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 I grandi navigatori

  Konrad Dietrich, i grandi navigatori (2018)

 di Angelo Australi

Questo racconto è stato pubblicato una prima volta con le edizioni del Circolo letterario Semmelweis nel 1995, con una prefazione di Giorgio van Straten, e una seconda volta nel 2018 con nota di Francesco Luti. La tiratura del CLS, ormai da tempo esaurita, era di 500 copie numerate, mentre nel 2018 è uscito in forma quasi di libro d’artista con appena 64 copie. Durante questi anni si è fatto tanti amici, ma ogni volta che lo rileggo sento il bisogno di condividerlo ancora con nuovi lettori. So che non è possibile, ma vorrei che fossero milioni, miliardi … questi lettori. Continua la lettura di  I grandi navigatori

La vita dell’albero e la mia

di  Angelo Australi

Invece di giocare in strada con gli amici, per me era più divertente ammirare le montagne dalla terrazza. Spesso le osservavo con un binocolo che era un residuato bellico della seconda guerra mondiale. Non ricordo come fosse finito tra i beni di famiglia, lo vidi in mano a mio padre che una notte d’estate ci guardava le stelle cadenti. Nel buio della campagna che avevamo di fronte percepivo appena i contorni del corpo, ma visto che gli giravo intorno mi fece curiosare in cielo, dove non vidi che bagliori fissi e qualche aereo lampeggiare per tutto il tempo, prima di dileguarsi nel nero più fitto. La notte dietro casa nostra si vedevano solo un po’ di luci che indicavano la viabilità dei paesi di montagna, poi un buio compatto fino al profilo della linea dei monti che si attenuava leggermente su di un cielo punteggiato di stelle. Le montagne erano lì da milioni e milioni di anni, percepivo tutta la staticità che produceva una potente sensazione di silenzio assoluto. Che bello stare zitto per ore, in attesa di immaginare un gioco.

Negli ultimi anni che ci ho abitato, sui campi confinanti con il nostro orto, contemporaneamente alla prima circonvallazione furono costruiti dei palazzi di tre o quattro piani. Quello che infastidiva era la visuale ostruita sui monti più alti, tra le case si vedevano solo dei tratti di altopiano dove sorgevano piccoli paesi, così il mio istinto a giocare fu attratto dal grande susino che slanciava il suo tronco dall’orto fino alla terrazza. Nel vigore primaverile alcuni rami si allungavano su di un lato fino a fare con le foglie una sorta di pergola che in estate ci rinfrescava con la sua ombra. Quella pianta ormai vecchia mio padre diceva che era nata casualmente quando da ragazzo, dopo aver mangiato le susine, gettava i noccioli nell’orto sottostante, un certo giorno era spuntata questa esile pianticella che nell’arco di pochi anni aveva raggiunto la dimensione per essere innestata. Cresci e cresci, tutti gli anni prima della potatura si discuteva di abbatterlo, era troppo a ridosso della casa e nel tempo avrebbe indebolito le fondamenta con le sue radici, ma poi il susino germogliava e fioriva, ed era una soddisfazione alla fine del ciclo vedere i suoi frutti giallo oro brillare sotto il sole.

Nelle notti d’estate i conoscenti venivano a trovarci per stare a veglia. Solo noi nel vicinato avevamo una terrazza così grande, aperta sulla campagna e situata in una posizione ideale per il vento incanalatosi nel corso del fiume, che prima di raggiungerci incontrava l’aria fresca rilasciata dalle gole boscose a ridosso dell’abitato, gole dove non batteva che un po’ di sole nelle ore centrali del giorno. Era una terrazza grande come tre stanze, ho sempre avuto dei dubbi, ma mio padre anche negli ultimi anni di vita, quando ne parlavamo assicurava che misurasse sessanta metri quadrati. Durante quelle veglie le donne si mettevano in cerchio intorno a mia madre che ricamava, gli uomini invece, istigati da mio padre, trasferivano il tavolo dalla nostra sala per giocare a carte tra un valzer di falene e di pipistrelli attratti dalla luce elettrica. Dicevano di stare meglio a frescheggiare qui che in strada, perché il nostro susino con la sua grande chioma rilasciava una certa frescura profumata dai frutti.

