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Su nulla, sogno, desiderio, amare e non dimenticare

di Franco Nova

NON SI SAPRA’ PIU’ NULLA
 
Rosa, rosso e sempre più lo è,
sentieri blu venature del bosco
con alberi svettanti e nervosi.
Tra le foglie secche balenii
accerchiano i miei desideri,
tutt’uno con vecchi tronchi nodosi.
Mi è sempre nascosto il mare
di cui si ode il frangersi
delle onde nell’animo mio.
Il rumore si allea con la violenza,
ma si smorza e diventa sussurro
quando viene a me la Dea
di quell’Olimpo gioioso
che mi racconta solo fole,
cui si crede senza domande.
Poi se ne andrà con sorrisi e baci
e l’onda spumosa non più s’alzerà,
mentre durerà nel sonno profondo
la convinzione d’esistere
in compagnia d’una gran donna.
Nulla più si saprà nel sogno
della nostra vita ormai desolata.
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Per la gloria della lingua

NOTE DI FINE ESTATE (9)

di Donato Salzarulo

Tra il 2008 e il 2009 nel Laboratorio Moltinpoesia i partecipanti si assegnarono il compito di spiegare perché scrivessero poesie. Io ne facevo parte e composi il testo che si può leggere di seguito. Il suo intento didascalico è evidente.

Scrivo poesie perché
un giorno d’autunno del Sessanta tre
comprai un quadernone e
sul frontespizio scrissi “Canzoniere”
(sottotitolo: “storia di un’anima”).
Facile indovinare chi imitavo.
Il problema è che l’anima dovevo
inventarmela e quella che pensavo
di avere era tutta recitata e letteraria:
Omero, Quasimodo, Garcia Lorca,
Ungaretti, Baudelaire, Pavese…
Oh, quante voci dentro la mia voce!
In certi momenti ho avuto paura
di confezionarmi un destino da suicida
come Noschese, se non sbaglio, o altri
imitatori che soffrono
di non sapere chi sono.
 
Rileggendo ciò che andavo scrivendo,
capivo che sulla pagina si depositava
un altro Donato – per chi crede alle stelle
sono nato sotto il segno dei Gemelli -,
un Donato che manifestava una certa
inclinazione alla teatralità,
alla finzione, all’operetta: cantavo
giovanette che mi conquistavano,
m’infliggevo sofferenze amorose,
piangevo le morti improvvise
di uomini illustri del paese,
la disperazione di madri che si ritrovavano
figli spenti tra le braccia. Insomma, amore
e morte e caterve di sciagure.
“Gioire è cercare il dolore” recita un verso
paradossale del quadernone.
 
In ciò che andavo poetando c’era
qualcosa di vero e sincero. Ma tanti
esercizi, anche appassionati, somigliavano
molto ai giochi simbolici dei bimbi.
Ad una certa età la spalliera della sedia
può farsi davvero volante di una macchina
e il bastone diventare un cavallo
col quale attraversare praterie sconfinate
e combattere battaglie cruente.
Un po’ dunque mi scoprivo l’inclinazione
dell’attore, un po’ quella del bambino
che sogna ad occhi aperti.
Ma l’attore dispone di una grande
riserva di personaggi da rifare:
Achille, Romeo, Otello, Amleto…
Il mio personaggio, invece, dovevo
costruirmelo come Geppetto 
il suo burattino. Anche i miei sogni
ad occhi aperti non potevano
concludersi alla stregua di un bambino
che, di solito, si stanca e cambia gioco.
Dovevano produrre conquiste
reali, avanzamenti.
Dovevo sentire che le parole
davvero penetrassero nel cuore
di una donna e la inducessero
ad abbracciarmi,
a regalarmi un bacio.
Se amava la mia poesia,
se diceva che era bellissima,
un po’ non poteva non amare
anche il suo autore.
Come se, cantando gli occhi ridenti
e fuggitivi di una certa Silvia,
prima o poi la Silvia vivente
si facesse avanti a ringraziarmi
per l’omaggio e a propormi
suggestivi accoppiamenti.
 
Quando scrivevo il Canzoniere
era questo il mio problema più urgente,
in preda sicuramente ad accumuli
straordinari di ormoni. Non sognavo
l’immortalità ma più modestamente
cercavo di mettere le mani addosso
a una fanciulla per inebriarmi del profumo
dei limoni. «Belli questi versi!...»
«Bellissimi!...» «Grazie…»”
Da qui, da questa calda ammirazione,
a venire a letto con me scorreva
un Rubicone tempestoso
e spesso non navigabile.
Nessun dado è tratto.
Avrei dovuto saperlo:
se con la poesia cerchi amore,
dieci volte su dieci, vai in bianco.
Ecco cosa dovetti capire
a mie spese. Sbagliavo, m’illudevo,
deducevo male.
 
