«Dopo il 2017 il dibattito sul comunismo (o anche sulla “crisi del marxismo”) è andato scemando e pare oggi cancellato. Nessuno è più disposto a portare questo Anchise sulle spalle». Questa la conclusione cui sono giunto in «Nei dintorno di Franco Fortini» (gennaio 2025), dove ho riassunto i principali interventi della “Conferenza di Roma sul comunismo” (18/22 gennaio 2017)1 e gli scambi avvenuti, sempre nel 2017, nella redazione di Poliscritture dopo la pubblicazione di un mio commento ‘Comunismo’ (1989) di Fortini.2 Da allora il silenzio. E ora, in questo buio presente di guerre, ha senso ancora parlarne? Come? Con chi? Eros Barone, che il tema non l’ha abbandonato, propone queste sue «Tesi sul comunismo». Sono lontane e in aperto contrasto con la posizione di Fortini, per me ancora punto di riferimento e da lui omaggiata ma subito accantonata. e pure con la mia esigenza di un ripensamento non scolastico o da epigoni. Le pubblico, tuttavia, ringraziandolo, perché i rendiconti che da vecchi facciamo delle nostre esperienze vissute e rielaborate vanno rispettati e meditati, anche se non dovessero essere ripresi da altri o servire poco a cercare altre strade. [ E. A.]
di Eros Barone
L’amico e compagno Ennio Abate mi ha chiesto di rilanciare il dibattito sul significato del comunismo e della lotta per il comunismo, prendendo le mosse da un dibattito promosso e sviluppato intorno a questi temi otto anni fa proprio su questa stessa rivista. Al centro di quel dibattito vi era la definizione del comunismo e della lotta per il comunismo, formulata da Franco Fortini: definizione dalla quale, pur con tutto il rispetto che si deve ai “maggiori”, mi sembra importante prendere le distanze per il forte sapore di idealismo, di sconfitta e di potenziale opportunismo che quella definizione non sempre chiara e persuasiva, elaborata a ridosso degli eventi epocali del 1991, contiene e diffonde. Ho quindi accettato volentieri la sollecitazione di Ennio, non tanto perché sia convinto di poter formulare delle tesi originali quanto perché ragioni legate all’età (ho 76 anni e la vecchiaia, tranne rarissime eccezioni alle quali non appartengo, significa decadenza non solo fisica, ma anche intellettuale) e motivazioni specifiche legate alla mia esperienza politica, ideologica e culturale mi spingono a rendere di pubblica ragione un bilancio della mia milizia comunista, quale emergerà, sia direttamente che indirettamente, dalle tesi che seguono.
Tesi n. 1
La dialettica, in quanto forma sistematica di pensiero, è stata elaborata, al limitare tra età moderna ed età contemporanea, dalla filosofia di Hegel. Questa tesi afferma che le possibilità di un ulteriore sviluppo della dialettica si sono concretizzate nella linea Marx-Engels-Lenin, vale a dire nell’epoca post-hegeliana, che è quella in cui ci troviamo ancora oggi. Non averne compreso il contenuto e non averlo trasfuso in una prassi conseguente è una delle ragioni per cui sono crollate le società socialiste. Parimenti, aver ridotto la dialettica materialistica elaborata da Marx e da Engels a un’ontologia meccanicistica e a una politica pragmatica ed economicistica è stato uno dei motivi di non pochi errori strategici in politica.
«Lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad oggi; esso sta per calare tutto ciò nel passato e versa in un travagliato periodo di trasformazione» (Hegel, Fenomenologia dello Spirito). Questa affermazione di Hegel è valida, oggi non meno che nel 1806. Viviamo ancora nell’età delle rivoluzioni: la prima rivoluzione industriale, Cromwell, Robespierre e Lenin hanno rappresentato processi e personalità che hanno contrassegnato passaggi epocali; le restaurazioni ad opera degli Stuart, dei Borbone e dell’imperialismo capitalistico hanno soltanto ritardato lo sviluppo di tali processi. La dialettica è la logica di tale mutamento, è “l’algebra della rivoluzione” (A. Herzen). Per questo motivo ogni discorso sulla dialettica è un discorso politico, anche se in apparenza verte ‘soltanto’ su strutture concettuali.
Tesi n. 2
Un esempio della fecondità del metodo e della concezione della dialettica è rappresentato dal Discorso alle Guardie Rosse tenuto da Mao Tse-tung nel 1966 e scandito da un ‘incipit’ formidabile: “Ogni cosa si trasforma”. Quel discorso, in cui non vi è parola che non sia al suo posto e che non sia connessa ad un preciso sistema di concetti, costituisce una pagina magistrale della dialettica marxista applicata alla lotta di classe sul terreno teorico e politico ed un’illustrazione esemplare dei valori che stanno alla base della rivoluzione socialista, la quale a sua volta si articola in una triplice rivoluzione: economico-sociale, politico-istituzionale e ideologico-culturale. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, condizionati dall’immagine vulgata di un grande rivoluzionario quale è Mao Tse-tung, la categoria che si trova al centro di questo discorso e, più in generale, al centro del pensiero di Mao, è la categoria della mediazione, eredità fra le più importanti di quella “fonte e parte integrante” del marxismo che è la dialettica hegeliana. Ma vi è di più, poiché nella centralità della categoria della “mediazione” è operante l’influsso potente e onnipervasivo della lezione teorico-politica di Giuseppe Stalin, in cui il materialismo dialettico e il materialismo storico rappresentano, a partire dalla prassi rivoluzionaria e in vista di essa, i due fuochi della stessa ellisse. All’interno di quella ellisse il ‘Leitmotiv’ della parte pratico-politica del discorso, che discende organicamente dalla parte teorico-metodologica che lo introduce, ha un rigore algebrico: “Chi non riconosce la mediazione, in campo politico cade nell’opportunismo di sinistra o di destra”. Da queste premesse tanto lucide quanto rigorose procede quindi, attraverso una corretta mediazione fondata sul carattere asimmetrico delle due deviazioni, la linea di condotta che occorre seguire nel riconoscere, nel combattere e nel superare i due tipi di deviazione dalla corretta strategia rivoluzionaria.
«Ogni cosa si trasforma. Ogni cosa si trasforma secondo le sue proprie leggi. Anche noi siamo oggetti e soggetti delle trasformazioni, ne siamo parte passiva e parte attiva, consapevole, con nostri obiettivi e piani.
Ogni cosa si trasforma in un’altra e questa in un’altra ancora e poi ancora, costituendo gli anelli di una catena. Se prendiamo un anello della catena, esso è attaccato al primo, ma solo attraverso gli anelli intermedi. Se vogliamo comprendere il legame che unisce una cosa ad un’altra da cui proviene, se vogliamo comprendere come sta trasformandosi una cosa, dobbiamo ricostruire nella nostra mente le fasi intermedie attraverso le quali la prima si è trasformata in quella che stiamo esaminando. Ogni cosa diviene secondo le sue leggi e tramite le circostanze esterne e accidentali che incontra. Se vogliamo comprendere come mai una cosa si è trasformata proprio in quest’altra e non in qualcosa di diverso, dobbiamo non solo conoscere le leggi proprie di quella trasformazione, ma anche ricostruire nella nostra mente le circostanze esterne e accidentali che hanno determinato passo dopo passo quel percorso. Si dice che una cosa è divenuta un’altra attraverso la mediazione degli anelli intermedi e delle circostanze esterne. La mediazione è un aspetto universale della trasformazione.
Chi non riconosce la mediazione, in campo politico cade nell’opportunismo di sinistra o di destra. La lotta contro gli opportunisti di sinistra (gli estremisti di sinistra) è una lotta interna alle nostre fila. Anche la lotta contro gli opportunisti di destra è una lotta interna alle nostre fila, ma solo fino ad un certo punto. Dove sta la differenza tra i due fronti? Gli opportunisti di sinistra negano le mediazioni (le fasi, i passaggi, i processi) attraverso cui si svolge ogni trasformazione reale. Essi politicamente sono ostili all’imperialismo e alla borghesia, ma in campo culturale, dell’orientamento e della concezione del mondo si limitano a negare le posizioni della borghesia, non le superano, le conservano rovesciate, vedono il mondo come la borghesia solo dal lato opposto. Essi quindi subiscono ancora fortemente l’influenza della borghesia e non è strano che ogni tanto alcuni di essi di punto in bianco, sotto l’influsso di qualche evento traumatico, passino dall’altra parte. Gli opportunisti di sinistra possono essere dei discreti combattenti, mentre la loro direzione è rovinosa, sotto la loro direzione la sconfitta è certa. La permanenza di un opportunista di sinistra nelle nostre fila è positiva solo finché riusciamo a contenerne l’influenza e a determinare un processo in cui egli si trasforma e corregge a fronte dei compiti assegnatigli.
