Archivi tag: lavoro

Quarantaquattro gatti

 

 di Angelo Australi

Con quel primo venerdì di marzo ultimavano la verniciatura dei quarantaquattro comodini realizzati per un lussuoso albergo di Capri, in anticipo di una settimana sui tempi di consegna. Ci stavano dietro da fine gennaio, senza mai staccare la spina per ben quaranta giorni. All’albergo a quattro stelle la stagione turistica si apriva con la Pasqua, quindi letti e comodini dovevano essere consegnati non oltre la metà del mese. Nel carico erano compresi anche gli accessori per l’illuminazione, già consegnati e riscossi da Spartaco e il suo socio prima di buttarsi a capo basso su quell’ordine per il quale si erano trasferiti a lavorare in un fondo messo a disposizione dal committente al suo paese. Li aveva cercati il padrone di quella ditta che gestiva l’ordinazione dei letti in ferro per la fornitura di lampadari, abat-jour, di applique e di alcune piantane da distribuire nei locali del bar o di corredo alle poltrone della sala della reception, ma visto che apprezzava il loro modo di lavorare, alla fine li aveva coinvolti anche per la verniciatura dei mobiletti. Erano già in affari con il proprietario perché ci acquistavano le strutture in ferro dei lampadari che poi decoravano in argento o in oro a foglia, mentre lui, quando aveva bisogno di qualche accessorio per l’illuminazione da sistemare negli spazi espositivi della sua azienda, si rivolgeva a loro. Uno scambio che pur non avendo grossi margini di guadagno consentiva di non tirare fuori un soldo nell’acquisto dei loro articoli. Va detto che l’azienda di Renato era molto rinomata nel lavorare il ferro, faceva letti, tavoli, sedie, lampadari, qualsiasi cosa servisse per la casa o il giardino, … e anche in ogni tipo di metallo; non avevano a contratto mai meno di tre rappresentanti a gironzolare per l’Italia: uno al sud, uno che si muoveva per il nord e uno sul centro. E ormai, già da un paio di anni, dalla bottega artigianale situata in una storica strada dell’antico borgo intorno al quale si era sviluppato il paese nel dopoguerra, lui e il fratello si erano trasferiti con l’attività nella nuova zona industriale cresciuta in quella periferia allargatasi tra le coltivazioni di granturco e del pregiatissimo tabacco dei sigari toscani, dando lavoro a dodici operai. Il capannone si trovava in un punto strategico della viabilità del fondovalle, chi si spostava in auto non poteva non notarlo. Avevano messo una gigantesca insegna luminosa che si leggeva anche dall’Autostrada del Sole e, sul davanti, oltre l’area adibita a parcheggio dei clienti, l’immobile esibiva un ampio spazio espositivo dove stavano in mostra anche i lampadari realizzati da Spartaco e Siro. Alla richiesta dei proprietari dell’albergo di indicargli qualcuno in grado di realizzare la mobilia in legno da abbinare ai letti, Renato si era subito convinto di riuscire a proporre un’alta qualità ad un prezzo molto competitivo. Per la realizzazione dei mobili grezzi aveva in mente una falegnameria dell’area industriale che lavorava il truciolato, ma poi Spartaco avrebbe nascosto la bassa qualità del legno con la coloratura finale. Continua la lettura di Quarantaquattro gatti

Natalità e famiglia

di Cristiana Fischer

Il punto fermo da cui partire è che ognuna e ognuno di noi è nato da una donna. E questo non significa che ogni donna voglia, o debba, far nascere qualcun’altra o altro.

La maternità è alle nostre spalle, non necessariamente nel nostro futuro di donne. Continua la lettura di Natalità e famiglia

Al volo/Marazzi/Il lavoro oggi


a cura di E. A.

