi; del rapporto tra Sessantotto e tradizione comunista; della democrazia e della rivoluzione; del fascismo e dell’antifascismo. Nelle Conclusioni si toccano gli aspetti del Sessantotto ritenuti attuali.

La conversazione tra Luperini e Corlito è di agevole lettura, mai enfatica o apologetica; e ripercorre in modi sintetici e chiari i fatti e le principali interpretazioni del Sessantotto. Un lettore, che abbia partecipato a quella rivolta studentesca o che ne abbia sentito parlare, può ripassare utilmente  fatti, emozioni e ragionamenti scaturiti da quell’anno straordinario, in cui, come dicono gli autori, sembrò che «tutto il mondo fosse giovane».
Anche se questa «testimonianza a due voci» di due protagonisti del ‘68, che vuole essere «una sorta di testamento rivolto al futuro», viene resa nel
deserto politico odierno e l’«impronta indelebile» del Sessantotto non solo su loro due ma su tanti – una minoranza combattiva e preziosa ma messa presto fuori gioco –  a me pare un’illusione, non mi sento di sottovalutarla. Restano, però terminata la lettura dell’intero libro, le perplessità che ho  già esposto (qui) e ora,  per punti, provo ad approfondirle: 

1. Da tempo non vedo più il Sessantotto come «uno spartiacque per cui nulla di quanto esisteva prima è potuto essere uguale, dopo».2 Lo sarà agli occhi di chi stravede per la «modernizzazione dei costumi»,3  ma l’idea di un Sessantotto spartiacque è andata svanendo, decennale dopo decennale, e sono prevalsi gli elementi di continuità (o di restaurazione) con la situazione precedente. Peggio, si è affermato un rapporto paurosamente più ineguale tra potere capitalistico e un ormai azzerato contropotere democratico.4

2. Il fallimento del Sessantotto non può essere imputato soprattutto alla «eredità politica, culturale e organizzativa della Terza Internazionale», come sostengono gli autori. Oggi dovremmo fare un ragionamento più equo e drastico, che riassumerei così: se è fallita la «modalità della presa del palazzo d’inverno», altrettanto deve dirsi per «la lunga marcia attraverso le istituzioni» di Rudi Dutschke, che Luperini e Corlito definiscono «la più interessante in quegli anni» e ripropongono come «unico modello di una possibile rivoluzione socialista in Occidente» (8) o come via che andrebbe ancora «verificata in un processo reale» (124). Io farei notare, invece, che l’idea della «lunga marcia attraverso le istituzioni», proprio perché ha molto in comune con il discorso sulla «guerra di posizione» o sulle “case matte” del Gramsci anni Trenta, è stata già verificata. Ad esempio, nella storia del PCI. Che proprio una prima, prolungata e fallimentare «lunga marcia attraverso le istituzioni» è stata; e non solo non ha portato il PCI neppure al governo ma l’ha logorato e disfatto. E analogo fallimento ha avuto la seconda, seppur più breve marcia nelle istituzioni, della nuova sinistra e, in particolare, quella di Democrazia Proletaria. Dunque, non capisco come la regola suggerita da Luperini e Corlito  dello ‘scava dove sei’ possa non impantanare attori sociali – intellettuali, ceti medi, “lavoratori della conoscenza” – atomizzati e politicamene confusi in istituzioni che sono sempre meno democratizzabili. O in cosa la lunga marcia nelle istituzioni possa essere più efficace rispetto ai tentativi – sì, anch’essi fallimentari – di “assalto al cielo” o di “presa dei palazzi d’inverno”.

3. In politica, dialogo e trattative sono strumenti praticati e da praticare, ma non vedo perché cancellare o svilire altri strumenti – conflitti anche violenti e persino armati – che pur hanno permesso in passato rivoluzioni (la francese, la russa, la cinese) dai risultati apprezzabili. Il refrain sul fallimento e sull’improponibilità della «modalità della presa del palazzo d’inverno, perché la moderna società borghese [è] molto più complessa di quella russa degli inizi del Novecento»  non tiene conto che tale, indubbia, complessità resta ilguanto di velluto”, che copre il sempre più minaccioso e più tecnologicamente efficace pugno di ferro” del potere capitalistico (da Gramsci mai  trascurato nelle sue riflessioni).

