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“La memoria delle piante” di Velio Abati

di Felice Rappazzo

Splendide campagne di frutti e cibi ricercati dai palazzi del mondo sono, per chi lì strappa per sé l’acqua e il pane a genitori e figli distanti, terre agre dove si spalanca lo sfruttamento, la violenza, l’uso del corpo di donne e di uomini, di piante, di frutti, di terra. Vi resistono, in rifugi tra lamiere raccattate e cascami di plastica, nelle stalle degli animali, in buche scavate nella terra, tra solitudini mai rassegnate, germogli di affetti, di legami, di amicizie.

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La vita dell’albero e la mia

di  Angelo Australi

Invece di giocare in strada con gli amici, per me era più divertente ammirare le montagne dalla terrazza. Spesso le osservavo con un binocolo che era un residuato bellico della seconda guerra mondiale. Non ricordo come fosse finito tra i beni di famiglia, lo vidi in mano a mio padre che una notte d’estate ci guardava le stelle cadenti. Nel buio della campagna che avevamo di fronte percepivo appena i contorni del corpo, ma visto che gli giravo intorno mi fece curiosare in cielo, dove non vidi che bagliori fissi e qualche aereo lampeggiare per tutto il tempo, prima di dileguarsi nel nero più fitto. La notte dietro casa nostra si vedevano solo un po’ di luci che indicavano la viabilità dei paesi di montagna, poi un buio compatto fino al profilo della linea dei monti che si attenuava leggermente su di un cielo punteggiato di stelle. Le montagne erano lì da milioni e milioni di anni, percepivo tutta la staticità che produceva una potente sensazione di silenzio assoluto. Che bello stare zitto per ore, in attesa di immaginare un gioco.

Negli ultimi anni che ci ho abitato, sui campi confinanti con il nostro orto, contemporaneamente alla prima circonvallazione furono costruiti dei palazzi di tre o quattro piani. Quello che infastidiva era la visuale ostruita sui monti più alti, tra le case si vedevano solo dei tratti di altopiano dove sorgevano piccoli paesi, così il mio istinto a giocare fu attratto dal grande susino che slanciava il suo tronco dall’orto fino alla terrazza. Nel vigore primaverile alcuni rami si allungavano su di un lato fino a fare con le foglie una sorta di pergola che in estate ci rinfrescava con la sua ombra. Quella pianta ormai vecchia mio padre diceva che era nata casualmente quando da ragazzo, dopo aver mangiato le susine, gettava i noccioli nell’orto sottostante, un certo giorno era spuntata questa esile pianticella che nell’arco di pochi anni aveva raggiunto la dimensione per essere innestata. Cresci e cresci, tutti gli anni prima della potatura si discuteva di abbatterlo, era troppo a ridosso della casa e nel tempo avrebbe indebolito le fondamenta con le sue radici, ma poi il susino germogliava e fioriva, ed era una soddisfazione alla fine del ciclo vedere i suoi frutti giallo oro brillare sotto il sole.

Nelle notti d’estate i conoscenti venivano a trovarci per stare a veglia. Solo noi nel vicinato avevamo una terrazza così grande, aperta sulla campagna e situata in una posizione ideale per il vento incanalatosi nel corso del fiume, che prima di raggiungerci incontrava l’aria fresca rilasciata dalle gole boscose a ridosso dell’abitato, gole dove non batteva che un po’ di sole nelle ore centrali del giorno. Era una terrazza grande come tre stanze, ho sempre avuto dei dubbi, ma mio padre anche negli ultimi anni di vita, quando ne parlavamo assicurava che misurasse sessanta metri quadrati. Durante quelle veglie le donne si mettevano in cerchio intorno a mia madre che ricamava, gli uomini invece, istigati da mio padre, trasferivano il tavolo dalla nostra sala per giocare a carte tra un valzer di falene e di pipistrelli attratti dalla luce elettrica. Dicevano di stare meglio a frescheggiare qui che in strada, perché il nostro susino con la sua grande chioma rilasciava una certa frescura profumata dai frutti.

Mi ero costruito un fucile di legno che sparava proiettili ricavati dalle camere d’aria di bicicletta, salivo sull’albero dal ramo più grosso che sporgeva in terrazza, esploravo il nostro orto per sparare al gatto mentre stuzzicava le galline ovaiole che ruspavano la terra in cerca di lombrichi. Lanciavo gli elastici imitando il suono di uno sparo, mentre i colpi che non andavano a segno rimbalzando sui muri facevano come un sibilo che si perdeva sull’eco. Se lo colpivo, il gatto con tre salti fuggiva a nascondersi tra le grandi foglie di una zucca, o ai piedi della siepe di rosmarino o di salvia. A un certo punto la caccia grossa mi aveva preso così tanto che trascorrevo interi pomeriggi appollaiato sull’albero. Un giorno colpii un piccione che stava beccando il granturco delle nostre galline, lui barullò un po’ intontito prima di prendere il volo, ma dall’entusiasmo persi l’equilibro e caddi dal ramo rompendomi una gamba. Un salto di almeno cinque metri. Fui portato di corsa all’ospedale e così il mio anno scolastico finì con un mese di anticipo.