Dietro l’apparente automazione e la digitalizzazione della produzione, studiosi c ome Antonio Casilli mostrano l’abbondanza di lavoro umano, un lavoro nascosto, spesso poco o per nulla remunerato, svolto senza garanzie né protezioni, generalmente non riconosciuto in quanto tale, non considerato e fondamentalmente svalorizzato. Non è dunque della fine del lavoro che oggi si parla, ma appunto della sua liquidazione e della sua denigrazione. Dietro la facciata asettica e apparentemente immateriale dell’economia digitale appare il lavoro più materiale che ci sia, quello del dito del digitus, occultato dalla distanza geografica, dissimulato negli appartamenti dei paesi sviluppati, nelle cucine delle click farm dei moderatori africani, nelle fabbriche filippine dei cleaners, gli spazzini della rete di cui “i social non dicono”.
Dietro l’apparente automazione e la digitalizzazione della produzione, studiosi come Antonio Casilli mostrano l’abbondanza di lavoro umano, un lavoro nascosto, spesso poco o per nulla remunerato, svolto senza garanzie né protezioni, generalmente non riconosciuto in quanto tale, non considerato e fondamentalmente svalorizzato. Non è dunque della fine del lavoro che oggi si parla, ma appunto della sua liquidazione e della sua denigrazione. Dietro la facciata asettica e apparentemente immateriale dell’economia digitale appare il lavoro più materiale che ci sia, quello del dito del digitus, occultato dalla distanza geografica, dissimulato negli appartamenti dei paesi sviluppati, nelle cucine delle click farm dei moderatori africani, nelle fabbriche filippine dei cleaners, gli spazzini della rete di cui “i social non dicono”.
Questo stravolgimento del destino, del sogno di una riduzione progressiva del lavoro, di una vera e propria liberazione dal lavoro, è stato in gran parte possibile con lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie della comunicazione e della informazione. Dal lettore ottico dei codici a barra, introdotto per la prima volta in una drogheria americana a metà degli anni ’70, al computer portatile, da Internet allo smartphone, abbiamo assistito ad una proliferazione di dispositivi tecnologici che hanno la propria forza dirompente nella capacità di catturare le nostre vite attraverso la traduzione in dati dei nostri comportamenti, delle nostre scelte, delle nostre interazioni umane. Si tratta di macchine linguistiche, protesi (per oltre quattro miliardi di persone!) che succhiano valore-informazione ovunque noi siamo, che appunto mettono al lavoro la nostra vita, sono “armi di distrazione di massa” che trasformano ogni nostro gesto, ogni nostro pensiero in valore economico. Addirittura l’ozio è “messo al lavoro”, nel senso che laddove crediamo di essere inattivi, distraendoci e giocando in rete, in realtà produciamo dati che saranno puntualmente commercializzati.
Gli economisti americani Eric Posner e Glen Weyl, nel loro Radical Markets sostengono che i dati che forniamo e che vengono sistematicamente accumulati in enormi banche dati sono a tutti gli effetti lavoro (data is labor). Per la felicità delle corporation digitali, che della gratuità della vita messa al lavoro hanno fatto la chiave del loro successo e dei loro enormi profitti. Con la digitalizzazione, ci troviamo in una sorta di tecnofeudalesimo, in cui ad esempio Facebook (oggi Meta) paga annualmente solo l’1% del suo valore in salari ai dipendenti-programmatori perché ottiene gratuitamente il resto del suo lavoro da tutti noi. In contrasto, Wallmart (che pure non brilla per gli stipendi che eroga) versa il 40% del suo valore in salari. Se davvero si volessero ridurre le disuguaglianze di reddito, occorrerebbe cominciare col riconoscere monetariamente tutto questo lavoro gratuito

* L’articolo completo si legge qui

Riordinadiario 1997 (2)

di Ennio Abate 

10 febbraio

Lavoro «..soltanto una minoranza della forza-lavoro del nostro paese (in sostanza i dipendenti pubblici e quelli delle grandi aziende private, circa 9 milioni di persone su oltre 20 tra occupati regolari e irregolari) beneficia effettivamente e direttamente della tutela piena offerta dal diritto del lavoro e in particolare della stabilità del posto di lavoro e della legislazione di sostegno alla presenza del sindacato nei luoghi di lavoro»  (Bronzini, il manifesto. 7.2.1997)  Continua la lettura di Riordinadiario 1997 (2)

Angelo Australi: «Tommisse»

di Donato Salzarulo

1.- «Tommisse» (Quaderni di Erba d’Arno, 2022) di Angelo Australi è un libretto piano e scorrevole. Scritto in terza persona, il protagonista del racconto è Spartaco. È un aspirante scrittore e, dopo otto ore di lavoro in una fabbrica di vernice, si china sulla macchina da scrivere per produrre non trame articolate di romanzi, ma racconti, piccole storie di persone semplici (anonimi accattoni, contadini, operai, ecc.) contrapposte alle grandi storie che finiscono sui libri, che hanno per protagonisti «uomini che fondano città» e vivono la loro vita, decifrandone il senso, carpendone «i segnali in un destino tracciato», ecc. Spartaco ha in animo di raccontare queste piccole storie per dar loro voce, sottrarle all’oblio, farle entrare nei libri e far sì che anch’esse sconfiggano il tempo. Ottima intenzione. Si dà il caso, però, che, fin dall’inizio, l’autore lo presenti in preda ad una sorta di blocco creativo e mentale. Quella mattina scrive senza convinzione, il racconto va avanti «privo di una motivazione, di una precisa idea da sviluppare» (pag. 7); la storia non riesce a trovare quell’«attimo di sospensione» che le permette di incontrare «la sua sintesi poetica», tra il suo bisogno di scrivere e i racconti che si trascina dietro «da quando si era preso quella colossale ubriacatura» (pag. 9) si era creato «una tale confusione che adesso si sentiva sempre più isolato e inutile» (pag. 10). Insomma, siamo al cortocircuito. Tant’è che l’autore mette in bocca al suo personaggio un bel «Basta così Spartaco, perché stamani non è banda». (pag. 13) Continua la lettura di Angelo Australi: «Tommisse»

Sraffa, il valore, il lavoro

SECONDA PARTE CON APPENDICE

di Franco Romanò

Torniamo ora alle lezioni di Sraffa. Le abbiamo lasciate in un momento che possiamo ancora considerare un preambolo, che continua con una divagazione che riguarda in particolare Adam Smith e i presupposti della sua ricerca, che Sraffa vede nella necessità di attaccare il mercantilismo. Nel prosieguo, il discorso si allarga alle concezioni filosofiche ed è proprio su questo argomento che Sraffa fa questa affermazione:

… Dobbiamo ricordare … la differenza fra la moderna e nostra concezione della legge naturale e quella che ne aveva Smith … Noi concepiamo la legge naturale come il modo in cui una particolare classe di eventi si verifica, tale che essa non possa avvenire in nessun altro modo. Per Smith la legge naturale è una sorta di forza esterna direzionata verso fini benefici e armoniosi, ai quali è tuttavia possibile sfuggire, a condizione che si diventi però passibili di una sanzione … Tale nozione è particolarmente adatta quando una particolare politica chiamata in causa deve essere rappresentata come una legge naturale, in un modo cioè che la moderna concezione di legge naturale rifiuta. Continua la lettura di Sraffa, il valore, il lavoro

Dieci poesie

di Umberto Di Donato

Prima dei versi, qualche considerazione in via preliminare-.

