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Angelica De Gianni: «Tra (me E me). Un dialogo interiore»

di Donato Salzarulo

1.- Non conosco Angelica De Gianni. In quarta di copertina leggo che è nata a Bisaccia (quindi, è mia compaesana) ed insegna materie letterarie. Ha studiato a Napoli presso l’Università Federico II e, dopo la laurea in Filologia classica, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Papirologia. Durante questo percorso ha lavorato un anno in Baviera, presso l’Università di Würzburg. Ottimo.

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“Il Ballo” di Irène Némirovsky


di Teresa Paladin

Ecco alcuni spunti di riflessione che Teresa Paladin ha suggerito durante l’incontro del nostro gruppo di lettura all’Associazione il Giardino di Figline Valdarno, giovedì 25 novembre, parlando di un racconto per certi versi esemplare, come può esserlo Il ballo, di Irène Némirovsky. Tra i partecipanti al gruppo si è accesa una vivace discussione, racconto e temi trattati davvero stimolavano. (A.A.)

In un salotto di “nuovi ricchi” inizia la storia, con la Signora Kampf teatrale nell’aprire la porta tanto da far tintinnare le gocce del lampadario di cristallo. La figlia di 14 anni, Antoniette, è subito aspramente rimproverata perché restia ad adeguarsi alle nuove norme comportamentali adottate dal mondo dell’alta borghesia ma molto distanti rispetto alle umili origini della famiglia.
Il conflitto madre/figlia è evidente fin dal principio, e mentre Antoniette accetta la pantomima materna impostale, una sorta di recita di buona educazione comportamentale, sente ritornare dentro di lei quell’avversione profonda verso gli adulti che a volte le occupa la mente. In ambito adolescenziale gli sbalzi umorali sono la regola, ma qui troviamo una ragazzina che in realtà ha timore, “paura” degli adulti, sentimento che ha iniziato a provare da quando era finito il tempo delle carezze e dei baci e la voce irritata della madre la brontolava frequentemente.
Una mamma scontrosa, vanitosa, “gelosa” della sua bimba in fase puberale, tutta centrata sull’aspirazione a vivere la sua nuova posizione sociale repentinamente arrivata per un colpo di fortuna speculativo.
E mentre la signora Kampf sta attendendo questo ballo che la consacrerà nell’ambito dei salotti altolocati parigini come parte dell’aristocrazia finanziaria, la figlia è costretta a una educazione rigida e priva di libertà: Antoniette si sente così trascurata mentre sta ricercando la sua quota di felicità negata dall’ intransigenza materna.
Il ballo è la storia di questa attesa dell’evento celebratore dei nuovi fasti della famiglia Kampf, in una villa dove vasellame, musicisti e domestici costituiscono una coreografia studiata nei minimi dettagli e supervisionata dall’organizzatrice dell’evento.
Ma c’è un altro significato da assegnare al titolo: il ballo vero è quello che si gioca tra madre e figlia, in un crescendo di tensione fino allo scioglimento finale.
Una madre che si rivede nella figlia: quando aveva la sua età anche lei era recalcitrante e piena di vitalità! Una figlia che a piccoli passi scoprirà la somiglianza gestuale con la madre, restandone basita ma forse anche ciò le darà sicurezza emotiva e capacità di intraprendenza.
Il rapporto madre/figlia, strutturale nell’adolescenza e che per certi versi segna la vita, è ovviamente destinato a mutare: una madre che sta invecchiando, una figlia che sta sbocciando al futuro, una gelosia che vorrebbe impedire l’esplosione della giovinezza nell’arco di una settimana imboccheranno sentieri imprevisti.
Dalle schiavitù e dalle prigioni, ingegnandosi, si può uscire, suggerisce la Némirovskj, e la notte narrata nel testo è proprio l’inizio del passaggio, della crescita di Antoniette.
Temi dominanti del racconto sono l’invidia e la paura, l’ansia e la ricerca di felicità, che legano e dividono le due figure femminili, ma anche il desiderio di emozioni erotiche.
Splendidamente cinematografica la scena della vestizione della signora Krampft che indossa di tutto: anelli, perle, bracciali, la vanità completamente soddisfatta, la vera vita cominciava… e sogno dell’amante giovane e bello a completamento della sua ascesa repentina e fortunata a livello sociale spazia con leggerezza nei suoi pensieri. Meraviglioso all’interno del testo, nello spannung dell’attesa, il parallelismo sonoro che rimbomba nella casa, splendide sonorità degli orologi e campanone della chiesa cupo, mentre anche la voce diventa umana diventa rauca… Némirovskj gioca con le atmosfere ambientali, musicali, antropologiche perché la rete delle assonanze sottolinea l’attesa di un trionfo che tarda ad arrivare.
Nell’attesa del ballo, in un climax di nervosismo si inserisce la tematica dell’ipocrisia sociale, in un confronto sulla punta di scarpette da ballo per così dire, tra la signora Kampf e Isabelle, un trionfo della competizione tra donne legata alla gelosia, mista a falsa pietà, esibita e mielosa considerazione in una commedia recitata fino in fondo.
L’allontanamento della dominanza della figura materna conduce ad ogni buon grado Antoniette a spiccare il volo e a spalancarsi in modo nuovo al mondo degli adulti, col ribaltamento finale delle prospettive: e mentre la paura scompare, appare nella ragazza la consapevolezza della fragilità di tutti gli esseri umani, adulti compresi!
Un grande affabulatrice di immagini e dettagli ripresi dalla vita quotidiana, la Némirovskj, che pare abbia in qualche modo ripreso la figura della madre reale in questo rapporto tra Rosine e Antoniette, come spesso accade in letteratura, in cui modelli e comportamenti dietro l’immaginazione letteraria nascondono spiragli di vita vissuta.

Il mio maestro

NOTE DI FINE ESTATE (5)

di Donato Salzarulo

 “Il mio maestro” nasce sull’onda del movimento di protesta anti-Gelmini. Tra le pagine circola affetto nei confronti di una persona che si è preso cura di un allievo, ma l’esperienza educativa, svoltasi in un tempo e in un luogo e con precise modalità, mostra tutti i suoi limiti psico-pedagogici, didattici e culturali. I momenti più felici e più significativi, si sostiene, sono quelli in cui la relazione educativa è altro: assistenza in Biblioteca, timbratura di libri al Patronato, passeggiata, ecc.
Pur con tutta la nostalgia per la propria infanzia e per le persone incontrate, se ne deve concludere che il “maestro unico” era soluzione educativa ed organizzativa inadeguata già negli anni Cinquanta-Sessanta, in un paese prevalentemente agricolo e culturalmente autoritario. Figurarsi oggi, nella “società della conoscenza”!

