di Ennio Abate
NON ESISTE PIU’ UNA CULTURA CRITICA (MARXISTA) DEL LAVORO. ED È UN DISASTRO PER I GIOVANI Continua la lettura di Nonno, nipote e miseria del lavoro
di Ennio Abate
NON ESISTE PIU’ UNA CULTURA CRITICA (MARXISTA) DEL LAVORO. ED È UN DISASTRO PER I GIOVANI Continua la lettura di Nonno, nipote e miseria del lavoro
di Cristiana Fischer
Il punto fermo da cui partire è che ognuna e ognuno di noi è nato da una donna. E questo non significa che ogni donna voglia, o debba, far nascere qualcun’altra o altro.
La maternità è alle nostre spalle, non necessariamente nel nostro futuro di donne. Continua la lettura di Natalità e famiglia
* L’articolo completo si legge qui
di Ennio Abate
10 febbraio
Lavoro «..soltanto una minoranza della forza-lavoro del nostro paese (in sostanza i dipendenti pubblici e quelli delle grandi aziende private, circa 9 milioni di persone su oltre 20 tra occupati regolari e irregolari) beneficia effettivamente e direttamente della tutela piena offerta dal diritto del lavoro e in particolare della stabilità del posto di lavoro e della legislazione di sostegno alla presenza del sindacato nei luoghi di lavoro» (Bronzini, il manifesto. 7.2.1997) Continua la lettura di Riordinadiario 1997 (2)
di Donato Salzarulo
1.- «Tommisse» (Quaderni di Erba d’Arno, 2022) di Angelo Australi è un libretto piano e scorrevole. Scritto in terza persona, il protagonista del racconto è Spartaco. È un aspirante scrittore e, dopo otto ore di lavoro in una fabbrica di vernice, si china sulla macchina da scrivere per produrre non trame articolate di romanzi, ma racconti, piccole storie di persone semplici (anonimi accattoni, contadini, operai, ecc.) contrapposte alle grandi storie che finiscono sui libri, che hanno per protagonisti «uomini che fondano città» e vivono la loro vita, decifrandone il senso, carpendone «i segnali in un destino tracciato», ecc. Spartaco ha in animo di raccontare queste piccole storie per dar loro voce, sottrarle all’oblio, farle entrare nei libri e far sì che anch’esse sconfiggano il tempo. Ottima intenzione. Si dà il caso, però, che, fin dall’inizio, l’autore lo presenti in preda ad una sorta di blocco creativo e mentale. Quella mattina scrive senza convinzione, il racconto va avanti «privo di una motivazione, di una precisa idea da sviluppare» (pag. 7); la storia non riesce a trovare quell’«attimo di sospensione» che le permette di incontrare «la sua sintesi poetica», tra il suo bisogno di scrivere e i racconti che si trascina dietro «da quando si era preso quella colossale ubriacatura» (pag. 9) si era creato «una tale confusione che adesso si sentiva sempre più isolato e inutile» (pag. 10). Insomma, siamo al cortocircuito. Tant’è che l’autore mette in bocca al suo personaggio un bel «Basta così Spartaco, perché stamani non è banda». (pag. 13) Continua la lettura di Angelo Australi: «Tommisse»
SECONDA PARTE CON APPENDICE
di Franco Romanò
Torniamo ora alle lezioni di Sraffa. Le abbiamo lasciate in un momento che possiamo ancora considerare un preambolo, che continua con una divagazione che riguarda in particolare Adam Smith e i presupposti della sua ricerca, che Sraffa vede nella necessità di attaccare il mercantilismo. Nel prosieguo, il discorso si allarga alle concezioni filosofiche ed è proprio su questo argomento che Sraffa fa questa affermazione:
… Dobbiamo ricordare … la differenza fra la moderna e nostra concezione della legge naturale e quella che ne aveva Smith … Noi concepiamo la legge naturale come il modo in cui una particolare classe di eventi si verifica, tale che essa non possa avvenire in nessun altro modo. Per Smith la legge naturale è una sorta di forza esterna direzionata verso fini benefici e armoniosi, ai quali è tuttavia possibile sfuggire, a condizione che si diventi però passibili di una sanzione … Tale nozione è particolarmente adatta quando una particolare politica chiamata in causa deve essere rappresentata come una legge naturale, in un modo cioè che la moderna concezione di legge naturale rifiuta. Continua la lettura di Sraffa, il valore, il lavoro
di Umberto Di Donato
Prima dei versi, qualche considerazione in via preliminare-.