Certe sere, sfruttando quei tranquilli momenti in attesa della cena, mentre mia madre apparecchiava, mio padre mi parlava e annaffiava la terrazza per rinfrescare l’aria intorno al tavolo dove avremmo mangiato. Allora non lo sapevo, ma hanno fatto grossi sacrifici perché in quegli anni per lui c’era poco da lavorare e mia madre aveva disseminato debiti in più negozi di alimentari e di abbigliamento. Quando ero sui sedici anni usarono questi ricordi per ricattarmi, ecco come l’ho scoperto: non potendo più obbligarmi a pensarla come loro tentavano di farmi nascere il senso di colpa. È duro essere figli unici, e queste cose, una volta cresciuto, le senti addosso come un senso di responsabilità verso te stesso e gli altri che a volte travalica ogni logica. Niente tristezze, è solo un dato di fatto con il quale convivere. Una volta avevo fatto una bandiera di stoffa rossa che poi esposi sui rami più alti del susino, in modo che tutti la vedessero. Nel vicinato si cominciò a dire che era la bandiera dei comunisti, così i miei genitori, con arretrati da pagare in ogni negozio, mi costrinsero a toglierla. Per questa ingiustizia piansi fino a farmi venire i crampi allo stomaco, maledicendo la stupidità dei vicini e la vigliaccheria dei miei. Chi erano per me i comunisti, all’età di otto anni? Niente, una parola come un’altra, che sentivo pronunciare ogni giorno senza riallacciare a persone fisiche diverse dalle altre. Ho scoperto molti anni dopo che anche i miei genitori erano comunisti, quando anch’io stavo per raggiungere l’età per votare. Prima non avevano mai esposto le loro idee politiche apertamente con me. Sì, li sentivo parlare di politica in presenza di altre persone adulte, ma come se fosse un discorso iniziato chissà quando.

La cena in terrazza era sempre un rito scaramantico per cacciare via i fastidi, la noia e le cose tristi che ci erano capitate durante la giornata, i miei genitori erano ancora abbastanza giovani, ma in quei momenti dimostravano sempre meno degli anni veri. Mentre il vento faceva frusciare le foglie del susino, ogni risata che gli veniva dal cuore finiva per amplificarsi. Una cena me la ricordo in modo particolare perché si misero a discutere su chi aveva più metodo e velocità nel lavoro. Quella sera erano più allegre anche le mosche che si posavano sugli avanzi nei piatti e sui nostri volti un po’ sudati. Soprattutto mio padre era particolarmente felice, perché finalmente aveva trovato un lavoro fisso e così sullo stipendio avrebbero potuto farci conto ogni mese. Tirata la cinghia per saldare i debiti, con un po’ di accortezza potevamo pianificare la soddisfazione di toglierci delle voglie.

– Io lavoro forte – disse mio padre, – non mi fermerebbe neppure un treno di cento vagoni.

L’improvviso sorriso di mia madre assordò anche il fruscio delle foglie mosse da una leggera brezza di vento.

– Che ridi, … è la verità.

– Non ti ho visto sul lavoro, ma …

– Ma cosa?

– … quando ti mando in un posto per una commissione, non ti sbrighi mai a tornare.

– Fare la spesa non puoi paragonarla a un lavoro in cantiere.

– Non posso?!

– Non è la stessa cosa fare le faccende di casa e tirare su un muro.

– Che c’è di tanto diverso?

Lei scuoteva la testa divertita.

– La fine del mondo, c’è di diverso!

– Mi fai ridere come una bambina.

– Quel muro si deve costruire a regola d’arte, altrimenti frana giù.

– Perché la spesa? I soldi che guadagni altrimenti finirebbero subito.

– Un mattone dietro l’altro, per tutto il giorno, con la consapevolezza che a un certo punto ci abiteranno degli esseri umani.

– Bevi, … fai meglio.

– Non ci piove: nel lavoro conta la qualità, ma in fondo alla giornata deve fare comparita anche il frutto del tuo sudore.

– Anche i piatti devono essere ben lavati, altrimenti mangeresti tra la sporcizia del giorno prima.

E rideva mia madre. Ridevano entrambi, a singhiozzi.

– Non ci siamo capiti, … vuoi dirmi è più complicato lavare i piatti che tirare su un muro?