Amore è potere. Sedurre l’altro,
soggiogarlo. Scrivevo per piantare
una quercia nei cuori. Forse perché,
avendomi interdetto prestissimo
il suo seno (era incinta di mio fratello),
mia madre mi costrinse a cercare
sostituti senza trovarne mai
di completamente soddisfacenti.
Scrivi poesie per un Edipo
mal risolto, direbbe uno psicanalista,
perché anche dopo un accoppiamento
nel corpo vola alta l’inquietudine,
la ricerca, la tensione.
Belli e reali i seni succhiati
ma sempre un po’ lontani
da quelli ideali sognati.
 
Amore è vivere come un rimbambito
appeso al moto delle ciglia
di uno sguardo. Fare festa alle visioni,
alle apparizioni dell’amata. Conservare
accuratamente la foto in qualche libro
o nel portafoglio, stare dietro al profumo
viola di una maglia, inseguire desideri
assurdi del tipo: ascoltare la stessa
musica, leggere lo stesso romanzo,
pensare gli stessi pensieri, gioire
delle stesse gioie, viaggiare
negli stessi luoghi, dormire
nello stesso letto e coire,
coire…È il “sogno d’amore”.
Le donne lo conoscono meglio
degli uomini e io, a mia volta,
scrivendo poesie, imparavo
a conoscere la parte affidatami.
So ancora ora mostrare
entusiasmo vero per chi mi punta
e mi tiene sulla linea di fuoco
dello sguardo. Ma è l’entusiasmo
di un attore, di una recita
così ben fatta da sembrare
naturale. Sono un egoista allora?
Uno che non sa amare?
No!... Semplicemente lo faccio
in modo obliquo, per interposte
parole. Come se tra me e le labbra
da baciare ci fosse in mezzo
un vetro immaginario.
Ho la coscienza dell’attore,
a differenza di chi bacia
e pensa di porgermi in diretta
le sue labbra, mentre sta solo
eseguendo uno spartito.
A fare l’amore si sa
nel letto si è spesso più di due.
 
Tutte queste complicazioni
ovviamente le capivo solo
scrivendo e soltanto scrivendo
continuavo a cercarmi
e a conquistarmi. Capivo, ad esempio,
che ognuno di noi finisce
per abitare i pensieri che formula,
anche quando spuntano come nuvole
provenienti non si sa da dove.
Difficile che i pensieri si sciolgano
come neve al sole. A maggior
ragione i versi. Così mi porto
dietro da decenni quel “gioire
è cercare il dolore” senza sapere
da quali zone del corpo è saltato fuori.
(In quel periodo leggevo Baudelaire).
Ecco perché scrivo poesie. Per continuare
a scoprirmi.
            Per questo tipo
di scrittura mi sono dato la regola
di andare fino in fondo. Anche se,
avendo scoperto che divento un po’
ciò che scrivo – è il noto “effetto Pigmalione” –
sto attento a profezie che accelerano
la morte già intenta a scavare
nel mio corpo. Sfuggire alla tragedia
è impossibile. Accelerarla, non mi pare
il caso. Per questo, quando scoprii
che scrivendo poesie sulle malattie
di mia madre, mi educavo alla sua assenza
e inconsapevolmente ne preparavo
la morte, smisi subito di verseggiare.
 
Poetai a lungo, invece, la condizione
di un’amica affetta da un male inesorabile
che di lì a poco l’avrebbe resa invisibile.
Volevo portare con me la sua voce,
il suo sguardo sul mondo. Volevo
che non si perdessero le sue parole,
che ne restasse memoria.
Ecco un'altra ragione del mio scrivere.
Inseguire persone, eventi,
mondi che si perdono e sprofondano
in abissi di silenzio. Non dimenticarne
colori, atmosfere, sapori, allegrie,
dolori. Non dimenticare me stesso,
combattere il morbo d’Alzheimer
che quotidianamente ci affligge.
 
Poesia e identità, poesia e amore,
poesia e profezia, poesia e memoria,
poesia e verità…Tutte coppie
per ottime occasioni seminariali,
tutti sentieri che mi pare
d’avere attraversato.
 