4. C’è da precisare che il consenso alla linea di Dutschke non è totale o acritico. Luperini e Corlito ricordano i limiti del suo spontaneismo,5 sanno pure che un movimento per sua stessa natura «non può avere una tensione sempre alta» (124) e,  anzi,  rivendicano la scelta «che [compirono] allora, ispirata alle ipotesi di Lenin» (125). E, tuttavia, pur ammettendo gli scarsi risultati di quel «sommovimento planetario» a causa dell’«assenza di una solida teoria della rivoluzione in Occidente, che secondo Hobsbawm si riduce praticamente alla sola eredità gramsciana» (129)  e che – aggiungerei – pare  non bastare più,  ripropongono come modello unico «la lunga marcia attraverso le istituzioni»,   orientandosi oggi verso «una ipotesi intermedia fra l’ipotesi spontaneista e quella leninista che si confrontarono allora» (125): quella a «struttura reticolare» dello statunitense Luther P. Gerlach, che teorizza movimenti policefali, reticolari, senza una leadership unitaria.

5. Alla base di questo loro passaggio dalla lezione di Lenin a quella di Dutschke – mi pare di capire – c’è oggi un’adesione ad una visione di fondo pacifista – «una sorta di pacifismo attivo» (118) –  e che avversa ogni uso della violenza, se non per difendere la democrazia. Scrivono, infatti: «Del resto la Resistenza partigiana, in Italia e in Europa, cos’era stata se non questo? La difesa anche armata della democrazia» (119).

6. Non mi metto a chiedere di quale democrazia stanno parlando. Mi soffermo, invece, su come trattano la questione de ‘Il Sessantotto e la violenza’ (cap. 8). Sulla quale va detto subito che, nel Sessantotto e nel decennio dei Settanta, ci furono molte e comprensibili ambivalenze; e, direi sia tra gli spontaneisti che tra i leninisti o terzinternazionalisti. Per cui trovo ingeneroso in questo bilancio del Sessantotto l’accusa di «atteggiamento ambiguo sull’uso della violenza» rivolto solo o soprattutto a Lotta Continua. E sbagliata l’affermazione che «l’origine delle Brigate Rosse non ha a che fare con il movimento» (36), perché sarebbero nate dall’incontro tra le “due chiese”. Non mi sembrano accettabili né la  separazione netta tra militanti di un Sessantotto inteso  quasi come puro movimento e separato da quanti appartenevano alle “due chiese” quella tra pacifisti e “potenziali violenti” né la sprezzante definizione delle Brigate Rosse come «ultime propaggini perverse della tradizione terzinternazionalista e stalinista» (57). Il Sessantotto fu alimentato anche da vari “eretici” delle “due chiese” e alcuni dei fondatori delle Brigate Rosse, come Renato Curcio, erano stati attivi nel movimento studentesco a Trento.

