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Diario Saharawi

di Andrea De Lotto

Premessa: ho vissuto 10 anni a Barcellona, è lì che ho conosciuto la causa Saharawi. Fino ad allora dei Saharawi avevo saputo solo incrociando in Sardegna gruppi di famiglie con bimbi che venivano da quella zona e che passavano l’estate con loro. Avevo sentito nominare il fronte Polisario come una di quelle lotte infinite… A Barcellona la causa Saharawi è vissuta più direttamente come in tutta la Spagna per due motivi credo: l’implicazione storica della Spagna, che è ritenuta (da molti spagnoli stessi, e ancor più dai catalani!!!) come responsabile di questa “svendita” al Marocco e quindi il “senso di colpa” di coloro che sanno che il proprio governo fu ben implicato nella vicenda; e il fatto che la seconda lingua di questo popolo sia lo spagnolo. Bene a Barcellona conobbi Nuria, una donna ultrasettantenne con la forza e la passione di una ventenne che corre a destra e a manca per far conoscere le vergogne che quotidianamente avvengono in questa lotta impari. Assistetti al documentario che raccontava l’Accampata di 9 anni fa che si svolse a Gdem Isik e che terminò nella repressione; lessi qualche libro, ma soprattutto vidi il bellissimo documentario fatto da Jordi Oriola: Fucili e murales. Insieme lo sottotitolammo in italiano e due anni fa lo aiutai a fare un giro per l’Italia con questo documentario, validissimo. Insomma, speravo prima o poi di conoscere quei luoghi. Come ogni anno a metà febbraio nella nostra scuola (insegno italiano agli immigrati in un CPIA) abbiamo le iscrizioni: ho preso la palla al balzo e ho comprato un biglietto: quando ho chiesto al preside i giorni di permesso mi ha detto: “Vengo anch’io”. Buon segnale. Ora qui sotto racconto di questo viaggio. Chi volesse capire meglio l’inquadramento storico può ascoltare l’intervista fatta dalla solita fantastica radio Onda d’urto (qui). Chi volesse leggere anche la surreale descrizione che ho fatto, vada su questo sito e scorra in fondo….. (qui)

Febbraio 2020 pianeta terra. Terra desertica.

A trovare i nostri antichi predecessori, in fondo veniamo dall’Africa, tutti e tutte.
Come nel Piccolo principe, ci aggiriamo nel deserto, inesperti nell’orientarci. Strade asfaltate, ottime, ma ad un tratto, si devia, si entra in una strada sterrata, una pista, corsie che corrono parrallele, macchine che vanno di qua e di là, evitando pietre, sobbalzando su cunette. Macchine, poche: in una giornata ne incontri quante ne incontri in 20 secondi a Milano. Un giorno, 20 secondi. La non contemporaneità diceva Ernst Bloch.
Un passo indietro, Algeri: un nuovo aeroporto, sembra di essere a Parigi o a New York, ma le famiglie che si riabbracciano sembrano uscite da un film di Rossellini. Sicilia del dopoguerra. Giovani che si piegano come giraffe a salutare donne anziane alte un metro e poco più, avvolte in veli neri.
Poi il volo fino a Tindouf: un aeroporto che apre solo quando arriva un aereo, e a differenza di qualsiasi aeroporto visto al mondo si entra come entri in un mercato. Tutti insieme, a salutarsi e abbracciarsi mentre si ritirano i bagagli. Alle 4 di notte. Si perchè i voli in questi luoghi sperduti usano gli aerei che vanno altrove di giorno. La terza classe del tempo: la notte. Un aeroporto che sembra più una stazione di treno di un film di Sergio Leone che un aeroporto, eppure la guardia ti dice di non fare foto. Carichiamo due auto, i bagagli sono tanti: apparecchiature mediche che portano i miei compagni di viaggio. Abbiamo 40 chili a testa, siamo in 5: due quintali di bagagli. Torneremo con mezzo.
Scorta delle guardie algerine, poi il cambio, scorta delle guardie Saharawi. Arriviamo: si dorme 3 ore, poi comincia una giornata fiume, immersi nella struttura creata da una donna italiana che vive lì da una dozzina d’anni: Rossana.

Un’astronave atterrata nel deserto, come un’arca di Noè per mettere in salvo gli sfigati degli sfigati. Bimbi e bimbe con lesioni celebrali, spesso dovute a mancate cure al momento della nascita. Gli ultimi degli ultimi, che all’improvviso, lì dentro, mi sembrano diventare i primi. Una quantità di attenzioni, coccole, cure, di altissima qualità. Un tratto raro, continuo,  giorno e notte. Rossana dirige un’orchestra, guida la nave. A tratti la ciurma riposa, lei segue al timone. Nove dita, ma occhi davanti e dietro. Orecchie che colgono il pianto lontano. Bimbi sparsi come un liquido in uno spazio protetto, pieno di stimoli. Una grande quantità di stimoli, da augurarsi per tutti i bimbi del mondo.

17 febbraio: una mattinata in una scuola elementare: ma prima, passaggio dalla direzione di non so cosa per presentarsi, essere ammessi o che so io…. Abbiamo appuntamento alle 10, dopo una lunga camminata arriviamo, ma il direttore è ammalato, salutiamo 6 o 7 uomini che si aggirano in questa entrata e piccolo cortile, l’unica erba che vedrò in una settimana. Alcune donne nel retro, a cucinare verosimilmente, gli uomini danno gran mani e poi ce ne andiamo. Bianchi e neri, uomini e donne. Andiamo alla scuola, enorme. Sembra uno di quei fortini da film wester, un quadrato gigantesto, un cortile di sabbia e sassi assolato su cui danno le classi. L’unica luce che entra nelle classi è dalla porta. Le luci elettriche nelle classi sono sempre accese. Passiamo dalla direzione: un uomo panciuto ci dà il benvenuto che Rashid mi traduce visto che quest’uomo non sa lo spagnolo. A fianco a lui un paio di donne in mezzo a scartoffie. Lui mi spiega in poche parole quello che fanno, ma proprio due parole, tra le quali mi fa vedere le foto di tre pettinature, quelle che le bimbe devono avere. Vabbuò, mi chiedono se ho domande: chiedo di lasciare al suo fianco il mio zaino, ringrazio e andiamo alle classi. Entriamo in una prima. Io sono come un topo nel formaggio. Una maestra che giustamente non mi dà assolutamente retta continuando la sua lezione insegna arabo. I bimbi e le bimbe con sguardi attenti, sono bravissimi. Non c’è nessuna confusione, la maestra procede con calma e pazienza, i bimbi sono 25 ma ci sono degli assenti. In fondo alla classe un angolo con spazzatura, scoprirò nelle altre classi che in fondo ad ogni classe c’è un sacco per la spazzatura, ma in questa classe è in buona parte sparsa per terra, tristemente. Mi chiamano con lo sguardo. Sto un po’ con loro, dopo 15 minuti saluto e ringrazio. Passo in una terza dove c’è la lezione di spagnolo, una giovane donna più spigliata fa lezione. In terza è quando iniziano spagnolo, lei fa lezione nelle terze e nelle quarte. 45 minuti al giorno. Mi spiega. I bimbi – dice- a questa età sono spugne, hanno voglia di imparare, è quando crescono che da adolescenti non gli interessa più la scuola… E poi una frase fulminante: “A questa età sognano ancora di fare il dottore o altro….” Mi spiega che ha studiato spagnolo a lungo e con piacere in Algeria e in Spagna e ora è qui perchè deve e vuole restituire alla sua gente, a questi bimbi, quello che lei ha avuto come possibilità, come dono. Non sta recitando una parte, mi sembra bella e sincera. Anche qui i bimbi seguono attenti. Sempre questa maestra mi racconta che nel “fine settimana” partecipa a un gruppo scout e quindi giocano coi bimbi, mentre in estate portano dei grandi gruppi al mare in Algeria, geniale!!