Ho avuto un maestro unico. Ho avuto uno dei maestri migliori del mio paese. Forse il migliore in assoluto. E l’ho avuto – che culo! – per cinque anni, dalla prima alla quinta, dal primo ottobre 1955 al trentuno maggio 1960.
Aveva tra l’altro un cognome su misura: Lapenna. Antonio Lapenna. Esattamente come l’omonimo ancora vivo, il grande latinista che insegna all’Università di Firenze. Anche lui del mio paese. Bisaccia, modestia a parte, è fucina di cervelli!
Quindi, ho avuto un maestro unico. Un maestro rimasto celibe per tutta la vita, un maestro che abitava nella casa della sorella Resuccia (diminutivo credo di Teresa). Anzi “zia Resuccia” perché, come ho scritto in altre pagine, al mio paese tutti i fanciulli chiamavano zii gli adulti. Il maestro ovviamente era il Signor Maestro.
Al Signor Maestro io obbedivo e, quando lo incontravo a passeggio sul corso del paese, lo salutavo rispettosamente: “Buon giorno Signor Maestro!” o “Buona sera, Signor Maestro!” E lui, serio, mi rispondeva “Buon giorno!” o “Buona sera!” e io coglievo un sorriso nei suoi occhi e all’angolo della sua bocca.
Se mi chiedeva di fargli qualche servizio, io mi precipitavo. Poteva essere l’andare all’Ufficio Postale a fare un versamento, a spedirgli un pacco (aveva parenti in America) o l’andare dal giornalaio. Come potevo non obbedire al Signor Maestro? L’unico modo era scansarlo, cambiare strada se riuscivo a vederlo prima, non visto.
Il Signor Maestro, quasi ogni giorno passeggiava sulla piazza del Duomo, su e giù, vicino ai gradini della chiesa. D’autunno e d’inverno, lo faceva nel primo pomeriggio; di primavera e d’estate, a pomeriggio inoltrato. Io lo sapevo e, per quanto possibile, me ne stavo alla larga. Non ero mica scemo!

Il mio maestro era virtuoso: ad esempio, non fumava. Forse non beveva neanche vino, a differenza di me che lo sorseggiavo già a sei anni. Mia nonna e mia zia me lo davano caldo anche per curarmi la tosse. Però, questo dettaglio ora mi sfugge. Sicuramente il mio maestro beveva latte e acqua minerale di Monticchio.
Quando, passeggiando tra i banchi, quelli di legno a doppio posto con la pedana e il buco per il calamaio, si avvicinava al mio collo, dietro le spalle, per scrutare eventuali errori nei miei dettati, sentivo il suo respiro di latte. Buono!, pensavo. Diverso dal trinciato di mio padre che arrotolava nelle carte veline; diverso ma non avvolgente. Preferivo il borotalco di mia madre.

Il mio maestro era virtuoso e, tuttavia, qualche svago se lo concedeva. A volte, giocava a carte con gli amici sulla piazza centrale, al bar di zio Gaetano, un vecchio alto, con la schiena ricurva e due figlie, una nubile e l’altra vedova, che si alternavano al banco, mentre lui restava in casa a riposare.
Poi mi pare di averlo visto anche tirar bocce verso un pallino. Comunque, su quest’ultimo svago non giurerei.
Il suo hobby preferito era raccogliere francobolli. Quando mio padre stava in Svizzera e scriveva a mia madre, io li ritagliavo attentamente dalla busta e glieli portavo. E lui era contento.
Sul fatto che non fosse sposato, non c’era malignità tra di noi. Intendo noi alunni. Altri maestri non lo erano. Però mia madre, un po’ vipera e invidiosa, diceva che, non sposandosi, aveva fatto la fortuna di sua sorella. Avere un maestro in casa che ti educa e istruisce i figli messi al mondo?!       «Commare Resuccia ha vinto la Sisal!… Lei sforna figli e Antoniuccio ci pensa!…»
E io me li immaginavo questi figli usciti dal forno.

Il mio maestro era bravo, ma autoritario. A tratti irascibile, violento. Nei nostri confronti era capace di ingiurie irripetibili, del tipo “figlio di…”. Eppure io sono sicuro che lui era d’indole pacifica e buona. Ma i tempi erano quelli che erano. Da pochi anni era terminata la seconda guerra mondiale. Sui muri delle aule e non ricordo se anche per le strade c’erano manifesti di propaganda del Ministero della Difesa (o della Guerra?) che ci mettevano in guardia dalle bombe. Potevano essere sepolte lungo le strade o nelle piane di campagna, dove andavamo a giocare, appena fuori paese. Del resto, sui libri di lettura si potevano ancora leggere testi come «Fischia il sasso il nome squilla, del ragazzo di Portoria, dell’eroico Balilla…». Mia madre, che era arrivata alla terza elementare, la sapeva a memoria. Mio padre s’era fermato alla prima, ma «Faccetta nera, bella abissina», la conosceva dall’inizio alla fine.
Ogni tanto sentivo il racconto, ancora vivo, dei Tedeschi in ritirata che erano passati per il paese, incutendo una paura boia, e poi, giunti alla Toppa, il punto più alto, avevano salutato, prendendo di mira il Castello con due colpi di cannone. O qualcosa di simile.
Voglio dire che gli adulti di quel tempo ne avevano viste di cotte e di crude e picchiavano i bambini senza tanti problemi. «Mazze e panelle fanno i figli belli / Pane e senza mazze fanno i figli pazzi», «I figli si baciano di notte». E giù schiaffi, spalmate, cinghiate…

Una volta il mio maestro si stava apprestando a dare cinque spalmate ad un mio compagno che non aveva fatto i compiti. Gli prese la mano destra per il polso e gli ingiunse di aprirla. Non si era accorto che sul margine estremo del legno spuntava un chiodo. Il malcapitato si mise a piangere e, spaventatissimo, cercò di sfuggire alla presa con uno strattone. La tavoletta colpì allora la mano del maestro e sanguinò. Apriti cielo! Grida nell’aria, tentativi di fuga del compagno, gigantesco silenzio di noi tutti. Il poveraccio rimediò uno o due calci negli stinchi.
La paura. Regnava la paura. E noi si stava sempre sul chi va là. Da un momento all’altro, poteva accaderti qualcosa.
Ecco di cosa era impastato il rispetto e l’autorità in quegli anni. Persino Lettera ad una professoressa su questo punto marcava male e nel clima antiautoritario del Sessantotto preferivamo sorvolare. «Noi per i casi estremi si adopra anche la frusta».
Il guaio è che eravamo spesso casi estremi.

Negli anni Cinquanta-Sessanta, al mio paese, dunque, quasi tutti gli adulti picchiavano. Anche i preti. Io trovavo rifugio soltanto nella nonna paterna, nonna Concetta e nella zia Francesca, sorella di mio padre e vedova di guerra. Lo zio Vito, legalmente suo marito, in realtà persona con cui non aveva dormito una notte, per il Ministero della Difesa risultava disperso nella tragica campagna di Russia.
Erano queste due donne la mia àncora, il mio nido di coccole e tenerezze. Mi viziavano? E meno male!