Gli opportunisti di destra negano anch’essi le mediazioni dei processi reali, quindi non vedono i passaggi attraverso cui il presente di supremazia della borghesia si trasforma nel domani di supremazia del proletariato, in definitiva vedono un baratro invalicabile tra il presente e gli obiettivi della nostra rivoluzione e restano ancorati alla sponda del presente. Hanno poca fiducia nella nostra vittoria perché non vedono i passaggi del cammino che la rende possibile. La loro opposizione alla borghesia è debole, sono inclini alla conciliazione, a staccarsi così poco dal presente da aderirvi quasi. A differenza degli opportunisti di sinistra essi hanno però l’appoggio della classe dominante, esprimono l’influenza della classe dominante nelle nostre fila, sono veicolo della sua influenza. Gli opportunisti di sinistra esprimono un’influenza indiretta della borghesia, un’influenza culturale e di concezione del mondo, attraverso la negazione. Gli opportunisti di destra invece esprimono la cultura e la concezione del mondo dominante, quella più diffusa ed esprimono l’influenza politica della borghesia. I veri e propri portavoce della classe dominante tra le masse si confondono con loro. Quindi essi usufruiscono della forza che deriva loro dall’appoggio della classe dominante, dal conservatorismo, dalla forza dell’abitudine, dalla rassegnazione, dalla stanchezza, dal servilismo, dal cedimento al ricatto e alla paura. Essi sono più dannosi (degli opportunisti di sinistra) anche come semplici militanti e la loro permanenza nelle nostre fila deve essere strettamente limitata a quelli che stanno trasformandosi. Gli altri possono essere, devono essere accettati nelle organizzazioni di massa. Qui il nostro obiettivo è determinare l’orientamento generale e controllare saldamente l’apparato, ma non possiamo escludere in linea di principio la partecipazione degli opportunisti di destra alle organizzazioni di massa, perché anch’essi, come gli opportunisti di sinistra, incarnano in modo unilaterale e organico un limite reale delle masse ed escluderli dalle organizzazioni di massa vuol dire rifiutare di trattare e trasformare, di fare i conti con questo limite delle masse, cioè rinunciare al nostro compito e ai nostri obiettivi rivoluzionari.»
Tesi n. 3
Non è possibile rilanciare il discorso sul comunismo senza affrontare e sciogliere il nodo (storicamente, teoricamente e politicamente) aggrovigliato che nasce dall’intreccio e dalla reciproca interazione fra le classiche deviazioni che insidiano la teoria e la prassi di una forza comunista e, se non opportunamente e costantemente combattute, la conducono all’insuccesso e alla rovina. Tali deviazioni sono l’opportunismo, il revisionismo, il riformismo, il centrismo e l’eclettismo. Occorre dunque una riflessione specifica sul contesto e sulla nascita del PCd’I nel 1921.
Circa il significato e le circostanze di tale nascita bisogna dire che essa scaturisce: (a) dal rifiuto della guerra imperialistica; (b) dal rifiuto del riformismo e del revisionismo; (c) dal rifiuto dell’opportunismo centrista dei cosiddetti “massimalisti unitari” (Serrati e Lazzari), che aveva trovato la sua espressione emblematica nello slogan semi-opportunista del “né aderire né sabotare”. Ma ciò non basta, poiché occorre aggiungere che la scelta radicale, certamente giusta ma altrettanto certamente tardiva, della scissione dal PSI e della costituzione del PCd’I poggiava su due tesi positive dedotte dall’esempio dell’Ottobre sovietico: (d) trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile rivoluzionaria (quindi costituzione non solo di un apparato politico ma anche di un apparato militare); (e) accettazione dei Ventun Punti enunciati dal II Congresso dell’Internazionale Comunista, il che significava – e significa ancor oggi – (f) accettazione della teoria della rivoluzione proletaria in generale, della teoria e della tattica della dittatura del proletariato in particolare.
Tesi n. 4
Nella ricostruzione dialettica di un processo è importante individuare i punti nodali che segnano un salto di qualità (o una tendenza crescente verso tale salto). In questo senso, se il discorso di chiusura di Togliatti al VII Congresso dell’Internazionale (1935) non fu oggetto di critiche da parte della direzione comunista e di Stalin, questo non significa che esso, accanto ai molti elementi validi, non recasse i primi segni premonitori del successivo cedimento opportunista, ossia della tendenziale conversione di una tattica di azione politica (il “fronte popolare”) in una strategia di lungo periodo (la cosiddetta “società intermedia”). È proprio questo l’aspetto che va sottolineato nei passi di quel discorso in cui Togliatti giunge a negare il rapporto di inseparabilità tra la guerra e il capitalismo.
Infatti, anche per l’opportunismo e il revisionismo vi è sempre un inizio: come il virus infetta il corpo, così la ruggine logora il ferro. Parimenti, il medesimo processo di corrosione degenerativa delle basi del marxismo-leninismo porterà Togliatti, vent’anni dopo, a teorizzare la c.d. “via italiana al socialismo” e, a quel punto, come si può osservare ancor oggi tra i suoi attuali epigoni, la sigla PCI stingerà il suo significato in quello di “partito costituzionale italiano”. Sennonché, quando si discute di Togliatti e della politica semi-opportunista da lui perseguita a partire dalla “svolta di Salerno” (marzo 1944), è opportuno rammentare anche il suo atteggiamento nei confronti della deviazione rappresentata dal browderismo, richiamata esplicitamente negli interventi duramente critici verso il partito comunista italiano e quello francese, che furono pronunciati dalla maggioranza dei delegati alla conferenza di Szklarska Poreba, da cui nacque il Cominform nel 1947. Nel 1943 Earl Browder, segretario del partito comunista degli Stati Uniti, identificò infatti il “New Deal” rooseveltiano, cioè una politica economica che era sostanzialmente funzionale alla fuoriuscita dalla “grande crisi” del 1929 e alla preparazione della guerra imperialista, con una sorta di nuovo “fronte popolare” e decise di sciogliere in esso il CPUSA, trasformandolo in una “Communist Political Association”, dalla cui denominazione era addirittura sparita ogni connotazione di partito. La trasformazione del partito in ‘associazione’ significava che i comunisti americani sarebbero stati una delle forze presenti nel ‘melting pot’ dell’esperienza ‘radical’ del “New Deal” e nel fronte antifascista americano (donde si può notare quanta fortuna abbia avuto, e abbia anche ai nostri giorni, il browderismo nella storia antica e recente della ‘sinistra’ nostrana).
Narra Italo De Feo, al tempo segretario di Togliatti (cfr. Diario politico. 1943-1948, Milano 1973, pp. 114-116), che, quando i giornalisti americani chiesero al leader italiano di commentare quella clamorosa decisione, egli rispose “che Browder era uno dei capi più autorevoli del comunismo internazionale” e che “gli sembrava che l’indirizzo adottato da Browder di piena collaborazione con l’amministrazione di Roosevelt corrispondesse agli interessi del suo paese e della causa della democrazia”. Dopodiché, così Togliatti precisò il suo pensiero parlando con De Feo che l’accompagnava: “Riprese il discorso su Earl Browder e il comunismo americano, per dire che quegli era andato forse un po’ oltre nel ritenere che il capitalismo avesse perduto i suoi artigli; ma che nel sostenere che il partito comunista dovesse diventare un partito democratico come gli altri avesse ragione [e qui vien fatto di pensare al PD come esito finale di un processo trasformistico, spacciato come innovativo, che sarebbe giunto gradualmente a realizzare un vero e proprio salto di qualità]… Le cellule e il resto, aggiunse, sono cose del passato… Ricordò che in questo spirito s’era sciolto il Komintern, che era stato l’organo più efficace del vecchio tipo di organizzazione”.
In realtà, mentre Stalin aveva disegnato una strategia geniale di utilizzazione delle contraddizioni fra i diversi capitalismi sia sul versante interno (approfondendo il conflitto tra la democrazia progressiva e lo Stato borghese) sia sul versante esterno (impedendo la saldatura tra paesi fascisti e paesi democratico-borghesi, che sarebbe stata esiziale per l’intero schieramento comunista internazionale), Togliatti ridusse quella strategia ad una politica di inserimento subalterno della classe operaia nelle strutture dello Stato borghese spacciandola, grazie anche all’uso del pensiero gramsciano in chiave revisionista, per una “trasformazione democratica e socialista” della società. Sennonché, come solevano dire gli antichi Romani, “extrema de antefactis judicant”.
Tesi n. 5
I comunisti, a differenza dei riformisti, non si propongono di apportare “cambiamenti” al sistema capitalistico, ma di rovesciarlo. Come? Mediante la conquista, ad opera del proletariato e dei suoi alleati, del potere politico di Stato, l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la liberazione della società dallo sfruttamento del lavoro salariato. Abolendo la proprietà privata si creano le condizioni di base per determinare la progressiva scomparsa delle classi e, in ultima istanza, anche del proletariato in quanto classe, per giungere alla graduale estinzione dello Stato e all’autogoverno dei produttori che caratterizzano la fase avanzata del comunismo. Questo hanno insegnato Marx, Engels e Lenin. Non vi è bisogno né di una nuova elaborazione ideologica né di un ‘concreto’ programma politico formulato in vista di scadenze elettorali (è sufficiente, sul piano teorico e ideologico, la concezione del materialismo storico-dialettico e, sul piano economico e sociale, il programma esposto nel Manifesto del Partito Comunista).
È dunque il cammino tracciato dai classici del socialismo scientifico e realizzato dalla Rivoluzione d’Ottobre che va ripreso, combattendo con la massima energia l’opportunismo, il revisionismo, il riformismo, il centrismo e l’eclettismo che, portando acqua al mulino delle forze borghesi e reazionarie, ostacolano e impediscono, nel movimento operaio e nel più generale movimento di classe, la valorizzazione, l’appropriazione e l’applicazione, nella situazione specifica del nostro paese, di un patrimonio teorico, ideologico e politico gigantesco.