– Per portare in fondo ogni giorno una faccenda noiosa, a volte ci vuole tanta forza d’animo. Tanta tanta, … credici, … non lo faccio per il gusto di contraddirti.

– I muri devono essere dritti, hai visto mai una casa pendere?

– Come no! … la torre di Pisa sta in piedi per miracolo.

– Che c’entra la torre di Pisa, io parlo di una casa dove vivono delle famiglie e dei bambini. Un muro cresce facendo il filo a piombo tra due regoli fissati al pavimento e al soffitto. Tiro una cordicella tra i due regoli e guardo con l’occhio la distanza che resta tra il muro e il filo. Un centimetro d’aria, non di più. Mattone dopo mattone.

– Mi fai ridere, mi fai.

– E di muri ogni giorno devo alzarne almeno quattro, che ci riescono a fatica anche i muratori più esperti.

– Allora sei un veicolo!!! – urlò mia madre ridendo.

– Un veicolo? … Ma va’!

– Esatto, sei una macchina che non si stanca mai.

Ricordo tutto ancora così bene, avevo le mani incastrate tra il piano della sedia e le cosce, li fissavo e ascoltavo incantato, perché era raro capitasse di vederli discutere da posizioni così diverse senza accanimenti o cattiverie represse da rinfacciarsi; si prendevano in giro scherzando, senza strascichi.

– Non mi sfottere, perché al lavoro sono consapevole delle mie capacità.

– Ma nelle faccende di casa non aiuti un bel niente – lei ribadì convinta ma divertita, dopo un istante di ponderazione.

– Mi annoio perché queste sono cose da donne.

– Appunto, sei un veicolo nel tuo lavoro e basta.

– Anche quando ti abbraccio però, che ti faccio ribaltare il cervello.

– Sei un cretino! Ecco cosa sei, …a parlare in questo modo.

Mio padre alzò il bicchiere per brindare e mia madre gli andò dietro.

Li fissai intensamente negli occhi e sorrisi.

Quella sera d’estate uscimmo a mangiare il gelato in centro e rientrammo dalla passeggiata dopo mezzanotte, stanchi e accaldati.

A quel punto però qualcosa già stava cambiando, tutti i giorni alla Tv davano dei film d’avventura e quando finivano in me si era persa anche la voglia di andare a giocare in terrazza. Stare alla televisione esauriva un po’ la fantasia, perché non avevo più stimoli a inventarmi dei giochi. Le montagne erano scomparse dal mio sguardo già da alcuni anni, nascoste dai nuovi palazzi. Quasi per caso un giorno mi accorsi che le foglie del nostro susino stavano ingiallando. Era vero che non giocavo più sull’albero, ma quella pianta mi stava sempre a cuore, così corsi da mia madre e la informai. Mi disse che era un effetto causato dalla siccità di quell’estate così afosa, che anche gli alberi ogni tanto si ammalavano. La sua risposta non mi lasciava tranquillo così decisi di curarlo con le mie forze. Iniziai ad uccidere tutte le formiche che salivano sul tronco in una stressante fila indiana. Impresa titanica, perché più ne uccidevo più che arrivavano di nuove dal terreno dell’orto. Per questo pensavo che fossero la causa del suo male. Dopo una settimana di stragi c’erano molte più foglie ingiallite e i frutti acerbi cadevano a terra. Pensai che forse gli serviva dell’acqua, ma se è per questo non avevo mai visto mio padre annaffiarlo. Ancora qualche giorno e le susine cadute si moltiplicarono, mentre le cime dei rami più esili già si spogliavano delle foglie come in pieno autunno. Una sera lo vegliai fino a tardi, cercando di capire se la causa della sua malattia si manifestasse con il buio, ma anche a quell’ora non accadde niente di particolare. Era un mistero e non riuscivo a darmi pace.

L’agonia del nostro susino si protrasse fino a ottobre, poi, un sabato che aveva libero dal lavoro, mio padre decise di abbatterlo.

– Aspetta babbo, è stato con noi così tanto tempo.

– Spartaco, non c’è altra soluzione… Peccato però.

– Chi l’avrebbe mai immaginato -. Si era intromessa anche mia madre.

– Ma può riprendersi babbo. Il sacerdote al catechismo a scuola ci ha raccontato che era stato testimone di una morte apparente. Dicendo messa per un funerale sentiva provenire dei rumori dalla bara, l’hanno aperta e quell’uomo è uscito fuori spiritato, ma vivo.

– Lascia stare le barzellette dei preti – disse mio padre ridendo.

E mia madre: – È inutile aspettare Spartaco, … fa più tristezza questa pianta secca qui davanti agli occhi a ricordarci che si muore. Se non c’è il susino, avrai altre cose vive a cui attaccarti.