*
Usciamo da un equivoco: si afferma che chi scrive vuole farsi leggere. È vero, ma dipende da chi. Per quel che mi riguarda, condivido totalmente ciò che Mandel’štam dice benissimo nelle poche pagine del saggio Sull’Interlocutore. Completando il quadro, aggiungo soltanto che alcuni profeti, spirituali, maestri da strapazzo, riconoscono alla poesia doti universalmente salvifiche, qualità magiche, terapeutiche, curative, basta mettersi all’ascolto. Io non ci credo, l’universale puzza di complotto, ed in più dico che il poeta non è la poesia, ma compone poesie, ripeto, non è la poesia, così come una fonte non è l’acqua. È quest’ultima che noi dovremmo bere, non la cannella. I poeti che profetizzano, che salvificano, che fanno sermoni, in realtà vogliono essere bevuti; e possiamo noi lettori in verità non soddisfarli!? Ora, ponendoci dal punto di vista dei singoli testi, gli unici a dare qualche minima certezza, si può sostenere che se non vengono letti non hanno vita? Non lo so, ma comunque è un loro problema, non il mio, ed in definitiva non di chi le scrive. 

**
Il gesto, l’azione senza frutto, un interlocutore ipotetico, un altro me. Lotta serrata alle piccole vanità. 
Mi preoccuperebbe molto sapere che un mio testo possa emozionare chi frequenta i teatri, i cinema, i festival, gli eventi, i luoghi deputati alla cultura. Anche il libro è un luogo deputato. Il libro non è l’opera, è un supporto, e la possibilità della fruizione attraverso il supporto influenza la collocazione, la distribuzione, induce ad organizzare i singoli testi nello spazio del commercio. Io stesso ho commerciato nella mia preistoria testuale, soggiogato dal libro/supporto e pensandolo nelle mani di qualcuno. Ho recintato, secondo una logica indotta dall’esterno, dodici anni di esperimenti in quattro libri che materialmente non esistono ancora: Motore a combustione interna (1993-2002), Fossa comune (lugliosettembre 2001), Per fortuna non lavoro (2003), Reo confesso (2003-2005). Ormai il danno è fatto.

Vigliacco! 

Poi ho capito. Niente più organizzazione, sequenza esclusivamente cronologica. Massima concessione: titolo alla sequenza per connotare l’arco temporale, per connotarlo a me (ma non ne sono ancora certo). Ridurre al minimo la schiavitù. 

Nel 2004 scrissi questo testo:

“In verità è il poeta che ammazza la poesia, la violenta, la percuote, è la sua voglia di piedistallo. Quando il poeta contemporaneo va in televisione, ed aspira ad andarci, viene schiacciato nei ritmi serrati della distruzione scientifica, della telecamera crematoria. Poi la pubblicità, che rappresenta il momento in cui l’immagine si sposta dalla piramide dei cadaveri al fumo delle ciminiere di Auschwitz.

Anche nel libro vive lo spirito del gulag, del lager: l’ordine, la disciplina, la sequenzialità degli atti, le sezioni, multipli e sottomultipli; la morte. Ma è una morte che ha in potenzialità la sua resurrezione. Per me il libro, cioè quel tanto d’ordine che si cerca di dare al naturale spirito da fuggiasco del poetare, è il box con recinzione morbida in cui si mettono i bambini. Essi stanno lì, giocano, piangono, si aggrappano alla rete, ma siamo certi che cresceranno, che supereranno il varco. E poi il filo spinato/copertina non è attraversato dall’elettricità. Toccandolo non si corre il rischio di essere folgorati.”.

Adesso lo integro e lo supero nella direzione sopra esposta.

1

Il mio è un lavoro di concetto,
ma so che alcuni
lavori manuali sono
davvero tremendi per cui penso
che tutti vogliono andare in ufficio.
Invece no: «mai otto
ore in galera, meglio
spargere col caldo nero catrame».
 
Il problema non è il concetto oppure il manuale,
ma quell'otto,10,12,
così come sei ore a scuola [e che strazio fu per me la scuola!].
 
Riformare: competenze, competizione, i migliori,
che nove volte su dieci non sono
figli di poveri o quasi poveri.
Sburocratizzare: che vuol dire
sostanzialmente tagliare senza
risolvere il problema perché i tempi
lunghi sono nelle procedure.
 
Io ho risolto in questo modo:
ho un impiego, ma non lavoro,
o comunque lavoro poco
-e per piacere non si sparga
troppo in giro la voce-.
 
Desiderare un lavoro. Incredibile!
 
«Che lavoro vuoi fare da grande?».
Così comincia presto la rovina.
 
Io volevo fare il terrorista, ma poi
ho ripiegato sul pubblico impiego.
 
Chiedo comunque aiuto.
 
Bisaccia, 02.04.2021, ore 09.00-09.30, stanzetta, in tv si parla di lavoro e di riforme.




2
 
I versi che scendono troppo
nel presente hanno di certo vita breve.
Ma non importa,
nun me ne fréca pròbbie niénde.
 