Preparazione dell’intervallo: dà a tutti un pacchetto di biscotti (un’altra gran quantità di spazzatura che si produce), poi arriva un secchio, ma proprio un secchio di plastica, pieno di latte. Uno a uno vanno a riempirsi mezzo bicchiere di plastica, versandolo con un altro bicchiere, quindi infilando la mano nel latte e tirando su, e versandolo in un bicchiere che un altro di loro ha da poco usato. Certo che se uno ha l’influenza se la passano a bomba. Intervallo, si mettono in fila fuori dalla classe, con loro c’è un ragazzone alto, molto più grande di loro, nero, viene dalla Mauritania, è arrivato da poco, gli do la mano, diventa la mia ombra, la mia guardia del corpo. Durante l’intervallo escono dal quadrilatero della scuola, si fermano nel terreno davanti perchè c’è sabbia e non ci sono sassi mentre dentro ce ne sono parecchi. Stanno lì fuori, ma non hanno nulla per giocare, ciondolano ma sono allegri. In tanti mi sono attorno, devo mettermi contro il muro sennò da dietro mi arriva di tutto, da carezze a coppini. Mi metto lì, molti mi sono addosso, si spingono, solo una ragazzina che fa la quarta parla un po’ spagnolo e mi fa da interprete, mi dicono i loro nomi. Ho due nuovi ragazzini, maschi uno a destra e uno a sinistra, due guardie del corpo che non mi mollano, danno calci a chi fa lo stupido. Abbozzano qualche parola in spagnolo, ma ne sanno davvero poche. La spazzatura va per terra. Noto che il ragazzino alto e nero, mauritano raccoglie la spazzatura, mi chiedo se ha questo incarico….. Finito l’intervallo ci si mette al centro del cortile, che sembra quello di un carcere gigante. Ci mettiamo a raggera, ogni classe, seduti a terra su due file, una di maschi e una di femmine, mi siedo in mezzo a loro, in ordine, in un gruppo classe, è ancora la terza dove stavo. Ci lasciano alcuni minuti lì al sole seduti. Passa una maestra talmente intabarrata e con occhiali da sole che non si vede un centimetro quadrato di pelle. Alla fine tocca a noi, ci alziamo e in fila andiamo in classe. La classe è chiusa a chiave, una bimba ha la chiave del lucchetto. La maestra apre e ci sediamo. Mi vogliono con loro, ma sto solo qualche minuto, mi spiace, ma voglio vedere una quinta.

Entro in una quinta, stavolta c’è un maestro uomo, abbastanza intabarrato, sdentato, fa lezione di spagnolo. Stanno leggendo una poesia patriottica sul Sahara Occidentale. Fiocca la retorica. Il maestro fa strafalcioni, i bimbi seguono, ma quando lui esce un attimo è un continuo tirarsi pezzi di gomma o carta ciucciata e ficcata in penne-cerbottana, fantastico. Ma lo fanno solo assolutamente i maschi, da un capo all’altro della classe, si tirano veri proiettili. Le bimbe, e alcuni maschi, mi guardano incuriosite. Provocano. Qualcuna mastica lo spagnolo e scambiamo qualche battuta. Appena entra il maestro che minaccia con un piccolo bastone, silenzio. Cambio di lezione, arabo. Un altro maestro; sarà un caso che nelle classi basse c’erano donne e in quinta uomini? Mi accorgo che gli uomini alzano molto di più la voce, certo anche i ragazzini fanno più casino. Osservo alcuni loro quaderni, di arabo, hanno una scrittura perfetta, sono incantato. Con matite appuntite fanno i segni precisi, nitidi. Mi ero accorto che la maestra precedente si aggirava tra i banchi e con un temperamatite temperava con grande pazienza le loro matite versadosi sulla mano gli scarti e buttandoli poi nel sacco nell’angolo.

Durante la lezione passa qualche ragazzino delle altre classi che stanno uscendo, mi salutano dalla porta, che, ricordo, è la principale fonte di luce. Ogni tanto entra il mio amico Rashid che vorrebbe andare a casa, lo prego, scherzando, di aspettare un po’. Come mi è successo in tante altre parti del mondo gli adulti che mi accompagnano rimangono ben meravigliati del fatto che mi attardi parecchio tra bambini e ragazzini, mentre con le “istituzioni”, io scalpiti.
Sto con loro fino alla fine della lezione, spesso il loro compito consiste nel copiare dalla lavagna, ma il maestro fa molte piccole domande e sono in molti ad alzare la mano, ad intervenire, sono svegli, tutti o quasi vogliono parlare, e questo avveniva anche nelle classi più basse. Bimbi e bimbe sveglie. Leggono meglio in arabo che in spagnolo, sicuro.
Sono bravissimi, ma di quello che copiano credo capiscano veramente poco. Meglio con quello che leggono sul libro. E qui la scoperta che dovrebbe fare ogni europeo, i libri arabi vanno da destra a sinistra, si girano le pagine al contrario e i numeri crescono al girare le pagine in senso inverso, ma I NUMERI SONO come I NOSTRI, o meglio, i nostri SONO in realtà I LORO!! E già.  Ma i numeri si scrivono da destra a sinistra, o meglio, i numeri sono un tutt’uno. Devo scoprire come si dice 25 per esempio. Se venti-cinque o, credo, cinque-venti. Una vita allo specchio.
In seguito lo chiedo: in effetti 25 si legge in arabo come cinque-venti e non venti-cinque, tutto è chiaro.
Voglio studiare arabo. Finita la lezione, escono tutti. Saluto e ringrazio.