Sia chiaro, non mi sognerei mai di sostenere che il mio maestro o i miei genitori non mi volessero bene. Anzi, tutt’altro. Con mia madre la relazione era molto fusionale e, fino a trent’anni, tanti amici ed amiche mi prendevano in giro come tipico “mammone” italiano, con mio padre la dinamica (oh, che parola da psicologo!) è stata più contrastata, ma poi si è assestata in modo alquanto produttivo. Questo lo dico ora, grazie al Sessantotto, che per me è stato una liberazione.
Non mi piace far la vittima. Col senno di poi mi dico di non essere stato vittima di adulti carnefici e di essere stato bambino coi suoi alti e bassi, cresciuto nel clima di “mazze e panelle”, con i grandi che respiravano quell’aria e si comportavano di conseguenza. E però questi pensieri non mi soddisfano del tutto. Forse giustificano troppo.  Forse bisognerebbe approfondire, comprendere meglio quanto fascismo fosse presente in certe relazioni anche parentali.
Confesso che, da bambino, spesso vedevo nero e dubitavo che gli adulti ci volessero bene.

Quindi, tornando al maestro, a suo modo, mi voleva bene, mi seguiva, si prendeva cura di me. Persino troppo. Per un periodo avevamo preso l’abitudine con alcuni compagni di andarcene ai laghi – li chiamavamo così, in verità erano stagni paludosi – per diventare pirati della Malesia. Non potendo costruire galeoni, ci accontentavamo di legare tavole tra di loro con lo spago per farne zattere. Si era a primavera; i genitori lavoravano campi o scavavano fogne o pulivano strade o piantavano alberi sui costoni del monte Calvario e noi, usciti di scuola, avevamo pomeriggi tutti nostri che si allungavano. L’importante era farsi trovare in casa prima che rientrassero dalla campagna o dal lavoro stagionale.
Ebbene, una sera sentiamo bussare alla porta. Mia madre: «Entri, signor maestro, entri!» «Comma’!…Questo picuso ogni pomeriggio se ne va coi compagni agli stagni della Perurza. Se non state attenti lo perdete!…» Nel mio dialetto, come si sarà capito,  “comma’” sta per comare e “picuso” per persona affetta da “pica” che non è la gazza, ma il respiro affannoso di chi ha l’apparato respiratorio cagionevole.
Non chiedetemi perché il maestro rivolgesse l’appellativo di comare a mia madre; nei paesi ci sono intrecci di rapporti che richiedono disegni di lunghi alberi genealogici per essere compresi.
Volevo sprofondare. Non c’era luogo, granaio, scantinato, soffitta in cui potermi celare. Gli occhi di mio padre si accesero come il fuoco che stava ravvivando sulla bocca della fornacella.
«Signor Domenico, non lo picchi come l’altra volta!…Io volevo semplicemente avvertirvi. Voi dovete sapere cosa fa questo signorino quando voi non ci siete.»
«Grazie, signor maestro!…Grazie!»
«Buona sera!» «Buona sera!» ed io in un angolo a cercare di farmi più piccolo di un pidocchio.
Per fortuna, la serata finì con una severa reprimenda paterna. Il maestro era riuscito a bloccarlo con l’accenno all’altra volta.
L’altra volta con mio padre era stata dura, ma preferisco sorvolare. Non voglio fare come lui che quando si metteva a raccontare tirava tanti fili da perderne qualcuno qua e là.

Il mio maestro era così: severo, autoritario, irascibile, ma pronto a prendere le difese di un bambino se le punizioni superavano una certa soglia. Il guaio è che per mio padre, finito sotto padrone a nove anni (avete letto bene!) e in Africa orientale per altri nove, la soglia non era facilmente definibile. La sua storia andrebbe tutta raccontata. Un po’ la si può capire leggendo Padre padrone di Gavino Ledda.
Il mio maestro, invece, era stato in seminario. Aveva studiato. Lo facevano molti allora, soprattutto quelli provenienti dagli strati popolari. «Rubavano gli studi», come sosteneva mio padre, e poi, al momento di prendere i voti e diventare sacerdoti, confessavano di non aver la vocazione.
Ho tirato in ballo mio padre perché dopo la scuola elementare non faceva che ripetermelo. Allevare figli, dar loro da mangiare, educarli ed istruirli, non era compito facile. Soprattutto se non si aveva un lavoro stabile e se si era contadini poveri.
Oggi, se non si comporta bene,  si minaccia di mettere in collegio un pargolo. Agli occhi di adulti poveri, allora, il collegio o il seminario risultavano  una buona opportunità. Quasi un privilegio.
Dunque il mio maestro non diventò sacerdote e credo non avesse fatto neanche il soldato.
Respirava il clima violento e autoritario dei tempi, ma non aveva mai maneggiato un fucile. Mio padre, invece, nella masseria pugliese dove mi sono cresciuto fra i tre e i sette anni, l’aveva appeso in camera da letto.

Quasi certamente ho visto il maestro per la prima volta nel settembre del 1955, quando, proprio per poter frequentare la prima elementare, cosa per cui mio padre teneva moltissimo (più di mia madre, direi), fui trasferito dalla masseria al paese, nell’oasi protetta della nonna Concetta e della zia Francesca.

Il 1955 è l’anno dei “Programmi didattici” del ’55. Il Decreto del Presidente della Repubblica porta la data del 14 giugno e il mio maestro il primo ottobre avrebbe dovuto già applicarli. Conosco questi Programmi come le mie tasche. Li ho studiati e ristudiati per fare il concorso alla fine degli anni Sessanta. Per un po’ maestro unico anch’io.
Oggi io so come ero descritto in quelle pagine: ero “tutto intuizione, fantasia, sentimento”, ero sottoposto ad una “spontanea fioritura e maturazione”.
Di spontaneo, in verità, in quegli anni c’era la mia gioia di sapere che il 4 Ottobre era la festa dei santi Patroni d’Italia, San Francesco d’Assisi e Santa Caterina da Siena e che si stava a casa.
Per il resto, mi rivedo bambinetto col grembiule nero, il colletto bianco e il fiocco rosso, con la borsa di cartone duro, lucido, color cachi; mi rivedo timido timido, per mano della zia che aveva allora 35 anni; mi rivedo accompagnato a scuola in una classe tutta di maschi, una trentina di visi spauriti, stretti alle vesti in attesa dell’appello.

