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La necessità è un caso: le frecce spezzate

di Paolo Di Marco

Ho aggiunto all’articolo sulla bomba un pezzetto che riprende un articolo sul Bullettin of The Atomic Scientists, (‘Interview with Eric Schlosser’) a proposito di tutti gli incidenti avvenuti con le bombe (chiamati in gergo ‘freccie spezzate-Broken Arrows’) e di cui non si parla mai, ma il cui sunto è: se la probabilità è, anche se piccola, maggiore di 0, significa che può sempre succedere. E che con la quantità di bombe esistenti e l’aumento dei paesi che le fanno prima o poi succederà.    Ho anche aggiunto lo schema del detonatore, che ne mostra insieme il livello di sofisticazione (32 detonatori messi sequenzialmente in funzione in meno di un microsecondo) ma anche la vulnerabilità …

Stretti Perigliosi

di Paolo Di Marco

1- Qualche nota a partire dal dibattito Rovelli-Sofri

L’intervento di Rovelli sulla pagina FB di Sofri (qui) ha un tono molto pacato ed anche accorato, esprime concetti e riflessioni che potremmo dire di grande buonsenso e largamente condivisibili anche da chi ha sensibilità diverse.
D’altro tono la risposta di Sofri (qui),  assai elaborata, studiata ad arte direi. Continua la lettura di Stretti Perigliosi

Exodus

di Paolo Di Marco

1- la fuga

Nel 2017 Douglas Rushkoff viene invitato a tenere una conferenza lautamente pagata sul futuro della tecnologia ad un gruppo di banchieri. Quello che si trova davanti non è un convegno ma una riunione privata con 5 dei più ricchi gestori di fondi di investimento del pianeta.
E le domande si focalizzano su un tema preciso: cosa fare dopo l’Evento (1).
E in termini molto dettagliati, tipo come conservare la fedeltà delle guardie private quando il denaro non avrà più valore.
Loro, come gli altri miliardari, sono convinti che il loro potere e ricchezza non possa fare nulla per cambiare questo destino. Il loro problema si riduce a come fuggire.
Chi come questi in un bunker sotterraneo protetto militarmente, altri come Musk in una colonia marziana.
Sulla stessa falsariga solamente personale, anche se non legata immediatamente all’Evento, la lotta all’invecchiamento di Ray Kurzweil e Sam Altman mediante trapianti di coscienza all’interno di supercomputers, o il rovesciamento dell’invecchiamento di Peter Thiel col 3TBioscences e degli Altos Labs di Yuri Milner e Jeff Bezos.
(Stiamo parlando degli uomini più ricchi del pianeta).
Che loro personalmente ci possano fare poco è scritto nella struttura del capitale finanziario di oggi, così diffuso da aver inglobato i risparmi della gran parte dei lavoratori, sia tramite i fondi pensione come negli USA sia tramite tutte le agenzie bancarie o simili dei nostri paesi: finchè garantiscono un rendimento sufficiente i dirigenti restano a galla, ma se con investimenti nel rinnovabile affossano l’indice S&P di cui Exxon &C sono parte fondamentale e con esso i rendimenti, nel giro di 12 ore loro saltano per aria; con grida di giubilo da parte anche di molti che mi leggono che vedono salvi i loro sudati risparmi.
Ma questo non toglie che questi signori assomiglino assai a uno Schettino, che prima manda la nave sugli scogli e poi scappa con la prima scialuppa.
Ma ormai l’indignazione non è più di moda.
Così come quel benemerito tipo di deterrenza descritta nel ‘Ponte sulla Drina’.
Se per un attimo passiamo oltre l’abiezione morale di questi personaggi, che non è certo fatto individuale ma ormai legge fondante del capitalismo, le loro evasioni gettano una luce interessante sulle strade che la scienza ci apre per il futuro (inteso non tanto come tempo reale ma solo come direzione); e anche su come la loro selezione non sia certo un processo neutrale e indipendente dagli appetiti dei finanziatori.