Tesi n. 6
Il quadro della lotta di classe è cambiato: per le masse, come dimostra la crescente astensione dal voto, il sistema della rappresentanza politica che ha dettato a lungo, almeno in parte, i tempi della politica appare del tutto estraneo e lontano. Dal canto suo, il mondo della politica istituzionale polarizza la sua attenzione soltanto verso quei blocchi sociali che sono direttamente legati agli interessi del capitalismo, dei suoi circoli e dei suoi circuiti. Nella loro pochezza e nel loro squallore, che è proprio di una classe servente (non dirigente), gli stessi uomini politici dei partiti borghesi, del tutto sottomessi alle organizzazioni sovrannazionali dirette dagli esponenti del capitale finanziario (UE, BCE), confermano l’esistenza di un legame ferreo con le filiere del valore, con il profitto e con la rendita su scala continentale e mondiale. Dunque la stessa democrazia borghese ha cambiato pelle. La ‘governance’ è assicurata da un ristretto numero di consorterie collegate agli organismi politici, economici e militari sovrannazionali e protese a soddisfare gli appetiti e le volontà delle loro ristrette clientele. L’unico conflitto possibile in un simile contesto è dato allora dagli attriti momentanei che, volta per volta, sorgono tra le suddette clientele per la spartizione del plusvalore operaio. Si tratta, però, di attriti radenti, per usare il linguaggio della fisica, che non incidono in alcun modo sugli assetti strategici del blocco dominante, il quale, al contrario, sulle scelte di fondo manifesta una compattezza monolitica (altro che “società liquida”!). Sicché il fatto che possa prodursi un momentaneo conflitto tra una frazione della borghesia e un’altra frazione è, in genere, del tutto inessenziale.
Tesi n. 7
Taluni studiosi hanno individuato nella “sproporzione” tra industria produttrice di beni di produzione e industria produttrice di beni di consumo la causa della crisi economica del sistema sovietico. Sennonché tale approccio implica il riproporre la visione gradualista e mercantilista di Bucharin, prescindendo del tutto dalla dinamica della lotta di classe che continua a svolgersi nella società socialista e che assume molteplici manifestazioni. Un aspetto fondamentale della lotta di classe – la lotta sul “terzo fronte” di engelsiana memoria – è, per l’appunto, la lotta per l’egemonia della concezione comunista. E su questo terreno strategico il moderno revisionismo non ha mancato di esplicare la sua azione disgregante. Ciò si può constatare con particolare evidenza prendendo in considerazione la problematica inerente al “sistema dei bisogni”. E’ noto che esistono molti esempi che dimostrano come il “sistema dei bisogni” che caratterizza i paesi più avanzati sotto il profilo tecnologico ed economico rappresenti un modello per i paesi meno avanzati. Marx era ben consapevole di tale meccanismo mimetico e proprio per questo concepiva la realizzazione del comunismo come strettamente connessa ad un alto livello di sviluppo delle forze produttive e ad una prospettiva storico-mondiale, in quanto solo un siffatto sviluppo e una siffatta prospettiva sono in grado di garantire il soddisfacimento multilaterale, quindi non solo estensivo ma anche intensivo, dei bisogni materiali. Giovandosi della “terza rivoluzione” tecnologica, microelettronica ed informatica, e di una sistema globale di produzione e di scambio, il capitalismo monopolistico è stato, ed è tuttora, in grado di produrre un’enorme offerta di merci, con cui esso plasma ed orienta i bisogni della popolazione.
Naturalmente, il capitalismo monopolistico può fare questo non solo al prezzo di uno sviluppo unilaterale delle capacità umane, ma anche e soprattutto al prezzo di una crescente contaminazione della natura e dello sfruttamento spietato di vasti strati sociali e di interi popoli, ossia di quei soggetti che, pur producendo la ricchezza, sono esclusi dal suo godimento. Orbene, le società socialiste si basavano storicamente su un altro sistema di bisogni, ma persero la battaglia per l’egemonia poiché non riuscirono a depotenziare la seduzione di massa esercitata da un modello socio-economico, quale è quello instaurato dal capitalismo monopolistico, che riduce la ricchezza al godimento consumistico. Imboccando la strada della competizione economica fra i due sistemi, riassunta nella parola d’ordine “raggiungere e superare”, i paesi socialisti in cui, dopo la morte di Stalin, il moderno revisionismo era giunto a impadronirsi del potere politico di Stato, per un verso non poterono valorizzare in misura adeguata il modello socialista fondato su avanzate conquiste sociali e culturali, mentre, per un altro verso, essendo impegnati prima nello sforzo dell’emulazione e poi nel raggiungimento dell’equilibrio militare a livello degli armamenti termonucleari, si trovarono a dover fronteggiare, oltre all’‘hard power’ dell’imperialismo, il ‘soft power’ di esso imperialismo a livello dei modelli produttivi orientati sui ‘consumi individuali di massa’.
Ma, una volta imboccata quella strada, la conseguenza inevitabile era la rinuncia a costruire un’alternativa orientata da una concezione comunista del mondo, vale a dire dalla negazione determinata del modello capitalistico: quell’alternativa che il Partito socialista unificato della Germania democratica (SED) aveva riassunto felicemente nella parola d’ordine “superare senza raggiungere”. Fu così che, persa la battaglia per l’egemonia della classe operaia, si aprirono varchi sempre più ampi all’infiltrazione delle ideologie borghesi e ad una progressiva penetrazione e affermazione di moduli e modelli neopositivisti, chiaramente desunti dalle scienze dei paesi occidentali e quindi improntati ad una crescente parcellizzazione della ricerca scientifica, laddove l’aspetto negativo non era costituito dall’interscambio scientifico, senza il quale la scienza non è possibile, ma dall’abbandono del punto di vista critico e, nel contempo, unificante rappresentato dalla teoria marxista, dapprima schematizzata, poi immiserita e infine sostituita dalla passiva ricezione delle interpretazioni borghesi associate a conoscenze, per altri versi, utili e necessarie.
È quindi opportuno sottolineare che il marxismo è una concezione “totalitaria” del mondo, proprio nel senso di Labriola ripreso da Gramsci: «Solo un sistema di ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l’esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della prassi. Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100% per l’ideologia, ciò significa che esistono al 100% le premesse per questo rovesciamento, cioè che il “razionale” è reale attuosamente e attualmente» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, vol. II, Torino 1975, p. 1051). E invero l’autonomia teoretica e il metodo della critica immanente nella battaglia delle idee contro il pensiero borghese, piccolo-borghese e revisionista costituiscono nel marxismo quell’unità degli opposti in cui consiste la sua dirompente forza dialettica.
Riproporre oggi il marxismo come teoria di portata complessiva, “totalitaria” nell’accezione gramsciana, significa pertanto non solo cogliere un aspetto sovrastrutturale la cui carenza ha contribuito a determinare la sconfitta di un certo numero di esperienze di costruzione del socialismo, non solo individuare un ‘momento’ essenziale del moderno revisionismo che si esprime perfino in posizioni verbalmente o formalmente opposte ad esso, ma anche elaborare una concezione scientifica del mondo, quindi una concezione fondata sugli interessi universali della specie umana e sugli interessi collettivi della popolazione (non su quelli di alcuni individui), combattendo la tendenza a disintegrare la coscienza sociale in una miriade di scelte arbitrarie spacciate come manifestazioni di libertà. Se dunque il pluralismo e l’eclettismo rientrano in una strategia funzionale alla difesa dell’egemonia di classe della borghesia, il marxismo non può che contrapporsi ad essi in nome di una concezione ‘totalitaria’ fondata sul carattere universale della razionalità scientifica. E’ il contrario di ciò che avviene oggi con l’ideologia borghese, la quale, dovendo negare e combattere contenuti essenziali della sua stessa tradizione, dà luogo a quella crisi di senso e di valori che si trascina, sempre più stancamente e sempre più sterilmente, a partire dalla ‘Nietzsche-Renaissance’ per giungere fino alle attuali correnti ‘postmoderne’.
Tesi n. 8
Per i comunisti il giudizio sulle società socialiste del XX secolo non è un feticcio, ma uno spartiacque ideologico e politico a partire dal quale è possibile riprendere un discorso di ampio respiro sull’intera esperienza del movimento operaio e comunista internazionale. Ripartire da lì ha quindi il carattere di una sfida, in quanto significa sia confutare il punto di vista che, grazie al revisionismo storico (= rovesciamento dei giudizi consolidati sulla storia del movimento comunista), si è andato affermando attraverso la vacua nozione liberal-borghese di “totalitarismo”, sia combattere l’anticomunismo ‘di sinistra’ che, attraverso la lente deformante dell’‘antistalinismo’, ha rovesciato la lettura materialistica degli avvenimenti che hanno caratterizzato il Novecento a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre.
Il crollo dell’URSS e la controrivoluzione in questo e negli altri paesi dell’Europa orientale; la degenerazione, prima, e la liquidazione, poi, di tanti partiti comunisti, tra cui il PCI, hanno reso più difficile il compito di quei nuclei di comunisti che hanno resistito e continuano tenacemente a remare controcorrente. Giova inoltre sottolineare che il termine “comunista” è servito spesso in questi anni a organizzazioni e a personaggi, puntualmente concordi con il pensiero dominante nell’interpretazione del comunismo novecentesco, per contrabbandare posizioni che nulla avevano e hanno a che fare con la teoria e con la prassi dei comunisti. È così accaduto, a causa della pressione congiunta del ‘pensiero unico’ e di un ripiegamento sempre maggiore rispetto a posizioni coerentemente comuniste, che, proprio nel momento in cui la crisi della società capitalistica ha creato le condizioni oggettive di una trasformazione potenzialmente rivoluzionaria, ha sempre più guadagnato terreno il revisionismo politico-ideologico (= abbandono dei princìpi teorici del socialismo scientifico + cedimento politico e ideologico all’avversario di classe).
Ripartire dal socialismo realizzato, che è parte integrante dell’esperienza storica del proletariato mondiale, è allora un atto di chiarezza e di rottura con le correnti revisioniste, neo-trotzkiste e movimentiste, che ancora influenzano pesantemente le posizioni politiche e le forme di organizzazione pur antagoniste che si sono andate sviluppando negli ultimi decenni, ma che, per quanto concerne i conflitti interpretativi del movimento comunista, accettano il punto di vista della borghesia e contribuiscono a promuoverlo. Ripartire dal socialismo realizzato, che non va soltanto studiato e criticato, ma anche difeso e valorizzato, è altresì un atto di chiarezza e di contestazione nel campo della cultura, ove il connubio tra revisionismo storico e revisionismo politico-ideologico rischia di produrre frutti velenosi anche dal punto di vista estetico ed educativo. E questa è, in una congiuntura segnata dal galoppante processo di fascistizzazione come quella attuale, una ragione in più per mettere in guardia dal revisionismo e invitare i militanti comunisti e gli studiosi onesti a studiare ed approfondire la storia delle società socialiste del XX secolo.