In quello spazio che si sporgeva sui campi come una mano protesa ho trascorso molta della mia infanzia, in compagnia di un binocolo, del mio gatto, degli album da disegno dove facevo gli acquerelli, dei soldatini di plastica con i quali guerreggiavo sperimentando tattiche militare di ogni epoca della storia umana. Ero un ragazzo curioso, vivace e ribelle, ma in quella terrazza tutte le ansie si addolcivano per dare spazio a una forma di equilibrio grazie alla quale, ogni cosa facessi, non sentivo mai nessuna fatica. A volte fantasticavo che gli antichi studiati a scuola avessero giocato a inventare degli eroi per combattere la noia eterna solo per sfizio di competizione, un po’ come egoisticamente immaginavo il tempo deformato dai giochi che facevo in quello spazio circoscritto, ma mentre mio padre stava tagliando il susino e la nostra terrazza si riempiva di rami e di frasche, mi sembrava davvero piccola, come non lo era mai stata ai miei occhi. Ogni suono e ogni colpo d’ascia si riducevano a un sordo rumore rimbombante in un volteggiare di segatura e di foglie secche sbriciolate, e dello stesso tono erano le voci, ogni passo, tutti gli oggetti che spostava mia madre per non fargli prendere troppa polvere. Volevo sentirmi utile ma non ci riuscivo. Tutto mi sembrava assurdo, la terrazza era come una donna nuda che si vergognava di essere guardata.

Naturalmente aveva ragione mia madre: si deve sempre guardare avanti, … nonostante tutto. Oltre al susino anche molte di quelle persone su cui avvicino dei pensieri ormai non ci sono più. I genitori li ho in testa ogni giorno perché conservo tanti beni anche materiali che gli sono appartenuti, invece delle altre persone adulte che ci sono state nella mia infanzia certe volte non ricordo nemmeno i nomi. Mi tornano davanti dei volti, dei particolari, delle frasi e dei sorrisi, magari il tono di una voce. Immagini vaghe, gesti ripetuti, … nient’altro. È più naturale quando vado al cimitero a far visita ai defunti, scorrere lo sguardo tra le lapidi per leggere un nome e cognome collegato alla foto di un volto, solo così una certa persona torna in vita in un modo quasi fisico. Mentre per il susino è diverso, sembra sempre che sia esistito solo nella mia mente.

 

NOTA: Il racconto La vita dell’albero e la mia è stato pubblicato sul numero 77 di Nuovi Argomenti – IL FANTASMA NELL’OPERA – gennaio/marzo 2017.

Mio figlio andrá a scuola

NOTE DI FINE ESTATE (4)

di Donato Salzarulo

1.- Sui cinque anni a Tavoletta porto spesso il toro all’abbeveratoio, vicino al pozzo. È abbastanza distante dalla stalla. Lo trascino per la cavezza e lui tranquillo mi segue. Poi lo riporto indietro e lo riaffido a mio padre.
Non faccio solo questo: nelle belle giornate lo accompagno mentre porta le mucche a pascolare verso l’Ofanto. Ho ancora nelle orecchie le sue grida di richiamo, non appena vede qualcuna allontanarsi troppo dal branco: “Neeriiii votaaa-voo!” “Biaanchiii, torna qua!”
Guardo la mia sorellina di un anno sistemata nel seggiolone di legno; vado a controllare se le galline hanno fatto le uova nel pollaio (potevano farle anche fuori!); vado a spigolare insieme a mio fratello. La mamma ha cucito due sacchetti adatti alla nostra età, ce li appende al collo e, dopo il passaggio della mietitrebbia, ci manda per i campi a raccogliere le spighe rimaste. In questo modo, un giugno-luglio raccogliamo, non ricordo bene, se tre o quattro quintali di grano…
Non vorrei esagerare. Non mi sono sentito una vittima né un bambino sfruttato. Facevo ciò che in campagna un bambino della mia età in quegli anni ordinariamente faceva.
Gioco pure tanto sull’aia con mio fratello e Franchino, il figlio del guardiano dei cavalli. Giochi di movimento (ad acchiapparsi, a nascondino, ad arrampicarsi su un albero), giochi di costruzione, giochi imitativi e simbolici…

2.- Un giorno, don Attilio, il padrone della masseria, rivolto a mio padre, dice:
«Domenico, hai un bravissimo figlio!… Sarà come te un ottimo massaro».
Non l’avesse mai detto. Alzando il dito medio, gli risponde:
«Don Attì, t’aggia sci ‘nculo!… Mio figlio andrà a scuola!».
E, infatti, di lì a qualche mese, mi affida a sua madre e a sua sorella per poter frequentare la prima elementare a Bisaccia.
Negli anni successivi tante volte mi ripete il racconto di questo breve ma intenso scambio verbale fra lui e il padrone. Me lo ripete con soddisfazione sempre più compiaciuta in relazione diretta ai miei successi, si dice così?, scolastici e professionali.
Non c’è bisogno di consultare un analista per capire che, attraverso la mia persona, realizza un suo sogno. Un sogno nutrito da molti padri contadini di quella generazione. Un sogno di emancipazione sociale, di miglioramento delle condizioni di vita dei loro figli.
Sono andato a scuola, ho insegnato, ho fatto il dirigente scolastico, e tante altre attività sociali, culturali e politiche. Tutto bene, dunque? Ho realizzato il sogno di mio padre. Ma è davvero così?