Mi ero costruito un fucile di legno che sparava proiettili ricavati dalle camere d’aria di bicicletta, salivo sull’albero dal ramo più grosso che sporgeva in terrazza, esploravo il nostro orto per sparare al gatto mentre stuzzicava le galline ovaiole che ruspavano la terra in cerca di lombrichi. Lanciavo gli elastici imitando il suono di uno sparo, mentre i colpi che non andavano a segno rimbalzando sui muri facevano come un sibilo che si perdeva sull’eco. Se lo colpivo, il gatto con tre salti fuggiva a nascondersi tra le grandi foglie di una zucca, o ai piedi della siepe di rosmarino o di salvia. A un certo punto la caccia grossa mi aveva preso così tanto che trascorrevo interi pomeriggi appollaiato sull’albero. Un giorno colpii un piccione che stava beccando il granturco delle nostre galline, lui barullò un po’ intontito prima di prendere il volo, ma dall’entusiasmo persi l’equilibro e caddi dal ramo rompendomi una gamba. Un salto di almeno cinque metri. Fui portato di corsa all’ospedale e così il mio anno scolastico finì con un mese di anticipo.

Certe sere, sfruttando quei tranquilli momenti in attesa della cena, mentre mia madre apparecchiava, mio padre mi parlava e annaffiava la terrazza per rinfrescare l’aria intorno al tavolo dove avremmo mangiato. Allora non lo sapevo, ma hanno fatto grossi sacrifici perché in quegli anni per lui c’era poco da lavorare e mia madre aveva disseminato debiti in più negozi di alimentari e di abbigliamento. Quando ero sui sedici anni usarono questi ricordi per ricattarmi, ecco come l’ho scoperto: non potendo più obbligarmi a pensarla come loro tentavano di farmi nascere il senso di colpa. È duro essere figli unici, e queste cose, una volta cresciuto, le senti addosso come un senso di responsabilità verso te stesso e gli altri che a volte travalica ogni logica. Niente tristezze, è solo un dato di fatto con il quale convivere. Una volta avevo fatto una bandiera di stoffa rossa che poi esposi sui rami più alti del susino, in modo che tutti la vedessero. Nel vicinato si cominciò a dire che era la bandiera dei comunisti, così i miei genitori, con arretrati da pagare in ogni negozio, mi costrinsero a toglierla. Per questa ingiustizia piansi fino a farmi venire i crampi allo stomaco, maledicendo la stupidità dei vicini e la vigliaccheria dei miei. Chi erano per me i comunisti, all’età di otto anni? Niente, una parola come un’altra, che sentivo pronunciare ogni giorno senza riallacciare a persone fisiche diverse dalle altre. Ho scoperto molti anni dopo che anche i miei genitori erano comunisti, quando anch’io stavo per raggiungere l’età per votare. Prima non avevano mai esposto le loro idee politiche apertamente con me. Sì, li sentivo parlare di politica in presenza di altre persone adulte, ma come se fosse un discorso iniziato chissà quando.

La cena in terrazza era sempre un rito scaramantico per cacciare via i fastidi, la noia e le cose tristi che ci erano capitate durante la giornata, i miei genitori erano ancora abbastanza giovani, ma in quei momenti dimostravano sempre meno degli anni veri. Mentre il vento faceva frusciare le foglie del susino, ogni risata che gli veniva dal cuore finiva per amplificarsi. Una cena me la ricordo in modo particolare perché si misero a discutere su chi aveva più metodo e velocità nel lavoro. Quella sera erano più allegre anche le mosche che si posavano sugli avanzi nei piatti e sui nostri volti un po’ sudati. Soprattutto mio padre era particolarmente felice, perché finalmente aveva trovato un lavoro fisso e così sullo stipendio avrebbero potuto farci conto ogni mese. Tirata la cinghia per saldare i debiti, con un po’ di accortezza potevamo pianificare la soddisfazione di toglierci delle voglie.