Tesi n. 9
A chi, nel corrente dibattito politico-ideologico, si attarda a formulare l’incongrua alternativa tra “rivoluzione graduale” e “rivoluzione violenta” è d’uopo ribattere che tale alternativa non sussiste. Corretta è invece l’alternativa tra riforme e rivoluzione, alla quale si deve rispondere che i marxisti puntano alla seconda, ma non rifiutano le riforme “come acconti rispetto alla presa del potere” (Engels), purché non si tratti di qualsiasi riforma o del riformismo inteso come panacea politica. Semmai, a partire da Marx, essi vedono tali riforme in una prospettiva più radicale e di più lungo periodo. In effetti, per quanto le riforme possano essere di vitale importanza, Marx e i marxisti sanno che prima o poi si raggiunge un punto in cui il sistema chiude ogni ulteriore passaggio, e questo punto è ciò che il marxismo conosce con il nome di rapporti sociali di produzione.
In altri termini, come Marx ed Engels compresero tirando le somme dell’esperienza rivoluzionaria (e della repressione controrivoluzionaria) della Comune, la classe dominante non cederà mai pacificamente il potere. E’ solo allora che si profila la scelta decisiva tra riforme e rivoluzione. In definitiva, per servirci di un’efficace similitudine, si può sbucciare una cipolla strato dopo strato, ma non è possibile scuoiare una tigre artiglio dopo artiglio.
Per quanto riguarda invece l’atteggiamento dei marxisti verso la democrazia parlamentare borghese, esso è tatticamente legato ai rapporti di forza tra le classi: se tale democrazia può contribuire a realizzare i loro obiettivi, tanto meglio, fermo restando che i marxisti hanno delle riserve riguardo a un sistema nel quale le persone comuni sono persuase a delegare in modo permanente il proprio potere, e sul quale hanno un controllo molto ridotto. Il parlamento è infatti parte di uno Stato la cui funzione è quella di garantire la sovranità del capitale sul lavoro. Come ha scritto Marx, il parlamento e lo Stato non rappresentano la gente comune, quanto piuttosto gli interessi della proprietà privata capitalistica. Ergo, nessun parlamento in un sistema capitalistico oserebbe scontrarsi contro l’enorme potere di questi interessi costituiti.
Per quanto riguarda infine la tendenziale riduzione della strategia alla tattica, cavallo di battaglia dei riformisti, essa è un esempio paradigmatico di opportunismo proprio nell’accezione engelsiana del sacrificio dei princìpi in cambio di vantaggi immediati per questo o quel settore del proletariato.
In conclusione, bisogna rispondere ad una domanda chiave: qual è stato il problema centrale di Marx nella sua elaborazione del socialismo scientifico? La risposta è inequivocabile: fissare un punto di vista obiettivo sulla realtà sociale che rivelasse la direzione del suo movimento, allo scopo di intervenire in essa per trasformarla. Qui è opportuno precisare che non si tratta di un intervento illuministico, poiché il soggetto della trasformazione è una forza sociale che fa parte in modo essenziale di quel movimento e che nel contempo è antagonistica al sistema, cioè potenzialmente rivoluzionaria. In definitiva il tema che di continuo Marx ci ripropone è quello della trasformazione del mondo, affidata a determinate forze sociali che divengono coscienti del compito: cioè il tema della rivoluzione. Ciò che caratterizza Marx è che egli ce lo ripropone a partire dall’analisi scientifica di una società capitalistica la quale, per quanto notevolmente trasformata, esiste oggi nella maggior parte del mondo. In questo senso, strategia rivoluzionaria e analisi scientifica si influenzano reciprocamente in base ad un punto di vista stabilito non da un sistema sociale che non esiste ancora (il comunismo), ma dalla problematica del passaggio ad esso. Dunque, la teoria marxista, che è il risultato di una generalizzazione della prassi del movimento di classe, è “una guida per l’azione” e, come tale, procede attraverso una riduzione del contingente al necessario, poiché il “movimento reale”, di cui parla Marx ripensando Hegel, ha nella contingenza solo uno dei suoi ‘momenti’ ma non il suo ‘fondamento’. Del resto, come precisa ancora Marx, «se noi non trovassimo già occultate nella società, così com’è [contingenza], le condizioni materiali della produzione e i loro corrispondenti rapporti commerciali per una società senza classi [necessità], tutti i tentativi di farla saltare [prassi rivoluzionaria] sarebbero altrettanti sforzi donchisciotteschi». E però chi non riesce a cogliere il punto archimedico in cui l’analisi scientifica e la strategia rivoluzionaria si compenetrano, non comprenderà mai il socialismo scientifico e correrà come un criceto nella ruota.
Tesi n. 10
Premesso che la storia non è un progresso verso una maggiore umanità e libertà, ma solamente un aumento della possibilità di tale progresso, proviamo a definire alcuni lineamenti dell’avvenire. Il suo nome è sempre “comunismo”, laddove si tratta di una società senza differenze di classe e senza ostilità delle nazioni le une verso le altre, di una “associazione, nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti” (Manifesto del Partito Comunista). Da questo punto di vista prospettico, l’elemento antiutopistico del socialismo scientifico consiste unicamente nel fatto che il positivo non può divenire concreto fino all’ultimo, e quindi deve rimanere generale ed astratto. In questa generalità, tuttavia, esso è già sufficientemente concreto, per poter servire, se non come modello, certo come filo conduttore.
Dalle affermazioni sparse di Marx e di Engels risulta un concetto in parte direttamente positivo, in parte indirettamente negativo, della futura società comunista, i cui elementi più importanti sono i seguenti: a) il fondamento istituzionale è la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, che vengono pianificati, amministrati e sviluppati dai produttori associati; b) la statalizzazione delle forze produttive è il primo passo per giungere alla socializzazione delle forze produttive e risolvere una delle contraddizioni fondamentali – e, nella fase di transizione, quella principale – del modo di produzione capitalistico: la contraddizione tra la pianificazione nella fabbrica e l’anarchia nel mercato (contraddizione che si risolve estendendone il lato dialetticamente progressivo, cioè la pianificazione, a tutta la società); c) l’energia produttiva materiale dei mezzi di sussistenza è talmente sviluppata, che la carenza dei mezzi di sussistenza viene ad essere completamente superata, e diviene possibile in misura sempre maggiore la soddisfazione generale dei bisogni, anch’essi ampiamente sviluppati; d) la tecnologia più evoluta richiede, e l’aumentata produttività consente, un grado di istruzione generale, che favorisce, nell’ambito della produzione, il superamento della “vecchia divisione del lavoro”, e specialmente della “grande” divisione tra attività intellettuali, creative, direttive e attività manuali, ripetitive, esecutive, come anche e) elimina, nell’amministrazione della cosa pubblica, l’elemento della dominazione e sostituisce l’attuale divisione tra governanti e governati con un autogoverno comune; f) la ricchezza e l’alto sviluppo culturale su base più ampia permettono di armonizzare la convivenza sociale degli uomini su scala planetaria e di arrivare così alla fine delle lotte di classe e dei conflitti internazionali. Una volta chiarito che il comunismo non tende all’epifania storica dell’‘ens perfectissimum’, poiché la “promessa marxista” rimane interamente in misure e confini definiti, ciò che richiede un’ulteriore precisazione, anche alla luce delle esperienze storiche delle società di transizione, sono le forme istituzionali, nelle quali si realizza l’autodeterminazione collettiva di soggetti che vanno considerati non soltanto individui eguali, ma anche egualmente individui.
In definitiva, il progetto comunista di un ordinamento sociale senza classi è motivato negativamente dalle diverse privazioni, di cui soffre una parte rilevante dei membri della società sotto il sistema capitalistico per effetto di una struttura storicamente determinata di impulsi, di bisogni e di esigenze, che esprimono determinati gruppi di uomini. Per converso, il progetto comunista è motivato positivamente dalla ricchezza di mezzi dell’industria moderna, nella quale, attualmente o in prospettiva, è contenuta la fine di quelle privazioni.
Tesi n. 11
Il presupposto a cui sono avvinghiati i sostenitori, più o meno disincantati, del mondo capitalistico occidentale e della ‘pax americana’ è quello che si riassume nel ritenere che comunismo e libertà siano incompatibili. Mi servirò, pertanto, di un’ipotesi biografica controfattuale (ovvero di un’ipotesi ucronica) per formulare una posizione antitetico-speculare: l’obiettivo della lotta per il comunismo è una società senza classi e questa è l’espressione più alta e più organica della libertà umana (cfr. tesi n. 10).
Ritengo, infatti, che occorre sempre sapere non solo da che parte si sta (e io sto dalla parte della classe operaia e di tutti i popoli e i paesi che si battono per la loro indipendenza e la loro liberazione dall’imperialismo), ma anche da che parte si sarebbe stati. Sempre, beninteso, per dirla con Bertolt Brecht, “dalla parte del torto, essendo gli altri posti già tutti occupati”. Così, durante la prima guerra mondiale sarei stato il contadino russo che aderiva alla parola d’ordine rivoluzionaria di Lenin, il quale incitava a sparare non contro il soldato operaio tedesco, ma contro i generali zaristi; durante il “biennio rosso” avrei occupato le fabbriche; il 21 gennaio del 1921 a Livorno mi sarei spostato dal teatro Goldoni al teatro San Marco; dopo il 1925 sarei diventato un militante antifascista clandestino; sarei andato poi a combattere in Spagna con le brigate internazionali organizzate dai comunisti; a partire dal settembre del 1943 sarei andato in montagna a combattere nelle file della Resistenza contro il nazifascismo; e dopo la cosiddetta “Liberazione” avrei continuato a combattere per fare dell’Italia una repubblica fondata sui lavoratori.