3 – Il mio compare di fede si chiama Michele. Fa per decenni l’insegnante d’italiano all’estero. Verso la fine degli anni Ottanta lavora ad Addis Abeba. In uno dei miei ritorni estivi a Bisaccia ci incontriamo e mi invita calorosamente ad andare a trovarlo per visitare quei luoghi.
Ad un pranzo insieme, glielo riferisco a mio padre. I suoi occhi grigio-azzurri si accendono.
«Oh, che bella cosa!… Dai, Donato, andiamo…Andiamo per una quindicina di giorni… Pago tutto io».
«Papà, ma come faccio?… Ho troppi impegni: la famiglia, la scuola, l’assessorato, la politica…Come faccio a lasciare tutto?… Ne riparliamo, in un momento più propizio».
Non ne riparliamo più. Il 13 giugno del 1991, mio padre muore.
Ho il rimorso per non averlo accompagnato.
Aveva trascorso là, in Etiopia, 9 anni della sua gioventù. Aveva diritto a rivedere quei luoghi.
Magari voleva ripensare e riflettere meglio su un segmento di storia della sua vita.

4.- Sia chiaro. Se ho reso pubblica la “Cronologia essenziale della vita di mio padre” è perché non lo ritengo soltanto un fatto privato. O, meglio, è una storia di famiglia, una storia di generazioni, di rapporti tra di noi, ma i suoi risvolti sono sociali, culturali, politici. La sua storia non è quella di un magnate dell’industria o quella ultra propagandata di un miliardario creativo come Steve Jobs. Non è neanche quella di uno scrittore, filosofo, pedagogista o altro.
Nello stenderla mi sono limitato a mutuarne la forma dai manuali letterari o filosofici, anche se mio padre, a parte una decina di “cartoline dal carcere”, non ha scritto niente. La Cronologia, infatti, registra prevalentemente la data, il luogo in cui si trova e l’attività lavorativa.
Per parlare di lui, però, ho notato che sono stato spesso costretto a parlare di altri. Così ad esempio, ho dovuto scrivere che il nonno emigra in America per dire che trascorre l’infanzia in simbiosi con la madre. Un dato importante. Così importante che, nel 1950, quando mio padre viene incarcerato per aver occupato terre incolte, le lettere al figlio sono firmate unicamente da sua madre. Il padre Donato è come se non esistesse. Ovviamente nessuno dei due sa scrivere. Per l’occasione la scrivana è la loro figlia Francesca, che ha frequentato la terza elementare (anche l’istruzione di mia madre si ferma a questa classe) e che evidentemente riceve l’ordine di firmare così. O le viene da firmare spontaneamente così. Come se in famiglia si sapesse che tra padre e figlio la relazione sia corrosa, arrugginita. E ci credo! Mandare un figlio sotto padrone a nove anni è sorte quasi peggiore di quella accaduta a Gavino Ledda, che impara a fare il pastore del gregge di famiglia e non il bovaro delle mucche degli altri.
Ma non è di questo che voglio parlare. Non invidio Ledda. Mi interessa soltanto sottolineare che, quando si scrive la Cronologia della vita di una persona, si è costretti, comunque, a vederla in relazione. Una relazione doppia: con noi stessi e con gli altri. Nel caso di chi scrive o di chi pensa per professione, la relazione con sé stessi si traduce in opere. E la relazione con gli altri diventa occasione di incontri, confronti, scontri, dissensi, ecc.
Non è che mio padre non abbia vissuto le due facce di questa medaglia relazionale. Non avendo, però, scritto niente, tutto rimane affidato alla tradizione orale: ad esempio, l’aneddoto del suo scontro verbale con don Attilio; un aneddoto, comunque, importante per capire i suoi pensieri, i suoi valori, le sue scelte e i suoi atteggiamenti in quel preciso momento storico.
Sempre per esemplificare, in quegli anni, oltre ad essere iscritto al PCI, e aver vissuto l’esperienza dell’occupazione delle terre incolte e del carcere, è sicuramente un iscritto alla sezione Federbraccianti della CGIL. Il rappresentante di Cerignola V. Pasculli gli scrive su un foglietto timbrato tutto ciò che gli spetta come massaro di bovini (12.329 Lire al mese, 25 Kg di grano sempre al mese, olio, sale, provolone, ricotta, indennità caro pane, ferie, ecc.); un foglietto che sicuramente lui portò al suo padrone…

Insomma, a scrivere una Cronologia c’è di che riflettere. È una scrittura-soglia che apre diverse piste. Per il momento mi limiterò ai seguenti punti:

  1. Il rapporto con mio padre
  2. Fascismo e consenso
  3. La mitologia dell’individuo
  4. Il privilegio della scrittura
  5. La biografia di molti giovani oggi.