– Io lavoro forte – disse mio padre, – non mi fermerebbe neppure un treno di cento vagoni.

L’improvviso sorriso di mia madre assordò anche il fruscio delle foglie mosse da una leggera brezza di vento.

– Che ridi, … è la verità.

– Non ti ho visto sul lavoro, ma …

– Ma cosa?

– … quando ti mando in un posto per una commissione, non ti sbrighi mai a tornare.

– Fare la spesa non puoi paragonarla a un lavoro in cantiere.

– Non posso?!

– Non è la stessa cosa fare le faccende di casa e tirare su un muro.

– Che c’è di tanto diverso?

Lei scuoteva la testa divertita.

– La fine del mondo, c’è di diverso!

– Mi fai ridere come una bambina.

– Quel muro si deve costruire a regola d’arte, altrimenti frana giù.

– Perché la spesa? I soldi che guadagni altrimenti finirebbero subito.

– Un mattone dietro l’altro, per tutto il giorno, con la consapevolezza che a un certo punto ci abiteranno degli esseri umani.

– Bevi, … fai meglio.

– Non ci piove: nel lavoro conta la qualità, ma in fondo alla giornata deve fare comparita anche il frutto del tuo sudore.

– Anche i piatti devono essere ben lavati, altrimenti mangeresti tra la sporcizia del giorno prima.

E rideva mia madre. Ridevano entrambi, a singhiozzi.

– Non ci siamo capiti, … vuoi dirmi è più complicato lavare i piatti che tirare su un muro?

– Per portare in fondo ogni giorno una faccenda noiosa, a volte ci vuole tanta forza d’animo. Tanta tanta, … credici, … non lo faccio per il gusto di contraddirti.

– I muri devono essere dritti, hai visto mai una casa pendere?

– Come no! … la torre di Pisa sta in piedi per miracolo.

– Che c’entra la torre di Pisa, io parlo di una casa dove vivono delle famiglie e dei bambini. Un muro cresce facendo il filo a piombo tra due regoli fissati al pavimento e al soffitto. Tiro una cordicella tra i due regoli e guardo con l’occhio la distanza che resta tra il muro e il filo. Un centimetro d’aria, non di più. Mattone dopo mattone.

– Mi fai ridere, mi fai.

– E di muri ogni giorno devo alzarne almeno quattro, che ci riescono a fatica anche i muratori più esperti.

– Allora sei un veicolo!!! – urlò mia madre ridendo.

– Un veicolo? … Ma va’!

– Esatto, sei una macchina che non si stanca mai.

Ricordo tutto ancora così bene, avevo le mani incastrate tra il piano della sedia e le cosce, li fissavo e ascoltavo incantato, perché era raro capitasse di vederli discutere da posizioni così diverse senza accanimenti o cattiverie represse da rinfacciarsi; si prendevano in giro scherzando, senza strascichi.

– Non mi sfottere, perché al lavoro sono consapevole delle mie capacità.

– Ma nelle faccende di casa non aiuti un bel niente – lei ribadì convinta ma divertita, dopo un istante di ponderazione.

– Mi annoio perché queste sono cose da donne.

– Appunto, sei un veicolo nel tuo lavoro e basta.

– Anche quando ti abbraccio però, che ti faccio ribaltare il cervello.

– Sei un cretino! Ecco cosa sei, …a parlare in questo modo.

Mio padre alzò il bicchiere per brindare e mia madre gli andò dietro.

Li fissai intensamente negli occhi e sorrisi.

Quella sera d’estate uscimmo a mangiare il gelato in centro e rientrammo dalla passeggiata dopo mezzanotte, stanchi e accaldati.