Rashid mi racconta la storia dei Saharawi, lui è stato infermiere durante la guerra, ha visto le ferite dei bombardamenti al napalm e fosforo. Racconta, come iniziò tutto, la formazione della RASD, del Fronte Polisario, le prime azioni, lo schiacciamento tra Spagna e Marocco, la violenza dell’esercito marocchino, le incursioni della guerriglia, le rappresaglie, gli arresti, le torture. Il far nulla della missione ONU, MINURSO. La rabbia dei giovani. La guerra dal ’76 al ’91, poi la presa in giro del promesso referendum (da parte dell’ONU) e mai fatto. Il Marocco ha troppi allenaze, in primis Francia, Spagna, Usa….
L’assenza del mare, della propria terra, l’occupazione delle loro case. Il ricordo, e i giovani che non ci stanno, a stare in questa empasse, di aspettare e aspettare. E la Francia che ora sembra la maggiore responsabile. Penso ai movimenti francesi, tutti interni.
Umanità, gettata nel deserto, altro che Heidegger. Mancano i fiori, gli unici colori sono quelli dei vestiti delle donne, case grige o color terra, tutte. Rashid vive in una casa bianca, la casa bianca…. Achmed suo figlio piccolo, sette anni, vispo, corre scalzo a piedi o in bici.
Il figlio grande, spera di poter andare un giorno a vivere in Spagna, ma il visto…. Sembra di sentire i centro americani che sognano gli Usa. Qui fa il meccanico, ma guadagna poco ed è stufo.
Amo il mondo, la sua bellezza e la sua sofferenza, amo i bracci di ferro, forse questo sarà il prossimo? Mi arrivano notizie da Milano, questo giovedì ancora davanti a palazzo Marino, manderò un messaggio, sono con loro. Sono sempre più convinto che ce la faremo. Hasta la victoriaaaa, de vez en cuando….

Parlo con Salma, la figlia di Rashid, di 22 anni che vive nella jaima (tenda) di fronte, suo marito, si sono sposati due mesi fa, vive in Spagna e lei non ha i permessi per raggiungerlo. Mondo cane. Separare le persone, spaccare famiglie, far pendere pezzi di carta come fonti di vita, visti e permessi.
Parlavo con Rashid, gli chiedevo se vedeva analogie con la storia dei palestinesi, lui dice che i palestinesi si arricchiscono, dove vivono fanno commerci, affari…. Mi sembra che, soprattutto a Gaza, non sia una vita così facile, penso ai check point…. Mi sembrano ben poco informati, o l’erba del vicino è sempre più verde. Strano che la pensi così.
Immaginate di essere un prigioniero politico Saharawi in un carcere marocchino. L’inferno? Credo proprio di si. Ho 54 anni: una media di vita di almeno mezzo mondo, eppure ho vita davanti. Vergogna. Vergogna a coloro che credono che questo sia il migliore dei mondi possibili, vergogna.

Bimbe coi grembiuli rosa, bimbi coi grembiuli azzurri, bimbi coi capelli corti corti, bimbe con trecce code e codini. Molti di loro con sopra la giacca per il freddo, alcune il cappello di lana in testa, le maestre pure, giacca o giaccone e guanti, vanno molto i guanti di pelle col pelo che esce, come nelle auto delle sorte di pellicce sul cruscotto o sui sedili, neanche fossimo in Germania. Carne di cammello, o di dromedario. Ma di cammello ne ho visto solo uno. Capre a zonzo, capre recintate.
Alcune donne hanno persino dei guanti da sci, chissà da dove arrivano… Mi spiegano con grande lucidità: così come da voi le donne ci tengono ad essere belle e abbronzate, noi ci teniamo ad essere belle e più chiare possibile. Dico che l’insoddisfazione o addirittura l’infelicità umana è veramente diffusa… Ridiamo insieme.
Salgo su una collinetta e vedo dal’alto una casa un po’ fuori mano, intorno un quadrato di deserto disegnato con dei sassi, 50 per 50 metri o più, intorno a casa, si ritagliano il loro pezzo di terra, senza un fiore, senza un’insalata, solo sabbia e sassi. Ricordate “C’era una volta il west”? Un uomo in mezzo al deserto ritaglia e compra un pezzo di terra, lui sa che di lì a non molto passerà la ferrovia e quel terreno varrà un sacco di soldi. Forse lo spera anche chi vive in quella casa? Chissà? E poi carcasse di auto, carcasse e carcasse, a gruppi, isolate, carcasse anche di camion. Un camion che interrato diventa una parete di un cortile intorno a casa, container che diventano magazzini, e poi discariche, filo di ferro, almeno non è spinato, ma ho visto pochi palloni, pochi. A cosa giocano? Forse anche qui coi videogiochi, ma almeno alla scuola primaria nessuno lo aveva in mano nemmeno all’uscita, meno male… Se ho capito bene mercoledì e giovedì andiamo a un matrimonio, non vedo l’ora. Ma domani spero di vedere una materna, una scuola superiore, una scuola speciale. Se l’infinito non esiste, nessuna lotta è infinita, si arriverà a una concluisione…. No hay guerra que dure cien anos (non c’è guerra che duri 100 anni) dicevano in El Salvador, qui vanno avanti da 45 anni….. Come Peltier.

Mercoledì 19, sera, ieri è stata una giornata durissima, svegliatomi e dopo poco conati di vomito violenti senza vomitare poi diarrea più volte, resto steso, ma poi mi sforzo e usciamo: andiamo a vedere un’altra scuola, io volevo vedere altri gradi, ma vabbè, torniamo in una scuola primaria. Vedo il lavoro in alcune classi, qui sono più numerose, soprattutto i piccoli arrivano oltre i 40, eppure sono attenti. Arriva l’intervallo, se ieri si erano concentrati intorno a me solo i maschi, oggi solo le bimbe. Ma lo spagnolo che parlano è davvero poco, qualcuna mastica qualche parola in italiano perché è stata in Italia. Mi era stato detto che qui era una società bilingue, non mi sembra. Direi che senza quel “corso intensivo” delle estati passate in Spagna saprebbero lo spagnolo come i nostri bimbi possono sapere l’inglese. Non mi sento bene, ma prima di tornare a casa passiamo da una materna e almeno metto il naso in tre classi. Sono tutti seduti a terra in cerchio, discreto silenzio, ripetono in coro una parola, un colore, mi guardano incuriositi, ma non si alzano. Qui si sono tutte donne. Torniamo a casa e dormo come un ghiro. Rashid mi cura. Il giorno dopo sto meglio e andiamo a questo pre-matrimonio, nella casa dello sposo, nipote di Rashid, si riuniscono i parenti, separati uomini e donne anche se a volte c’è qualche incursione… Prima sto nella tenda delle donne dove mi piazzano e, cullato dal loro vociare, mi addormento, è una grande tenda con divanetti tutto attorno. Poi passo dagli uomini, che sembrano avere meno da dirsi, più agganciati ai cellulari o più silenziosi. Le donne cianciavano in quantità, più simpatiche direi. Parlo con il fratello di Rashid, 50 anni dall’82 al ’92 visse a Cuba dove studiò. Così fu per molti bimbi che ottenevano la borsa di studio e a 12 anni partivano. Cuba aveva questo progetto nell’isola de la Juventud dove accoglieva giovani di paesi poveri del mondo, possibilmente dove c’erano lotte…