Queste sono le scelte che avrei fatto se fossi appartenuto alle generazioni che hanno lottato, spesso sacrificando la loro vita, per il comunismo e per la libertà. Davvero, somiglia a Babbitt (il tipo dell’americano medio rappresentato dallo scrittore Sinclair Lewis nell’omonimo romanzo) chi disprezza, ignora o rimuove una simile epopea: un Babbitt anche rispetto al modello di civiltà in nome del quale pensa di dover contrapporre quelle due idee, poiché dimostra di non sapere (e di non comprendere) che, senza la rivoluzione sovietica, la libertà dal bisogno, sostanza reale di tutte le altre libertà, non sarebbe mai stata né proclamata da Roosevelt nel discorso sulle ‘Quattro libertà’ (6 gennaio 1941), né riaffermata, insieme con Churchill, nella ‘Carta Atlantica’ (14 agosto 1941), né sancita nella ‘Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo’ (10 dicembre 1948), né posta al centro, pur con tutti i suoi limiti, della nostra stessa Costituzione (1° gennaio 1948).
Note
1. Alcune notizie qui: https://operavivamagazine.org/tag/laconferenzadiromasulcomunismo/.
2 Qui per comodità i link al mio commento del 2017:
https://www.poliscritture.it/2017/02/09/appunti-politici-3-comunismo-di-f-fortini/https://www.poliscritture.it/2017/03/09/appunti-politici-6-comunismo-di-f-fortini/https://www.poliscritture.it/2017/08/09/appunti-politici-4-bis-comunismo-di-franco-fortini/ –
E qui quelli agli interventi di Giulio Toffoli e Cristiana Fischer, allora redattori di Poliscritture:
https://www.poliscritture.it/2017/09/27/il-tonto-e-il-comunismo-di-fortini/
https://www.poliscritture.it/2017/09/10/appunti-politici-10-su-comunismo-di-f-fortini-una-polemica-con-c-fischer/
Riporto qui il commento lasciato da Furio Petrossi…
DA POLISCRITTURE FB
Furio Petrossi
Analisi di Eros Barone approfondita. Essa ha una premessa, la frase “La dialettica, in quanto forma sistematica di pensiero, è stata elaborata, al limitare tra età moderna ed età contemporanea, dalla filosofia di Hegel. Questa tesi afferma che le possibilità di un ulteriore sviluppo della dialettica si sono concretizzate nella linea Marx-Engels-Lenin”
La premessa è arbitraria?
L’ovvietà che “ogni cosa si trasforma” non implica un principio dialettico in questa trasformazione, al massimo un principio evoluzionistico. Ovvero un adattamento che parte dall’esistente ma non necessariamente ha una logica, come dimostra il corpo umano: una serie di tubi, liquidi, processi chimici, neuroni, reti di interscambio la cui complessità non sembra avere uno sviluppo dialettico, e in cui la “mediazione” prevale sulla “sintesi”. Nato per una serie di casualità. Per metamorfosi generativa.
Non a caso lo stesso Engels ripensava allo schematismo che i “marxisti” diffondevano, contro la complessità dell’analisi sua e di Marx (Lettera di Engels a Bloch del 1890 – Ruolo della sovrastruttura).
La Filosofia non è rimasta ferma, nel frattempo, e il richiamo ad Hegel dev’essere motivato in modo forte, non semplicemente citato come “premessa”.
Furio Petrossi, che ringrazio per il commento, solleva una questione che “fa tremare le vene e i polsi”: il rapporto tra la filosofia hegeliana e il materialismo storico-dialettico di Marx e di Engels. Consapevole del carattere inevitabilmente stenografico, e perciò riduttivo, delle considerazioni che seguiranno, ritengo tuttavia necessario prendere le mosse dalla classica formulazione di Lenin, secondo cui l’idealismo tedesco è una delle “tre componenti e fonti integranti del marxismo” (le altre sono l’economia politica classica e la rivoluzione francese). In particolare, l’idealismo tedesco, la cui più alta espressione è rappresentata dalla filosofia di Hegel, è il motore del materialismo dialettico, che della teoria marx-engelsiana costituisce il nerbo. Soltanto Hegel, infatti, ha elaborato un sistema filosofico che è capace di rispecchiare l’intero processo storico, fino alla costruzione dello spirito assoluto, il quale include in sé tutte le filosofie del passato. In questo senso, la filosofia di Hegel costituisce, per la sua epoca, la forma più alta, e il compimento, dei sistemi filosofici in generale: il mondo (sia pure capovolto) come idea. Ed è proprio dal “capovolgimento” (in tedesco ‘Umstulpung’: letteralmente l’azione, tanto per porgere un esempio, di rivoltare un calzino) della filosofia di Hegel, intrapreso da Marx, Engels e Lenin, che nasce, oltre al materialismo storico, il materialismo dialettico: due fuochi di un’unica ellisse. Il capovolgimento di Hegel diventa allora il modello per ogni pratica materialista della filosofia, poiché nel capovolgimento la cosa stessa viene colta a partire dall’immagine riflessa. Lenin indica tale stato di cose, quando riprende i concetti hegeliani di “astratto” e “concreto”, collegandoli con il metodo di Marx: dal concreto all’astratto e dall’astratto al concreto. “I concetti logici sono soggettivi, finché restano ‘astratti’, nella loro forma astratta; ma allo stesso tempo essi esprimono le cose in sé. La natura è sia concreta che astratta, sia apparenza che essenza, sia momento che rapporto. I concetti umani sono soggettivi nella loro astrattezza, nel loro distacco, ma essi sono oggettivi nell’insieme, nel processo, nel risultato complessivo, nella tendenza, nella sorgente”. Le “forme del pensiero” sono invece “l’universale in quanto tale” e rappresentano sempre la connessione, l’essenza, contrariamente ai sensi che ci dànno sempre il particolare, senza rappresentare il suo carattere mediato. “I sensi mostrano la realtà. Pensiero e parola l’universale”. In questo senso, non è il mondo materiale stesso che diventa nostro oggetto, bensì l’idea della realtà materiale (questo è il lato epistemologicamente ‘forte’ dell’idealismo). Il tutto, invece, ciò che non ci viene “mostrato” dai sensi, è oggetto sempre e soltanto come idea. La realtà, così come essa ci è data nella forma del concetto, si differenzia a sua volta dalla realtà in sé per il fatto che ne è la raffigurazione ideale (‘Abbildung’). Ebbene, occorre sottolineare che l’origine del capovolgimento idealistico consiste nel tradurre una relazione di rispecchiamento in una relazione di produzione, laddove lo scambio della raffigurazione con la realtà stessa ci dà, per l’appunto, l’idealismo. Sennonché, decifrato mediante la teoria del rispecchiamento e coerentemente tradotto nel linguaggio marxista, l’idealismo è prezioso, poiché ci mostra l’apparire del vero come “identità di identità e non-identità”, anche se stabilire la giustezza o l’erroneità del rispecchiamento è possibile soltanto in un rapporto non-teoretico: in un rapporto, quindi, che si esplica sul terreno della particolarità materiale e che non è il pensiero dell’altro, bensì l’altro stesso che sta di fronte al pensiero (prima e seconda “Tesi su Feuerbach”). Si tratta, cioè, dell’agire pratico, ragion per cui il criterio della verità è costituito dalla “prassi”, che si esplica in tre forme di carattere sociale: produzione, sperimentazione tecnico-scientifica e lotta di classe. Ribadisco, dunque, che la dialettica è la logica del mutamento e che, per prevenire semplificazioni e deformazioni che ignorano la complessità di tale logica, è bene riflettere sui sedici elementi della dialettica individuati da Lenin nei “Quaderni filosofici”. Così, il metodo dialettico considera come centrale il movimento. Ma c’è movimento e movimento, poiché è evidente che il movimento ha diverse forme. Orbene, il metodo dialettico afferma che il movimento ha una duplice forma: evoluzione e rivoluzione. Il movimento è di evoluzione quando gli elementi progressivi svolgono spontaneamente la loro funzione, introducendo nei vecchi ordinamenti piccoli cambiamenti quantitativi. Il movimento è rivoluzionario quando quegli elementi si uniscono, si compenetrano in un’idea unica e si scagliano contro il campo nemico per distruggere dalla radice i vecchi ordinamenti e introdurre nella vita cambiamenti qualitativi, stabilire nuovi ordinamenti. L’evoluzione prepara la rivoluzione e crea ad essa il terreno, e la rivoluzione, a sua volta, è il coronamento della evoluzione e contribuisce al suo lavoro ulteriore. Antonio Labriola, polemizzando con le concezioni socialdarwiniste diffuse nella cultura della fine dell’Ottocento, ebbe ad usare il termine di “epigenetica” per qualificare la concezione della storia quale processo che si svolge da sé, in virtù degli elementi e delle forze in gioco, senza alcun piano prestabilito. Da qui scaturisce l’analogia con la rivoluzione darwiniana delle scienze della natura, su cui posero l’accento sia Marx che Engels. Dal canto suo, Labriola aveva perfettamente ragione ad insistere nel criticare certe sintesi affrettate dal biologico (per non dire dal cosmologico) al sociale, richiamando la fondamentale istanza per cui tra questi diversi campi vanno sempre fatte le debite distinzioni metodologiche. Infine, abituati come siamo a collegare il marxismo alle scienze (come se esso non fosse a pieno titolo una scienza), perché non rammentare l’influenza che il marxismo ha esercitato nel campo delle scienze naturali con la teoria degli equilibri punteggiati elaborata nel 1972 da Eldredg e Gould?