Morire violentemente mentre si lavora!
 
Io sto lavorando, seduto, senza
gocce di sudore sulla fronte.
 
Si lavora non più solo  
per mangiare, ma per tanti
piccoli bisogni singolari.
 
Ipocrita! Eppure la mia
colpevolezza è poca cosa
rispetto a chi dirige/arricchisce/imprende,
governa o vuole governare
[poca cosa ho detto, si badi,
e il poco è un essere comunque].
 
Amministrare il contingente, va bene, è giusto,
ma un po' si può pensare
-dico un po', un nonnulla- a come lavorare tutti meno,
ad alternarci tra fabbrica e concetto, a costruire
guardandoci negli occhi quel futuro
che a me non appartiene?
 
Non ci serve più governo,
ma un governo amorevole che dica:
«non avete bisogno di me».
 
Non capisco, non avviene nulla.
 
Io ho un programma, minimo, di annientamento,
velleitario forse, ma sincero.
Al momento ho convinto solo tre persone.
 
Il suo nome ha origini
polinesiane e significa
godersi il tempo libero.
 
Incredibile la beffa!
 
Grosseto, 06.05.2021, ufficio, ore 11.30-12.00 circa, pensando a Luana morta sul lavoro, e pure a quiru pòveriéddo re Peppino.
 


 
3
 
Vedo vari gruppi, coppie, famiglie, amici.
Il tempo libero,
il che significa che la rimanente
parte del tempo libera non è. Giusto?
 
Cosa si fa nel tempo libero?
Niente di libero ovviamente:
centri commerciali con acquisti pilotati,
bevute e cene in cui
si è delle comparse, relazioni
con sceneggiatura sottostante.
 
Non si tratta neanche più di massa
-e stiamo parlando di una massa grassa-,
o di società del consumo;
melma, melma, melma.
 
Non è la cultura che manca,
o le buone letture
-esiste anche la melma colta-,
manca l'uomo, l'uomo dignitoso,
lo schiavo che sa di essere
tale per merito delle bastonate.
 
Schiavo anch'io, ma voglio andare in miniera,
che siano torture tutti i giorni.
Non so cosa farmene
di questa schiavitù con l'aperitivo,
con visita guidata nei musei,
della promozione fasulla dei diritti,
del patrocinio di ministri ed aguzzini.
 
Anche la banca, che già ruba l'altro tempo,
vuole il mio tempo libero e mi scrive:
«Ciao, hai pensato alle prossime vacanze?»,
(ma io e la banca da quando siamo amici?
-memorandum: prosciugare il conto-).
 
Ma dove sono finito?
 
L'unico tempo libero che mi aspetta
inizia sulla soglia del cimitero,
... e meno male.
 
Grosseto, centro, 13.05.2021, ore 19.00-19.30 circa.
 
 
 
 
4
 
Pose il comune in memoria dei caduti
del quindicidiciotto: sei persone
"che con sacrificio onorarono la patria".
Chissà se lo rifarebbero,
se pensano ancora di aver onorato!
 
Anche questa è una radiosa giornata di maggio,
e si dice che siamo in guerra
contro un nemico invisibile.
I miei nemici al contrario sono
onnipresenti e mi guardano storto.
Mi considero in una fase da categorie del politico,
e devo difendermi purtroppo
-anche da questo cane, da questi gatti,
da questi uccelli provinciali.
 
In linea d'aria il mare è vicino, 
vedo il Giglio, qualche vela,
la città sfavillante nella piana.
Il borgo medievale
naturalmente è tutto pietre,
archi, vicoli e mattoni.
 
Silenzio! Il paese vive
prepotentemente in me.
 
In realtà dovrei fare l'asceta, dovrei
compiere il passo decisivo come già
feci mille anni fa; sono caduto
tante volte, ma non in guerra,
e tante volte ancora cadrò.
 
Non posso credere che oggi
lanciano bombe invece
di abbracciarsi felici e fare un picnic.
Cosa trattiene tutta quella gente?
Anch'essi vogliono onorare?
 
Terra santa? Dite?
 
Mi rendo conto solo adesso
di essere seduto in Vicolo
della Saggezza, 2 ... -ed io pensavo che fosse cieco-.
 
Bene, bevo, riempio
le borracce e riprendo a pedalare.
Il ritorno è quasi tutto in salita.
 
Montorsaio, 15.05.2021 ore 10.00-10.30, panchina, notizia bombardamenti in Palestina.



 
5
 

Un clima, un momento, un'aria
che anticipa e che presuppone;
intorno a me, meglio:
su di me come una muta.
E quindi un ritmo, interno,
sereno, serrato, da qualche parte,
emerge e pian piano s'impone.
 
Scelgo di dare o di non dare corso.
 
Poi sarei figlio del mio tempo, della mia epoca.
Ma lei di chi è figlia?
Ha vita propria oppure
è un congegno creato per sfinire?
Cosa vuole da me?
E se la misura della mia vita
fossero i millenni a quale
epoca apparterrei?
 
Schiavo di tutto,
...
se già nelle strutture
del linguaggio si annidano il potere,
la gabbia e la prigione; quindi
si consiglia di sabotare la sintassi,
di attaccare dall'interno ma per molti
interno significa cravatta.
 
Sabotare il linguaggio a mio avviso non si può.
Neanche col silenzio.
 
Già che ci siamo perché non ai ceppi?
 