In prima elementare la mia classe era sistemata in una casa di via Filangieri. La ricordo bene. Per accedervi bisognava salire le scale di una loggia. Era uno stanzone freddo e buio, appena illuminato da una finestra con l’inferriata. Durante l’inverno, il maestro arrivava un quarto d’ora prima e accendeva il carbone nel braciere; di tanto in tanto, lo tornava a mettere sulla loggia, dava a qualcuno di noi un cartone che fungeva da ventaglio e provavamo a ravvivarlo. Per evitare il cattivo odore o lo sprigionarsi di aria tossica, sui carboni bruciava scorze di arancia.
Tutt’altra cosa quando, in seconda elementare, ci trasferimmo nel palazzo D’Albenzio, un signorotto del paese, vecchio e ammalato, quasi sempre a letto.
Finita la scuola, il mio maestro gli andava a leggere il giornale. A noi, invece, dettava brani tratti da una rivista scolastica (forse Scuola Italiana Moderna)  o leggeva e spiegava sul libro di lettura o sul sussidiario che, a partire dalla terza, adottava per noi. Chissà dove sono finiti questi libri! Che peccato non poterli mostrare! Si sarebbe capito perché nel Sessantotto si sviluppò anche una critica ai libri di testo.

 Farfallina spensierata,
lo sai tu dove sei nata?
Eri un bruco in una cella
senza sole e senza stella.

 Poi nel sole sei uscita,
come un fiore sei fiorita;
come un fiore senza stelo
che il buon Dio gettò dal cielo.

Questo è Renzo Pezzani che ricordo imperversante in molte pagine dei libri di lettura.
Rime baciate e metro erano le ultimissime cose che il maestro poteva farti notare. Le due strofe gli servivano per disegnare alla lavagna il ciclo vitale dei lepidotteri: da bruco in primavera a crisalide nel bozzolo in autunno, a farfalla nella primavera successiva.
Era italiano ed era pure scienze. Scienze? Ma che dico! Nei Programmi del ‘55  le discipline nel primo ciclo non esistevano e nel secondo si riducevano a poco. Basta guardare una pagella di prima e di seconda o di terza, quarta e quinta di quegli anni. Questi documenti li ho. Mia madre li conservava nel primo cassetto del comò.

Pagella di seconda, anno di esame di fine 1° ciclo, il maestro dava il voto a:  Religione; Comportamento ed educazione morale e civile; Educazione fisica; Lettura, scrittura ed altre attività espressive; Aritmetica e geometria; Attività manuali e pratiche.
Mentre ricordo lettura, dettati, pensieri scritti, addizioni e sottrazioni, non ricordo giochi ed esercizi di educazione fisica che, stando ai programmi, in «ogni giornata scolastica» (è scritto proprio così!) dovevano trovare «adeguato ed opportuno posto». Forse per il maestro, l’intervallo e il muoversi dieci minuti per l’aula era già educazione fisica.
Giochi, esercizi e corse,  in verità, non ci mancavano. Le facevamo di pomeriggio per le viuzze del paese o fuori, in campagna, arrampicandoci sugli alberi o facendo capanne sotto le siepi degli orti, tra sambuchi, rampicanti ed ortiche. E che problema c’era se ci pungevamo? Bastava pisciarci sopra.
Quanto alle attività manuali e pratiche, le facevo a casa, ritagliando cartoni per la casetta del presepe o  modellando argilla delle Valanghe (una zona del paese in cui continua da decenni lo smottamento) per ricavarne bambocci che avevano forme vaghissime di pastori, madonne, asinelli, mucche.

Pagella di quinta, ancora anno di esame, di licenza questa volta, con commissione esterna di due maestri.  La valutazione, oltre alle materie già dette,  riguardava: Storia, geografia e scienze; Disegno, recitazione e canto; Lingua italiana che sostituiva Lettura, scrittura ed altre attività espressive. Il resto, vai con Dio.
A ritirare le pagelle, ricordo, i miei genitori non andavano neanche. Lo facevo io.
Andavo timidamente a casa del maestro. Andavo dopo le due giornate di festa di Sant’Antonio da Padova, patrono del mio paese. Non si sa mai. Meglio prima festeggiare!
Questo, grosso modo, ciò che il maestro ci insegnava.

Ogni tanto quando mi ritrovo con amici della mia età, torniamo a recitare la “Pigrizia andò al mercato” o la  “Canzone dei fannulloni”.
In queste settimane, si capisce, lo facciamo per mandare in bestia o per far la felicità del nostro Brunetta.

 Oh, che piacere
mangiare e bere
andare a spasso
e fare il chiasso
senza dolori
senza sudori
senza pensieri
senza lavori
passare il giorno
guardando intorno!

Con questi versetti Lina Schwarz voleva invitarci a non essere fannulloni. Ma vi sembra il modo? Come si fa a non desiderare di essere fannulloni, dopo aver scoperto che è un piacere? A scuola si va volentieri, quando si capisce, come sosteneva Lucio, uno dei ragazzi di Barbiana, che «sarà sempre meglio della merda».
Tornando al mio maestro, era una persona che amava tenersi aggiornata. A casa sua, dove viveva con la famiglia della sorella, una famiglia piuttosto numerosa (quattro figli, se non ricordo male), c’erano molti libri. E lui, dopo pranzo, era solito scorrere le pagine di un giornale e ritagliare gli articoli interessanti o che più gli erano piaciuti.
So queste cose perché in quinta elementare, di pomeriggio, ho frequentato quotidianamente casa sua. Tra l’altro, proprio a fianco, prima delle scale d’accesso, c’era la porta dell’abitazione di mia nonna Lucia, la madre di mia madre. Un sottano in via Forno Giardino che, di riffa o di raffa, ogni tanto dovevo bazzicare, col rischio d’imbattermi nel maestro, incontro non sempre desiderabile.
In verità, e come ho già detto, io venivo più coccolato o viziato in Via dei Fiori, nella casa dell’altra nonna e della zia. E la preferivo. E questo è quanto.

In quinta elementare frequentavo la casa del maestro perché dovevo prepararmi per l’esame d’ammissione alla Scuola Media Statale. Sì, perché allora il sistema funzionava così: tu ti facevi cinque anni di scuola elementare, capitavi se eri fortunato – e io, ripeto, lo sono stato – con un maestro che ti portava dalla prima alla quinta o ti abbandonava, bocciandoti, lungo il percorso e, arrivato nei primi mesi dell’ultimo anno, quello della licenza, il maestro valutava le potenzialità della tua futura carriera scolastica. Se ti riteneva “capitale umano” adatto per la scuola media statale, chiamava i tuoi genitori e faceva capire loro che le 24 ore settimanali non bastavano e che avevi bisogno per superare l’esame di ammissione di andare il pomeriggio a lezioni private. Se, invece, non sembravi adatto per gli studi, ti aspettava l’Avviamento Professionale.
Al mio paese, le classi di scuola media si trovavano al primo piano del Municipio, quelle di Avviamento in un palazzo all’inizio di Via dei Fiori. Insomma, neanche a farlo a posta, nel Municipio veniva sistemato chi avrebbe potuto continuare gli studi  e iscriversi all’Università, fuori chi avrebbe avuto come  futuro al massimo l’iscrizione a qualche corso di perito industriale.
“Lavoro intellettuale” e “lavoro manuale”, da un lato la futura classe dirigente, dall’altro lavoratori e tecnici. Da un lato chi doveva raffinare la propria cultura studiando latino fin dalla prima media, dall’altro chi doveva imparare a leggere il disegno di un circuito elettrico  o il funzionamento di una turbina.