2-qualche dettaglio

a) La rigenerazione del corpo è diventato un terreno caldissimo da quando il Nobel 2012, Shin’ya Yamanaka, ha scoperto 4 fattori di trascrizione che fanno tornare delle cellule già differenziate allo stato originale pluripotente, invertendo il processo di invecchiamento. Ci si sono buttati a decine, con finanziamenti miliardari. Ma c’è un piccolo problema: le cellule pluripotenti danno origine, quasi sempre, a tumori. E anche fermando il processo un poco prima della pluripotenza il rischio, anche se ridotto, rimane.
Ma forse c’è una strada -che offro gratuitamente perché contiene un esemplare insegnamento (2):
il problema, che mette in luce Paul Davies (nel suo Demon in the Machine) è lo scontro tra due fasi della cellula: quello atavico dell’organismo monocellulare, il cui meccanismo è centrato sulla massimizzazione della riproduzione e la difesa dalle aggressioni esterne, la fase egoistica; e quella dell’organismo pluricellulare dove viene massimizzata la cooperazione tra le cellule diverse, la fase collaborativa. Quando la cellula di un organismo pluricellulare è sottoposta a un attacco (stress, sostanza nociva,..) che l’organismo non riesce a bloccare in tempi brevi tende a ritornare alla fase atavica (‘ipotesi atavistica dei tumori’) e a riprodursi per conto proprio reagendo all’organismo combinato come contro un’aggressione esterna.
Questo scontro si risolve solo se tutte le cellule tornano a cooperare abbandonando la fase atavica. E se si trova un metodo per forzarle a farlo e insieme insegnarglielo.
Il modo più semplice è quasi-affamarle, cioè portarle ad una fase al limite della sopravvivenza (il che per inciso è anche una spinta alla rigenerazione) e nel contempo offrigli nutrimento unicamente mediante la cooperazione con le altre (a.e. vascolarizzazione controllata).
Quando il tumore nasce già in risposta ad uno stress quasi mortale questa strada appare difficile da praticare: sarebbe aggiungere stress a stress.
Ma nel caso dei tumori da cellule totipotenti la fase di ‘costrizione/insegnamento alla cooperazione può accompagnarsi subito al ‘risveglio’ della cellula, che non ha ricevuto stress ma è solo all’inizio ‘egoistico’ del suo percorso.
Difficile pensare che questa strada appaia lucidamente a ricercatori impegnati a fondare aziende, aziendine, startup per trarne il massimo profitto individuale. E difficile pensare che il giorno che la vedessero possano cogliere l’ironia della situazione.

b)Il ritorno all’analogico è la novità rivoluzionaria e per ora poco pubblicizzata nel campo dei calcolatori.
Nasce dalle reti neurali e dalla loro insaziabile tendenza a crescere di dimensioni, ponendo problemi pesanti di costi monetari ma anche termodinamici (milioni di calcoli fatti in fretta generano parecchio calore, che è sempre più difficile smaltire).
E tutto perché il calcolo è ancorato al paradigma digitale: tutti i calcoli per quanto complessi devono venire scomposti in unità elementari fino al punto dell’unità base, la scelta tra 0 ed 1. E più i calcoli sono complessi più passaggi ci vogliono.
Il 26 Gennaio ’22 rientra ufficialmente l’analogico: con un commento su Science di M. Hutson e con la pubblicazione dell’articolo di L. Wright, T. Onodera et al. dove si introduce l’addestramento delle reti neurali mediante un meccanismo di carattere fisico.
Conviene fare un passo indietro: le reti neurali sono programmi che simulano il funzionamento del cervello; se vogliamo che riconoscano le facce si addestrano fornendogli tantissime facce e premiando le configurazioni che danno le risposte migliori; si scartano le configurazioni peggiori e così via, generazione dopo generazione, fino ad arrivare al grado di precisione richiesto: il programma si comporta come generazioni successive di bambini addestrati solo a riconoscere immagini.
Se vogliamo previsioni metereologiche cambiano solo le informazioni iniziali e i dati forniti.
Cosa vuol dire che torniamo all’analogico? Se qualcuno va a rivedere i miei scritti recenti troverà due buoni esempi: L’Orgoglio di Cardano (che è qualcosa di più di un racconto di fantasia) e il Calcolatore Quantistico ad Acqua (3): in entrambe i casi i calcoli non prevedono 0 ed 1 ma gli stati dell’acqua in un caso, delle pulegge e delle corde nell’altro.
L’articolo di Wright prevede che le configurazioni, gli stati del calcolo, vengano codificati negli stati di un sistema fisico, che può essere di molti tipi diversi. (Per l’acqua abbiamo grandezze semplici e derivate: pressione, velocità, flusso, colore….e le loro combinazioni). Anche se il commento di Hutson accenna a una miriade di sistemi fisici potenzialmente utilizzabili, l’articolo originale è ancora un poco timido, ché parte e arriva alle sole reti neurali, non solo, ma vede il sistema fisico come approssimazione del calcolo digitale originario. Ma sappiamo che i sistemi analogici possono fare molto di più e sostituire del tutto anche concettualmente la fase digitale. Occorre però riabituarsi a programmare in maniera diversa. (Un poco come il ritorno del disco in vinile..).
E, certamente del tutto involontariamente, questo percorso dà anche una risposta a uno dei problemi del Dopo: cosa faremo senza energia elettrica e senza calcolatori? Basta un poco di acqua e corde….