                   Ora, però,
scrivo poesie per altro. Oltre al già
detto, sempre attivo nei neuroni,
ora scrivo “per la gloria della lingua”,
come dicevano i padri. Successo
o non successo, la poesia non mi
eviterà la morte. La lingua, invece,
è la rosa di rossetto che rinnovo,
l’atmosfera, il palco su cui provo
e riprovo le parole. Ora le sento colorate
dai toni della mia voce, le frasi
raccontano la mia storia, i versi
non temono la prosa del mondo.
La lingua della poesia è la mia donna,
quella amata più a lungo,
la matria che mi sottrasse
il seno.
 
15 gennaio 2009
 
 

Tre tentativi di teologia contemporanea

di Giuseppe De Angelis

Giuseppe De Angelis è un giovane dottore in filosofia. Recentemente mi ha fatto leggere queste “Tre prove di teologia contemporanea”, continuazione in qualche modo della sua tesi di laurea. Ho letto volentieri le sue pagine e, pur condividendo singole proposizioni, in uno scambio di mail, gli ho detto chiaramente che la mia ricerca si muove su un altro terreno e all’interno di altri orizzonti. Per quanto mi riguarda, infatti, se devo ricorrere alla teologia, preferisco il «Trattato teologico-politico» di Spinoza o il messianismo di Benjamin. «Ma non è questo il punto. – Gli ho scritto nella mia e-mail. Preferisco restare sul tuo terreno, sulle scelte di scrittura-riflessione che tu compi. Allora ti pongo queste domande:

  1. È proprio necessario ricorrere al mito biblico per indagare e comprendere l’Essere, l’Esistere e l’Amare? Quale maggiore comprensione si guadagna rispetto ad altre modalità d’indagine?
  2. Per spiegare l’Amore perché scegliere il mito di Lucifero e non quello raccontato da Platone nel Simposio? Insomma, perché preferire il divino vetero-testamentario?
  3. La riflessione filosofica che, mi pare, si caratterizzi proprio per il suo emanciparsi dal “mithos” a favore del “logos”, se torna ad affidarsi in modo così palese e prevalente al mito religioso, non rischia dei passi indietro?…»

De Angelis ha provato a rispondere alle mie domande, ma i miei dubbi e le mie perplessità rimangono. Credo, comunque, che, per far crescere la riflessione, le “tre prove” abbiano bisogno di una circolazione più ampia. Da qui la mia proposta di pubblicazione su Poliscritture. (D.S.)

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La recita o la vita

di Lorenzo Merlo

“Gli era chiaro come uscire dalla storia” afferma la voce parlante di questo racconto. Oh, fosse possibile dirlo non solo a singoli più o meno eccezionali che, “osservando se stessi”, sperimentano “ciò che alcuni chiamano risveglio”! Ho letto con divertito scetticismo (anche per i riferimenti ad autori – Watzlawick, Jung, Castaneda – che mi sono rimasti abbastanza estranei) questo racconto di Lorenzo Merlo, ma lo propongo all’attenzione di altri lettori più sensibili a quelle che a me paiono soltanto vie di fuga spirituali impraticabili dai milioni di viventi costretti in condizioni di precarietà o schiacciati dalle emergenze (questa del coronavirus è solo una delle tante) o dalla povertà. A loro – lo dico amaramente – toccano purtroppo ben altri risvegli. [E. A.]

Può capitare, osservando se stessi, di avvertire ciò che alcuni chiamano risveglio. La magia che si compie comporta di vedere il reale diverso da come era prima, pur essendo lui, sempre identico. È una magia a più livelli, prospettive o combinazioni. Essa include infatti anche la chiara comprensione che la realtà esce – e non, entra – dai nostri occhi. Include che non ci si senta più monadi separate dall´universo; che l´infinito che siamo è sempre mortificato da quello che crediamo; che l´energia compone il cosmo, tra cui noi stessi. 

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Di foibe, di bene e male, di organizzazione del “noi” e dell’”io”

Albrecht Dürer – Caino uccide Abele, 1511, Xilografia

Uno scambio tra Ennio Abate e Rita Simonitto

Cercare di fare chiarezza oggigiorno è una impresa ardua non solo per la sovra abbondanza di notizie (che dannosamente hanno scalzato il concetto di informazione) unitamente alla tempesta di fake news che ci sovrasta di continuo, ma anche perché in un sistema così disgregato come l’attuale è difficile proporre di pensare (che implica disporre di tempo e fiducia) al posto dell’agire (che implica velocità di soluzioni e paura di non farcela). Riteniamo però che il pensiero sia una dotazione dalla quale non possiamo deflettere pena l’attivarsi di un processo regressivo (in parte iniziato e di cui si vedono già gli effetti devastanti) che ci infantilizza e ci rende manipolabili [R. S.]

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