Promosso dalla prima alla quinta con buoni voti, per il mio maestro potevo andare alla scuola media e una sera dell’Ottobre o del Novembre ’59 bussò alla porta di casa:
«Comma’ cosa volete fare con questo figlio?»
«Compa’ cosa dobbiamo fare?»
«Il ragazzo promette, ma le ore del mattino a scuola non bastano».
Quindi, lezioni private pomeridiane. A pagamento, ovviamente. In comode rate, a seconda di come procedeva la storia lavorativa di mio padre. In quel periodo, se non ricordo male, non faceva più l’emigrato in Svizzera e non portavo più i francobolli al maestro; in quel periodo, in un anno gli capitava di essere impegnato diversi mesi come stradino per conto dell’ANAS. E poi c’erano sempre i campi di grano verso Valle Fiumata di sopra e la vigna, a fianco a quella della zia, a Valle Fiumata di sotto. Ma, ad onor del vero, per rigirare zolle, togliere gramigna, raccogliere covoni, ci pensava anche mia madre.

Allora, tra il ’59 e il ’60 cominciai a frequentare la casa del maestro con Ninetta, la nipote più grande, diventata in quegli anni professoressa di Lettere (e ora, purtroppo, già morta), a correggere e ricorreggere temi, riassunti, esercizi di analisi logica e grammaticale, commenti di poesie mandate giù a memoria, problemi, espressioni aritmetiche, potenze, teoremi, formule geometriche.
Non ero solo. Attraversata la cucina, in una sala interna, attorno a un tavolo, eravamo seduti almeno in dieci o forse più. Dei miei compagni di classe, quelli con cui mi vedevo al mattino, ne ricordo cinque o sei. E ne eravamo venticinque. Bella scrematura! In prima media, infatti, eravamo diciannove! (Ho contato le teste sulla foto-ricordo).
Il doppio binario salta nel 1962 con l’istituzione della scuola media unica. Decidere il destino scolastico (e professionale) di una persona a undici anni appariva indubbiamente prematuro.

La preparazione per l’esame di ammissione era tipicamente scolastica. Come ho già detto: leggere ad alta voce pagine antologiche, commentarle, riassumerle, imparare nozioni, concetti, avvenimenti storici e non, memorizzare, capire. Ma cosa voleva dire capire? Spesso voleva dire soltanto ripetere. Non come un pappagallo. Il maestro mi avrebbe guardato storto. «Ripeti con parole tue!» Facile a dirsi.
Dei miei anni di scuola elementare, questi pomeriggi di preparazione, che durarono mesi, li ricordo più di altri. C’era una cura più rivolta alla mia persona, un’attenzione più sollecita e costante. Avevamo un libro ad hoc. E dentro c’era tutto: dall’italiano alla matematica. C’era tutto ciò che a scuola si doveva fare. Tutto ciò che la tradizione e l’autorità volevano che si facesse.
Esprimersi? Che ridere! Se uno di noi avesse scritto come Gadda o  il più recente Rabito si sarebbe trovato il quaderno o il foglio pieno di sottolineature rosse e blu. Una lettera come questa (indimenticabile!) che la zia Francesca mandò a mio padre, all’indomani del terremoto irpino dell’Ottanta, sarebbe stata censurata. Forse anche ridicolizzata. Sta scrivendo una donna appena alfabetizzata, ma che espressione viva! Che sincerità! Quanta emozione!
«Carissimo fratello vi scrive questi pochi richi per darve nostre notizie noi grazie a Dio stiamo bene solo pieni di paura questo terremote che e fatto non te lo posso descrivere di come e stato brutto ma grazie a Dio a bisaccia danno ne a fatto assai noi la stanza dove dormivano le ragazze cela fatto una granata ma il quaio e che non e finito trema una continuazione e non sappiamo come si deve fare due notte siamo stato con mio cognato nelle macchine ma fa freddo questa sera abbiamo deciso di stare a casa vicino al fuoco ma non vogliamo andare in giro chisa pochi minuti fa a fatto un’altra grande scossa e così ti o detto tutto […]»
Il lettore istruito aggiungerà la punteggiatura, correggerà gli accenti, l’uso delle maiuscole, dell’apostrofo,  del verbo avere, ecc. ecc. Laddove la stanza delle ragazze viene paragonata alla “granata” dovrà forse sapere che la melagrana quando è matura si spacca in vari punti. Ma la paura, l’impotenza, l’incertezza di un essere umano di fronte ad una terra che trema in continuazione, alle grandi scosse che si ripetono, possono benissimo essere colte e sono espresse con autenticità.
Pochi minuti fa c’è stata un’altra scossa. “E così ti ho detto tutto!” La conclusione sembra tratta da un film di Totò. O era Totò che “rubava” le espressioni al linguaggio popolare?

I nostri componimenti, invece, erano esercizi di simulazione, finzione.
Tema: Una passeggiata scolastica. Svolgimento: Ieri il mio maestro, che non ci porta mai fuori, perché pensa di togliere tempo alle lezioni, verso le nove e trenta, ha aperto il balcone e ha buttato l’occhio per aria. Il cielo era di un azzurro da togliere il fiato, memorabile; dal nostro angolo potevamo ammirare una di quelle radiose giornate d’ inizio primavera che ti dicono meno male che sei al mondo. Neanche una nuvola a volerla pagare oro. Neanche un filo di vento. Qui, in questo paese che il vento soffia trecentosessantacinque giorni all’anno.
Ebbene il mio maestro, dopo aver guardato il cielo, ha scrutato i nostri occhi timorosi. E lui che senza mai stancarsi spiega e detta e scrive alla lavagna e corregge e ascolta noi che ogni mattina per mezz’ora leggiamo portando il segno col dito indice sulle riga, rivolto a noi, ha ordinato: «Mettetevi in fila!…Usciamo, andiamo a fare una passeggiata al Pilone» «Uuuaaahh!» Esplosione corale. «Ah, no! Zitti! Se fate così, non usciamo!» E noi zitti, in silenzio tombale.
Allora ci siamo messi in fila per due, i più bassi avanti e i più alti dietro. Usciti dal portone, ci siamo immessi nel saliscendi del corso centrale del paese:  Convento delle suore, piazzetta del Carmine, salita ripida delle Forge, piazza Duomo, Scalelle, Cupa, Strada provinciale, bivio, Statale in direzione di Lacedonia e, dopo un po’ di curve a serpentina, finalmente il Pilone, nostra meta.
La zona si chiama così perché c’è una fontana d’acqua fresca che sgorga dal pendio alle spalle. E poi “pila”, in dialetto, vuol dire proprio fontana, luogo di raccolta dell’acqua, in cui tuffano il muso anche animali come asini, muli o mucche.  Il maestro ci ha fatto bere. Però, siccome eravamo un po’ sudati per la galoppata di quasi due chilometri, ci ha ripetuto come bisogna comportarsi in questi casi: lavarsi prima le mani, bagnarsi la fronte e poi bere piano piano, mettendo le mani a fontanella o facendone una coppa. «E adesso giocate! State attenti a non farvi male!» E noi a correre, a rotolarci sul prato verde, a fianco del boschetto, fra ciuffi d’erba, trifogli e margherite. Noi a fare capriole, a tentare una saltacavallina o un girotondo col compagno toccato alle spalle che deve correre. Non ci sembrava vero: un’ora meravigliosa, piena di gridolini, di vociare intenso, di allegria, di grembiuli finiti sulle siepi, di felicità. Verso mezzogiorno: «Rimettetevi in ordine! Ora si torna in classe!» E siamo tornati, rifacendo la strada, in fila per due, mormorando a bassissima voce, coi cuore contento, felice di una felicità amara. Quando ci toccherà ancora una giornata così?