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Usciamo da un equivoco: si afferma che chi scrive vuole farsi leggere. È vero, ma dipende da chi. Per quel che mi riguarda, condivido totalmente ciò che Mandel’štam dice benissimo nelle poche pagine del saggio Sull’Interlocutore. Completando il quadro, aggiungo soltanto che alcuni profeti, spirituali, maestri da strapazzo, riconoscono alla poesia doti universalmente salvifiche, qualità magiche, terapeutiche, curative, basta mettersi all’ascolto. Io non ci credo, l’universale puzza di complotto, ed in più dico che il poeta non è la poesia, ma compone poesie, ripeto, non è la poesia, così come una fonte non è l’acqua. È quest’ultima che noi dovremmo bere, non la cannella. I poeti che profetizzano, che salvificano, che fanno sermoni, in realtà vogliono essere bevuti; e possiamo noi lettori in verità non soddisfarli!? Ora, ponendoci dal punto di vista dei singoli testi, gli unici a dare qualche minima certezza, si può sostenere che se non vengono letti non hanno vita? Non lo so, ma comunque è un loro problema, non il mio, ed in definitiva non di chi le scrive.
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Il gesto, l’azione senza frutto, un interlocutore ipotetico, un altro me. Lotta serrata alle piccole vanità.
Mi preoccuperebbe molto sapere che un mio testo possa emozionare chi frequenta i teatri, i cinema, i festival, gli eventi, i luoghi deputati alla cultura. Anche il libro è un luogo deputato. Il libro non è l’opera, è un supporto, e la possibilità della fruizione attraverso il supporto influenza la collocazione, la distribuzione, induce ad organizzare i singoli testi nello spazio del commercio. Io stesso ho commerciato nella mia preistoria testuale, soggiogato dal libro/supporto e pensandolo nelle mani di qualcuno. Ho recintato, secondo una logica indotta dall’esterno, dodici anni di esperimenti in quattro libri che materialmente non esistono ancora: Motore a combustione interna (1993-2002), Fossa comune (lugliosettembre 2001), Per fortuna non lavoro (2003), Reo confesso (2003-2005). Ormai il danno è fatto.
Vigliacco!
Poi ho capito. Niente più organizzazione, sequenza esclusivamente cronologica. Massima concessione: titolo alla sequenza per connotare l’arco temporale, per connotarlo a me (ma non ne sono ancora certo). Ridurre al minimo la schiavitù.
Nel 2004 scrissi questo testo:
“In verità è il poeta che ammazza la poesia, la violenta, la percuote, è la sua voglia di piedistallo. Quando il poeta contemporaneo va in televisione, ed aspira ad andarci, viene schiacciato nei ritmi serrati della distruzione scientifica, della telecamera crematoria. Poi la pubblicità, che rappresenta il momento in cui l’immagine si sposta dalla piramide dei cadaveri al fumo delle ciminiere di Auschwitz.
Anche nel libro vive lo spirito del gulag, del lager: l’ordine, la disciplina, la sequenzialità degli atti, le sezioni, multipli e sottomultipli; la morte. Ma è una morte che ha in potenzialità la sua resurrezione. Per me il libro, cioè quel tanto d’ordine che si cerca di dare al naturale spirito da fuggiasco del poetare, è il box con recinzione morbida in cui si mettono i bambini. Essi stanno lì, giocano, piangono, si aggrappano alla rete, ma siamo certi che cresceranno, che supereranno il varco. E poi il filo spinato/copertina non è attraversato dall’elettricità. Toccandolo non si corre il rischio di essere folgorati.”.
Adesso lo integro e lo supero nella direzione sopra esposta.