5.- Se nella Cronologia si calcola lo spazio dedicato al periodo 1914-1953 e 1953-1991, si nota che il primo è molto più ampio del secondo. In breve, dedico meno parole e pensieri al tempo vissuto insieme. So di più e scrivo di meno, so di meno e scrivo di più.
È vero che una persona è sempre una montagna da scalare e in certe zone proprio non si riesce a salire. Ma quasi quarant’anni sono sufficienti per poter dire qualcosa di sensato su una persona. Io non ho avuto problemi sostanziali con mio padre perché ho accettato (e accetto) fino in fondo alcuni suoi valori sostenuti nel tempo vissuto insieme: l’importanza dell’istruzione, il lavoro svolto bene e onestamente, l’eguaglianza tra le persone, la lotta per il comunismo e per una società migliore, ecc.
Penso di non aver dedicato molto tempo alla conoscenza della storia della sua vita prima del matrimonio con mia madre (dicembre 1947) per una serie di ragioni elencate in una recensione al libro di Giuseppe Antolino, un mio compagno di scuola (qui), che, invece, sapeva tutto o quasi tutto di suo padre.
Scrissi: «Insomma, leggendo il libro del mio compagno, ho scoperto di conoscere pochissimo quel periodo di vita di mio padre. Perché? Bella domanda. Forse perché, educato alla politica con le manifestazioni antimperialiste della guerra Usa nel Vietnam, non amavo (e non amo) questo passato colonialista del nostro Paese. “Italiani brava gente”?… Smettiamola! Poi proprio in quegli anni si scopriva che i nostri avieri avevano ripetutamente irrorato d’iprite (e altri gas) quelle popolazioni. Forse perché preferivo il padre ribelle, comunista e occupatore di terre irpine del dopoguerra a quello “civilizzatore”, fascista e a caccia del “posto al sole” nelle terre etiopi. Fra le mie scelte e quelle sue degli anni Cinquanta coglievo maggiori elementi di continuità. O forse perché abbandonare una donna e un figlio, anche se si è costretti, non mi sembrava un motivo d’orgoglio. O forse perché la perdita della primogenitura rappresentava una ferita inconscia da rimuovere. O perché mio padre non era un grande narratore ed io ero un distratto e pessimo uditore…».
Diciamo pure che ho operato una rimozione. Ho fatto male, perché proprio la sua storia di vita evidenzia a chiare lettere la politica fallimentare del regime fascista.