Per il mio maestro era un punto d’onore dedicare le 24 ore settimanali alle lezioni, esclusivamente alle lezioni, mentre altri suoi colleghi – e c’era una critica neanche troppo implicita – ogni tanto, mettevano i bambini in fila e li portavamo di qui o di là: a Piazza Convento, al Piano Regolatore, sotto il Castello.
Il maestro era orgoglioso di questa sua scelta, ma noi sognavamo gli altri maestri, i suoi colleghi.
Li sognavamo alla faccia del soldato che pronunciava “Guai ai vinti!” e dei capoluoghi di provincia del Piemonte. Chi mai ci sarebbe andato pensavamo nelle nostre testoline ad Asti-Cuneo-Torino-Novara-Vercelli? Chi se ne fregava della Mole Antonelliana, del Parco del Valentino e di Camillo Benso conte di Cavour?
Avevamo i nostri monumenti (al cimitero), il nostro Castello e i nostri uomini valorosi morti in guerra e ricordati sulle lapidi, come quel tenente di vascello che aveva lo stesso cognome del nostro maestro, Bartolomeo Lapenna.

Purtroppo, il mio maestro da questo orecchio non sentiva. Dovevamo imparare e basta, memorizzare, ripetere. Apprendimenti meccanici? Sì, in parte sì, apprendimenti meccanici, automatismi. «In futuro, vedrete, nella vita vi torneranno utili».
Non si può dire che il mio maestro fosse un seguace di metodi attivistici.
Una volta ci portò ad ascoltare la radio nel salotto tutto polveroso di D’Albenzio. Dalla cucina veniva un odore cattivo che lacerava stomaco e narici. Me le aspettavo più ben tenute le case dei signori e, invece, c’era un disordine pazzesco. Non ricordo cosa ascoltammo alla radio, forse una lezione di scienze. Io ricordo solo che ci spostammo. Ogni volta che lasciavamo quelle mura, che abbandonavamo al silenzio la lavagna, la cattedra, i banchi, le cartine geografiche d’Italia e d’Europa, era una gioia. Fosse stato pure per andare a sentire il sermone di qualche altro maestro sulla Festa degli alberi o per andare in chiesa a sentire la Messa. L’imperativo era uno: uscire dall’aula-prigione oppure sperare che il tempo passasse in fretta. Forse esagero. Sicuramente ho vissuto momenti piacevoli. Ma se mi fermo e lascio volar la mente le immagini che ritornano sono quasi sempre le stesse: lettura ad alta voce di un brano, spiegazione, dettato, correzione, esercizi di aritmetica, interrogazioni…
I momenti migliori vissuti in aula riguardavano le spiegazioni di storia, raccontate attraverso i personaggi: Romolo e Remo, Scipione l’Africano, Cesare, Attila, Teodorico, Mazzini, Garibaldi. Per scienze c’erano i grandi inventori (Marconi, Meucci, Pasteur) e per geografia i grandi esploratori: Colombo, Amerigo Vespucci.
«Terra! Terra! Gridarono i marinai all’alba del…». Brani antologici, letture ripetute. Tolta l’Università, in tanti anni di scuola, non ricordo d’aver mai usato un microscopio. Anche soltanto per un attimo, anche solo per capire da vicino com’era fatto.

I momenti più belli vissuti col mio maestro sono stati quelli non scolastici, quelli in cui forse lui pensava di non insegnarmi niente. Come quando mi portava con lui al Patronato o come quando gli facevo da assistente nel riordinare i libri della Biblioteca scolastica. Probabilmente il direttore (di cui so il nome soltanto per averlo letto ieri sulle pagelle) gli affidava  questo compito e lui lo svolgeva nel pomeriggio, facendosi aiutare da qualcuno di noi.
Quando chiamava me, ero felice di andarci. E tornavo poi a casa sempre con qualche titolo: Le avventure di Robinson Crusoé, Il barone di Munchausen, I viaggi di Gulliver, La tigre di Mompracem, Il viaggio di Ulisse, Il libro della jungla, e così via.
Il fatto più importante era questo: lui mi invitava a portare a casa il libro che mi piaceva per una qualche ragione: titolo, illustrazione, caratteri, ecc. Lo potevo tenere quanto volevo. Potevo portarmene a casa anche più di uno. Una volta, ricordo, ne ho portati quattro e mia madre sgranò gli occhi. Quando volevo, cominciavo a leggere e, se mi annoiavo, lasciavo stare. Tanto ero sicuro che il maestro non mi avrebbe chiesto niente. Non era un compito, ecco la bellezza.
Facendo così lasciava libera la mia curiosità e non soffocava il piacere dell’esplorazione.

Non ho dubbi: stare con una persona quattro ore al giorno, per cinque anni, lascia segni, tracce sul tuo corpo. Io, però, non saprei dire con quale inchiostro il maestro ha scritto sul mio corpo o nella mia esistenza. Farei fatica ad attribuirgli tutte le mie scelte successive. Certo, alla scuola media sono andato grazie a lui. Se di me avesse pensato, quello che pensava di altri miei compagni, m’avrebbe respinto e sarei finito a ripetere l’anno. E i miei qualche anno sarebbero stati disposti anche a farmelo ripetere. Ma se la scuola elementare l’avessi frequentata in dieci anni, invece che in cinque, ho l’impressione che non starei qui a raccontare.
Un maestro o una maestra segnano. Ripeto, bisognerebbe capire con quale inchiostro. Per certi versi è quello simpatico. Capisci dopo che forse devi la tua smania dei libri a quelle frequentazioni piacevoli della Biblioteca scolastica col maestro. Altre ce l’hai addosso da sempre, dalla prima elementare: se conosci la tavola pitagorica a memoria e speditamente è perché lui ogni giorno la chiedeva, così come ogni giorno faceva leggere ad alta voce. Ma l’apprendimento  e l’esercizio spedito di queste due abilità fin dalla prima elementare, le devo soltanto al maestro? Direi di no. Sia per la lettura spedita che per la memorizzazione della tavola pitagorica, credo di dover molto alla zia Francesca e alla nonna Concetta.