1 Il mio è un lavoro di concetto, ma so che alcuni lavori manuali sono davvero tremendi per cui penso che tutti vogliono andare in ufficio. Invece no: «mai otto ore in galera, meglio spargere col caldo nero catrame». Il problema non è il concetto oppure il manuale, ma quell'otto,10,12, così come sei ore a scuola [e che strazio fu per me la scuola!]. Riformare: competenze, competizione, i migliori, che nove volte su dieci non sono figli di poveri o quasi poveri. Sburocratizzare: che vuol dire sostanzialmente tagliare senza risolvere il problema perché i tempi lunghi sono nelle procedure. Io ho risolto in questo modo: ho un impiego, ma non lavoro, o comunque lavoro poco -e per piacere non si sparga troppo in giro la voce-. Desiderare un lavoro. Incredibile! «Che lavoro vuoi fare da grande?». Così comincia presto la rovina. Io volevo fare il terrorista, ma poi ho ripiegato sul pubblico impiego. Chiedo comunque aiuto. Bisaccia, 02.04.2021, ore 09.00-09.30, stanzetta, in tv si parla di lavoro e di riforme. 2 I versi che scendono troppo nel presente hanno di certo vita breve. Ma non importa, nun me ne fréca pròbbie niénde. Morire violentemente mentre si lavora! Io sto lavorando, seduto, senza gocce di sudore sulla fronte. Si lavora non più solo per mangiare, ma per tanti piccoli bisogni singolari. Ipocrita! Eppure la mia colpevolezza è poca cosa rispetto a chi dirige/arricchisce/imprende, governa o vuole governare [poca cosa ho detto, si badi, e il poco è un essere comunque]. Amministrare il contingente, va bene, è giusto, ma un po' si può pensare -dico un po', un nonnulla- a come lavorare tutti meno, ad alternarci tra fabbrica e concetto, a costruire guardandoci negli occhi quel futuro che a me non appartiene? Non ci serve più governo, ma un governo amorevole che dica: «non avete bisogno di me». Non capisco, non avviene nulla. Io ho un programma, minimo, di annientamento, velleitario forse, ma sincero. Al momento ho convinto solo tre persone. Il suo nome ha origini polinesiane e significa godersi il tempo libero. Incredibile la beffa! Grosseto, 06.05.2021, ufficio, ore 11.30-12.00 circa, pensando a Luana morta sul lavoro, e pure a quiru pòveriéddo re Peppino. 3 Vedo vari gruppi, coppie, famiglie, amici. Il tempo libero, il che significa che la rimanente parte del tempo libera non è. Giusto? Cosa si fa nel tempo libero? Niente di libero ovviamente: centri commerciali con acquisti pilotati, bevute e cene in cui si è delle comparse, relazioni con sceneggiatura sottostante. Non si tratta neanche più di massa -e stiamo parlando di una massa grassa-, o di società del consumo; melma, melma, melma. Non è la cultura che manca, o le buone letture -esiste anche la melma colta-, manca l'uomo, l'uomo dignitoso, lo schiavo che sa di essere tale per merito delle bastonate. Schiavo anch'io, ma voglio andare in miniera, che siano torture tutti i giorni. Non so cosa farmene di questa schiavitù con l'aperitivo, con visita guidata nei musei, della promozione fasulla dei diritti, del patrocinio di ministri ed aguzzini. Anche la banca, che già ruba l'altro tempo, vuole il mio tempo libero e mi scrive: «Ciao, hai pensato alle prossime vacanze?», (ma io e la banca da quando siamo amici? -memorandum: prosciugare il conto-). Ma dove sono finito? L'unico tempo libero che mi aspetta inizia sulla soglia del cimitero, ... e meno male. Grosseto, centro, 13.05.2021, ore 19.00-19.30 circa. 4 Pose il comune in memoria dei caduti del quindicidiciotto: sei persone "che con sacrificio onorarono la patria". Chissà se lo rifarebbero, se pensano ancora di aver onorato! Anche questa è una radiosa giornata di maggio, e si dice che siamo in guerra contro un nemico invisibile. I miei nemici al contrario sono onnipresenti e mi guardano storto. Mi considero in una fase da categorie del politico, e devo difendermi purtroppo -anche da questo cane, da questi gatti, da questi uccelli provinciali. In linea d'aria il mare è vicino, vedo il Giglio, qualche vela, la città sfavillante nella piana. Il borgo medievale naturalmente è tutto pietre, archi, vicoli e mattoni. Silenzio! Il paese vive prepotentemente in me. In realtà dovrei fare l'asceta, dovrei compiere il passo decisivo come già feci mille anni fa; sono caduto tante volte, ma non in guerra, e tante volte ancora cadrò. Non posso credere che oggi lanciano bombe invece di abbracciarsi felici e fare un picnic. Cosa trattiene tutta quella gente? Anch'essi vogliono onorare? Terra santa? Dite? Mi rendo conto solo adesso di essere seduto in Vicolo della Saggezza, 2 ... -ed io pensavo che fosse cieco-. Bene, bevo, riempio le borracce e riprendo a pedalare. Il ritorno è quasi tutto in salita. Montorsaio, 15.05.2021 ore 10.00-10.30, panchina, notizia bombardamenti in Palestina. 