Così è la muta -non la musa-
che mi viene in soccorso, che mi affranca, che mi aiuta.
 
"Con potete culo quelle pulirvi il bandiere".
 
Non sono riuscito a dargli torto
-pur nella la normalità della sintassi-.
 
Bisaccia, 02.06.2021, festa della repubblica, stanzetta, poi la voce di un contestatore, ore 12.30-13.00 circa.
 
 
 
  
6
 
Seduto sotto il tiglio sto pensando,
rimuginando, ma non dovrei.
Non renderò quest'albero sacro, e credo che oggi
non m'illuminerò -nel senso del Buddha intendo-.
 
Non illuminato, ma comunque tranquillo.
Estendere questo stato, isolarmi, stare solo.
 
Devo risolvere il problema
del sostentamento: occupazione, reddito, stipendio.
Se mi licenziassi domani, pur riducendo
al minimo i bisogni -un tetto, mangiare e bere- non ce la farei.
Non so rubare, scassinare, investire in borsa,
non so ingannare. E allora?
E allora una bestemmia ci starebbe bene,
ma non Antonio però, il santo patrono
al cui cospetto tutto questo accade.
 
Non posso nemmeno farmi monaco,
prete perché dovrei
battezzarmi e tutto il resto
(e tutto il resto è in ogni confessione).
 
Pietrificarmi? Magari!
 
Il mio futuro, tolto lo svanire degli affetti,
è nel suicidio o nell'ascesi -in ufficio infatti
ho iniziato a meditare, concentrazione
su un solo punto-.
...
...
Ma cosa c'è?
Sembra che il vento adesso stia parlando:
«Perché non aspetti la pensione?».
 
Maledetto, vuoi provocarmi, vuoi litigare?
 
Calmo.
Un solo punto,
un solo punto.
 
Bisaccia, 18.07.2021, Convento, ore 10.30-10.45, più o meno.
 
 
 
 
7
 
Insomma ho provato, letto,
riletto, analizzato, pensato.
E allora anch'io
nel mio parlar voglio esser aspro[1]:
mi stanno con dolcezza inculando,
ma non ancora del tutto violato
ad un'azione cruenta sto pensando.
 
Se Dante il sommo celebrato
in parlamento, nelle chiese e nei bordelli,
ha condannato decine di persone,
perché non posso io desiderare
che qualcuno bruci vivo nelle fiamme
di un talk show televisivo?
 
«Bastardo, ti vaccineremo».
Povero me.
No pax.
 
Mi disturba tutto,
dico sempre le stesse cose
-ma le dico bene-,
ho raffinato le mie capacità
di analisi, di sintesi e la mia
forma non è poi così meschina.
L'amore non mi basta, i miracoli, la gioia,
gli appelli alla bellezza che si fa
puttana, consolazione e propaganda.
 
Non parlerò più con nessuno, ho deciso,
neppure con gli uccelli.
Io mi svago al tavolino e lavoro in società[2].
Visto che non sopporto più il lavoro
è tempo di tagliarlo nella parte
che non mi dà sostentamento.
 
Si, l'uomo è un essere sociale,
ma io credo non essenzialmente.
Non mi interessa cos'è nella sua essenza,
non ho voglia adesso di filosofare.
Mi basta evitare per il momento il fango.
...
Inizia così
il mio mediocre medio evo.
 
Grosseto, 12.08.2021, sul letto, ore 20.00-20.30 circa, rielaborando registrazione vocale.
 
 


8
 
Mio caro parliamone,
ma sii chiaro, diretto, schietto.
 
Desidero un milione di euro
-anche il porcospino lo voleva,
ma io coscientemente-.
La realtà mi assale,
e la realtà sono anche gli altri.
Poeti, filosofi e scienziati
non mi servono più a nulla.
Dove un po' di pace?
Forse in un bosco percorrendo un bel sentiero.
 
I sostenitori della realpolitik
non rompessero oltremodo.
Non sono confuso, o frustrato;
spesso i realisti affermano
che posizioni e posture tali
sono una forma di disturbo,
... o meglio: una forma d'impotenza.
Come se dovessi per forza dire
che la vita è vita ed è così com'è.
No, non lo dico e preferisco
subire, incassare, prendere legnate.
 
Quante parole, è un turbinio di bocche aperte,
un ammasso di coglionerie.
I giornalisti andrebbero tutti imbavagliati,
mi avvelenano il sangue.
Non lo posso permettere.
 
-Sessanta secondi di pubblicità-.
 
Monopolio della forza legittima.
Gira e rigira sempre questo è il punto.
 
Ma si, maledico tutti i miei contemporanei,
oggi mi è presa così; e per non dimenticare
che questa è una poesia faccio presente
che la pineta di fronte è come il colle,
l'orizzonte -neutrale- è mio compagno,
e il naufragar m'è dolce in questo stagno [zampilli d'acqua, tre papere, un ranocchio].
 
Vai, adesso mi sento meglio,
lo sfogo è servito. Ritratto 
la parte non lirica.
 
Grosseto, Parco Giotto, 23.08.2021, ore 19.00-19.30, più o meno.




9
 
Perché un essere umano,
un buon cittadino non dovrebbe
provare odio?
Dicono che odiare sia dannoso,
che questo sentimento è brutto,
peccaminoso. Stupidaggini!
 