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Note:

1-È l’eufemismo da loro usato per il collasso ambientale/la guerra nucleare/l’epidemia inarrestabile/l’intrusione informatica totalmente distruttiva…in sostanza il punto di non ritorno; quello che la scienza inascoltata ci avvisa che il pianeta ci riserva per i prossimi decenni, quello che l’orologio del Bulletin of the Atomic Scientists pone fra 100 secondi (simbolici ma vicini). Che la gran parte dei governi, col nostro allegramente in testa, faccia finta di nulla, lanciando promesse vacue e pensando al PIL, mostra come oggi la definizione dei governi come comitati d’affari della borghesia sia ancora eloquente anche se abusata. E per chi è incline alle antiche scritture ci mostra come la miopia del profitto e della borghesia inveri il vecchio detto ‘dio acceca chi vuol perdere’. Anche se non si capisce perché insieme a loro voglia perdere anche noi.

2-anche se rivendico una parte del Nobel che ne seguirà

3-per questo c’è anche un articolo scientifico in corso; e rivendico questa mia priorità anche per il Nobel che andrà a premiare questa riscoperta;
mi rendo conto che due Nobel in una volta possono sembrare eccessivi, ma l’Accademia svedese volendo può sempre trovare il modo……

Riferimenti

Douglas Rushkoff, Survival of the Richest, Medium, 5/7/2018 (Team Human, Norton, 2019)
Matthew Hutson, Everyday objects can run artificial intelligence, Science, News, 26/1/2022
Wright L., Onodera T. et al, Deep physical neural networks trained with backpropagation, Science, 26/1/2022
Paul Davies, The Demon in the Machine, Penguin 2017

 

 

 

 

anno nuovo, vecchie trappole

 

la fusione nucleare come risposta energetica al riscaldamento globale

di Paolo Di Marco

Oltre ai piccoli reattori a fissione rispunta all’orizzonte la fusione. Ne parla anche Luigi Vinci (qui, a cui risponde Carlo Dario Ceccon, qui, in quello che è nella sostanza un panegirico di Draghi che ci fa mangiare alla tavola dei ricchi) e compare anche ogni tanto nei discorsi di Cingolani, che va detto che se  sembra più un propagandista ENI che un ecologo è perché sente nel governo un ambiente propizio.
La fusione: unire due atomi piccoli (idrogeno o suoi isotopi) e utilizzarne l’energia; come il sole, ci si dice.
E qui scatta la prima trappola, ché ci sentiamo subito tutti uniti come un sol uomo, l’homo onnipotens.
Ma dobbiamo guardare meglio cosa serve per unire gli atomi, perché l’avvicinamento richiede di vincere una resistenza enorme, quella all’origine di quanti:

dp*dm>h —>dp>h/dp   ,  dm=0 —>dp=∞

( —> equivale a  implica)

È il principio di indeterminazione, che tradotto in parole ci dice semplicemente che, data una particella, non possiamo sapere contemporaneamente con esattezza (d sta per differenza, quindi dp significa differenza di posizione e dm differenza di momento) la sua posizione e la sua energia (momento). È come se la particella occupasse non un punto ma un   intero cerchietto. Ma non è un sapere astratto bensì una cosa molto concreta: se diminuiamo il raggio del cerchietto la particella si agita sempre di più. E quindi è come se occupasse più spazio.
Non vorrei che a qualcuno venissero le vertigini, ma è il motivo per cui non passiamo attraverso il pavimento: i nostri atomi hanno tra di loro un sacco di spazio vuoto -e lo stesso quelli del pavimento; camminare dovrebbe essere come passare il pettine tra i capelli, ma invece gli atomi del pavimento non si scostano per far passare quelli dei nostri piedi (e se lo fanno aumentano il movimento quindi rioccupano più spazio…).
Se allora torniamo agli atomi di idrogeno della fissione per vincere l’indeterminazione serve un’energia, moltissima energia. Per immaginare quanta torniamo alle stelle: la loro vita dura quanto il combustibile che hanno (l’idrogeno all’inizio poi via via gli atomi più grandi) e che fornisce agli atomi l’energia per rimanere distanti; finita quella la gravità della stella prevale, vincendo tutte le resistenze, condensando sempre più la materia, finché vince anche la resistenza dell’indeterminazione e diventa una stella a neutroni o, se la massa è almeno 4 volte quella del sole, un buco nero. Nello stadio finale è come se ogni atomo avesse sopra di sé tonnellate e tonnellate di materia che lo schiacciano. L’energia che dobbiamo fornire agli atomi per la fissione è di questo ordine di grandezza, anche se qui si tratta di avvicinare.
Per il sole è facile, con densità e temperature altissime e tempi di confinamento infiniti, così il prodotto è un innocuo elio.
Ma le forze che abbiamo a disposizione sulla terra: campi magnetici fortissimi, raggi laser, non sono abbastanza per l’idrogeno.  E allora bisogna usare degli isotopi più pesanti deuterio e trizio (con numero di neutroni doppio o triplo) che sono molto più reattivi. E possiamo anche limitarci a vincere la repulsione elettrica, fino al punto di vicinanza in cui la forza forte terrà insieme le particelle.