I migliori dei migliori studiavano medicina, lui studiò farmacia. Un mare di ragazzini deve essere passato per questa isola della gioventù, arrivavano da vari luoghi dell’Africa e del mondo. Tutto ciò fa sinceramente onore a Cuba. Non so cosa avessero in cambio. Anyway….
Il padre dello sposo sta nella zona occupata quindi non puo’ esserci, da due anni non lo vedono. Sta al di là del muro. Rashid nel ruolo di zio più anziano fa la parte del padre dello sposo. Tutti mangiano, io seguo la mia rigida dieta. In serata passiamo a vedere su mia richiesta l’ospedale di Smara, 50.000 abitanti. Un ferro di cavallo quadrato a piano terra di 20 metri per 20. Noto come la sala parto sia stata montata grazie ad una parrocchia romagnola, mentre l’ospedale col contributo della città di Rimini e della regione Emilia.
Ci sono due gatti in casa, pulitissimi. Hanno in effetti la cassetta per fare i loro bisogni più grande del mondo. In generale uomini e donne mi sembrano molto puliti, oggi Rashid, durante la festa, passava ogni tanto a far lavare le mani o a versare su queste e in testa gocce di profumo. E’ vero, c’è sabbia che vola, ma riescono a mantenere pulite delle moquette che gli inglesi se le sognano. L’idea è che nella sala si replichi quello che era la tenda: un grande rettangolo vuoto in mezzo, uno spazio accogliente dove ci si siede ai bordi o a terra con dei cuscini o sui dei divanetti. Si sta spesso distesi a terra con un cuscino sotto un fianco e così si mangia anche. Un grande vassoio serve per 3-4 persone che mangiano tranquille con le mani o le posate. Qualcuno prepara il the che è davvero un rito elaborato. E’ come ci fosse permanentemente un diskjockey alla consolle, e invece è a fare il the.
Così come spesso è elaborato il saluto tra persone care quando ci si rivede: un lungo e frammentato dialogo fatto di frasette che si sovrappongono. Me lo faccio tradurre sommariamente: “Come stai?” “Bene e tu?” “Bene grazie, come sta tua mamma e tuo papà?” “Bene grazie” “Come stanno i figli, la moglie, la salute, il lavoro… “Ecc.. un fioccare di domandine e risposte che si sovrappongono come una filastrocca. La ripetono con una pazienza enorme. A volte guardando già altrove. Come una preghiera. Con la stesa velocità con cui si dice una Ave Maria durante il rosario. Ma qui è un dialogo a due che si sovrappone.
Stasera al mercato abbiamo incontrato l’uomo che mi venne a prendere in aeroporto ed è ripartito il pentolone delle loro beghe su dove dovessi andare, una tristezza che metà basta. E’ evidente che l’organizzazione fatica a tollerare “deviazioni” anche se dettate dal buon senso. Come in El Salvador quando si era tirati da una parte e dall’altra della giacchetta. “Ma tu hai detto, io non ho mai detto, ma lui cosa ti ha detto”… e via.
Ai lati della strada, ma portate a spasso dal vento, spazzature colorate. Plastica che svolazza, azzurra, rosa… Una discarica.
Sono stato vago nelle mie richieste dovevo essere più esplicito: se a qualcuno dici che ti interessano le scuole ti fa parlare col tale direttore o il tal altro, non capisce che vuoi vedere le scuole ed entrare e restare nelle differenti classi. Devi specificare che vuoi vedere una materna, una primaria, un liceo e una scuola per ragazzini con handicap. Forse domattina intravedrò queste due, prima del gran matrimonio.

20 febbraio: stamattina siamo andati a vedere il liceo Simon Bolivar, un liceo particolare perché è l’unico che fa tutte le lezioni in spagnolo a parte la lezione di arabo. Vi entrano i migliori della scuola primaria, fanno una selezione, ma non ci sono TOT posti, se 100 passano la selezione entrano in 100, se la passano in 60 iniziano con 60. Gli insegnanti sono quasi tutti cubani, che passano qui 3 anni tornando solo in estate, mi sarebbe molto piaciuto parlare con loro. Parte degli studenti vive 5 giorni alla settimana a scuola, altri vanno a casa tutti i giorni se abitano vicino, il giovedì pomeriggio partono i pullman che li portano a casa. Parlo coi giovani di una classe avanzata, al penultimo anno, sono rimasti una dozzina, di 45 che erano in prima, alcuni bocciati, la seconda volta devono lasciare, altri sono partiti, altri non ce la fanno. Parlano molto bene lo spagnolo, la lezione è praticamente finita, mi salutano, spiacenti l’intervallo è l’intervallo, qui come in tutto il mondo (forse solo nella scuola di Don Milani non c’era l’intervallo…). Ma mentre mi sto allontanando vengono tre ragazze e ci mettiamo a parlare, mi raccontano. Una ha la madre cubana, dicono che gli insegnanti cubani sono bravi mentre stare nel dormitorio è noioso, troppe regole. Nelle stanze sono ragazze miste per età e il rapporto è buono, in un’altra camera magari c’è qualcuna che fa la gradassa. Al pomeriggio non hanno quasi compiti, si riposano, poi fanno giochi e attività, il cibo non è un granché… Comunque è stata una visita breve, ma molto interessante.

Passiamo quindi per un centro di descapacitados mentales. La solita costruzione a ferro di cavallo, dopo che ci hanno accolti un paio di ragazzi dondolanti, affettuosi e simpatici arriva il “dottor Castro” che mette il disco come quelli delle istruzioni di emergenza alla partenza di un volo aereo. Mi mostra tutto in sequenza, non lo posso interrompere, le domande alla fine, mi mostra tutto in 13 minuti. Rashid mi viene dietro e ogni tanto scatta qualche foto, come da “protocollo”. Sarei come un’ennesima delegazione di qualcosa che è passata. In questo centro passano a prenderli alla mattina a casa e dopo pranzo li riportano indietro. Castro non mi presenta neppure uno dei ragazzi o uomini o donne che si aggirano intorno a noi. Alcune donne sono a fare lavori a maglia o imbottendo bamboline, mi sembrano solo lente, ma donne lavoratrici a tutti gli effetti. Dalle spiegazioni tutto sembra chiarissimo, in realtà per me c’è una cappa di grande tristezza. Piccoli oggetti di artigianato in vendita se sono interessato, ma dal momento che non lo sono, si dispiace. Saluti, avanti il prossimo.