Io di questi tempi odio, ed anche tanto.
Il treno è in ritardo, niente coincidenza,
sono mascherato, controllato,
divise ovunque e poi transenne, obliterazioni, tornelli.
È chiaro che non la finiranno più.
 
Oggi non farò colpi di testa (domani chissà),
ma fatemi almeno odiare.
Così, banalmente, prevedibilmente,
da intelligenza mediocre e luogo comunista,
mi vedo solo con un mitra in mano,
e di fronte a me tanti governi
in fila, sindacati, imprenditori, intellettuali.
Sono questi maniaci
dell'apparire, dell'emergere, gestire,
questi cultori della norma, dementi
seriali, democratici per finta, animali, vermi,
a tenerci adesso tutti sotto scacco.
 
Su, via, sono inerme,
dal punto di vista della prassi innocuo,
ma lasciatemi almeno sognare, vagheggiare il clic
creativo di un grilletto.
Tanto sparirò da questa vita senza colpo ferire.
Allora dite quello che vi pare,
già conosco l'apparato
retorico che mi si potrebbe
di certo contrapporre.
 
Detto questo,
io non mi rodo il fegato,
né ho del fegato.
 
Dopo tutto resto un moderato.
 
Roma, stazione Termini, 27.08.2021, ore 10.15-10.45, più o meno.




10
 
In certi momenti esprimersi è fatica,
e vorrei cedere il passo.
Ma non devo,
ma non posso.
Non sono irresponsabile come un dio,
ed ogni giorno è una piccola conquista.
 
Mi disturba la mia mortalità,
dover lavorare per nutrirmi
e per poter lavorare domani.
 
Edificare esige tempo.
 
Sono tormentato, di giorno e di notte,
ma non si tratta del tormento
ridicolo dell'artista. Sacrificherei
tutta l'arte del mondo
per un attimo di chiarezza,
per uno sguardo diretto sull'abisso,
sull'oscuro, sull'orrido e il melmoso.
 
Non ho risposte all'assurdo che c'è nell'esistenza,
e il volere non è potere in questo campo.
 
Formalizzare una volontà,
abbattere il mostro,
quello che ci opprime dall'esterno,
e quello che ci schiaccia dall'interno
-che poi è lo stesso mentre si diverte
 ad una festa di carnevale-.
 
Io non rivendico per me cose speciali,
quello che voglio lo voglio per tutti:
poche/nulle pene per il sostentamento,
e poi tempo, tempo, tempo.
 
Se un giorno si arrivasse
a risolvere definitivamente il problema
delle necessità materiali,
a risolverlo urbi et orbi,
resterebbe comunque quello
della mortalità. E qui saranno guai!
Si sarebbe tentati di dire
che le esperienze sublunari sono
un argine in qualche modo
(ed infatti non mi lasciano
disperare di certo a tempo pieno).
[  ]
A proposito di disperazione: oggi si va a votare;
ma io no, così da tempo ho deciso.
«Allora devi stare zitto,
non ti puoi lamentare».
E chi si lamenta.
Io affermo, io asserisco,
io subisco l'ordine
parlamentargovernativo.
Io sono incudine!
 
La rappresentanza non mi interessa,
e non voglio rappresentare.
Bocciato il pensiero liberale,
se considero il linguaggio di molti
autori marxisti mi manca il respiro.
Potrei anche condividere
molte cose, ma l'aria è tutto.
Così preferisco le soleggiate
scampagnate fuori porta delle dolci
correnti libertarie.
 
Adesso posso dirlo caro Errico,
e non si tratta di una semplice opinione:
tra una mite utopia e la cruda
certezza dei macelli scelgo
la prima e incasso.
 
Concludendo, noto che in tv
stanno da tempo sibilando i draghi;
io non sono (ahi me) l'arcangelo Michele,
ma dico amichevolmente ai miei nemici:
tenetevi il PIL,
scopatevi il PIL,
impiccatevi al PIL.
 
Grosseto, 03.10.2021, sul divano, ore 21.00-22.00.
 
 
 
 
 
 
 


[1] Dante, Commedia.
[2] K. Kraus, Detti e Contraddetti.