7. Quando Luperini e Corlito parlano della strage di Piazza Fontana (111), insistono troppo a sottolineare che essa chiude «la fase di esordio pacifista, ottimista e creativa» del movimento o che «mise una pietra tombale sulla strategia della “lunga marcia”» (113). Il movimento sarebbe “scivolato” allora «in un assetto difensivo e nell’avvitamento del dibattito sulla violenza» (112). Scrivono pure: «La scelta difensiva è apparsa inevitabile». Domanda: ma era o no inevitabile? si poteva fare qualcosa di diverso? Oppure dicono: «La violenza non fu più vissuta come una necessità o una scelta obbligata ma come asse di riferimento assunto consapevolmente, priorità decisiva per una strategia compiutamente rivoluzionaria» (112). E accusano le formazioni spontaneiste di aver teorizzato «la violenza offensiva e l’antifascismo militante a tutti i costi senza distinguere tra lotta sul terreno legale e illegale, tra mobilitazione d’avanguardia e di massa, e senza considerare nemmeno la valutazione oggettiva del livello di scontro»(113). Sembra insinuarsi nella riflessione di Luperini e Corlito lo stereotipo di un Sessantotto quasi innocente, fatto regredire forse anche a suon di bombe di Piazza Fontana da fascisti e servizi occulti – e, tra parentesi perché non dall’ostilità acerrima del PCI? –  ma traviato soprattutto da spontaneisti e terzinternazionalisti di vario tipo. Viene quasi da pensare che, secondo Luperini e Corlito, se non ci fossero stati, il Sessantotto sarebbe filato liscio, che forse si sarebbe capito più tempestivamente anche la nuova ristrutturazione capitalistica già realizzatasi negli USA, ecc. E non si considera il fatto che la strage di Piazza Fontana era la prova che il pugno di ferro di un potere capitalistico minacciato era lì prontissimo a colpire. E che il Sessantotto  non poteva durare pacifico e indisturbato. E che di fronte a Piazza Fontana porre il problema della violenza difensiva/offensiva non era un capriccio o una distrazione da problemi più seri.

8. Altro problema: perché è fallita la spinta comunista del Sessantotto e chi l’ha fatta fallire? Si potrebbero esaminare varie ipotesi: lo Stato con i suoi apparati di sorveglianza e repressione; il PCI, che aveva rinunciato da tempo alla presa del potere con le armi e fu ostile al Sessantotto che turbava il suo “sonno revisionistico”; i brigatisti rossi o una parte di loro, che da rivoluzionari leninisti (violenza sì, terrorismo no) si tramutarono in terroristi e poi in delinquenti comuni o si pentirono. La testimonianza di Luperini e Corlito non mi pare approfondisca gli aspetti più problematici  o anche il “lato oscuro” del Sessantotto. E, a mio parere, manda al futuro un messaggio troppo univoco: la rivoluzione armata è impossibile in Europa o nell’Occidente – parola di Gramsci – e bisogna lavorare nelle istituzioni (anche se sono – dico io – a “democrazia marcita”). Per cui dei  vari pezzi del Sessantotto – quello libertario, quello “operaista”, quello “lottarmatista” – va valorizzato soltanto il filone del Sessantotto (pisano) in cui hanno militato e Democrazia Proletaria, come erede del «meglio della nuova sinistra». 

9. Di questa interpretazione del Sessantotto, dunque, non riesco a condividere la sua schematicità e anche un certo ottimismo “pedagogico”. Ci sento  ancora un rifiuto di approfondire  il “lato oscuro” del Sessantotto e  temo che la valorizzazione della «lunga marcia nelle istituzioni»  sia la continuazione mascherata del togliattismo del PCI e poi del compromesso storico berlingueriano, che ha fatto danni storici – secondo me –  ben più irreparabili del pur fallimentare lottarmatismo o dello spontaneismo. Infine, non capisco la mancanza di saggezza “postuma”. Cosa impedisce di ribadire, sì, che l’analisi delle Brigate Rosse fu sbagliata ma di dire anche che vari brigatisti o altri lottarmatisti hanno combattuto fino in fondo e, in quanto combattenti sconfitti, vanno rispettati? Tanto più che sconfitti sono stati anche quelli del PCI o della Lega dei Comunisti o di Democrazia Proletaria. E questi fallimenti, ammessi a mezza bocca, perché  sarebbero meno gravi di quello delle Brigate Rosse, o di Autonomia Operaia o dei marxisti-leninisti? Per me sarebbe meglio dire: abbiamo fallito tutti (con vari gradi di responsabilità), abbiamo poco da proporre perché su nodi fondamentali – violenza, democrazia/rivoluzione, organizzazione – non siamo stati né originali né adeguati alle situazioni che abbiamo dovuto affrontare, testimoniamo, sì, ma il fallimento del Sessantotto e stop. Compianto del 68, appunto.