Andiamo quindi alla seconda parte del matrimonio. Oggi usano anche la tenda più grande dove ci saranno le donne che mangeranno il famoso cammello. Non succede nulla di speciale, gli uomini sono belli partecipi nella cucina e nel servire, non solo le donne, meno male, penso. Rashid è quasi autistico tra telefono e the. Io mi aggiro facendo ogni tanto qualche gaffe e riprendendo dove non devo. Gli uomini, quarantenni (e per questo mi dicono è un matrimonio tranquillo senza tanto casino come farebbero dei giovani) sono in una saletta. Ad un certo punto lo sposo mi chiede se ho una penna. Notare che siamo a casa sua, gliela do, solo dopo mezz’ora scopro che, con la mia penna, in un pezzo di carta riciclata, un cartone aperto, stanno segnando i punti della vivace partita a carte che stanno facendo, sposo compreso. Il clima è abbastanza da vitelloni. Parlo con un quarantenne, un Cubarhaui come dicono loro, che ha studiato a Cuba tra i 12 e 22 anni, poi a casa, poi 3 anni in Spagna, poi 7 anni in Norvegia, dove è stato senza poter lavorare, in attesa di un permesso che non è mai arrivato, incredibile 7 anni!! Poi lo hanno rispedito a casa ammanettato in aereo. Da tre anni è qua e non vede l’ora di ripartire, come tutti, dice. “Come si fa a stare bene qua??” Ripete. E me lo diranno con diverse sfumature, con più ansia, con più rabbia, o con un sorriso, altri giovani, compresi i figli di Rashid per esempio. La difficoltà è sempre la stessa; LOS PAPELES MALEDETTI. Permessi, documenti, visti, pezzi di carta che fermano la gente, divieti misti a polizie, controlli, recinzioni, guardie, cani.

L’uomo che è stato a Cuba mi racconta degli anni bellissimi trascorsi a Cuba, ma Cuba, mi dice, non è fatta per vivere, Cuba è piacere, sole, mare, rum, donne, ballare… E allora dove metteresti radici? Gli chiedo. Lui mi dice: in Scandinavia!! Rispondo: “Con quel freddo???” Ha imparato il norvegese, e penso quindi ai miei studenti, che imparano anche la lingua e poi si prendono un calcio nel culo. Lui se lo è preso dalla Norvegia che non gli ha mai dato i documenti per poter lavorare. Se avesse lavorato in nero rischiava la galera, sul serio. In Scandinavia non si scherza. In Spagna no, lì è stato 3 anni clandestino ma raccogliere olive in Andalusia o fare qualche altro lavoretto si puo’ fare, ma anche da là ha dovuto andare via.

Mi dicono che i ricchi ci sono anche qua, gente che ha belle cucine, grandi auto, etc…E così i più poveri. Le nostre ingenuità e pregiudizi…. In serata andiamo a vedere dove sta continuando la festa del matrimonio che si è spostata nella zona dove vive la sposa. Qui c’è una sorta di concerto sotto una grande tenda. Tre uomini suonano, una decina di donne ballano e più di cento sono sedute a guardare e battere le mani. Uomini girano larghi, un po’ di bimbi e ragazzini incuriositi, alcuni più da me che dalla festa. Passa una donna velata come quasi tutte e dandomi un pizzicotto mi dice “Ehila guapo”, non capisco più nulla… Le donne sono davvero belle.

21 febbraio: un ultimo giorno alla wilaya di Smara, intenso, devo sparare tutti i botti. Stamattina, la loro domenica, dormivano tutti, sono andato a farmi un giro, iniziando da una tenda qui poco lontano dove sono esposti bandieroni Saharawi, mi sono fatto fare una foto dall’unico uomo che si aggirava e poi una anche con la bandiera no tav, un messaggio da mandare in valle. Poi a spasso, pochissime anime vive in giro, solo alcuni bimbi, alcuni che mi tirano dentro la loro tenda, dove ci sono 3 donne, forse è vero che gli uomini sono spesso via a lavorare all’estero o ronfano, e su 3 donne ce n’è quansi sempre una che parla bene lo spagnolo, così parliamo. Dopo un po’, dai paraggi, mi chiamano i figli di Rashid che però non osano entrare, chiamano da fuori, la reciproca riservatezza è molta. Saluto ed esco, colazione, poi saluto di nuovo, vado a fare un giro. Mi allontano fuori dall’accampamento verso il deserto e scopro una grande distesa di spazzatura. Due ragazzini trascinano con una corda tre scheletri di biciclette che hanno trovato, non c’è nessuna ruota, ma qualcosa ne possono cavare, chissà… Voglio documentare tutto questo così torno a casa, dove finalmente è arrivato Rashid, gli dico che voglio andare a fare un giro, che stia tranquillo, non mi perdo. Lui dice che forse dopo si torna a pranzo al matrimonio, dico che non si preoccupino per me…. Torno nel deserto e documento la marea di spazzatura, pazzesca. Come un “dopo festa”, un mare di spazzatura, qua e là anche animali morti, persino una montagnetta di bottiglie di bibite piene, coperte di mosche. Salgo su una’altura, arriva un ragazzino, dall’alto vedo quello che poi lui mi conferma essere un cimitero, mi dice di non toccare nulla, lo tranquillizzo, ma andiamo insieme a vedere, ci sono lapidi di varie fatture e cerchi a terra con dei sassi per non calpestare chi è sotterrato, parecchi cerchi piccoli indicano la morte di bimbi. In lontananza vedo un fuoco, saluto il ragazzino e mi incammino, qualcuno brucia spazzatura? In realtà è una donna, non è lei che ha fatto questo fuoco puzzolente, anzi, sottrae da questo cose commestibili per le sue capre, molto pane buttato, un sacco di riso rovesciato nella sabbia, spaghetti, pasta. L’aiuto a raccogliere in borse che ha portato, riempiamo anche con ceci secchi, mi mostra che ha raccolto anche pacchi di pasta e ceci integri, se li porterà a casa per mangiare. Trovo anche una tazza intera, dico che la terrò di ricordo, la metto nelle sue borse; notiamo insieme che tutto ciò è una vergogna, ma ridiamo anche, la aiuto, le borse sono pesantissime. Per fortuna passa un’auto che la carica, la saluto… Poi la rincorroooo: “La mia tazzaaaa!” Si apre la portiera e me la dà, ci salutiamo, vado a piedi. Camminerò per 4 ore sotto il sole, osservando, riprendendo, incrociando talvolta qualcuno, soprattutto bimbi che mi salutano da lontano, ridono, incuriositi, alcuni si avvicinano, mi dannno la mano, ci salutiamo, fanno una specie di gara a chi ha più coraggio ad avvicinarsi a me. Da una casa mi invitano dentro dopo che i bimbi mi si sono fatti più attorno, anche qui mi offrono da bere, frutta, mi fanno vedere un bimbo, Salek, nato 3 mesi fa, bellissimo. Lo fotografo, parlo con la giovane zia che è stata in Spagna, mi racconta che vengono da Dakhla, la wilaya più lontana, due ore da lì, spersa nel deserto. Molti di quelli che abitano in questa zona di Smara vengono da lì, da qualche anno vivono qui, lì era tutto più scomodo e anche le cure mediche erano più lontane, così quando una pioggia dissolse la loro casa di mattoni di fango fecero armi e bagagli e si trasferirono. Eppure rimpiangono Dakhla, mi dicono che c’era più unione lì, più solidarietà tra vicini, tutti si conoscevano, qui c’è più freddezza. Curioso come se raccontassero dinamiche nostre o forse di ovunque, tempi e luoghi segnano le relazioni, il più delle volte con nostalgia….