5 Un clima, un momento, un'aria che anticipa e che presuppone; intorno a me, meglio: su di me come una muta. E quindi un ritmo, interno, sereno, serrato, da qualche parte, emerge e pian piano s'impone. Scelgo di dare o di non dare corso. Poi sarei figlio del mio tempo, della mia epoca. Ma lei di chi è figlia? Ha vita propria oppure è un congegno creato per sfinire? Cosa vuole da me? E se la misura della mia vita fossero i millenni a quale epoca apparterrei? Schiavo di tutto, ... se già nelle strutture del linguaggio si annidano il potere, la gabbia e la prigione; quindi si consiglia di sabotare la sintassi, di attaccare dall'interno ma per molti interno significa cravatta. Sabotare il linguaggio a mio avviso non si può. Neanche col silenzio. Già che ci siamo perché non ai ceppi? Così è la muta -non la musa- che mi viene in soccorso, che mi affranca, che mi aiuta. "Con potete culo quelle pulirvi il bandiere". Non sono riuscito a dargli torto -pur nella la normalità della sintassi-. Bisaccia, 02.06.2021, festa della repubblica, stanzetta, poi la voce di un contestatore, ore 12.30-13.00 circa. 6 Seduto sotto il tiglio sto pensando, rimuginando, ma non dovrei. Non renderò quest'albero sacro, e credo che oggi non m'illuminerò -nel senso del Buddha intendo-. Non illuminato, ma comunque tranquillo. Estendere questo stato, isolarmi, stare solo. Devo risolvere il problema del sostentamento: occupazione, reddito, stipendio. Se mi licenziassi domani, pur riducendo al minimo i bisogni -un tetto, mangiare e bere- non ce la farei. Non so rubare, scassinare, investire in borsa, non so ingannare. E allora? E allora una bestemmia ci starebbe bene, ma non Antonio però, il santo patrono al cui cospetto tutto questo accade. Non posso nemmeno farmi monaco, prete perché dovrei battezzarmi e tutto il resto (e tutto il resto è in ogni confessione). Pietrificarmi? Magari! Il mio futuro, tolto lo svanire degli affetti, è nel suicidio o nell'ascesi -in ufficio infatti ho iniziato a meditare, concentrazione su un solo punto-. ... ... Ma cosa c'è? Sembra che il vento adesso stia parlando: «Perché non aspetti la pensione?». Maledetto, vuoi provocarmi, vuoi litigare? Calmo. Un solo punto, un solo punto. Bisaccia, 18.07.2021, Convento, ore 10.30-10.45, più o meno. 7 Insomma ho provato, letto, riletto, analizzato, pensato. E allora anch'io nel mio parlar voglio esser aspro[1]: mi stanno con dolcezza inculando, ma non ancora del tutto violato ad un'azione cruenta sto pensando. Se Dante il sommo celebrato in parlamento, nelle chiese e nei bordelli, ha condannato decine di persone, perché non posso io desiderare che qualcuno bruci vivo nelle fiamme di un talk show televisivo? «Bastardo, ti vaccineremo». Povero me. No pax. Mi disturba tutto, dico sempre le stesse cose -ma le dico bene-, ho raffinato le mie capacità di analisi, di sintesi e la mia forma non è poi così meschina. L'amore non mi basta, i miracoli, la gioia, gli appelli alla bellezza che si fa puttana, consolazione e propaganda. Non parlerò più con nessuno, ho deciso, neppure con gli uccelli. Io mi svago al tavolino e lavoro in società[2]. Visto che non sopporto più il lavoro è tempo di tagliarlo nella parte che non mi dà sostentamento. Si, l'uomo è un essere sociale, ma io credo non essenzialmente. Non mi interessa cos'è nella sua essenza, non ho voglia adesso di filosofare. Mi basta evitare per il momento il fango. ... Inizia così il mio mediocre medio evo. Grosseto, 12.08.2021, sul letto, ore 20.00-20.30 circa, rielaborando registrazione vocale. 