A quel punto però qualcosa già stava cambiando, tutti i giorni alla Tv davano dei film d’avventura e quando finivano in me si era persa anche la voglia di andare a giocare in terrazza. Stare alla televisione esauriva un po’ la fantasia, perché non avevo più stimoli a inventarmi dei giochi. Le montagne erano scomparse dal mio sguardo già da alcuni anni, nascoste dai nuovi palazzi. Quasi per caso un giorno mi accorsi che le foglie del nostro susino stavano ingiallando. Era vero che non giocavo più sull’albero, ma quella pianta mi stava sempre a cuore, così corsi da mia madre e la informai. Mi disse che era un effetto causato dalla siccità di quell’estate così afosa, che anche gli alberi ogni tanto si ammalavano. La sua risposta non mi lasciava tranquillo così decisi di curarlo con le mie forze. Iniziai ad uccidere tutte le formiche che salivano sul tronco in una stressante fila indiana. Impresa titanica, perché più ne uccidevo più che arrivavano di nuove dal terreno dell’orto. Per questo pensavo che fossero la causa del suo male. Dopo una settimana di stragi c’erano molte più foglie ingiallite e i frutti acerbi cadevano a terra. Pensai che forse gli serviva dell’acqua, ma se è per questo non avevo mai visto mio padre annaffiarlo. Ancora qualche giorno e le susine cadute si moltiplicarono, mentre le cime dei rami più esili già si spogliavano delle foglie come in pieno autunno. Una sera lo vegliai fino a tardi, cercando di capire se la causa della sua malattia si manifestasse con il buio, ma anche a quell’ora non accadde niente di particolare. Era un mistero e non riuscivo a darmi pace.

L’agonia del nostro susino si protrasse fino a ottobre, poi, un sabato che aveva libero dal lavoro, mio padre decise di abbatterlo.

– Aspetta babbo, è stato con noi così tanto tempo.

– Spartaco, non c’è altra soluzione… Peccato però.

– Chi l’avrebbe mai immaginato -. Si era intromessa anche mia madre.

– Ma può riprendersi babbo. Il sacerdote al catechismo a scuola ci ha raccontato che era stato testimone di una morte apparente. Dicendo messa per un funerale sentiva provenire dei rumori dalla bara, l’hanno aperta e quell’uomo è uscito fuori spiritato, ma vivo.

– Lascia stare le barzellette dei preti – disse mio padre ridendo.

E mia madre: – È inutile aspettare Spartaco, … fa più tristezza questa pianta secca qui davanti agli occhi a ricordarci che si muore. Se non c’è il susino, avrai altre cose vive a cui attaccarti.

In quello spazio che si sporgeva sui campi come una mano protesa ho trascorso molta della mia infanzia, in compagnia di un binocolo, del mio gatto, degli album da disegno dove facevo gli acquerelli, dei soldatini di plastica con i quali guerreggiavo sperimentando tattiche militare di ogni epoca della storia umana. Ero un ragazzo curioso, vivace e ribelle, ma in quella terrazza tutte le ansie si addolcivano per dare spazio a una forma di equilibrio grazie alla quale, ogni cosa facessi, non sentivo mai nessuna fatica. A volte fantasticavo che gli antichi studiati a scuola avessero giocato a inventare degli eroi per combattere la noia eterna solo per sfizio di competizione, un po’ come egoisticamente immaginavo il tempo deformato dai giochi che facevo in quello spazio circoscritto, ma mentre mio padre stava tagliando il susino e la nostra terrazza si riempiva di rami e di frasche, mi sembrava davvero piccola, come non lo era mai stata ai miei occhi. Ogni suono e ogni colpo d’ascia si riducevano a un sordo rumore rimbombante in un volteggiare di segatura e di foglie secche sbriciolate, e dello stesso tono erano le voci, ogni passo, tutti gli oggetti che spostava mia madre per non fargli prendere troppa polvere. Volevo sentirmi utile ma non ci riuscivo. Tutto mi sembrava assurdo, la terrazza era come una donna nuda che si vergognava di essere guardata.