10. Non voglio saltare, infine, un ultimo  problema che la lettura di questo libro mi ha riproposto: la nuova sinistra cosa poteva fare di più o di diverso di fronte alla scelta avventurista delle Brigate Rosse e dei lottarmatisti? Poteva forse piegarsi ad essa? No. Nemmeno in nome di una visione più lungimirante, si poteva chiederle questo. La critica al lottarmatismo, però,  poteva essere condotta in maniera più leale e intelligente. Forse si poteva fare a meno, ad esempio, di spargere la voce tra i militanti della nuova sinistra che quelli delle Brigate Rosse erano dei fascisti. O discutere di più le ragioni dei “compagni che sbagliavano”, troppo impazienti o estremisti. O forse non vantarsi ancora oggi, come fa  Corlito, di aver teorizzato e praticato – paternalisticamente, a me pare –  l’uso del servizio d’ordine, «il cui compito principale era evitare che le frange estreme del movimento si cacciassero nei pasticci per reagire alle provocazioni» (88). Restano, però, i forse. Ci sarebbe voluta un’autorevolezza che mancò ai dirigenti e ai militanti di tutte le formazioni della nuova sinistra. E, pertanto, i tanti discorsi gramsciani sull’egemonia restarono tali e non poterono mai essere applicati. Neppure nei rapporti con queste aree “estremistiche”. Finì per prevalere un aut aut pragmatico e spiccio: o si stava con le Brigate Rosse o con la nuova sinistra o con il PCI e l’”arco costituzionale”. Senza andare troppo per il sottile o stare a pensare a “impossibili” terze vie.6 Non so dire, dunque, se potesse essere praticabile un tentativo di dialogare o “egemonizzare” le Brigate Rosse o le altre formazioni lottarmatiste in modi più indipendenti dal PCI. O  influire su alcune delle loro scelte, come tentarono alcuni dell’Autonomia (Antonio Negri, ad esempio,  o in circostanze eccezionali, ai tempi della prigionia di Moro, Franco Piperno). Da come andarono le cose, pare proprio che una “terza via” non ci potesse essere. E si andò alla tragedia e alla sconfitta di tutti.

 

Appendice

Ho parlato del ‘68 in varie occasioni. Nel 1978 come di una «esperienza troncata/ che in luoghi separati cresceva/ e ora deperisce» (qui). Nel 2005 nel manuale Di fronte alla storia.7 Nel 2010 per difendere una certa sua immagine da quanti lo avevano osteggiato da subito (qui) o mettendo in dubbio la continuità tra movimenti del ‘68-’69, organizzazioni extraparlamentari di “nuova sinistra” e Democrazia Proletaria (qui). E poi nel 2018 (qui e qui). E ancora, indirettamente, nel 2021 (qui). Ho riflettuto sul tema della violenza nella storia qui, qui, qui e qui.