Cammino, mi si avvicinano due uomini, in effetti, penso, se volessero portarmi via non ci metterebbero molto. Mi chiedono invece solo se mi sono perso, li tranquillizzo, ci sorridiamo e salutiamo. Passano ogni tanto delle auto, una è guidata da una donna, sono in 5 in auto, coi bimbi, rallenta, abbassa il finestrino chiede se sono spagnolo: “Italiano” dico, “Tutto bene?” dice e prosegue… Vedo alcuni uomini bardati entrare in un luogo che presuppongo una sorta di moschea. In giro è tutto chiuso, la biblioteca, i negozi, ma soprattutto è incredibile come pur camminando per 5 ore abbia incontrato, cioè visto, non più di 20 adulti a piedi, 20 auto, e 40 bambini, camminando tutto il tempo tra case. Certo ho visto 1000 capre e una morta tirata a terra rigida e piena di mosche. Puzza.
Ricordo come gli inglesi siano perfetti negli spazi pubblici, puliti e ordinatissimi, e cialtroni in quelli interni. Qui al contrario, per questo forse la gente è tutta in casa, è il loro mondo, deserto o non deserto, vento o non vento, caldo o non caldo, lo spazio è quello di casa. E mi sembra non si facciano neanche tante visite se non tra familiari, l’unità di misura è quella. La famiglia. Un po’ come un tempo forse in Sicilia o Sardegna, tra padri e compadri. 
Una delle ragazze che ho conosciuto mi dice che ha studiato spagnolo in Algeria, ma dopo 2 anni ha dovuto lasciare l’università…. “Sono una donna”, lo dice chiaro e tondo, ma con discreta mestizia. “Dobbiamo stare qua, occuparci della famiglia, della casa”, anche se non sposate.
Parlerò con diversi giovani, me lo confermano: quasi tutti vogliono andarsene, non c’è storia, forse un tempo si trovava lavoro qua, ora nulla, si vuole andare, qui non c’è futuro. Il limite sono i permessi e la gente marcisce qui. Fame no, ma il non far nulla annichilisce.
Certo, se pulissero lo spazio qua attorno. Lo faccio notare a una giovane, mi dice che lo fanno ogni tot, quando si ascolta il richiamo dell’alto parlante che dice “OGGI TUTTE A RACCOGLIERE LE SPAZZATURE…” le donne… E gli uomini? chiedo “Ci sono, ci sono anche loro – dice – quelli che guidano i camion.” Ammette che adesso ce n’è effettivamente tanta sparsa in giro, forse i camion sono rotti… Ma come mai tanta spazzatura? Chiedo…. Eh… i bimbi…. dice….. Mah….
L’uomo inventò la parola e poco dopo sorse da sé la menzogna. E dopo ancora un po’ l’ipocrisia…. forse dovremmo tornare a non parlare più….
Torno alle 15, Rashid è arrabbiato, mi hanno cercato, e se mi avessero rapito?? Credo davvero che fosse più preoccupato che mi trovasse la polizia saharawi e mi chiedesse che cosa facevo in giro. O forse è arrabbiato perché è in ritardo per il pranzo, andiamo pure dico, dopo 10 minuti si va. Ancora si sfoga, lo lascio parlare, mi sembra tutta una pantomima, oggi scherzando dicevo voglio farmi una maglietta con scritto “Andrea Libero”, non “Sahara Libero”…

Oggi ho confermato l’impressione che ci siano anche qui COME IN TUTTO IL MONDO, ricchi e poveri, c’è chi tira il cibo e chi lo ricicla. Le capre sembrano avere la funzione dei maiali, mangiano anche la plastica.
Se facessero un embargo di the ai Saharawi, riprenderebbero le armi il giorno dopo.
Credo che se terminassero le vacanze per i ragazzini in Spagna e le borse di studio a Cuba il famoso bilinguismo terminerebbe in fretta. Credo abbiano da ringraziare questo bilinguismo, tirato un po’ per i capelli, ma se qui parlassero solo arabo andremmo proprio male con le relazioni e la solidarietà. Dopodiché la solidarietà è una brutta bestia. Temo che se rientrassero nella loro terra in poco tempo alcuni passerebbero ad aver fame e altri diventerebbero ancora più ricchi. Queste cose non possono saltare all’occhio adesso perché ci sono troppi osservatori che si scandalizzerebbero.
Insomma un bel mare di contraddizioni; come in El Salvador c’erano meno morti durante la guerra che successivamente così ora qui. Che in Marocco ci sia una dittatura fascista questo è indubbio, ma forse andrebbe combattuta insieme: marocchini e saharawi, insieme, ma questo è fuori moda, non è di moda unire le lotte, anche qua da noi, ognuno ha la sua.
Molti tossiscono, io compreso. L’aria non è certo inquinata, ma i cambi di temperatura non sono uno scherzo. Nel pomeriggio sono stato alla parte finale del matrimonio, gli ultimi ospiti che mangiavano assieme, smontata la grande cucina, ne restava un’altra dove c’erano donne che si divertivano dentro con un’amplificazione, alcune ballavano, altre battevano le mani da sedute o facevano le loro grida davvero potenti. Una donna sulla porta della tenda mi dice di avvicinarmi pure, stavolta non ho nulla per riprendere, meglio così, non sono tentato, sono belle, brave, simpatiche e si divertono, una mi invita anche ad entrare, ma resto sulla porta a guardarle incantato. Dopo 10 minuti arriva un omone che mi dice che lì ci stanno solo le donne e non posso stare, mi spiace e mi allontano, con grande tristezza, per me, ma soprattutto per loro. Un giorno forse si ribelleranno. Finito l’ultimo pasto smontano la tenda che era montata per la seconda cucina, in 15 minuti, velocissimi, dei veri nomadi. Si riallontanano i macchinoni, quasi tutte mercedes. Io ho passato un’ora con diversi bimbi in età da materna, sulle ginocchia, si alternavano, avevo conquistato, a bordo casa, L’UNICA sedia dell’ambiente festa. Lì abbiamo giocato e li ho coccolati in lungo e in largo, pur senza parlare una parola in comune, il nostro linguaggio era fatto di facce, versi, suoni, urla, risate e risate. Una donna mi ha anche fatto un video. Belli e belle, con la sensazione che davvero rischino di spegnersi con gli anni; ma questo succede un po’ ovunque nel mondo, o no?
A sera torno a casa e resto a vedere l’ultima luce all’orizzonte, fino a che arriva il buio, un’ultima doccia che mi tolga tutta la sabbia che mi ha coperto oggi, e ora al computer a tenere memoria.
Ma se i saharawi andassero via dai campi profughi lascerebbero tutta quella spazzatura? Se fossi un algerino direi: “E’ questo il vostro ringraziamento?”