l’invenzione dell’egoismo

di    Paolo Di Marco

Ju/'Hoansi del nord Kalahari

1- le tribù dei raccoglitori-cacciatori
Nell’Aprile del 1966 la conferenza ‘Man, the Hunter’ (l’uomo, il cacciatore), convocata a Chicago dall’antropologo Richard Lee fu molto affollata; si era sparsa la voce che i risultati presentati sarebbero stati sorprendenti. Partecipavano i classici rappresentanti dell’antropologia accademica, compreso Levi Strauss, ma anche molti dei giovani antropologi che negli anni ’60, stanchi della pochezza dei dati forniti dagli studi archeologici avevano deciso di buttarsi nel campo a studiare i pochi sopravvisuti dei popoli di raccoglitori-cacciatori dell’antichità.
In quel periodo la saggezza convenzionale era che i popoli primitivi vivessero una vita di stenti, passando tutto il tempo a cercare uno scarso cibo che raramente li sfamava e morendo giovani sempre di stenti. E che quindi i pochi rimasti fossero un caso fortuito di nicchie di miserabile sopravvivenza.
Insieme a Lee che era stato nel Kalahari tra i Ju/‘Hoansi c’erano antropologi che avevano seguito lo stesso percorso nell’Artico, in Australia, in Asia sudorientale. E furono tutti concordi nel rovesciare il paradigma: nonostante la siccità che nello stesso periodo aveva costretto le popolazioni agricole della zona a sopravvivere di aiuti paracadutati, gli Ju/‘Hoansi avevano mantenuto un livello ottimale di alimentazione di 2104 calorie al giorno (il 10% in più di quanto oggi si raccomanda per persone della loro statura).
E questo con uno sforzo modesto: procurando il cibo 17 ore la settimana (esclusi anziani e bambini) e facendo altre attività (dal cucinare al riparare gli utensili) per 20 ore. Una media pari alla metà di un adulto americano.
E nonostante Lee avesse i conti più dettagliati la sostanza della sua analisi era condivisa da tutti gli altri antropologi sul campo.
Per inciso, come già rimarcato ne ‘Il giardino dell’Eden’, la vità della tribù era improntata ad una prassi rigorosamente comunitaria, senza proprietà privata né gerarchie di alcun tipo.
Per 300000 anni questo tipo di vita continuò con successo; i reperti archeologici mostrano che le comunità erano durevoli e mantenevano le stesse dimensioni, senza quindi carestie nè eccessi.
E non venivano neppure create riserve: ogni giorno si raccoglieva/cacciava solo ciò che serviva nell’immediato. Ed era una scelta precisa.
Per comprenderla occorre guardare all’ambiente come parte integrante ed attiva della comunità. Mentre Conrad nel suo Cuore di Tenebra, in preda alle allucinazioni della malaria e della dissenteria, descriveva la foresta intorno a lui come incubo vivente, popolato di bruti e di istinti dimenticati (ma nel mezzo del più brutale e vigliacco saccheggio che i bianchi abbiano mai perpetrato, grazie al re Leopoldo), i BaMbuti, che questa stessa foresta abitavano, la descrivevano come madre amorevole e protettrice.
In un rapporto di scambio reciproco ed equilibrio che il sovrasfruttamento o la sovrappopolazione avrebbero spezzato, minando la sopravvivenza stessa del popolo.

BaMbuti del Congo

2- le tribù degli economisti
In quel convegno erano presenti anche gli antropologi sociali che si occupavano di economia, divisi nelle due tribù dei formalisti e dei sostanzialisti.
Per i primi le economie primitive come quella dei Ju/‘Hoansi erano versioni elementari delle economie capitalistiche, basate sugli stessi impulsi e desideri primitivi, e alla base l’elemento universale che le accomunava erano la scarsità e la concorrenza. La definizione di economia come allocazione di risorse scarse diventa fatto naturale. La concorrenza e la volontà di ciascuno di perseguire il proprio interesse innanzitutto diventano anch’essi istinti e tendenze naturali. (Per gli economisti marginalisti).
I sostanzialisti, il cui rappresentante più interessante è Karl Polanyi vedono piuttosto come universale l’hybris dei sostenitori dei mercati e la razionalità della concorrenza come un sottoprodotto culturale dell’economia di mercato.
Al convegno era presente Marshall Sahlins, con qualche esperienza sul campo ma ferrato nelle questioni di economia, e la sintesi che ricava è sostanzialista: gli Ju/‘Hoansi erano la vera ‘società del benessere’.
E in effetti è stata l’economia di maggior successo della storia umana: per 300000 anni gli uomini sono stati bene, hanno lavorato poco, si sono spartiti equamente i prodotti del lavoro, sono stati in equilibrio fra di loro e con l’ambiente.