8 Mio caro parliamone, ma sii chiaro, diretto, schietto. Desidero un milione di euro -anche il porcospino lo voleva, ma io coscientemente-. La realtà mi assale, e la realtà sono anche gli altri. Poeti, filosofi e scienziati non mi servono più a nulla. Dove un po' di pace? Forse in un bosco percorrendo un bel sentiero. I sostenitori della realpolitik non rompessero oltremodo. Non sono confuso, o frustrato; spesso i realisti affermano che posizioni e posture tali sono una forma di disturbo, ... o meglio: una forma d'impotenza. Come se dovessi per forza dire che la vita è vita ed è così com'è. No, non lo dico e preferisco subire, incassare, prendere legnate. Quante parole, è un turbinio di bocche aperte, un ammasso di coglionerie. I giornalisti andrebbero tutti imbavagliati, mi avvelenano il sangue. Non lo posso permettere. -Sessanta secondi di pubblicità-. Monopolio della forza legittima. Gira e rigira sempre questo è il punto. Ma si, maledico tutti i miei contemporanei, oggi mi è presa così; e per non dimenticare che questa è una poesia faccio presente che la pineta di fronte è come il colle, l'orizzonte -neutrale- è mio compagno, e il naufragar m'è dolce in questo stagno [zampilli d'acqua, tre papere, un ranocchio]. Vai, adesso mi sento meglio, lo sfogo è servito. Ritratto la parte non lirica. Grosseto, Parco Giotto, 23.08.2021, ore 19.00-19.30, più o meno. 9 Perché un essere umano, un buon cittadino non dovrebbe provare odio? Dicono che odiare sia dannoso, che questo sentimento è brutto, peccaminoso. Stupidaggini! Io di questi tempi odio, ed anche tanto. Il treno è in ritardo, niente coincidenza, sono mascherato, controllato, divise ovunque e poi transenne, obliterazioni, tornelli. È chiaro che non la finiranno più. Oggi non farò colpi di testa (domani chissà), ma fatemi almeno odiare. Così, banalmente, prevedibilmente, da intelligenza mediocre e luogo comunista, mi vedo solo con un mitra in mano, e di fronte a me tanti governi in fila, sindacati, imprenditori, intellettuali. Sono questi maniaci dell'apparire, dell'emergere, gestire, questi cultori della norma, dementi seriali, democratici per finta, animali, vermi, a tenerci adesso tutti sotto scacco. Su, via, sono inerme, dal punto di vista della prassi innocuo, ma lasciatemi almeno sognare, vagheggiare il clic creativo di un grilletto. Tanto sparirò da questa vita senza colpo ferire. Allora dite quello che vi pare, già conosco l'apparato retorico che mi si potrebbe di certo contrapporre. Detto questo, io non mi rodo il fegato, né ho del fegato. Dopo tutto resto un moderato. Roma, stazione Termini, 27.08.2021, ore 10.15-10.45, più o meno. 10 In certi momenti esprimersi è fatica, e vorrei cedere il passo. Ma non devo, ma non posso. Non sono irresponsabile come un dio, ed ogni giorno è una piccola conquista. Mi disturba la mia mortalità, dover lavorare per nutrirmi e per poter lavorare domani. Edificare esige tempo. Sono tormentato, di giorno e di notte, ma non si tratta del tormento ridicolo dell'artista. Sacrificherei tutta l'arte del mondo per un attimo di chiarezza, per uno sguardo diretto sull'abisso, sull'oscuro, sull'orrido e il melmoso. Non ho risposte all'assurdo che c'è nell'esistenza, e il volere non è potere in questo campo. Formalizzare una volontà, abbattere il mostro, quello che ci opprime dall'esterno, e quello che ci schiaccia dall'interno -che poi è lo stesso mentre si diverte ad una festa di carnevale-. Io non rivendico per me cose speciali, quello che voglio lo voglio per tutti: poche/nulle pene per il sostentamento, e poi tempo, tempo, tempo. Se un giorno si arrivasse a risolvere definitivamente il problema delle necessità materiali, a risolverlo urbi et orbi, resterebbe comunque quello della mortalità. E qui saranno guai! Si sarebbe tentati di dire che le esperienze sublunari sono un argine in qualche modo (ed infatti non mi lasciano disperare di certo a tempo pieno). [ ] A proposito di disperazione: oggi si va a votare; ma io no, così da tempo ho deciso. «Allora devi stare zitto, non ti puoi lamentare». E chi si lamenta. Io affermo, io asserisco, io subisco l'ordine parlamentargovernativo. Io sono incudine! La rappresentanza non mi interessa, e non voglio rappresentare. Bocciato il pensiero liberale, se considero il linguaggio di molti autori marxisti mi manca il respiro. Potrei anche condividere molte cose, ma l'aria è tutto. Così preferisco le soleggiate scampagnate fuori porta delle dolci correnti libertarie. Adesso posso dirlo caro Errico, e non si tratta di una semplice opinione: tra una mite utopia e la cruda certezza dei macelli scelgo la prima e incasso. Concludendo, noto che in tv stanno da tempo sibilando i draghi; io non sono (ahi me) l'arcangelo Michele, ma dico amichevolmente ai miei nemici: tenetevi il PIL, scopatevi il PIL, impiccatevi al PIL. Grosseto, 03.10.2021, sul divano, ore 21.00-22.00. [1] Dante, Commedia. [2] K. Kraus, Detti e Contraddetti.