23 febbraio, Algeri, 5 di mattina, abbiamo viaggiato e ho pensato: i Saharawi potrebbero organizzare un’impresa biblica: partire a piedi in diverse decine di migliaia di persone, quelle più sane, uomini, donne, bambini, con un tot di auto a seguito che caricano tutte le loro tende e preparano l’accampamento e la cena per quelli che arrivano, attraversare i 1500 chilometri che li separano dal mare nella stagione per loro migliore, 30 km al giorno, oppure ancora più biblica camminare di notte e riposare di giorno. Arrivare al porto di Orano, sul Mediterraneo, di fronte all’Europa e affittare una nave dove salire tutti, una pigna di gente come fu quella che arrivò in Italia dall’Albania, e dire: NOI Li’ NON CI STIAMO PIU’. Noi una terra ce l’avevamo, ci è stata tolta e l’Onu ha detto che dovevamo votare, ora o ci fate fare quel benedetto referendum o diteci dove dobbiamo sbrodolarci, intanto attraversiamo il Mediterraneo. Arriveremo a Marsiglia o a Barcellona, forse meglio Barcellona, che sbandiera libertà, accoglienza, diritto all’autodeterminazione.

Erano nomadi quindi ci sono abituati, ce l’hanno nel sangue, non hanno molto da fare quindi hanno tempo, non devono viaggiare armati, sono in territorio amico. Che la solidarietà aiuti ad affittare la nave. L’attuale solidarietà invece rischia di perpetrare la situazione, mantenendola in qualche modo. E’ come se una porta potesse essere sfondata semplicemente appoggiandoci una mano sopra, si può stare così per 100 anni, forse vale la pena prendere la rincorsa e dare una spallata, senza armi, ma con la forza dei numeri e della comunicazione.  Che questa sia la solidarietà una volta per tutte, e quindi potranno tornare a vedere il mare, a pescare, a fare i loro ospedali come dio comanda. Hanno sicuramente capacità organizzative, organizzarono Gdeim Izik che ebbe lo svantaggio di avvenire tutto in Marocco, dove nessuno se li filò… Chi ricorda che fu l’inizio delle primavere arabe? Tutto perché avvenne in un angolo sperduto di mondo e il Marocco ebbe gioco facile a coprire il tutto con una bella e spessa coperta.
Quando dopo 5 giorni al campo di Asmara rientro al centro gestito da Rossana, appena rivedo un’amica bresciana con la quale avevo viaggiato l’abbraccio forte. Le dico: “Non so se in 54 anni ho mai passato 5 giorni senza poter sfiorare una donna!!!”. Sembra che non ci si possa abbracciare con nessuno.
Io impazzisco.

 

Ca’ Bul

Quando esco di casa per fare una camminata quasi mai ho con me il cellulare. Diciamo che su dieci passeggiate mi capita di prenderlo massimo un paio di volte. Mi dico che è una dimenticanza, ma non si tratta solo di questo, bisogna essere sinceri. L’altro giorno sono stato al passo della Consuma, che collega il Casentino al Valdarno e a Firenze. Naturalmente senza il cellulare.  Ho camminato per un sentiero circolare di una decina di chilometri che, tranne brevi tratti, è tutto nascosto nel fitto e fresco bosco di abeti e di faggi. Ascoltavo i rumori e camminavo pensando alle scene dell’aeroporto di Kabul viste in Tv la sera prima. Non esprimevo giudizi. Avevo davanti solo quelle scene e cercavo di mettermi nei panni di ogni singola persona ammassata ai cancelli dell’aeroporto con alle spalle i talebani e davanti il blocco dei soldati americani, così impaurita e disperata, tanto da rischiare la morte per fuggire all’alternativa di restare in un paese che sembra non avere futuro.  Verso l’ora di pranzo, rientrato a casa, su WhatsApp ho trovato tre messaggi di Filippo Nibbi, Nel primo dei tre c’era il titolo, Ca’ Bul, negli altri due la poesia che segue.

A.A.   

Ca’ Bul
di Filippo Nibbi

Amore perduto nel vetro
Sultano del ghiaccio 
Sei cieco da entrambe le parti
Hai perduto la mia pista
Giri a vuoto sull’orlo dei tuoi occhi  
Troppo vicino troppo vicino  
Nel tuo cuore di gas  
Non ci sono due strade per l’amore
Una trascina nel deserto
L’altra porta lontanissimo dentro al vicino 
Mi rompi il respiro  
Frammenti del mio ossigeno adesso sono nuvole  
I miei castelli crollano  
Le torri sono diventate vele  
La macchina dei pompieri ha perso il suo rosso  
In cantina muffiscono le torte piangono i salami     
da secoli non smettono di piangere e di chiamare  
La pigna di panche della parrocchia è crollata  
vecchie ossa di legno sfondate  
La fontana di pietra invece di acqua
è piena di castagne matte 
La serra ha i vetri rotti  
Quelli ancora interi sono coperti di fango  
Migliaia di petali sul cemento crepato dal freddo 
Il muretto di confine è troppo basso  
Tutti i legamenti fanno male  
non riescono più a tenere legati braccia e gambe   
memoria e cuore mani e dolore  
La vita scricchiola   
I violini miagolano   
I cani mancano svaniti negli infiniti  
delle infinite morti  
Quelli vivi abbaiano alle gabbie  
chiamando padroni invisibili    
Il portone era chiodato  
La stufa in maiolica, bella, ma era marrone  
Mio padre stacca e spacca le stufe  
Nell’armadio sulle scale due ante chiuse a chiave 
La chiave non c’è 
Sono piene di sciabole  
Dietro le sciabole fucili.
 