Naturalmente aveva ragione mia madre: si deve sempre guardare avanti, … nonostante tutto. Oltre al susino anche molte di quelle persone su cui avvicino dei pensieri ormai non ci sono più. I genitori li ho in testa ogni giorno perché conservo tanti beni anche materiali che gli sono appartenuti, invece delle altre persone adulte che ci sono state nella mia infanzia certe volte non ricordo nemmeno i nomi. Mi tornano davanti dei volti, dei particolari, delle frasi e dei sorrisi, magari il tono di una voce. Immagini vaghe, gesti ripetuti, … nient’altro. È più naturale quando vado al cimitero a far visita ai defunti, scorrere lo sguardo tra le lapidi per leggere un nome e cognome collegato alla foto di un volto, solo così una certa persona torna in vita in un modo quasi fisico. Mentre per il susino è diverso, sembra sempre che sia esistito solo nella mia mente.

 

NOTA: Il racconto La vita dell’albero e la mia è stato pubblicato sul numero 77 di Nuovi Argomenti – IL FANTASMA NELL’OPERA – gennaio/marzo 2017.

Turbolenze

di Cristiana Fischer

1. Il malsonno. Nella città, una fascia parallela, a destra. Cerco Novi. E la trovo in un passaggio che qualcuno mi segnala, passaggio aperto, da cui sbocco in una fiera, quelle di una volta, con i baracconi del tiro a segno e le montagne russe. Lo spiazzo è appena un luogo indefinito, ampio. Novi scorre di fianco, lungo la città, anche se certamente è più breve. Non mi importa dei giochi e degli stordimenti dei calcinculo, né degli autoscontri. Cerchiamo, non so per quale ragione, la chiesa dell’Annunziata.
Prendo a destra e rincorro un percorso che non mi porta in nessun luogo. Fin che torno alle giostre dove Nonsochi mi informa che la chiesa dell’Annunziata (che ha il cimitero dietro, sottolinea incidentalmente) è sì lungo la strada, ma a sinistra. Arrivo abbastanza vicino, la vedo isolata, in gotico inglese, e sono certa del verde scuro e fitto, che solo immagino, del cimitero retrostante.
Destra e sinistra per me che sto dormendo. La strada nei due sensi scorre in piano. Non riconosco i posti e non immagino di arrivare in un luogo che conosco. Sto nei dati di fatto: volevo avanzare invece occorre tornare indietro e procedere a sinistra, in un  controsenso che è un indietro metafisico, è la morte però è anche, ne sono certa, un nuovo inizio.
Le due direzioni, sinistra e destra, in PNL (programmazione neurolinguistica) si rivolgono l’una a ricordo/passato e l’altra a costruzione/futuro. Nessuna certezza scientifica, se fossi mancina o se leggessi le pagine da destra verso sinistra il senso delle due direzioni legittimamente lo scambierei.
E con i nomi: Novi, Annunziata e cimitero, l’inconscio ha precisato la questione di cui il sogno tratta. Marcello Massimini, medico e neurofisiologo, capovolge il quadro: i sogni, dice in un video, sono un livello estremamente importante di coscienza, forse la forma di coscienza più pura. E’ una esperienza generata interamente dentro il cervello mentre è disconnesso, sia dal punto di vista degli input sensoriali che degli output motori, non sta  scambiando cioè nessuna informazione con il mondo circostante. Il sogno è necessario per integrare le informazioni registrate dalla realtà nella memoria del nostro cervello.
Leone dice “ho sognato che”. Stiamo scendendo in auto al mare, per fare la spesa al supermarket. Dichiarazione sorprendente, raramente dice che sogna, anzi fu convinto per molti anni di non sognare mai. Nel sogno aveva provocato un danno al parafango anteriore destro, strisciando in retromarcia contro l’auto parcheggiata davanti. Ecco un altro inciampo metaforico sul davanti laterale destro, quello del futuro.
Allora “ti racconto il sogno che ho fatto io: siamo a Milano, che ha una fascia urbana parallela, a destra. Cerco Novi…“
Leone tace. Le riflessioni alla nostra età sono pensieri pesanti da condividere.
Gli recito “Breve pertugio dentro dalla Muda/ … /m’avea mostrato per lo suo forame/più lune già, quand’io feci ’l mal sonno/che del futuro mi squarciò ’l velame.” Gli piace quando ricordo versi della Commedia che si attagliano alle circostanze.
Risponde: “Muorto si’tu e muorto so’ pur’io; ognuno comme a ‘na’ato è tale e qquale.  E cos’è la Muda?”
“Locale buio in cui venivano tenuti gli uccelli da richiamo nel periodo in cui mutavano le penne.”

