di Ennio Abate
Questi appunti furono scritti nel 1969 quando ero studente lavoratore. Lavoravo come operaio notturnista nell’edificio della SIP in Piazza Affari a Milano.
L’unico movimento di massa oggi vivo è quello degli studenti. Va avanti. Non capisco come e fino a quando durerà. Voglio starci dentro e cerco di assorbire per quanto posso i discorsi che si fanno durante le assemblee in aula magna e nelle commissioni. Mi scrivo su un quaderno gli interventi che ascolto. Qualcuno mi ha preso per un giornalista.
Un brulichio di gruppi e gruppetti. Ho incontrato qualcuno che fa capo ai Quaderni rossi, altri a Falce e Martello. Quelli de La Sinistra, che ho conosciuto un po’ prima dell’occupazione della Statale vedo che si tengono più in disparte nelle assemblee e cercano di agganciare singoli studenti che partecipano alle iniziative. Selezionano i loro interlocutori.
La critica antiautoritaria, che alla Statale si è divisa in due orientamenti (Potere studentesco e Potere operaio), alla SIP fatica a entrare. Quel rimbombo di voci che urlano nei microfoni qui si smorza. Il fermento dell’università scompare quando entro al lavoro. C’è un’oscura pesantezza che ti rende guardingo.
F. ha cominciato a parlare di «democrazia operaia» nel nostro reparto di notturnisti. Fredde le reazioni. Coinvolti siamo soltanto noi lavoratori studenti. Io con disagio. Sento il suo discorso esiguo e importato. Non vedo cosa lo distingua davvero da quello di M.che lavora nel sindacato Silte o da quello di V. della Fidat. Non ci trovo quegli elementi di novità, di orgoglio e di rabbia che associo al concetto di Potere operaio.
Non conosco bene i notturnisti che lavorano in questo reparto. C’è troppa distanza fra le chiacchiere che si fanno durante gli intervalli davanti al distributore di caffè e i discorsi che sento alle riunioni nel bugigattolo di “Falce e martello” in Via Ausonio, una traversa di Via De Amicis, dove F. mi ha invitato. Lì ci vado ogni tanto e cerco di leggere i documenti che mi danno e di capire. A me non danno nessun scossone. Agli altri, penso, non arriverà quasi nulla. Che efficacia ha questo lavoro da catacombe?
Quando gli espongo i miei dubbi F. taglia corto. Le riunioni finiscono con un rituale riepilogo sullo «schifo del nostro lavoro» e l’autoconferma della bontà di quanto facciamo. Lui sostiene che si tratta di una novità e non sta lì darmi le prove. Ma perché non incidiamo sugli altri?
Ho pensato ad un questionario. Ma chi lo prepara? F. non ne ha voglia, punta tutto sulla propaganda delle posizioni elaborate dal gruppo di Via Ausonio (V., etc.) e l’idea del questionario gli pare una perdita di tempo. Si va perciò avanti a preparare un’azione immediata. Le riunioni di alcuni notturnisti si tengono a casa sua o al Dopolavoro della Sip. E il confronto con lui e con gli altri avviene sempre a spezzoni: quando ci ritroviamo nello spogliatoio, nelle pause per un caffè previste dal contratto o in quelle sul posto di lavoro quando le chiamate degli abbonati Sip sono rare, specie alla Dettatura telegrammi dopo una certa ora. A volta scoppiano polemiche personali.
Io non capisco l’importanza che il delegato di reparto debba essere proprio Tizio e non Caio. Ma per gli amici di F. e M., sulla base di ragionamenti che a me restano misteriosi, la cosa è importantissima. A me pare che così la «democrazia operaia» vada alla malora. Vogliono contestare il Sindacato ma sott’acqua. Faccio qualche critica, ma nessuno mi dà ascolto. A volte cerco di fermare qualche idea che mi passa per la mente scrivendola sui fogli della Dettatura telegrammi. Ma senza troppa convinzione. Sento di non avere interlocutori. E poi, mi dico, si tratta di frammenti, non hanno una forma comunicabile e mancano di un pensiero che li colleghi.
Così i miei tentativi di far venir fuori dei dubbi trovano un muro in F. Sono in effetti una critica al suo operato. È un «rivoluzionario», ma mantiene il discorso coi lavoratori su un piano esclusivamente sindacale. Si è dato da fare per entrare nel Sindacato e cerca collegamenti soprattutto con gente che ha lavorato in Commissione interna. Non me la sento di criticarlo. Mi sento isolato e inesperto. E gli sono riconoscente, perché in fondo è stato lui che mi ha fatto uscire dall’isolamento introducendomi nel suo gruppo della SIP a contatto con gli operai.
I miei dubbi però non si smorzano. Li registro sul mio quaderno sotto forma di appunti. Ma mi fa un brutto effetto potermi esprimere solo per iscritto, mentre mi accorgo che il mio legame nei loro confronti non viene intaccato e resta subordinato e impacciato. A volte mi ritrovo a immaginare riunioni di reparto (magari di studio) fra studenti e operai, magari anche quelli di altri reparti. Vorrei eliminare quel senso di gruppo chiuso che caratterizza i nostri incontri. Altre volte penso a un’analisi della condizione operaia alla Sip, ma davvero approfondita e che possa dare prestigio all’intervento e attirare altri studenti. Da questo lavoro potrebbe uscire anche un linguaggio diverso per parlare dei problemi degli operai senza i toni mitici con cui ne sento parlare fra gli studenti e senza la piattezza del linguaggio sindacale.
La condizione operaia. Non mi è chiaro cosa pensarne fino in fondo. Come tanti, la ritengo il banco di prova decisivo per gli studenti che vogliono fare la rivoluzione. Ne ho saggiato però la pesantezza. E credo che su di essa ci sia una sorta di congiura del silenzio e che la falsità con cui se ne parla s’imponga nelle coscienze degli stessi operai più attivi. E a volte, mi dico, se gli studenti non si limitassero a partecipare soltanto ai picchetti davanti ai cancelli di una fabbrica e applicassero i loro strumenti di conoscenza, sicuramente più raffinati, alla condizione operaia, forse potrebbe nascere una nuova visione della fabbrica stessa e dei suoi legami con la società. E quella pesantezza apparirebbe in forma nuova agli stessi operai. Perciò, quando Banfi [1] dice: “Venite a sentire gli operai della Marelli che parlano del loro sfruttamento” e gli do ragione se confronto il suo atteggiamento con la pretesa di quelli del Movimento Studentesco della Statale che vogliono «insegnare» agli operai. Tuttavia anche l’invito di Banfi mi pare monco. Perché gli studenti dovrebbero solo ascoltare gli operai? C’è da mettere ordine anche in quei discorsi operai e rielaborarli in modo che possano raggiungere altri ambiti sociali. C’è da fornire loro modelli di espressione dei loro bisogni più efficaci. E questo non possono farlo né gli studenti tradizionali né gli operai tradizionali.
Nota
[1] Banfi era un giovane militante dei Quaderni Rossi che conobbi durante l’occupazione della Statale di Milano . Di lui non ricordo il nome. Sui giornali degli anni ’70 lessi che aveva scelto di andare a fare l’operaio all’Alfa Romeo.