Note

1 Più in dettaglio Luperini e Corlito tornano su diversi luoghi comuni più o meno mitizzati che sono stati toccati ad ogni decennale in saggi o articoli. Essi ricordano l’Ortoleva de I movimenti del ’68 in Europa e in America (1998). Io aggiungerei alla loro bibliografia i 12 fascicoli dello speciale del manifesto sul 1968 pubblicati nel ventennale (988), ma anche le conferenze, Figure e interpreti del Sessantotto. Ciclo di incontri, cinquant’anni dopo tenutesi alla Fondazione Luigi Micheletti di Brescia (2018) e ora su You Tube. Nella loro conversazione, avvenuta tra 2022 e 2023, incontriamo – quasi madelaines proustiane – richiami alla serie bianca col quadratino rosso della Einaudi, all’eskimo, ai libri Feltrinelli o al cappotto di cammello dell’editore. E tantissimi temi, idee, interpretazioni, che almeno alcuni storici (Crainz, De Luna), nel frattempo hanno comunque esplorato. E quindi: i vari ‘68 (degli studenti universitari, degli studenti medi), il legame con la Resistenza (tesi dello storico Guido Quazza), il riferimento alla rivoluzione culturale cinese, gli esempi di contestazione della cultura e dei saperi, la ripresa dell’idea di una rivoluzione permanente o della lotta dentro/contro le istituzioni o contro lo sfruttamento in fabbrica o per il superamento dei manicomi e della «famiglia che uccide». La conversazione insiste pure sulla differenza tra i costumi studenteschi precedenti, gerarchici e individualisti (la goliardia, il “farci la matricola”), e la capacità poi di «un’intera generazione [di muoversi] tutta insieme». E si sofferma sulle fonti politiche condivise dai due autori: l’esperienza di «Quaderni Rossi», il pensiero di Raniero Panzieri , l’inchiesta del CUB Borletti, le Tesi della Sapienza (1967), prima formulazione dell’idea degli studenti come «forza lavoro in formazione» e «embrione del sindacato studentesco». Non mancano i ricordi più personali del ‘68 “locale”, pisano: la lotta dei fuori sede, il comizio fatto dal leader degli studenti con il responsabile del consiglio di fabbrica della Piaggio, l’accenno al «disagio di vivere poveramente» che smentisce il cliché del ‘68 dei “figli di papà” e la sottolineatura non secondaria che «la nostra rabbia aveva una base materiale». Dopo aver detto della differenza tra il ‘68 insurrezionale in Francia e il lungo ‘68 in Italia, Luperini e Corlito si avviano alle Conclusioni, che hanno come punti centrali: la sottolineatura del valore del pacifismo alla Gandhi; la critica ai servizi d’ordine dei gruppi exraparlamentari e, in particolare, al modo in cui «la questione della violenza» venne posta da Lotta Continua; ma soprattutto, dopo il richiamo al deludente risultato della coalizione di Democrazia Proletaria (AO-LC-Pdup-MLS) alle elezioni del 20 giugno 1976 e al successivo scioglimento di Lotta Continua, la contrapposizione tra il modello di Democrazia Proletaria – il partito che, secondo Luperini e Corlito, avrebbe potuto/dovuto raccogliere «unitariamente il meglio della nuova sinistra» – e il modello cospirativo delle Brigate Rosse di ascendenza terzinternazionalista.
2 Un commento a Luperini-Corlito, Il Sessantotto e noi (qui).
3 Gli autori del libro vedono bene i limiti di questa tesi ancora oggi ripresa da Guido Mazzoni: Senza riparo. Sei tentativi di leggere il presente(qui) e riconoscono che «le istanze rivoluzionarie sono state sconfitte; e che ciò che è rimasto visibile è un certo livello di cambiamenti culturali» (129).
4 Luperini e Corlito ne sembrano consapevoli, se temono di «dover morire fascisti o postfascisti».
5 «Nella sua ipotesi sembra non esserci nessuno che governi tale strategia: probabilmente temeva una direzione esterna al movimento. Dutschkeinoltre un giudizio negativo dell’organizzazione leninista dei “rivoluzionari di professione» (124).