 Amore perduto nel vetro

Tre tentativi di teologia contemporanea

di Giuseppe De Angelis

Giuseppe De Angelis è un giovane dottore in filosofia. Recentemente mi ha fatto leggere queste “Tre prove di teologia contemporanea”, continuazione in qualche modo della sua tesi di laurea. Ho letto volentieri le sue pagine e, pur condividendo singole proposizioni, in uno scambio di mail, gli ho detto chiaramente che la mia ricerca si muove su un altro terreno e all’interno di altri orizzonti. Per quanto mi riguarda, infatti, se devo ricorrere alla teologia, preferisco il «Trattato teologico-politico» di Spinoza o il messianismo di Benjamin. «Ma non è questo il punto. – Gli ho scritto nella mia e-mail. Preferisco restare sul tuo terreno, sulle scelte di scrittura-riflessione che tu compi. Allora ti pongo queste domande:

  1. È proprio necessario ricorrere al mito biblico per indagare e comprendere l’Essere, l’Esistere e l’Amare? Quale maggiore comprensione si guadagna rispetto ad altre modalità d’indagine?
  2. Per spiegare l’Amore perché scegliere il mito di Lucifero e non quello raccontato da Platone nel Simposio? Insomma, perché preferire il divino vetero-testamentario?
  3. La riflessione filosofica che, mi pare, si caratterizzi proprio per il suo emanciparsi dal “mithos” a favore del “logos”, se torna ad affidarsi in modo così palese e prevalente al mito religioso, non rischia dei passi indietro?…»

De Angelis ha provato a rispondere alle mie domande, ma i miei dubbi e le mie perplessità rimangono. Credo, comunque, che, per far crescere la riflessione, le “tre prove” abbiano bisogno di una circolazione più ampia. Da qui la mia proposta di pubblicazione su Poliscritture. (D.S.)

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Su «Ogni vigilia è disarmata» di Giorgio Mannacio

di Ennio Abate

Appunti e interrogativi

Con Giorgio Mannacio ho fatto – anche in compagnia di altri poeti e scrittori dell’area milanese e sempre in concorde discordia – alcuni tratti di strada insieme (Monte Analogo, Laboratorio Moltinpoesia alla Palazzina Liberty di Milano tra 2006 e 2012). E continuiamo a farne altri con Poliscritture, a cui egli non ha smesso di collaborare. Anche per ribadire la mia attenzione alla sua ricerca, pubblico subito le mie impressioni di lettura dell’ultima sua raccolta poetica, alla cui sobria presentazione al Teatro Arsenale sabato 14 dicembre 2019 (qui) ho partecipato con piacere. Qua e là – a completamento o a correzione della mia interpretazione e comunque per passione del confronto – ho integrato (vedi Note) alcune utili osservazioni che nel frattempo Giorgio, su mia sollecitazione, mi ha inviato per e mail. [E. A.]

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Da “Psicoscrittoio di un don giovanni pezzente”

Tabea Nineo, pastello, 1993

di Ennio Abate

Un frammento: Prima lettera a Donna Elvira

Cara Donna Elvira,

vorrei scriverti parole che rinvigoriscano  quel che  provo quando stiamo insieme, da soli e ci abbracciamo e tocchiamo, arginando gli assalti dei  nostri incubi e le immagini del passato che turbano questo presente .

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Appunti politici (5) : André Tosel sull’ultimo Althusser

di Ennio Abate

Mi è capitato oggi di leggere un impegnativo saggio di André Tosel, «Althusser e la storia» (http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/608/559). Tratta dell’ultima fase dell’attività di pensatore del filosofo francese «dopo l’ uccisione della moglie nel 1980 e dopo il suo ingresso nella notte dei morti viventi». Tosel ragiona su un testo postumo del filosofo, «La corrente sotterranea del materialismo dell’incontro», che faceva parte di un dossier di materiali  per un’opera non redatta». Ho pensato di  proporre questo lungo brano per due motivi: – avere, attraverso il dramma di Althusser, un quadro più vivo di quanto sia stato tragico il prendere atto del tracollo di un mondo teorico (marxista) che non riesce più a pensare le trasformazioni del mondo e del suo tentativo disperato di continuare a  pensarlo; – dare profondità alla nostra discussione su Trump e il trumpismo. Leggerei lo stralcio  dal saggio di  Tosel, che intitolerei “Limiti della teoria marxista e globalizzazione come «mondo senza centro»”,  anche in riferimento al punto 1 del mio commento (qui),  dove ho scritto: « Se è venuta meno tutta una cultura marxista (o quantomeno laburista) e il politichese o il sindacalese degli anni ’70 del Novecento è diventata *lingua morta*, che senso ha fare « il mea culpa per aver abbandonato un intero universo sociale, quello del lavoro e dello sfruttamento»?». [E. A.]

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Zaràth

 

zarathustra

di Arnaldo Éderle

Zaràth, che nome strano!
Viene dall’ultra-fantasia del cervello
o dalla sua mania di grandezza,
dalla pochezza o dall’enormità del suo
spirito? Continua la lettura di Zaràth

Naissance

migranti deserto

di Alain Rivière

vous nous montrez sans doute un chemin
enfants femmes hommes partis du désert
pour traverser la mer violente et froide
et marcher en foule sur des champs inconnus Continua la lettura di Naissance

Il Deserto di Uség (1)

arturo-martini_gare-invernali

di Arnaldo Éderle

 

Cap.I

Un torrente di caldo scendeva dall’alto
e saliva dalla sabbia del deserto
di Uség. Continua la lettura di Il Deserto di Uség (1)

Hans il germanese

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di Giorgio Mannacio

A volte gli alberi, ignari, protendono i loro rami oltre il confine entro il quale sono stati piantati dal loro proprietario. Capita, dunque, che i loro frutti vadano a cadere sul terreno di un altro. I frutti, infatti, seguono la legge di gravità e si affidano al suolo. Anche loro, ignari come le piante che li hanno generati, non sanno a quante complicazioni si vada incontro per questo evento naturale. Continua la lettura di Hans il germanese