Solo un veloce appunto:
“L’evoluzione prepara la rivoluzione e crea ad essa il terreno, e la rivoluzione, a sua volta, è il coronamento della evoluzione e contribuisce al suo lavoro ulteriore” (Barone)
Non mi pare che la storia del Novecento e tantomeno quella che si va facendo “oggi” confermi questa visione così lineare e “progressiva”.
‘Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente’
partirei da qui, magari con una spolverata di minute della 1a Internazionale dove si vede Marx condurre una battaglia intransigente per far coincidere movimento reale e movimento ‘ideale’, addizionando anche quel pò di sale che proviene dallo spostamento della sede della Prima Internazionale negli Stati Uniti.
Aggiungerei un ripasso sulla teoria marxista della crisi (PdM, ‘Teoria delle crisi e 2a Internazionale, in ‘Teoria e Prassi nel Movimento operaio’, Sapere, 1970) arrivando infine all’attualità e maturità di una prospettiva comunista oggi (PdM, ‘La dissoluzione dell’economia politica’).
E dopo un pasto così abbondante mi siederei contento con un bicchiere di Rhum Rhum in mano pensando che ci sono sì tutte le condizioni del comunismo tranne una: quelli che ne vogliono approfittare, non facendomi sciupare la degustazione dal pensiero che c’è sempre qualcuno che vede i BRICS come nuova forza dirompente e la caduta fragorosa dell’Impero sempre pronta per l’alba successiva.
«‘Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente’ partirei da qui».(PdM)
E mi va bene. Ma il passo successivo qual è? Non mi pare di aver titolato questa possibile discussione – (che decolli o si blocchi presto, non so) – «il comunismo nel buio».
Si può dissentire, ma a me pare doveroso controllare qualsiasi definizione di comunismo alla luce degli eventi, sia in corso sia passati. E nel mio commento alla voce ‘comunismo’ di Fortini, nel 2017, non a caso mi chiedevo – preoccupato e un po’ scettico: «Tra parentesi. Ci sono oggi lotte o combattimenti per il comunismo? Dove?)» (https://www.poliscritture.it/2017/02/09/appunti-politici-3-comunismo-di-f-fortini/).
Potrei, dunque, anche concordare: un « movimento reale che abolisce lo stato di cose» è in corso, ma è «comunismo»? Poiché, come ricordavo sempre nel 2017, «di combattimenti nella storia ce ne sono di continuo; e tanti. Spesso non «per il comunismo» ma contro. Non per affermare questa prospettiva che “accomuna” ma per soffocarla» (idem).
Se poi, per accertarlo questo movimento reale per il comunismo o in direzione del comunismo, mi dici che bisogna fare preliminarmente «un ripasso sulla teoria marxista della crisi» per giungere poi a definire un’idea della «attualità e maturità di una prospettiva comunista oggi», ti obietterei – (e senza spirito di polemica): visto che rimandi a tuoi scritti, a quale conclusione sei arrivato? Vedi «comunismo» (o cenni di comunismo) nella guerra in Ucraina, nello sterminio di civili a Gaza?
No, ‘il comunismo quale movimento reale’ è la polemica di Marx contro i teorici salottieri dentro la Prima Internazionale; e oggi di comunismo in giro se ne vede ben poco
Con un occhio vediamo uno sviluppo delle forze produttive che avvera il superamento del lavoro quale ormai misera base della ricchezza e dunque anche della necessità del socialismo e della dittatura, per quanto proletaria, per arrivare alla nuova società
Con l’altro occhio osserviamo però la scomparsa totale di quell’avanguardia operaia politicamente cosciente che avrebbe dovuto operare il salto e che era il cuore dell’azione politica di Marx a fine secolo
Eppure Marx in prima persona fa una scommessa che mette in conto entrambe i fattori quando sposta la sede della Prima Internazionale negli Stati Uniti; nonostante la scomparsa dei wobblies quasi cent’anni dopo dei fiori spuntano a Berkeley, diversi ma con lo stesso profumo
come nel nostro ‘68, grazie anche ai Quaderni Rossi con cui Fortini collaborava, si sente l’eco di quella scommessa
Sembrerebbe tragico che nel momento in cui il capitale ha bruciato gli ultimi veli in cui pudicamente si ammantava, il fantoccio della democrazia e le scarne elemosine agli sfruttati metropolitani, e mostra il suo volto distruttore nelle guerre tra uomini e nella distruzione del pianeta, non ci sia più ombra che sollevi la testa, che osi ‘camminare eretto’ e incarni il Principio Speranza; eppure…se ricordiamo quello che ci racconta Braudel della storia (Nel suo Filippo II) è la necessità che forgia i soggetti politici, che fa di un mafioso di mezza tacca come Putin uno statista, che trasforma dei BRICS reazionari in involontari macigni, che a poco a poco fa nascere dalle schiave delle fabbriche tessili inglesi un possente movimento operaio…e che, come tutte le vecchie talpe, anche oggi sta scavando, inesorabile; non sapendo ma intuendo che le barriere una volta massiccie ora son carta velina
Dobbiamo solo continuare a ricordarglielo
Anche per inseguire questo pensiero del “comunismo al buio”, mi vengono in mente i versi di una poesiola che ci facevano imparare a memoria da ragazzi:
«Il morbo infuria,
il pan ci manca,
sul ponte sventola
bandiera bianca».
E’ – controllo – di Arnaldo Fusinato, Addio a Venezia (1849).
Oggi al posto di Venezia ci sarebbe Gaza. E, oltre al pane, manca anche Internet lì:
“Anche oggi Israele ci ha regalato la nostra strage quotidiana. Un attacco aereo ha preso di mira l’Al-Baqa Café sulla spiaggia di Gaza, facendo almeno 21 morti. Si tratta di uno dei pochi luoghi in cui è (era) possibile avere un accesso internet nei prolungati blackout delle comunicazioni in Gaza, e perciò è (era) spesso sede di giornalisti e fotoreporter (almeno tre morti in questo attacco).
Insieme alle lacrime, le parole sono finite da tempo.” (Andrea Zhok sulla sua pagina FB).
Eppure anche i filosofi più spietati nella ricerca del “comunismo quale movimento reale” alla fine si sono consolati e hanno dichiarato soddisfatti di “aver ben vissuto”.
SEGNALAZIONE
In uno dei suoi ultimi scritti, pubblicato nel 2015 in ‘Dello Spirito Libero. Frammenti di vita e pensiero’, e quindi raccolto ne ‘Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015)’ per la cura di Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M.H. Mascat, il filosofo Mario Tronti ripropone e rilegge il celebre racconto di Franz Kafka ‘Un messaggio dell’imperatore’ come una grande metafora della politica rivoluzionaria. “Questo dimostra che il messaggero doveva partire, che il messaggio era necessario. Non ha portato a termine la missione. E però il fatto che abbia tentato ha provocato una presa di coscienza e un salto di conoscenza di come stanno realmente le cose: è quanto rimarrà per chi verrà. L’evento c’è stato: si può sostenere che era sbagliato, si può dimenticare che sia avvenuto, ma né l’uno né l’altro di questi atteggiamenti si potrà sostenere a lungo. Il messaggio non è stato consegnato, eppure il messaggio non è andato perduto. Noi siamo qui a dirlo. E fosse solo questa la funzione che ci resta, basta per sapere, e far sapere, che abbiamo ben vissuto”.
( da https://www.genteeterritorio.it/le-citazioni-tronti-il-messaggio-dellimperatore/?_sc=NTg3NzM0NCM1OTYx)
GAZA/AL VOLO
1.
Immagina ricevere ogni giorno da venti mesi i pazienti oncologici che arrivano in ospedale chiedendo la chemioterapia e tu per venti mesi devi rispondere: “Mi dispiace, non ho farmaci. Non ho medicine. Non posso aiutarti”.
2.
ho fatto loro delle domande, proprio come fai tu ora a me: dove eri? Cosa stavi facendo? E questi pazienti dicevano: eravamo al punto di distribuzione alimentare. Chi ha sparato? Gli israeliani, l’Idf. Sei sicuro? Sì, sono scesi dai carri armati e poi hanno aperto il fuoco sulla gente che aspettava da mangiare. E tu che cosa hai fatto dopo? Ci siamo stesi a terra per un’ora e mezza. Uno dei miei amici è morto davanti a me, poi piano piano siamo riusciti lentamente ad andarcene»
3.
«Alcuni giorni al pronto soccorso, vedevamo solo colpi alla testa. E noi medici stranieri ci chiedevamo: oggi è il giorno dei colpi alla testa, come è possibile? Il giorno dopo, solo torace. Altri giorni era in certe parti del corpo, tipo gambe o braccia. E poi piano piano cominci a capire: i quadricotteri, questi droni, sono programmati per colpire zone specifiche del corpo.
4.
E poi, casi davvero orribili: una donna incinta di 24 settimane è stata colpita da un proiettile che ha attraversato l’intestino e poi l’utero. Il feto è morto. Per me è stato terrificante, vedere il feto, con mani e piedi che sporgevano fuori dall’utero, e questa giovane donna che ha dovuto subire un’isterectomia. Una volta perso il feto, ora non potrà avere figli per il resto della sua vita. Ha uno stoma, cioè il colon esterno.
5.
Anche se la guerra finisse oggi, la devastazione fisica e psicologica che è stata lasciata durerà per tutta la vita di queste persone. Le rispondo anche con un esempio. Un ragazzo di 15 anni, in terapia intensiva ma cosciente. Le schegge gli hanno attraversato la spina dorsale e ora è paraplegico e non sente nulla sotto l’ombelico. Non può usare le gambe. Tutta la sua famiglia è stata uccisa. Un giorno mi ha guardato e mi ha detto: dottore, posso morire, per favore?