2. La mer, la mer, toujours recommencée. Rispetto al Grande Gioco (la rivalità coloniale e strategica tra l’impero russo e quello britannico per la supremazia in Asia centrale durante il secolo XIX, finita con la rivoluzione sovietica) e al Nuovo Grande Gioco (gli interventi economici e politici di Cina, Russia, Stati Uniti, India, Pakistan, Arabia Saudita con altre petromonarchie, e Israele, nei cinque -stan: Kazakistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan) l’interesse del pianeta oggi si sporge fisicamente nello spazio, oltre i 500 km, verso Marte che è il dio della guerra.
«Gioco» per dire che le Potenze Politiche (numero di umani impiegabili, competenze politiche e tecniche, beni e strumenti disponibili, cemento delle convinzioni inscalfibili su sé e sull’altro: tutto lavoro accumulato che diventa energia da spendere per sopravvivere) implementano la loro influenza su zone interessanti per la posizione geografica e le ricchezze del sottosuolo. L’Arabia Saudita ha finanziato con miliardi il Tagikistan per contrastare sia l’Iran sciita che i fratelli musulmani.
Con i Fratelli musulmani sostenuti dalla Turchia, e Hezbollah sostenuto dall’Iran in Libano, siamo arrivati sulle sponde del Mediterraneo orientale.

Il mare è alto sopra l’orizzonte. “A giugno prendo il motorino e vado al mare da solo, se tu non vuoi venire.” La prima tappa nel nostro giro di spese è il pescivendolo. Triglie, pesce pregiatissimo già per gli Etruschi e gli antichi romani. Forse però quelle che compreremo sono le triglie entrate nel Mediterraneo attraverso il canale di Suez.
Giornale La repubblica, 16 ottobre 2014. Più di 400 specie di pesci e invertebrati sono giunte nel Mediterraneo dopo l’apertura del Canale («specie lessepsiane»). Poco più di 300 attraverso l’acqua di zavorra delle navi o attaccate alle carene. Circa 60 specie, soprattutto alghe, sono state introdotte accidentalmente attraverso l’acquacoltura. Colpevole è anche il riscaldamento globale: le acque tra Turchia meridionale, Siria, Libano, Israele, Gaza, Cipro ed Egitto sono diventate notevolmente più calde negli ultimi ventanni, quindi ideali per la sopravvivenza delle specie provenienti da Mar Rosso, Mar Arabico e Oceano Indiano. In questa regione del Mediterraneo, dice lo studio, fino al 40% della fauna marina è di origine «aliena».

3. Le potenze. La nipote ha ormai cinquanta anni, solo pochi mesi fa ha scoperto che il marito aveva da tempo intrecciato una relazione amorosa con un’altra donna e quindi lo ha cacciato di casa. Agli inizi del loro rapporto non ci capacitavamo della sua scelta per un marito affettuoso e scherzoso ma meno istruito e meno stabile nel carattere.
Il marito la ha tradita, con un atto di forza ha rotto l’equilibrio e ha mandato un segnale. La forza è un composto: una nel nome e nella minaccia, se viene azzannata e scomposta svapora. Dopo un po’ di ravvedimenti di lei e pentimenti di lui, il reprobo è stato riaccolto.
L’equilibrio delle potenze si regola al minimo conflittuale, esplicitando le premesse individuali delle conflittualità. “Proprio la globalizzazione sta ponendo in evidenza quanto l’enorme massa di merci, che ogni giorno produce e mette in movimento l’economia mondiale, rimandi […] ad una soggettività fortemente identitaria: una soggettività impersonale ed astratta, che impone i suoi obbligati percorsi e protocolli di accumulazione, la sua logica di crescita, in qualsiasi campo concreto si trovi ad investire e ad operare” (Roberto Finelli).
Luigi Ferrajoli ha scritto per un costituzionalismo oltre lo stato: “Occorre trasformare queste istituzioni, ma anche la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio, in vere istituzioni di garanzia indipendenti dal controllo dei paesi più ricchi, mettendole in grado di attuare le finalità enunciate nei loro stessi statuti: la garanzia dei diritti sociali, la promozione dello sviluppo dei paesi poveri, la crescita dell’occupazione e la riduzione degli squilibri e delle eccessive disuguaglianze.”
Con maggiore realismo, Gayatri Chakravorty Spivak: “La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale cominciarono con una missione di tipo socialista e internazionale senza il vantaggio della struttura statale socialista […] Ma questa fase cambiò rapidamente e completamente. Lo sviluppo ben presto divenne un alibi per uno sfruttamento sostenibile.”
Forza e potenza, in amore e geopolitica. Turbolenze. Correnti a diversa temperatura e peso si incrociano e prendono il posto l’una dell’altra, trascinano un corteo di acqua, di gelo o di soffi profumati, con pesanti carichi svelti dalle sedi: boschi, sabbia dei deserti, vapore acqueo, nubi roventi di incendi del cuore.