di Paolo Di Marco
Ju/'Hoansi del nord Kalahari
1- le tribù dei raccoglitori-cacciatori
Nell’Aprile del 1966 la conferenza ‘Man, the Hunter’ (l’uomo, il cacciatore), convocata a Chicago dall’antropologo Richard Lee fu molto affollata; si era sparsa la voce che i risultati presentati sarebbero stati sorprendenti. Partecipavano i classici rappresentanti dell’antropologia accademica, compreso Levi Strauss, ma anche molti dei giovani antropologi che negli anni ’60, stanchi della pochezza dei dati forniti dagli studi archeologici avevano deciso di buttarsi nel campo a studiare i pochi sopravvisuti dei popoli di raccoglitori-cacciatori dell’antichità.
In quel periodo la saggezza convenzionale era che i popoli primitivi vivessero una vita di stenti, passando tutto il tempo a cercare uno scarso cibo che raramente li sfamava e morendo giovani sempre di stenti. E che quindi i pochi rimasti fossero un caso fortuito di nicchie di miserabile sopravvivenza.
Insieme a Lee che era stato nel Kalahari tra i Ju/‘Hoansi c’erano antropologi che avevano seguito lo stesso percorso nell’Artico, in Australia, in Asia sudorientale. E furono tutti concordi nel rovesciare il paradigma: nonostante la siccità che nello stesso periodo aveva costretto le popolazioni agricole della zona a sopravvivere di aiuti paracadutati, gli Ju/‘Hoansi avevano mantenuto un livello ottimale di alimentazione di 2104 calorie al giorno (il 10% in più di quanto oggi si raccomanda per persone della loro statura).
E questo con uno sforzo modesto: procurando il cibo 17 ore la settimana (esclusi anziani e bambini) e facendo altre attività (dal cucinare al riparare gli utensili) per 20 ore. Una media pari alla metà di un adulto americano.
E nonostante Lee avesse i conti più dettagliati la sostanza della sua analisi era condivisa da tutti gli altri antropologi sul campo.
Per inciso, come già rimarcato ne ‘Il giardino dell’Eden’, la vità della tribù era improntata ad una prassi rigorosamente comunitaria, senza proprietà privata né gerarchie di alcun tipo.
Per 300000 anni questo tipo di vita continuò con successo; i reperti archeologici mostrano che le comunità erano durevoli e mantenevano le stesse dimensioni, senza quindi carestie nè eccessi.
E non venivano neppure create riserve: ogni giorno si raccoglieva/cacciava solo ciò che serviva nell’immediato. Ed era una scelta precisa.
Per comprenderla occorre guardare all’ambiente come parte integrante ed attiva della comunità. Mentre Conrad nel suo Cuore di Tenebra, in preda alle allucinazioni della malaria e della dissenteria, descriveva la foresta intorno a lui come incubo vivente, popolato di bruti e di istinti dimenticati (ma nel mezzo del più brutale e vigliacco saccheggio che i bianchi abbiano mai perpetrato, grazie al re Leopoldo), i BaMbuti, che questa stessa foresta abitavano, la descrivevano come madre amorevole e protettrice.
In un rapporto di scambio reciproco ed equilibrio che il sovrasfruttamento o la sovrappopolazione avrebbero spezzato, minando la sopravvivenza stessa del popolo.
BaMbuti del Congo
2- le tribù degli economisti
In quel convegno erano presenti anche gli antropologi sociali che si occupavano di economia, divisi nelle due tribù dei formalisti e dei sostanzialisti.