Solo che qui cominciano i guai, perché:

  • l’80% del prodotto sono fasci di neutroni ad alta energia che danneggiano le strutture, producono scorie radioattive, generano forti danni biologici e, dulcis in fundo, potenzialmente plutonio 239, ottimo per le bombe.
  • più gli inconvenienti dei reattori convenzionali a fissione: l’uso di un combustibile che non esiste in natura, il trizio, che va rigenerato continuamente dal reattore stesso, e assorbimento di energia parassitica che ne riduce drasticamente la produzione (e che quando il processo di fusione è interrotto va prelevato dalla rete); questo implica una dimensione minima di convenienza che supera i 1000 MW

Gli esperimenti in corso stanno arrivando al limite della soglia netta di efficienza, dove l’energia prodotta è maggiore di quella immessa. Ma prima che questo percorso arrivi al livello di prototipi operativi passeranno ancora almeno 10 anni, superando la data limite del 2030. Almeno altri 10 anni per arrivare ad una operatività effettiva, con dei costi enormi e dei risultati inutili ai fini dell’elettricità prodotta: già adesso calcolabile intorno a 1/4 delle energie rinnovabili, per allora a 1/10. (Questo nell’ipotesi che tutto funzioni secondo previsioni, cosa che per gli ultimi impianti nucleari costruiti non è risultata vera: 10 anni in più e costi quadruplicati per le ultime centrali a fissione). E quello che ancora non si sa è quanta energia elettrica potrà essere concretamente ricavata, dato che per ora l’esemplare più grande, ITER a Cadarache, consuma 500 MW per produrre solo neutroni veloci; la seconda parte, dai neutroni all’elettricità, è ancora sperimentalmente indeterminata.

L’esperimento ENI/CFS, analogo a ITER ma con magneti superconduttori, ha le stesse problematiche, anche se i comunicati stampa ignorano tutti i particolari e riportano date il cui unico fondamento è l’ottimismo della volontà.
E poi c’è la seconda trappola: il punto di vista.
Per le industrie l’energia nucleare è una prospettiva entusiasmante: un sacco di soldi da fare nel venderle (con costi di ricerca in larga parte a carico nostro), un sacco di soldi per l’energia immessa in rete (che paghiamo noi).
I costi nascosti, come la gestione degli incidenti e lo smaltimento delle scorie radioattive, sono ovviamente sempre a carico nostro. Lo sa bene la Westinghouse che per aver fatto un contratto dove se ne accollava in parte i costi si è dovuta cautelare con una procedura fallimentare, dato che per due centrali chiuse sono accertati al momento centinaia di miliardi di costi di smaltimento.
In sostanza abbiamo una sola strada per affrontare a testa alta il riscaldamento planetario: le energie rinnovabili. Coi soldi necessari al nucleare se ne costruiscono abbastanza, accumulo incluso, da superarne i limiti di periodicità (l’eolico, i sistemi di accumulo, l’idrogeno da elettrolisi fotovoltaica compensano i limiti del fotovoltaico puro).
Il guaio è che la barca viene condotta da chi per natura guarda al profitto e da chi è educato ad assecondarli, …e per il resto di noi vale il motto ‘burn, baby burn’.

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Fonti del ‘Bulletin of the Atomic Scientists’ , 2017, 2018

https://thebulletin.org/2017/04/fusion-reactors-not-what-theyre-cracked-up-to-be/(Daniel Jassby, Princeton Plasma Physics Lab)

https://thebulletin.org/2018/02/iter-is-a-showcase-for-the-drawbacks-of-fusion-energy/(Daniel Jassby)

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