6.- Recentemente un intellettuale liberale del calibro di Ernesto Galli della Loggia in un editoriale apparso sul Corriere della Sera (1/11/2021, difende la vulgata del Mussolini che “ha fatto qualcosa di buono”. L’elenco è il solito e non voglio neanche ripeterlo. «Ma cosa vale tutto ciò di fronte all’altro lato della medaglia? Di fronte al non potere senza permesso stampare un volantino o convocare una riunione pubblica per discutere di una qualunque questione, al non potere abbonarsi a un giornale straniero di proprio gusto o organizzare un sindacato? Che cosa vale di fronte all’essere guardati con sospetto se invece di un buon cattolico si è per caso un valdese, alla possibilità di essere fermati e arrestati a discrezione di qualunque poliziotto, di dover restare sempre zitti e buoni, pena un pestaggio o un litro di olio di ricino, di fronte al primo idiota che indossi una camicia nera? all’obbligo di dover essere sempre d’accordo in pubblico con quello che pensa o decide Lui? E che cosa valgono oggi, retrospettivamente, tutte le “cose buone” di cui si è detto sopra di fronte alle leggi razziali, alla decisione di allearsi con le belve per fare una guerra, per giunta senza neppure curarsi di disporre dei mezzi necessari, di fronte alle distruzioni senza pari abbattutesi di conseguenza sulla penisola?» (Corsera, pag.28)
Ecco, secondo Galli della Loggia, il piatto positivo della bilancia. Rileggo. E poi rileggo ancora. Alla terza volta penso a mio padre. Nel 1923-35 è apprendista vaccaro a Montella. Stampare un volantino? Convocare una riunione? Abbonarsi a un giornale straniero?… Sì, in effetti, ne ha un gran voglia e gli scoccia non poterlo fare.
Cattolico?…Valdese?…Si, in effetti, recentemente, studiando a fondo i movimenti pauperistici del cristianesimo,  ha deciso che, essendo un povero, si sente più in sintonia con i valdesi e, quindi…
Scherzi, a parte.  Ecco come ragionano gli intellettuali liberali. Non guardano neanche il mondo dalla loro finestrella. Semplicemente lo identificano con il loro mondo: libertà di stampa, di riunione, di religione, di parola…Tutte esigenze giustissime e da difendere a spada tratta.
Ma della Loggia, che considera positiva la riforma Gentile, sa quanti erano gli analfabeti durante il fascismo? Quasi uno su tre (il 27%). Esattamente quanti ne contava l’Italia liberale.
La storia di vita di mio padre e di tutta la sua famiglia fa capire che il fascismo ha lasciato in tutta la penisola milioni di contadini (e non solo) in uno stato sostanziale di analfabetismo. Salvo che non si voglia considerare alfabetizzato e istruito una persona che sa fare la sua firma e che ha frequentato la scuola fino alla terza elementare.
Quando si dice che il regime aveva il consenso della stragrande maggioranza di italiani, cosa si intende per “consenso”?…Quello espresso da mio padre nel momento in cui, dopo l’assolvimento dell’obbligo militare, nel 1937 firma volontariamente e parte per l’Africa orientale?…Ma che alternative ha?  Relegarsi in campagna a pulire una stalla, a tirar via paglia e merda da sotto le mucche, a riempire di fieno la mangiatoia, a mungerle, ecc. ecc.
La libertà non è solo quella di parola, di stampa, di riunione, di religione…Libertà è anche il pacchetto più o meno ampio di possibilità che una persona ha.
È chiaro che un giovane bovaro nelle sue condizioni è una persona ideale per la propaganda del regime: l’Etiopia come eldorado, terra, lavoro e donne, un posto al sole altro che i muggiti delle vacche di Montella…
Io non interrogo, non chiedo, non domando. Ma mio padre sorvola. Su questo periodo è abbastanza reticente. E non solo per via della donna e del figlio su cui preferisce tacere. Anche perché, essendo inquadrato nell’esercito, sicuramente partecipa ad operazioni militari non sempre confessabili.
Per quanto mi riguarda, non ho dubbi. Alla fine condivide la filastrocca popolare bisaccese:
“Duce e duce che ngiai fatt’a riduce / lu jorne senza pane e la notte senza luce” (Duce, duce come ci hai ridotti / il giorno senza pane, la notte senza luce).
L’analfabetismo era una piaga così diffusa nelle campagne che, durante tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, l’UNLA aveva a Bisaccia un suo edificio e organizzava i corsi serali di educazione degli adulti.

7.- Il liberalismo è un’ideologia. Sostiene notoriamente l’assunto che una società è composta da una somma di individui autonomi e sovrani. “Ogni uomo è dio / il testo pensiero povero /stantio” ho scritto una trentina d’anni fa. Per carità! Non ho nessuna voglia di metterla in discussione in questa occasione. Ma un individuo non cresce in una famiglia? Non ha bisogno di risorse, relazioni, stimoli?…Nessuno di noi nasce “individuo autonomo e sovrano” e, magari, pure col “pensiero critico”. Lo si diventa. Questo processo si chiama “individuazione”. Ma per “individuarsi” occorre “socializzarsi”, così come per parlare una lingua occorre esporsi alla conversazione con gli altri.
Se questa “socializzazione” non ha lo scopo di formare “individui autonomi e sovrani”, si modella una massa di gregari, obbedienti alla voce e alle parole del Capo. Credere-obbedire-combattere. Se poi questi individui non sanno né leggere né scrivere (o lo sanno fare pochissimo) si indebolisce il processo di individuazione.
Imparare a trasferire sulla carta i propri pensieri (magari, non soltanto per comunicare alla propria moglie come si sta in carcere) attiva processi fondamentali per dirigersi verso quella meta dell’”individuo autonomo e sovrano”. Ammesso che sia raggiungibile. Perché neanche un re è completamente autonomo e sovrano. “Il re è nudo”, racconta Andersen nella sua fiaba…
Comunque, che individui poteva formare il regime fascista?…
Quella di mio padre, secondo me, è la storia di una persona che subisce direttamente e/o indirettamente una catena di violenze sociali e culturali. A partire da quella di finire sotto padrone a nove anni. È la storia di una persona che introietta una visione violenta e autoritaria dei rapporti sociali.
Ecco perché per lui mandare i figli a scuola diventa un dovere fondamentale: perché ha subito molte umiliazioni.
Quando insiste a ripetermi l’episodio del dito medio alzato contro don Attilio, forse non vuole soltanto dirmi che si è comportato da ottimo allevatore di cuccioli, sacrificandosi per mandarci a scuola. Forse vuole dire che dobbiamo ascoltare la sua storia di violenze subite, scriverla, rifletterci sopra. Lo chiede soprattutto a me che per decenni scrivo centinaia di volantini e articoli con lo scopo di denunciare le condizioni di bisogno di persone umili come lui e la mia famiglia. Come?!… Si fa raccontare tutto sulle condizioni di lavoro in questa o quella fabbrica e non mi domanda nulla su come vivevo quando facevo l’apprendista bovaro?…