Per i primi le economie primitive come quella dei Ju/‘Hoansi erano versioni elementari delle economie capitalistiche, basate sugli stessi impulsi e desideri primitivi, e alla base l’elemento universale che le accomunava erano la scarsità e la concorrenza. La definizione di economia come allocazione di risorse scarse diventa fatto naturale. La concorrenza e la volontà di ciascuno di perseguire il proprio interesse innanzitutto diventano anch’essi istinti e tendenze naturali. (Per gli economisti marginalisti).
I sostanzialisti, il cui rappresentante più interessante è Karl Polanyi vedono piuttosto come universale l’hybris dei sostenitori dei mercati e la razionalità della concorrenza come un sottoprodotto culturale dell’economia di mercato.
Al convegno era presente Marshall Sahlins, con qualche esperienza sul campo ma ferrato nelle questioni di economia, e la sintesi che ricava è sostanzialista: gli Ju/‘Hoansi erano la vera ‘società del benessere’.
E in effetti è stata l’economia di maggior successo della storia umana: per 300000 anni gli uomini sono stati bene, hanno lavorato poco, si sono spartiti equamente i prodotti del lavoro, sono stati in equilibrio fra di loro e con l’ambiente.
3- libertà vo cercando..
Mentre questo avrà sviluppi importanti per la teoria economica val la pena soffermarsi su come l’ideologia abbia falsato la nostra immagine del mondo e dell’uomo stesso, dando come elementi costitutivi della natura umana elementi che erano invece culturalmente indotti o semplicemente ipostatizzati.
Ed è ancora strettamente legata all’economia, reale e definita, l’idea di libertà che viene declinata in tutte le forme e accenti.
Mi resi conto di quale groviglio di elementi comprendesse quando tantissimi anni fa, supplente in un Istituto Tecnico in un periodo di agitazioni e occupazioni, diedi ai miei studenti un tema sul potere apparentemente semplice: ‘elenca tutte le persone che hanno potere su di te’. Ne venne di fuori di tutto: dai genitori al bidello agli insegnanti al bigliettaio del tram al prorietario della casa dei genitori al poliziotto ai vigile al finanziere che speculava sui terreni vicino a casa al prete al segretario della sezione giovanile a…..
Personaggi abitanti livelli diversi, con ruoli diversi, con cui però le sue possibilità di scelta si incontravano/scontravano. A volte direttamente, altre solo da lontano.
Ma se vogliamo portare avanti un discorso che non veda la libertà come pulsione interiore o ideale ma come fatto concreto dobbiamo iniziare a misurarla con le scelte possibili, un po’ come fa la definizione di informazione. E quindi rapportarla a tutti i cammini e i bivi di questi su ognuno dei piani che compongono la nostra vita.
Sembra complicato, e questo è però anche il nocciolo del discorso: viviamo in una società complessa, il cui funzionamento è legato all’interazione tra tutti i suoi elementi. Immaginare che ci sia una definizione semplice è illusorio. Immaginare che esista ‘la libertà’ è illusorio.
Se riguardiamo l’insieme dei cammini su piani diversi di cui è composta la nostra vita, e di tutte le scelte che su ognuno di essi possiamo fare, quand’anche dessimo massimo peso a un piano o un altro non possiamo che immaginare la libertà come una tabella di valori che bene o male vorremmo massimizzare. Senza ancora tener conto del peso di queste scelte sugli altri, di quanto siano accettabili per loro e anche per noi.
Dato che bene o male sopravviviamo ci siamo costruiti fin dall’infanzia una serie di meccanismi automatici, di abitudini, o altri le hanno scelte per noi e sono diventate parte di noi. Come per il multiverso le molte scelte possibili può darsi che si semplifichino, riconducano a pochi elementi, ma assai difficili da valutare.
Pensiamo nella storia degli Stati Uniti a due tipi di anarchici: quelli ‘di destra’ del Texas, alla Clint Eastwood, cresciuti fieri della propria indipendenza, convinti di essere autosufficienti senza bisogno né di altri né di autorità né dello Stato. Chiudendo gli occhi al fatto che la luce, le strade, le ferrovie, le automobili, i fucili glieli forniscono altri, che la loro autosufficienza è più uno stato dell’animo che un fatto reale. E che la terra su cui galoppano è stata rubata ai messicani e agli indiani.
E i wobblies, gli anarcosindacalisti rivoluzionari dell’IWW (l’erede della Prima Internazionale), convinti che la propria libertà è solo il frutto di una storia e una lotta collettiva, che nelle miniere e nelle fabbriche lottano per la libertà di sindacato e per una paga e una vita non ancora libera ma degna di essere vissuta.