(Da https://www.facebook.com/wilmer.ronzani/posts/pfbid02oRQ7uUrLeC7RLHZwnSUUKCBxyD1Hj9FBK1nhoB6NgSccHc7BCpJ66uSCDwMXgu56l
22 giugno 2025
Oggi La Stampa pubblica questa intervista di Francesca Mannocchi a Goher Rahbour, un chirurgo britannico che ha lavorato per un mese nell’ospedale Nasser di Khan Younis. E’ documento agghiacciante!Dobbiamo essere grati al giornale e a questa straordinaria giornalista. Questo è il contenuto.)
a molti forse non è chiaro, ma quello a cui stiamo assistendo è lo smantellamento completo delle strutture formali ed ideologiche degli ordinamenti esistenti che erano nati dopo la seconda guerra mondiale e che venivano rappresentati dall’ONU da una parte, dalle ‘democrazie borghesi’ dall’altra.
In molti modi apparentemente diversi la rappresentanza popolare alla base della democrazia (già prassi ambigua fin dall’origine, escludendo Atene donne schiavi e ‘diversamente abbienti’) è risultata essere priva di sostanza e di forza, mera copertura dei ‘comitati d’affari’ di leninistica dizione, laddove non apertamente negata da strutture fasciste come quelle che Trump sta cucendo addosso all’America (ricordate il giuramento di fedeltà al duce nelle scuole e nelle pubbliche amministrazioni?)
E quell’ONU che doveva servire da arbitro alle controversie ed impedire le guerre ha coperto o lasciato correre il peggio degli arbitri imperiali, da Iraq e Libia alla ‘nostra’ Serbia fino ai genocidi usaisraeliani, contro cui in altre circostanze avrebbe dovuto intervenire armata-secondo i dettami della sua carta.
Ormai la morale è ufficialmente morta, e nessuno si cura più neppure dell’ipocrisia.
Sarebbe opportuno segnarselo in lettere di fuoco, bruciando con queste pudori e remore e rispetti mai dovuti ma oggi sempre più fuori luogo
@ paolo
Che la democrazia sia moribonda o già morta lo si sa. (Soltanto alcuni esempi dei tanti che si potrebbero citare in Appendice). Dove siamo al buio – appunto – è sul che fare.
Appendice da Poliscritture su FB
1. Cristiana Fischer
“io so”
Era così facile quando ero giovane
credere a quello che io so
con altri che sanno come me
in certezza.
Dico cinquantanni fa sapevamo
quello che era vero che i governi
uccidevano i loro cittadini
perché oggi non sarebbe vero?
Lo hanno già fatto e lo faranno
per controllare la democrazia
governando il nemico o gli avamposti
critici dell’autocrazia?
Quando ero giovane non avevo paura
di credere quello che io so
ora e di allora che il potere
i suoi sudditi uccide nel controllo
dell’indifferenza e il mormorio vespaio
che copre le voci e ammaestrano il coro
che azzittisca chi stona e ai bastardi
che gridano forte la pena di morte.
Tra le mosse dei poteri mondiali è la guerra per procura
il terrorismo è una misura
rinforzare i poteri imperiali è la risposta.
Cultura di lotta e libertà stia nascosta
l’età alessandrina sei secoli durò assestando
nei confini geografici le potenze dell’epoca.
2.
Una poesia di Francesco Di Stefano (15 luglio 2017)
Titanic Italia
Si può senz’altro dire che l’Italia
è un moderno Titanic speronato
dall’iceberg di tutti i suoi problemi.
Farne l’elenco è solo tempo perso
ognuno li conosce a menadito
ogni giorno li sconta sulla pelle.
Alla fine purtroppo in fondo al mare
ci andranno i poveracci in terza classe
nel mentre per gli autori del disastro
ossia il comandante e l’equipaggio
i furbi coi forzieri delle banche
o coi proventi della corruzione
o con la cresta grassa da evasori
svuotate le cabine e la cambusa
dopo l’ultimo brindisi sul ponte
sono di certo garantiti i posti
sulle scialuppe per portarli in salvo.
3. Franco Senia (16 gennaio 2021)
«Tuttavia, contrariamente al vecchio populismo autoritario (come il fascismo), che è disposto ad abolire la democrazia formale rappresentativa e a prendere realmente il potere per imporre un nuovo ordine, il populismo di oggi non ha una visione complessiva di alcun nuovo ordine. Il contenuto positivo della sua ideologia e della sua politica è fatto di un bricolage incoerente di misure per finanziare “i nostri” poveri, per ridurre le tasse ai ricchi, per concentrare l’odio su figure come quelle degli immigrati, delle minoranze e della nostra “élite corrotta che sta portando fuori dal paese tutti i nostri posti di lavoro”, e così via… È per questo che i populisti di oggi non vogliono davvero liberarsi della democrazia rappresentativa consolidata ed assumere totalmente il potere: liberarsi dalle “manette” dell’ordine liberale contro cui finge di lottare, per la nuova destra vorrebbe dire fare davvero qualcosa di reale, e questo metterebbe in evidenza il vuoto del suo programma. I populisti di oggi possono funzionare solamente a partire dal rinvio indefinito dei loro obiettivi, poiché essi possono funzionare solo come opposizione allo “Stato profondo” dell’establishment liberale.» (Slavoj Žižek)
4. E. A. (17 agosto 2023)
MORTE DI TRONTI, LENIN E QUELLO CHE MANCA OGGI
Mio commento all’articolo di Sergio Fontegher Bologna
https://centroriformastato.it/strappiamo-tronti-dalle-grinfie-dei-salotti-buoni/?fbclid=IwY2xjawLW8MVleHRuA2FlbQIxMQBicmlkETBkQWxvVmhKYzgxTlpwaWplAR7eYdjiErrfaOJ9XEsO8l8x-9yZ5E6Qi_LzOoFLm0mIxHgavgxHA8_I2_dQmQ_aem_fJmIyTmWPoqmlCGv7uOweg
” Non ricorda tutto questo il suo editoriale nel primo numero di “Classe Operaia” (1964) “Lenin in Inghilterra”?”( Bologna)
No, Tronti allora aveva ancora in mente Lenin. E nel ’68 l’avevano ancora in mente anche Fortini [1] e i dirigenti dei gruppi “extraparlamentari”. Purtroppo, però, non ne abbiamo avuto uno (nemmeno in sedicesimo) né in Inghilterra, come diceva “il padre dell’operaismo” [Tronti] né in Italia nel ’68-’69. E tantomeno l’abbiamo oggi.
[1] Quando, polemizzando con Elvio Fachinelli , portava l’esempio del marinaio di guardia al ponte , che nell’Ottobre del 1917 aveva respinto «senza tanti argomenti tutto un secolo di ideologia democratico-borghese nelle persone del Consiglio municipale di Pietrogrado in corteo patriottico verso il Palazzo d’inverno […] perché (ma è tutto) a due chilometri di distanza sta lavorando il cervello di Lenin che direttamente o indirettamente lo ispira (e se ne ispira)».((Il dissenso e l’Autorità, n. 34 di Quaderni piacentini)
5. E.A. SEGNALAZIONE (12 marzo 2024)
Per la critica della democrazia politica
Trascrizione della lezione seminariale tenuta mercoledì 12 dicembre 2007 da Tronti alla facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma
https://www.machina-deriveapprodi.com/post/per-la-critica-della-democrazia-politica?fbclid=IwY2xjawLW7PJleHRuA2FlbQIxMQBicmlkETBkQWxvVmhKYzgxTlpwaWplAR6AjZz2DuzY3p1V49lP9tOzhfJ0rL1izpsT7IF9V1gP-yT1ZpRYNEqjUWSiJA_aem_8Twsx04DXAw3eXx3LFbw3Q
Stralci:
1.
noi ci occupiamo della democrazia dei moderni. Il discorso sulla democrazia degli antichi non ci interessa, ci porta fuori strada; è il discorso continuamente riproposto della democrazia della polis greca.
2.
La democrazia dei moderni è quella che sta dentro lo sviluppo del pensiero politico moderno, quel passaggio che va dal liberalismo alla democrazia.
3.
quello che non era riuscito, o era riuscito solo in parte a tutto il movimento operaio socialista, cioè organizzare i lavoratori e quindi socializzare l’esperienza del lavoro, socializzare le masse lavoratrici e organizzarle attraverso i grandi temi non solo ideologici della solidarietà di classe ma anche attraverso le forme politiche dei partiti e dei sindacati – ecco, quello che non era riuscito fin lì, riesce attraverso la guerra. In fondo gli operai e i contadini vengono socializzati come soldati. È una cosa su cui non si riflette abbastanza: nelle trincee della Prima guerra mondiale c’è una grande forma di socializzazione, si è dentro qualcosa che è al di sopra di se stessi, dentro una forma-guerra che imponeva sia la solidarietà tra soldati sia la messa in gioco tra nemici. Non è un caso che da qui la rivoluzione operaia in Russia si ponga come grande alleanza tra soldati e operai. Se si prendono i soviet si può vedere questo misto, soldati e operai, soldati e contadini. È lì in fondo che c’è il germe della democrazia novecentesca.
4.
Dopo la Seconda guerra queste due direzioni diventano una sola. Nel senso che viene sconfitta la soluzione totalitaria e trionfa la soluzione democratica. Qui il destino della democrazia viene segnato in modo ormai definitivo, decisivo. Noi dobbiamo partire dalla democrazia del secondo dopoguerra che si presenta subito – con la lotta contro il fascismo e nazismo, con la Resistenza – come la democrazia delle masse e dei partiti di massa. Attraverso questo strumento si acquisiscono conquiste, in parte riformistiche, assetti costituzionali avanzati, welfare, stato sociale, anche alcune forme di nazionalizzazione e di proprietà pubblica. È qui che comincia un rapporto tra Europa e democrazia che non c’era mai stato, perché l’Europa era il luogo della grande tradizione liberale. La cosa più europea non era lo Stato democratico, bensì lo Stato liberale.