A sei anni
ho letto e riletto mille volte
i nomi delle strade.
Pura ginnastica degli occhi.
Ricordo le tavole dell’alfabeto
l’Ape e la Bandiera,
la Casa e il Dado,
l’Elica e la Farfalla.
Passato e ripassato il sillabario,
a Natale mia zia
mi aprì le pagine di un libro nero,
mi esercitai sulle parabole
del Vangelo.

Io ero il primo nipote maschio del primo figlio maschio della nonna. In una cultura maschilista come quella degli anni Cinquanta, ero un po’ il “principino”. Affidato a queste due donne, non venivo soltanto coccolato, ma protetto, in modi non molto dissimili da quelli di una madre d’oggi nei confronti dell’unico figlio. Protetto vuol dire che mi stavano sempre dietro, non mi lasciavano uscire perché avevano paura che potesse succedermi qualcosa. Diciamo che erano apprensive. E poi mi stimolavamo: «Dai, Donato, facci vedere come sai leggere!» La nonna  era analfabeta; per ritirar la pensione faceva la croce sul mandato; la zia era arrivata ai primi mesi della terza elementare. In casa non c’era radio né televisione. La lampadina della luce elettrica era a forfait, si accendeva, cioè al cader del crepuscolo e si spegneva all’alba. L’unica distrazione ero io. E così ogni sera per ore e ore con la zia e la nonna che stava ad ascoltare: lettura ad alta voce, ripasso dei compiti, memorizzazione della tabellina riportata sul retro di ogni quaderno.
Non basta riconoscere lettere e sillabare parole. La lettura spedita e corretta, espressiva, la lettura “compresa”, che consente a chi ascolta di comprendere, è altra cosa. Senza l’esercizio non si raggiunge.
Fare l’inventario di quante tracce il maestro abbia lasciato su di me è quindi difficile. Le persone si assorbono reciprocamente, si contagiano, si idealizzano. È probabile che lui idealizzasse me come bravo alunno, così come io facevo con lui. Tanto per dirne una, il mio maestro non pronunciava correttamente alcune consonanti: maglia sulle sue labbra diventava maia, figlio fiio. E il suono dialettale  bedda di un siciliano che deve dire bella, sarebbe rimasto bedda. Un difetto chiaramente. Ebbene io, non ho fatto mai granché caso.

Pur essendo stato in seminario, non saprei dire quanto il mio maestro fosse credente e religioso.
I Programmi del ’55 consideravano l’insegnamento religioso «fondamento e coronamento di tutta l’opera educativa» e, come se non bastasse, invitavano a far iniziare la vita scolastica quotidianamente (è scritto proprio così!) con la preghiera «che è elevazione dell’animo a Dio, seguita dalla esecuzione di un breve canto religioso o dall’ascolto di un semplice brano di musica classica.» Sinceramente non ricordo giornate scolastiche avviate così. I canti religiosi li sentivo dalla zia e la notte, prima di addormentarmi, era lei che mi faceva ripetere la preghiera all’Angelo Custode o quella per i defunti. Le preghiere direi che me le ha insegnate la zia. Era così bizzoca da risultare insopportabile persino alla nonna.

Il mio maestro era un democristiano e una volta, ricordo, si candidò per il Consiglio Comunale. Venne a chiedere il voto ai miei genitori. Ma mio padre e mia madre erano comunisti e, per quanto lo stimassero, non credo che nel segreto dell’urna l’abbiano votato. Infatti, non venne eletto e per un periodo se la prese con l’irriconoscenza del mondo.

Un’altra cosa che ricordo del mio maestro era il suo rispetto per l’Autorità (quella con la A maiuscola). Se in classe arrivava il direttore (tre o quattro volte in cinque anni), scattava in piedi prima di noi.
Tutte le volte che son tornato al paese e ho incontrato il mio maestro l’ho sempre salutato. Non era persona da mettersi con me a fare lunghe conversazioni. S’informava credo per altre vie. Penso che fosse contento di quello che facevo.
Quando ho vinto il concorso direttivo, un’estate, tornando al paese, mi fermò un attimo per chiedermi delle informazioni su alcuni aspetti normativi. Si rivolse a me con tale riverenza da sentirmi imbarazzato: «No, signor maestro, non deve rivolgersi così a me soltanto perché faccio il direttore. Io non sono il suo direttore, io sono sempre il suo alunno e lei il mio maestro. E lo sarà fino alla morte.»
Il mio maestro è morto a fine luglio del 1997, il 29 forse o il 30. Lo ricordo perché ero già in vacanza al paese e potei unirmi al corteo che l’accompagnava al cimitero.