Nei due casi condizioni materiali ed economiche diverse creano le basi per due idee di libertà antinomiche, al di là delle pulsioni individuali.
Ma il convegno di Chicago ci ha insegnato una cosa: non fidarsi mai quando ci dicono che qualcosa è innato, che fa parte della nostra natura. La gran parte dei nostri ‘istinti’ sono prodotti culturali: non siamo né lupi per gli altri uomini né pusilli atavici: possiamo cooperare o possiamo scannarci, non siamo costretti dalla nostra natura a scegliere nessuna delle due vie.
E così la ‘libertà’ è spesso vessillo per tutt’altro, dimenticando ogni volta nel modo più conveniente tutti gli strati di scelte da cui è composta. E riducendone dimensioni e scelte in modo tale da renderla una (minuscola) caricatura (come nel caso del bollino verde).
È anche stato di voga per qualche tempo parlare del ‘carattere’ degli italiani (come del resto di altri popoli), volta a volta poetico o codardo od opportunista: facile modo di eludere un’analisi delle condizioni materiali delle scelte e delle forze in gioco. Ma involontariamente forse rafforzando i pregiudizi ottocenteschi, dal positivismo lombrosiano alle superiorità razziali..fino alla naturalità del capitalismo e del suo mercato dai denti affilati.
La difficoltà di conciliare egualitarismo e libertà individuale nei raccoglitori-cacciatori è stata risolta riducendo al minimo la complessità: l’orizzonte temporale è ridotto al solo giorno della raccolta/caccia; non ci sono pianificazioni né le gerarchie che ne conseguono, non ci sono provviste colle funzioni aggiuntive che implicano. E la libertà dell’individuo di muoversi come meglio gli aggrada viene compensata dal sistema della ‘condivisione su domanda’ (demand sharing): quando qualcuno ha oggetti che interessano ad altri, e questi glieli chiedono, la norma sociale (la ‘buona educazione’) richiede di accontentarlo. Cosicché l’egualitarismo è assicurato.
In un sistema complesso questo equilibrio non funziona più: tribù più grandi (come quelle del Nord America ricco di salmoni) hanno introdotto la conservazione del cibo e le gerarchie. C’è quindi un ultimo elemento che va detto sulla libertà oggi: se è composta di molte scelte il suo esercizio comporta molte conoscenze. E c’è quindi un’asimmetria inevitabile tra sapienti ed ignoranti.
Varrà questo sempre, anche in un altro tipo di società? Probabilmente no, perché nel caso che il nostro mondo sopravviva e nell’improbabile eventualità di un’uscita dal capitalismo cesserebbe quello che Marx chiamava il ‘regno della necessità’ e con esso la gran parte delle interdipendenze che ci legano. Il numero di piani e di cammini sarebbe cioè drasticamente ridotto, e molte delle scelte possibili sarebbero a somma positiva (io guadagno, tu guadagni) invece che a somma zero (io guadagno, tu perdi). Tornando ad una situazione analoga ai JU/’Hoansi. Si potrebbe allora parlare di libertà vedendola anche.
Altrimenti qualcuno potrebbe accontentarsi di quell’uscita dalla necessità che è l’uscita dal samsara, dal ciclo delle reincarnazioni o dalla ruota del tempo…ma lo vedo come un percorso molto privato.
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Tutti i dati di quest’articolo provengono dal libro :
James Suzman, Work, PenguinPress 2021
uscire dal tempo, 2
di Paolo Di Marco
Possiamo leggere la storia degli ultimi secoli come una progressiva espropriazione del proprio tempo, trasformato in tempo di lavoro collettivo controllato dal capitale.
Marx è l’ultimo economista che si occupa dell’origine del profitto (tema centrale dell’economia classica sino a Ricardo), e la sua analisi parte dalla giornata di lavoro, il cui tempo viene diviso in due parti:
una in cui il lavoratore lavora per sé, l’altra per il padrone. Questa seconda dà origine al profitto. Continua la lettura di Il giardino dell’Eden
di Lucia Bruni
Evvaiii! Ma l’esclamazione sincera e partecipata di Giulia al racconto divertito di Sabrina su come aveva festeggiato il sedicesimo compleanno, era velata di malinconia. Continua la lettura di Su per la discesa