6 Per esemplificare certe oscillazioni, riporto quanto Corlito scrive a proposito dello slogan «né con lo Stato né con le BR». Lo giudica «troppo neutrale come se quanto accadeva non ci riguardasse» e l’associa al «né aderire né sabotare» dei socialisti all’entrata in guerra nel 1914. Ma subito dopo aggiunge: «Voleva dire, però, che sicuramente non eravamo con le Brigate Rosse, ma nemmeno appoggiavamo l’uso autoritario delle forze di polizia» (91). E allora? Perché considerarlo neutralista? Era l’estremo tentativo di non consegnarsi, prima ancora della sconfitta, tra le braccia del PCI o a cuccia ai suoi piedi, se non addirittura a delegare allo Stato e, e con celato compiacimento, la repressione dell’estremismo lottarmatista..
7  Nella scheda sul Sessantotto scrivevo: «è un fenomeno storico in gran parte enigmatico, che ha prodotto memorie divise nei suoi protagonisti e interpretazioni storiche disparate e a volte reticenti. C’è chi vi ha visto l’espressione di una crisi di civiltà della società occidentale per la perdita dei valori della tradizione, chi una rivolta tutta morale, chi un tentativo di fuga irrazionale, chi l’atto di nascita, sotto una superficie rivoluzionaria, dell’individualismo che avrebbe dominato nei decenni successivi. Che cosa fu, dunque, davvero il Sessantotto? Le interpretazioni più interessanti sembrano essere tre: # quelle che insistono sulla sua ambivalenza. Per Ortoleva e Passerini il Sessantotto fu, sì, un «momento di svolta nella storia del dopoguerra», ma oscillò inconcludente tra esaltazione dell’«immaginazione al potere» e nostalgia per le rivoluzioni del passato (la Comune di Parigi del 1871, l’Ottobre sovietico del 1917), volontà di liberarsi dalle ideologie e dipendenza da esse, bisogno di democrazia e culto dei leader, rivolta generazionale contro i padri e “ritorno all’ovile” (lo proverebbero tanti suoi protagonisti che poi hanno rinnegato quella fase): «un misto fra l’ultima rivoluzione del XX secolo e un movimento nuovo, inedito che poneva i problemi della fine del XX secolo» (Crainz), dunque; una «modernizzazione» dei costumi ma incompleta, per l’incapacità di costruire alternative credibili al consumismo capitalista e alla «famiglia-tana» (Ginsborg);un rinnovamento della cultura ma ridotto in fin dei conti a un settore minoritario della popolazione, i giovani del ceto medio (Hobsbawm); # quelle che vi vedono una «rivoluzionemancata» e il segnale dell’esaurimento della grande tradizione socialista o della «fine del comunismo». L’«anno degli studenti» (Rossanda) appare, in quest’ottica, un grandioso e anomalo moto politico, che portò in Germania i giovani a rifiutare il passato nazista della generazione precedente, contagiò in Francia anche gli operai e, confluendo in Italia nell’“autunno caldo” del ’69 operaio, aprì una crisi radicale. I partiti di sinistra a cui sarebbe toccato rispondere alle nuove esigenze, ormai in declino e privi di una strategia alternativa, non osarono neppure pensarla e scelsero di frenarle e bloccarle, lasciando mano libera al capitalismo mondiale, che le gestì a suo vantaggio con l’innovazione tecnologica, l’inflazione, il decentramento della produzione, la globalizzazione; # quelle che scorgono nel Sessantotto non solo il primo sintomo di una crisi epocale, ma l’alba della nuova epoca postindustriale, nella quale la scienza, la comunicazione, i linguaggi diventano forze pienamente produttive destinate a cambiare il modo di produzione e le stesse forme di vita (biopolitica). Da questo punto di vista gli studenti e, in generale, i «lavoratori della conoscenza» prefigurano un «neoproletariato», che potrebbe ereditare la funzione dinamica avuta dalla classe operaia in epoca industriale, essendo le loro funzioni divenute centrali e indispensabili nei nuovi processi produttivi».
(in P. Cataldi, E. Abate, S.Luperini, L. Marchiani, C. Spingola, Di fronte alla storia, Vol. 3, G. B. Palumbo & C. Editore, Palermo 2009)