  Ottobre 2008

APPENDICE: IL MAESTRO, L’ELENCO DEI POVERI, E IL PATRONATO SCOLASTICO

Si era nella seconda metà degli anni ’50.
Ragazzo, aiutavo il maestro al Patronato, ente morale di cui forse egli era il presidente. Nel paese organizzava la refezione scolastica e distribuiva gratuitamente i libri di testo ai figli delle famiglie iscritte nell’elenco dei poveri.
Per me il Patronato era soprattutto un luogo: il palazzo Bartolini, un ampio portone signorile che dava accesso ad un cortile interno, una scalinata, una loggia, una ringhiera e tre o quattro stanzoni con annessa cucina nella quale alcune donne – ricordo un nome: Elvira e l’immagine di una vedova ancora giovane – preparavano il mangiare per una folla
di vocianti accalcati sulle scale al mattino e al mezzogiorno.
In quel palazzo, in ottobre, si accatastavano pile di libri di lettura e sussidiari (qualche titolo: “Cielo sereno”, “Campo fiorito”, “Strada maestra”…) che il maestro ed io, suo curioso ed obbediente assistente, scartavamo, spostavamo e timbravamo prima di depositarli nelle mani dei destinatari.
Non sapevo chi materialmente compilasse l’elenco ed in base a quali criteri. Per me la cosa era materia di congetture. Ho in mente, però, con precisione mia madre che annualmente andava a “litigare” col maestro perché anch’io fossi compreso nella lista da lei tanto agognata. Eravamo ricchi forse noi? E lo eravamo più di tizio e caio? Immancabile, a questo punto, l’esempio di qualche famiglia ingiustamente compresa, a suo parere, nel famigerato elenco.
Dai suoi litigi capivo che esso si restringeva o si allargava non solo in base al bisogno, ma soprattutto alle simpatie politiche e parentali.
Il maestro era stato candidato democristiano al Consiglio comunale; la mia famiglia, invece, era comunista e mio padre un occupante di terre nel ’50.
Comunque, mentre ero felice di osservare, toccare e timbrare libri, di tutto questo lamentarsi e chiedere di mia madre avevo vergogna. Al mattino preferivo andare a scuola digiuno piuttosto che vedermi riconosciuto il diritto a bere una tazza di latte in polvere o a mangiare una porzione di riso e fagioli alla refezione.
Smanioso di divorare immagini e parole, meno ancora sopportavo l’attesa dei libri gratuiti. Non arrivavano prima della fine d’ottobre, mentre ad andarli a comprare, le cartolerie li consegnavano nella prima settimana di scuola.
Quando furono aboliti i Patronati (DPR 616 del 1977), ero consigliere di fresca elezione e diverse regioni d’Italia legiferavano sul “diritto allo studio”, prevedendo, tra l’altro, la distribuzione gratuita dei libri di testo nella scuola elementare.
Anche se parzialmente, e con notevole ritardo, si dava attuazione all’articolo 34 della Costituzione che prevede l’istruzione inferiore, «impartita per almeno otto anni, obbligatoria e gratuita.»
Una scelta di civiltà, un diritto di tutti, per il figlio del ricco come per il miserabile costretto a vergognarsi della propria condizione.
Oggi, con lo smantellamento frenetico di quello straccio di stato sociale costruito nel dopoguerra, capita di leggere parole come queste: «I libri di testo delle elementari dati gratis è ormai solo pura leggenda» (La Repubblica, 3/9/1993).
Sulla bocca di un leader sindacale degli insegnanti questo è solo egoismo di gruppo. Quei soldi, invece di destinarli alla realizzazione di un diritto riconosciuto a tutti, certi li vorrebbero nelle loro tasche o in quelle della loro corporazione.
A seguire tale logica, bisognerebbe chiedersi perché, oltre ai libri, le famiglie non dovrebbero, allora, pagare anche la maestra, il riscaldamento degli edifici, i banchi e gli armadi? Perché, insomma, non chiedere l’abolizione dell’articolo 34 della Costituzione?
Si sarebbe più coerenti e si capirebbe per quale società lavorano. Invece, costoro non sono capaci di tanta sciagurata coerenza. Vogliono continuare a far pagare le tasse togliendo alla maggioranza, ai poveri, ai deboli anche quel poco che hanno.
Sindacalisti simili sono già sulla strada della Lega.

1993

La Podologa

di Valentina Casadei

Qualche anno fa ho attraversato un periodo difficile: si trattava della fine di una fase che, fino a quel momento, era durata una vita. Era cresciuta in me una nuova consapevolezza che mi ancorava ancor di più alla terra che calpestavo. Mi rendeva schiava di un’inquietudine inscalfibile. Mi sentivo mortale come un pianta e veloce come un soffio. Lo spaesamento che provavo non era altro che la vertigine per una vita senza baricentro. Il mio Io, disseminato qua e là, era come un puzzle incompleto. Cercavo, quindi, i pezzi mancanti. E lo facevo camminando. Camminare era l’unica cosa che m’impediva di perdermi fra i tentacoli dei miei pensieri sconclusionati. Macinavo chilometri al giorno, ascoltando musica, osservando la gente, sfumando nell’anonimato della grande città nella quale abitavo. Talvolta m’inchiacchieravo con sconosciuti, sull’autobus, al bar, per strada. Potevo essere io o potevano essere loro ad iniziare una conversazione. In ogni caso, io mi dimostravo sempre disponibile e aperta al dialogo. Quando il peso di un pensiero incondivisibile m’attanagliava, chiedevo al primo passante quale fosse la strada per raggiungere una meta che improvvisavo su due piedi. Mi bastava un rapido scambio di battute per sentirmi subito meno sola e rendere il mio dolore più sopportabile. Scrutavo nel passante cosa ci accomunava e questo mi ricordava che, avendo la stessa destinazione, si provavano gli stessi tormenti e le stesse gioie, solo con sfumature diverse. Non dovevo avere paura. Continua la lettura di La Podologa

Ancora sugli anni ’70

Discussioni a spizzichi e bocconi
Riprendo un articolo comparso sulla pagina Facebook di Lanfranco Caminiti (qui) e una selezione dei  commenti, tra i quali due miei. [E. A.]

Continua la lettura di Ancora sugli anni ’70

Rondini, Osterie e il Rinco. La realtà nei suoi teatri

di Rita Simonitto

Tra le piante del terrazzo rigoglia un Rincospermum, arbusto sempre verde detto anche ‘falso’ Gelsomino. In certe giornate, vedere la sua chioma esuberante che deborda dal vaso già abbastanza capiente mi infastidisce. Allora gli dico: “‘ahò, a Rinco, ma ‘ndo vai?”. Ma nello stesso tempo mi rendo conto che lui figura come un mio punching ball su cui riversare i fastidi che provo verso chi, zitto-zitto, quatto-quatto, si appropria di spazi altrui. Continua la lettura di Rondini, Osterie e il Rinco. La realtà nei suoi teatri

La confessione

di Franco Casati

   Si dice, a volte, che la speranza muove i tuoi passi. Tutte le persone anonime che vengono incontro a Livia lungo il marciapiede altro non sono che ombre da scartare al più presto, brevi ostacoli fra l’idea che la anima e la realizzazione di un desiderio urgente affidato al gesto di alzare la cornetta del telefono e di comporre un numero, non appena giunta al proprio domicilio. Continua la lettura di La confessione

Le 95 tesi di Martin Loreto: tombola!

di  Giuseppe Natale

Un gruppo di Abitanti di Via Padova e dintorni hanno elaborato “95 tesi di Martin Loreto” sulla città mercificata e sui quartieri popolari del municipio 2  di Milano (via Padova , viale Monza…).

Continua la lettura di Le 95 tesi di Martin Loreto: tombola!

“C’era una volta un Re….”

di Rita Simonitto

Dopo ” Jamaica Rum” (qui) e “Straocio” (qui) questo è il terzo racconto del trittico che Rita Simonitto ha dedicato ai “disagi socio/familiari che si riflettono sui giovani”. [E. A.]

C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia.

La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”

“La serva incominciò: “C’era una volta un Re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia…”.

Chi non ha mai sentito questa filastrocca da bambino! Pur sapendo che si sarebbe ripetuta all’infinito, pur tuttavia si continuava a stare lì, nell’attesa che forse qualche cosa sarebbe cambiato…

Continua la lettura di “C’era una volta un Re….”

Su Silvia Romano

di Giorgio Mannacio

Contrariamente al mio modo si pensare e tradurre in scrittura le mie meditazioni sono spinto da qualcosa – che è insieme indignazione civile e insofferenza verso il disprezzo della ragione – a buttare giù queste note sull’affaire Silvia Romano. Sulla sua “conversione“ alla religione islamica si sono precipitati un po’ tutti a farne un fenomeno da esaminare in vitro secondo diverse lenti di ingrandimento o con occhiali affumicati.

Continua la lettura di Su Silvia Romano