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Alta Irpinia: ultima chiamata

 

di Michele Panno

Ne abbiamo parlato durante l’estate. A 40 anni da quel tragico 23 novembre 1980, dal terremoto che colpì l’Irpinia, la situazione sociale dei cosiddetti “paesi dell’osso” è allarmante: si assiste ad un loro progressivo spopolamento e invecchiamento. Il post-terremoto rappresentò il più grande investimento di spesa pubblica nel Sud: 70 mila miliardi di vecchie lire. Inizialmente i comuni da ricostruire erano soltanto 16, quelli del cosiddetto “cratere”; successivamente diventarono 650, comprendendo anche Napoli e Salerno. In Irpinia furono investiti 6500 miliardi col risultato, tutt’altro che entusiasmante, di vedersi i centri storici distrutti. Oggi l’Irpinia è un mare di pale eoliche che non portano alcun beneficio agli abitanti e ogni anno 300 giovani fanno la valigia per emigrare.  Ne abbiamo parlato durante l’estate con gli amici. Ne ho parlato con Michele Panno, che ora ha 81 anni, ma allora ne aveva 40 di meno ed era impegnato insieme ad altri a dare alla ricostruzione un’altra prospettiva. A proporla, almeno. Continua la lettura di Alta Irpinia: ultima chiamata

Centro di disintossicazione

di Franco Tagliafierro

“Mi ha colpito la situazione paradossale al centro di questo racconto che hai scritto nel 2000: la folla anonima e gregaria, che sente una “medesima coazione alla morte” e, ubbidiente e caparbia, si dà da fare per morire non per vivere. E’ l’idea forte del racconto. Mi ha fatto pensare ai dannati danteschi in attesa del naviglio di Caronte che trasformano la “tema” in “disio”. Ma, forzando, ho pensato anche a una allegoria dell’Italia invecchiata d’oggi. Dal punto di vista narrativo l’idea è ben svolta con variazioni, colpi di scena e trovate un po’ cabarettistiche (nel finale). Il tutto sotto la regia di un narratore intellettualmente anche un po’ sadico che dà sfogo al suo umorismo nero. Non manca la rivolta dell’individuo (la signora della Smith & Wesson), che non vuole rispettare il gioco sociale”. (Da una mail di E. A. all’autore)

Erano venticinque le persone accalcate dinanzi alla porta di servizio alle otto di mattina. In prevalenza uomini, età media trent’anni, facce meste, qualche bisbiglio.

– Che aspettate per entrare, che vi chiamino da dentro? – domandò uno spilungone in camice bianco uscito dal laboratorio, fermandosi a una certa distanza da loro.

Delusione: ecco il motivo per cui indugiavano. Avevano immaginato che sarebbero entrati tutti insieme, spalla a spalla, petti e schiene quasi a contatto, così ciascuno avrebbe avuto meno emozioni, meno paura. Invece avevano trovato aperta solo la porta stretta.

– Che aspettate, che vengano fuori loro? – li canzonò lo spilungone sforzando adeguatamente la voce.

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Su «Né acqua per le voci». Un confronto.

di Ennio Abate e Marina Massenz

In occasione della presentazione dell’ultima raccolta poetica di Marina Massenz (Milano 5 giugno 2018, Libreria Popolare di Via Tadino) lessi dei troppo veloci e frammentari appunti su questi suoi nuovi testi. Citandone brani, parlai di: un io allarmato che si osserva e registra; toni sincopati; tendenza a una sintassi “compressa”; ritualità impersonale per la frequenza di verbi all’infinito; rimandi a mondi chiusi e coatti; esaurimento, abbandono e desolazione come sottopensiero delle immagini (più spesso di animali che di uomini). Successivamente quegli appunti li mandai a Marina, che replicò, precisò, puntualizzò. Ne nacque uno scambio di mail tra noi che toccò alcuni temi più generali di poetica . Pubblico ora una sintesi della nostra discussione. Al di là dei punti in cui divergiamo o poniamo accenti diversi sulle questioni toccate, abbiamo una comune convinzione: un rinnovamento dei discorsi sulla poesia passa anche attraverso confronti schietti come questo. [E. A.]

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