4 . “Ti racconto una storia: lo stretto di Gibilterra non è sempre stato aperto, forse in seguito a movimenti relativi tra le placche africana, arabica e euroasiatica, o forse per una glaciazione che ha abbassato il livello dei mari facendo emergere il fondo roccioso dello Stretto. E questo potrebbe avvenire ancora.”
“A breve?”
“Non proprio.”
Oggi il prevalente interesse europeo si muove sull’asse est-ovest, in collegamento con gli  Stati Uniti e in funzione antirussa e anticinese: per questo il Mediterraneo è tornato ad essere importantissima via di comunicazione tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano e, attraverso lo stretto di Malacca, fino al Pacifico. Già da alcuni anni, dopo la Brexit, la Gran Bretagna ha accentuato la sua presenza con navi e istallazioni militari a Gibilterra, Malta e Cipro, in direzione del Mar Rosso, del golfo Persico e dell’Oceano Indiano.
L’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, nel suo blog: “Piaccia o no, il Mediterraneo è oggi, ancora più che in passato, un continuum geo-strategico e soprattutto geo-economico con il Mar Nero, l’Oceano Indiano e il Golfo Arabico-Persico.  Quell’entità geo-politica e geo-economica che a partire dagli anni ’90 è stata identificata con il termine Mediterraneo allargato, per indicare l’area di diretto interesse nazionale.”

“All’armi, all’armi!”

Ora la madre di lei piange al telefono con Leone, suo fratello. Teme che il matrimonio possa anche non proseguire pianamente. Il padre della tradita esprime il suo dissenso a proposito del rientro del fedifrago e rifiuta di accoglierlo nella sua casa.
“Lo comprendo. Il matrimonio è un istituto giuridico, il marito della figlia ha rotto un patto che è fondante per la società.”
“Occorre serrare nella memoria gli sbagli passati per poter ricominciare un nuovo  percorso.”
“Ma le tracce segnate restano permanenti.”
Anche la coscienza di veglia, afferma Marcello Massimini, è fortemente disconnessa dall’ambiente circostante. E’ “una forma di sogno, modulato dalla realtà”, una forma particolare di coscienza, modulata dai sensi, che ci serve per sopravvivere, facendoci reagire all’ambiente in modo appropriato.
Nello spazio della modulazione quasi otto miliardi di input: complessità di voci singole che si devono accordare nell’orchestra del dialogo interno cerebrale.

 

 

Nota. Elementi usati:

Totò, ‘A livella.
Marcello Massimini: qui
Paul Valéry, Il cimitero marino.
Il Manifesto, ”Luigi Ferrajoli: l’orizzonte universale dei diritti fondamentali”, 9 aprile 2021.
Judith Butler, Gayatri Chakravorty Spivak, Che fine ha fatto lo stato-nazione? Meltemi, 2020.
Roberto Finelli, Al di là del terrore. Per una nuova antropologia (qui)