4 pensieri su “Compianto sul Sessantotto

  1. Ho accennato a questi problemi nel mio intervento sulle BR, ma riprendo due elementi: questa ossessione del ‘lottarmatismo’ mi sembra molto più un problema di coscienza, di rigurgito del pentimentismo cattolico, che non un tema di analisi interessante.
    E, avendo militato in quella che all’inizio era la stessa formazione di Luperini, posso dire che le conseguenze teoriche che loro ne traggono sono strettamente loro, individuali, ma non hanno base nell’elaboraziobne teorica de ‘Il potere operaio’/Centro Karl Marx/Organizzazione del Lavoratori Comunisti.
    L’elefante nella stanza è sempre il solito: il PCI e il suo ruolo. E ricordiamo che l’unica pace che la borghesia armata di oggi e ieri ci offre è quella eterna.

  2. Quali sono i tratti costitutivi e costanti del centrismo anticomunista e antimarxista che costituisce il filo conduttore della decostruzione del Sessantotto operata nel libro di Luperini e Corlito. I tratti che concorrono a definire il ‘tipo ideale’ di codesto centrismo mi sembrano i seguenti: a) la tesi che una trasformazione democratica (ma non socialista) della società possa essere perseguita e raggiunta senza una rottura di carattere radicale con il vecchio Stato (trasformazione ovviamente inserita nel quadro di una visione, ad un tempo feticistica e utopistica, del reale carattere della Costituzione italiana); b) la tesi che la catena di “casematte” che costituisce la trama della società civile e politica possa essere conquistata gradualmente, anello dopo anello, secondo la visione evoluzionistica e antidialettica della “lunga marcia attraverso le istituzioni” propugnata da Rudi Dutschke); c) la tesi che premessa necessaria alla trasformazione della società sia una nuova direzione egemonica, senza un potere popolare organizzato in un nuovo Stato (uso revisionista di Gramsci) e senza una connessione, che non sia derogatoria e liquidatoria, con la storia del movimento operaio e comunista (significativo è l’esorcismo apotropaico nei confronti di Stalin e della Terza Internazionale); d) la tesi che lo Stato capitalistico possa mutare di segno qualora una coalizione alternativa di forze di sinistra (magari opportunamente integrata da forze moderate) acquisisca il comando delle leve di governo in una struttura istituzionale immutata, inserendosi nella “stanza dei bottoni” di nenniana memoria; e) la tesi che un nuovo blocco sociale di carattere popolare possa “semplicemente prendere possesso della macchina dello Stato [borghese] bell’e pronta e volgerla ai propri fini” (Marx ed Engels dopo l’esperienza della Comune di Parigi del 1871). Questa schematica elencazione è sufficiente per comprendere che l’interpretazione proposta dagli autori del libro “Il Sessantotto e noi” si inscrive nell’ottica schiettamente piccolo-borghese del progressismo liberista: un’ottica tanto retriva quanto perbenista, come dimostra ad esempio l’espunzione della lotta armata e la scelta del pacifismo ‘à tout prix’ da quel quadretto di “Alice nel paese delle meraviglie” a cui si riduce il Sessantotto nella evocazione utopistica (ed eutopistica) dei due autori. Chiaramente si tratta, come pone in luce Ennio Abate nella sua puntuale e penetrante recensione, di una superfetazione prodotta dagli epigoni di Togliatti e del suo uso revisionista di Gramsci. Forse non meritava tutta l’attenzione, l’intelligenza e la passione che il recensore ha messo in quello che, comunque, resta un esempio paradigmatico di scrittura critico-saggistica.

  3. “Forse non meritava tutta l’attenzione, l’intelligenza e la passione che il recensore ha messo in quello che, comunque, resta un esempio paradigmatico di scrittura critico-saggistica.” (Barone)

    Eros, su questo sono in disaccordo. Rispetto la tua opinione sul libro, che in parte è vicina alla mia, ma mi auguro una discussione a più voci e spero che sia Corlito che Luperini trovino il tempo per intervenire.

    1. Ennio, temo che Luperini e Corlito non interverranno: l’uno perché si ritiene al di sopra di ogni autorevolezza, l’altro perché è al di sotto di ogni autorevolezza.

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