3- libertà vo cercando..
Mentre questo avrà sviluppi importanti per la teoria economica val la pena soffermarsi su come l’ideologia abbia falsato la nostra immagine del mondo e dell’uomo stesso, dando come elementi costitutivi della natura umana elementi che erano invece culturalmente indotti o semplicemente ipostatizzati.
Ed è ancora strettamente legata all’economia, reale e definita, l’idea di libertà che viene declinata in tutte le forme e accenti.
Mi resi conto di quale groviglio di elementi comprendesse quando tantissimi anni fa, supplente in un Istituto Tecnico in un periodo di agitazioni e occupazioni, diedi ai miei studenti un tema sul potere apparentemente semplice: ‘elenca tutte le persone che hanno potere su di te’. Ne venne di fuori di tutto: dai genitori al bidello agli insegnanti al bigliettaio del tram al prorietario della casa dei genitori al poliziotto ai vigile al finanziere che speculava sui terreni vicino a casa al prete al segretario della sezione giovanile a…..
Personaggi abitanti livelli diversi, con ruoli diversi, con cui però le sue possibilità di scelta si incontravano/scontravano. A volte direttamente, altre solo da lontano.
Ma se vogliamo portare avanti un discorso che non veda la libertà come pulsione interiore o ideale ma come fatto concreto dobbiamo iniziare a misurarla con le scelte possibili, un po’ come fa la definizione di informazione. E quindi rapportarla a tutti i cammini e i bivi di questi su ognuno dei piani che compongono la nostra vita.
Sembra complicato, e questo è però anche il nocciolo del discorso: viviamo in una società complessa, il cui funzionamento è legato all’interazione tra tutti i suoi elementi. Immaginare che ci sia una definizione semplice è illusorio. Immaginare che esista ‘la libertà’ è illusorio.
Se riguardiamo l’insieme dei cammini su piani diversi di cui è composta la nostra vita, e di tutte le scelte che su ognuno di essi possiamo fare, quand’anche dessimo massimo peso a un piano o un altro non possiamo che immaginare la libertà come una tabella di valori che bene o male vorremmo massimizzare. Senza ancora tener conto del peso di queste scelte sugli altri, di quanto siano accettabili per loro e anche per noi.
Dato che bene o male sopravviviamo ci siamo costruiti fin dall’infanzia una serie di meccanismi automatici, di abitudini, o altri le hanno scelte per noi e sono diventate parte di noi. Come per il multiverso le molte scelte possibili può darsi che si semplifichino, riconducano a pochi elementi, ma assai difficili da valutare.
Pensiamo nella storia degli Stati Uniti a due tipi di anarchici: quelli ‘di destra’ del Texas, alla Clint Eastwood, cresciuti fieri della propria indipendenza, convinti di essere autosufficienti senza bisogno né di altri né di autorità né dello Stato. Chiudendo gli occhi al fatto che la luce, le strade, le ferrovie, le automobili, i fucili glieli forniscono altri, che la loro autosufficienza è più uno stato dell’animo che un fatto reale. E che la terra su cui galoppano è stata rubata ai messicani e agli indiani.
E i wobblies, gli anarcosindacalisti rivoluzionari dell’IWW (l’erede della Prima Internazionale), convinti che la propria libertà è solo il frutto di una storia e una lotta collettiva, che nelle miniere e nelle fabbriche lottano per la libertà di sindacato e per una paga e una vita non ancora libera ma degna di essere vissuta.
Nei due casi condizioni materiali ed economiche diverse creano le basi per due idee di libertà antinomiche, al di là delle pulsioni individuali.
Ma il convegno di Chicago ci ha insegnato una cosa: non fidarsi mai quando ci dicono che qualcosa è innato, che fa parte della nostra natura. La gran parte dei nostri ‘istinti’ sono prodotti culturali: non siamo né lupi per gli altri uomini né pusilli atavici: possiamo cooperare o possiamo scannarci, non siamo costretti dalla nostra natura a scegliere nessuna delle due vie.
E così la ‘libertà’ è spesso vessillo per tutt’altro, dimenticando ogni volta nel modo più conveniente tutti gli strati di scelte da cui è composta. E riducendone dimensioni e scelte in modo tale da renderla una (minuscola) caricatura (come nel caso del bollino verde).
È anche stato di voga per qualche tempo parlare del ‘carattere’ degli italiani (come del resto di altri popoli), volta a volta poetico o codardo od opportunista: facile modo di eludere un’analisi delle condizioni materiali delle scelte e delle forze in gioco. Ma involontariamente forse rafforzando i pregiudizi ottocenteschi, dal positivismo lombrosiano alle superiorità razziali..fino alla naturalità del capitalismo e del suo mercato dai denti affilati.

La difficoltà di conciliare egualitarismo e libertà individuale nei raccoglitori-cacciatori è stata risolta riducendo al minimo la complessità: l’orizzonte temporale è ridotto al solo giorno della raccolta/caccia; non ci sono pianificazioni né le gerarchie che ne conseguono, non ci sono provviste colle funzioni aggiuntive che implicano. E la libertà dell’individuo di muoversi come meglio gli aggrada viene compensata dal sistema della ‘condivisione su domanda’ (demand sharing): quando qualcuno ha oggetti che interessano ad altri, e questi glieli chiedono, la norma sociale (la ‘buona educazione’) richiede di accontentarlo. Cosicché l’egualitarismo è assicurato.

In un sistema complesso questo equilibrio non funziona più: tribù più grandi (come quelle del Nord America ricco di salmoni) hanno introdotto la conservazione del cibo e le gerarchie.   C’è quindi un ultimo elemento che va detto sulla libertà oggi: se è composta di molte scelte il suo esercizio comporta molte conoscenze. E c’è quindi un’asimmetria inevitabile tra sapienti ed ignoranti.
Varrà questo sempre, anche in un altro tipo di società? Probabilmente no, perché nel caso che il nostro mondo sopravviva e nell’improbabile eventualità di un’uscita dal capitalismo cesserebbe quello che Marx chiamava il ‘regno della necessità’ e con esso la gran parte delle interdipendenze che ci legano. Il numero di piani e di cammini sarebbe cioè drasticamente ridotto, e molte delle scelte possibili sarebbero a somma positiva (io guadagno, tu guadagni) invece che a somma zero (io guadagno, tu perdi). Tornando ad una situazione analoga ai JU/’Hoansi. Si potrebbe allora parlare di libertà vedendola anche.
Altrimenti qualcuno potrebbe accontentarsi di quell’uscita dalla necessità che è l’uscita dal samsara, dal ciclo delle reincarnazioni o dalla ruota del tempo…ma lo vedo come un percorso molto privato.

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Tutti i dati di quest’articolo provengono dal libro :

James Suzman, Work, PenguinPress 2021

Il giardino dell’Eden

uscire dal tempo, 2

di Paolo Di Marco

1                  il plusvalore

Possiamo leggere la storia degli ultimi secoli come una progressiva espropriazione del proprio tempo, trasformato in tempo di lavoro collettivo controllato dal capitale.
Marx è l’ultimo economista che si occupa dell’origine del profitto (tema centrale dell’economia classica sino a Ricardo), e la sua analisi parte dalla giornata di lavoro, il cui tempo viene diviso in due parti:
una in cui il lavoratore lavora per sé, l’altra per il padrone. Questa seconda dà origine al profitto. Continua la lettura di Il giardino dell’Eden