Nell’anniversario della morte di Arnaldo Éderle

di Franco Casati

Oggi, due maggio, ho fatto visita alla tomba di Arnaldo Ederle, caro amico, nel cimitero monumentale di Verona, a un anno dalla sua scomparsa, con Tommasina, la sua compagna. Non amo i cimiteri e le tombe, simulacri di una forma di vita giunta al suo compimento, che dovrà proseguire in un’altra, più vera. Una modesta lapide fra le tante, la sua; se non fosse che sotto il nome compaiono gli appellativi di poeta e scrittore, come due colpi di tamburo, a ricordare che il defunto ha lasciato ai posteri un’eredità di pensiero e di poesia destinati a sopravvivergli. Nella sua città, Verona, povera di poeti veri e di importanti scrittori, quella di Arnaldo è stata una fra le voci più significative. La sua, una delle poche vite finalizzate al canto e alla difesa della bellezza.

Continua la lettura di Nell’anniversario della morte di Arnaldo Éderle

Dieci poesie da ” … e ci indossiamo stropicciati”

di Luigi Paraboschi

con gli APPUNTI DI LETTURA di Ennio Abate

 

Cerchi ancora la pietra d’angolo

Cerchi ancora la pietra d’angolo
uno scoglio sul quale edificare
ti lasci scarnificare da relitti
che pensavi sepolti nel cemento
in un punto profondo dell’oceano. Continua la lettura di Dieci poesie da ” … e ci indossiamo stropicciati”

Marcia funebre zoppa

 

marcia-ederle-stagnoli

di Arnaldo Éderle

 

La banda suonava sommessa con qualche
strappo di trombone alla fine di ogni cinque
battute, ne veniva una marcia puntata
e lenta, come dicevo sommessa e scura
come il sole al crepuscolo.
Chi l’ascolta marcia lento e pensieroso
a testa bassa e col piede quasi strascicato
sull’asfalto come coloro che faticano
a camminare, ma va senza inciampi verso
il piccolo cimitero dove riposerà l’anima
del povero defunto. Continua la lettura di Marcia funebre zoppa

L’acqua dei morti

cipresso ombra

di Donato Salzarulo

 

I

Luci della vetrata
che corteggiate l’ombra…

Posso anche immaginarti
flusso d’energia,
aggregato d’atomi
destinato a sciogliersi,
molecole d’acqua ritornanti
in ciclo, azoto, ferro, Continua la lettura di L’acqua dei morti

Senza fragole

coubert 1

di Lucio Mayoor Tosi (con una nota dell’autore)

a Gustave Courbet

E’ pace Fatta al cimitero di zanne del Ministero
degli Esteri. Una stretta di mano. Buoni affari.

Subito una mandria di automobili oltrepassa il confine
e si richiude il borsellino. Le mucche Stanno a Guardare. Continua la lettura di Senza fragole

Cantico di stasi 2011- 2014

notte di michelangelo

di Marina Pizzi

C’è una poesia – questa di Marina Pizzi – che va difesa. Perché si presenta inerme e oscura e rischia di passare sotto silenzio. Pochi ma attenti critici, come una veloce esplorazione sul Web conferma, se ne sono finora occupati  e con grande intelligenza. La sottovalutazione o l’imbarazzo o il silenzio equivoco viene, invece, dai lettori “semplici”, che critici non si ritengono e però fanno valere testardamente (“spontaneamente”) i loro pregiudizi o le loro resistenze. Continua la lettura di Cantico di stasi 2011- 2014

Milano incroci

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di Cristiana Fischer

La Tangenziale Est verso La Gobba corre alta, da un lato l’incrocio tra la Martesana e il Lambro, dall’altro la cupola vuota con l’Angelo che regge a braccio teso il pesce per la coda. Senza code si entra in Palmanova, la crisi smagrisce il traffico anche a Loreto. Sempre gli stessi percorsi. Capatina di collegamento in centro, capolinea del 15 in piazza Fontana, la Banca dell’Agricoltura è diventata Montepaschi, altri disastri. La bambina non smette di parlare e giocare: è frutta o verdura? cotta o cruda? il colore di fuori è uguale a quello di dentro? Continua la lettura di Milano incroci