5.
Nel momento in cui vince l’aspetto democratico, anche in Europa comincia a vincere il modello americano. Perché se l’Europa era il luogo della forma e del pensiero liberale, gli Stati Uniti sono il luogo di nascita della democrazia moderna. Non a caso l’opera fondamentale per la critica della democrazia politica continua a essere quel classico che è La democrazia in America di Tocqueville, dove troviamo il discorso non tanto di uno Stato democratico, quanto piuttosto di una società democratica, perché la democrazia è soprattutto società.
6.
È attraverso la democrazia che l’Europa si americanizza.
7.
Le masse erano uno sfondo sociale articolato, all’interno del quale esistevano le componenti che le definivano, ovvero le classi sociali, e le espressioni delle classi sociali attraverso le forme politiche come sindacati e partiti. Invece è questa massa indistinta che sempre più diventerà il luogo di formazione della scelta democratica. Si passa quindi dalla fase di nazionalizzazione e socializzazione delle masse a una forma di massificazione della società e dello Stato. Un passaggio dove nazionalizzazione o socializzazione, processi separati prima, diventano una cosa unica nella forma di massificazione sia della società che dello Stato.
8.
Quando parliamo della vera democrazia, ci riferiamo a quella democrazia che nasce negli Stati Uniti d’America e viene esportata attraverso la guerra. Perché l’esportazione della democrazia non è qualcosa di oggi, è una cosa che gli Stati Uniti hanno sempre fatto. Io sostengo che hanno esportato la democrazia in Europa attraverso la Seconda grande guerra, riuscendo nel loro intento. Da quel momento in poi ci troviamo di fronte a una sorta di democrazia reale. Io la chiamo così, come il socialismo reale; democrazia realizzata e socialismo realizzato, si può dire anche in questo modo.
9
Quando c’era il socialismo reale nell’Unione Sovietica, c’erano anche quelli che criticavano quella forma di socialismo e avevano in mente un socialismo ideale che si poteva realizzare in altro modo. […] Oggi sostengo che non possiamo più parlare di socialismo, perché è una parola che si è consumata in una realizzazione storica che l’ha di fatto abolita come possibilità ideale […]E non possiamo salvare l’idea da una sua realizzazione già data. Non è possibile ripresentare il modello di socialismo, per quanti sforzi di specificazione si facciano resterà un’opera vana. Il socialismo è stato quello lì. Analogamente per me accade con la democrazia reale. La democrazia è appunto quella americana. E possiamo anche dire mille cose su una democrazia diversa, ma non approderemo a nulla perché la realizzazione di quell’idea di democrazia così come si è incarnata in quel paese e poi esportata in altri paesi, compresa l’Europa, ha definitivamente chiuso la partita.
10.
Ne La politica al tramonto ho scritto una frase che non è stata veramente presa sul serio […] che il movimento operaio non è stato sconfitto dal capitalismo, ma è stato sconfitto dalla democrazia […], dell’universalismo democratico che aboliva le differenze di classe. […] Questo il pensiero femminile lo ha capito molto bene e ha rappresentato uno degli spunti più avanzati di critica della democrazia, soprattutto quella parte di femminismo che ha puntato sull’idea e sulla pratica della differenza. Perché la democrazia è identità; non è masse ma è massa, è massificazione.
11.
chi ha vissuto il Novecento e ne ha colto l’esito finale, post-novecentesco del capitalismo, ha colto come non è l’individuo l’elemento centrale della società capitalistica ma proprio la massa, la massificazione, l’individuo massificato. Che quantitativamente produce, quantitativamente consuma, quantitativamente scambia. La cifra del capitalismo è la quantità. C’è allora un rapporto molto stretto tra democrazia e capitalismo, forse la forma del capitalismo democratico ne è la forma matura e conclusiva. Di nuovo, appunto, quella forma che va dall’America all’Europa. Per cui la qualità è anticapitalistica.
12.
Ragionando su come riproporre una lotta per l’egemonia, per l’egemonia culturale, come lotta politica, vado dicendo che bisogna declinarla nella lotta tra qualità e quantità. Dobbiamo essere insomma i paladini del quale contro il quanto. Come si declina l’egemonia culturale capitalistica oggi? In due modi: quanti soldi hai, quanti voti hai. [[…].Voi guardate il luogo che dovrebbe essere il luogo della politica per eccellenza, il governo politico di una nazione: che cosa fanno tutto il giorno questi signori? Stanno sempre lì a fare i conti, con il tono dei ragionieri: queste sono le entrate e queste le uscite, questo è il debito, bisogna rientrare dal debito, allora bisogna tassare di qua o di là. Tutto il giorno lo passano in questo modo. L’Europa politica non è altro che un gruppo di persone che dice: «attenzione, siete usciti, dovete rientrare nel debito…». Questo è il primato dell’economia, il primato della quantità.
13.
Il principio della democrazia «una testa un voto», che si ripropone come cardine della democrazia politica, è ciò che l’esperienza della rivoluzione operaia ha subito criticato. Lenin e i bolscevichi pensavano all’inizio, anche se poi non sono riusciti a praticarla, che la cosa più corretta fosse eliminare il principio «una testa un voto». Infatti in alcuni esperimenti dicevano: il voto dell’operaio vale tre e quello del contadino vale uno. Questo principio sostanzialmente antidemocratico corrispondeva di più alla realtà delle cose, e alla possibilità di cambiare le cose stesse. Nel momento in cui si accetta «una testa un voto», la prospettiva rivoluzionaria cade. Non solo oggi, ma questo è avvenuto sempre nel passato dei sistemi politici capitalisti. Pensate a un referendum che chiedesse «volete abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione?»: avrebbe la maggioranza dei consensi? Evidentemente no
14.
acquisire la pratica democratica è dichiarare chiuso il processo rivoluzionario. Non c’è possibilità, a meno di non considerare la democrazia come si è fatto in alcune parti del movimento operaio, ovvero come il terreno più avanzato di lotta per cambiare le leggi di sistema. Più favorevole della forma totalitaria, del sistema dove la lotta politica, non essendo praticabile in modo aperto, diventava più difficile. Qual era la soluzione? In alcuni partiti comunisti era il tema della doppiezza: assumiamo il terreno democratico come terreno più favorevole; diciamo che siamo per i sistemi democratici ma non perché la democrazia sia un valore universale, ma solo perché è il terreno più favorevole in cui proporre il superamento del capitalismo organizzando masse e lotte di massa. Al di fuori della doppiezza, la democrazia non è utilizzabile.
15.
riteniamo giusta la tesi di Carl Schmitt secondo cui tutti i concetti politici moderni sono concetti teologici secolarizzati
16.
Secondo me la democrazia politica secolarizza il concetto di popolo di Dio. Concetto antico, del primo testamento, il popolo scelto da Dio per una missione salvifica. Tutte cose e inflessioni che ritrovate molto organiche alla democrazia americana. Non solo a quella di oggi, di Bush e dei neocons, ma alla democrazia americana così come è sorta. Non è un caso che negli americani ci sia questo Dio sempre in mezzo, nella costituzione come nel discorso del presidente. Deriva da lì, dalla commistione tra religione e politica che è implicita nella pratica e idea della democrazia americana. Perché il popolo americano è il popolo di Dio, che lo ha scelto perché civilizzi il mondo ed esporti ovunque questa civiltà. È il popolo eletto, che produce attraverso le forme della democrazia e delle primarie. […]il popolo di Dio è il popolo democratico.
17.
Noi dobbiamo abbandonare una volta per tutte il principio di maggioranza. In questa forma sociale, nel criterio politico che noi preferiamo, cioè nel rapporto nemico-amico, la maggioranza è il nemico. Noi dobbiamo elaborare un pensiero non dico antidemocratico, perché ciò penderebbe pericolosamente dalla parte di soluzioni totalitarie che sono già state viste: ma un pensiero non democratico, a-democratico. Un pensiero che non sia un pensiero politico democratico. E bisogna riproporre una grande teoria della minoranza: una teoria politica di questa come minoranza agente, una minoranza centrale. Una minoranza non marginale. È possibile la centralità politica di una minoranza?
18.
Io penso di sì, perché la ricavo da un modello all’interno della nostra formazione e del percorso che abbiamo fatto:[…] la classe operaia era una minoranza. Noi combattevamo contro l’idea che essa fosse classe generale, classe universale. È la classe parziale. Nel momento in cui riconoscevamo alla classe operaia la sua parzialità riconoscevamo che era una minoranza. […] La classe operaia era minoritaria dal punto di vista qualitativo, ma qualitativamente centrale. Tanto è vero che esprimeva politica, forma organizzata e cultura, appunto esercitava egemonia nella società seppure in una posizione di minoranza. Quindi classe non marginale, tanto meno emarginata.
19.
se democrazia è opinione massificata, libertà è critica di tutto ciò che è
20.
vi è un altro passaggio molto più delicato […]: il rapporto tra legittimità e legalità. Questa minoranza ha una sua sostanza di legittimità che non corrisponde, che alle volte è diversa dallo stesso concetto di legalità. […]- Dobbiamo rivendicare una legittimità senza legalità. […]. La legalità è sempre il terreno dell’ordine, la legittimità nasce sempre dentro lo stato di eccezione, dove chi ha più forza di rivendicare la propria legittimità è chi decide nello stato di eccezione, che può dichiarare e far accettare a tutti che la sua rivendicazione è legittima anche se non è legale.