8.- Chi scrive è un privilegiato. Non solo perché fin dall’origine questa attività viene esercitata da un ceto sociale privilegiato. Ma perché potenzia enormemente il processo di individuazione. Scrivere è come costruirsi una stanza tutta per sé. È vero che può trasformarsi in una prigione. Ma spesso è uno spazio di conoscenza del Sé nel proprio rapporto con gli altri. E così si cresce. È lo spazio della coscienza morale e dell’immaginazione, della responsabilità e della finzione.

Quando ti ho riconosciuto,
eri già passato, già consegnato
alle falde acquifere della morte.
Nel sottosuolo poroso della memoria,
non c’è volo di rondine che possa
salvarti, né grido di gabbiano
che possa riportarti alla lieve
carezza del mare.
                        Non posso nulla contro
questo continuo mancare.

So che mio padre non avrebbe potuto scrivere tali versi. Non avrebbe potuto ricavare, ad esempio, dai suoi cinque anni di prigionia versi simili a quelli del “Diario di Algeria” di Vittorio Sereni; ma un quaderno in cui s’appuntava con la sua grafia non proprio da prima elementare, perché capiva che non poteva continuare a tracciare le parole come un bambino di sei anni, gli avvenimenti più importanti che gli capitavano, poteva scriverlo. Chissenefrega se sarebbero state pagine infarcite di errori d’ogni tipo e se certe volte sarebbero apparse indecifrabili. Hanno decifrato i geroglifici. Avrei decifrato anche i suoi.
Francamente non capisco quelle persone che vorrebbero avere a che fare soltanto con opere di grande letteratura. La scrittura non è stata inventata per far esprimere esclusivamente i campioni e i premi Nobel. Sereni, un poeta che amo, non sarebbe stato defraudato di nulla se mio padre avesse raccontato la sua esperienza della prigionia, a suo modo e con i suoi scarsi mezzi a disposizione.
Il fatto, secondo me, è che non aveva una grande pulsione a narrare né a documentare. Non si sentiva né testimone né protagonista. Viveva la sua vita di prigioniero e la cosa finiva là. Aveva già introiettato la scarsissima importanza della sua vita confrontata a quella di una “grande personalità”. Peccato. Anche questo suo atteggiamento andrebbe addebitato probabilmente ad un’educazione fascista, di destra. Si fosse imposto di scrivere almeno un’ora alla settimana cosa gli era successo, oggi avrei un diario da leggere e non starei qui a lambiccarmi. O forse starei ancora qui a lambiccarmi per cercare di decifrare i suoi racconti e i suoi pensieri, ma avrei qualcosa tra le mani. Serviva solo a me o, al massimo, ai miei familiari? Può darsi. Non ci sarebbe stato nulla di male.
Ma la vita, si sa, è ricca d’imprevisti.

9 – Spero di no, ma ho l’impressione che la carriera lavorativa di molti giovani d’oggi stia diventando molto simile a quella di mio padre: precaria e flessibile. Oggi qui, domani là. E con salari o stipendi tutt’altro che appetibili. Le condizioni economiche, sociali e culturali sono indubbiamente mutate, ma molte sono le attività in cui chi lavora si trova da solo a fronteggiare padroni e padroncini sempre più sfuggenti e tutt’altro che socialmente responsabili.
Ovvio: la stragrande maggioranza dei nostri giovani non pascola più mucche o ara terre. Questo lo fanno gli stranieri contro cui si scaglia Salvini e, purtroppo, una buona parte della nostra società. In conclusione, il clima sociale, culturale e politico non mi sembra entusiasmante.
Forse riflettere sulle storie di vita dei nostri padri e dei nostri nonni può servire ad elaborare o rielaborare frammenti di “coscienza storica” utili ad affrontare il nostro presente.
Per questo ho scritto la “Cronologia essenziale della vita di mio padre”. Principalmente per questo.

Il merlo del Perù

di Rita Simonitto

Giorni addietro, senza che facessi nulla per riattivare questa memoria (o forse un contesto particolare me ne aveva fornito gli stimoli) mi sorpresi a canticchiare una filastrocca dal testo un po’ bizzarro. Ricordo che la cantava mia madre. Forse si trovava in uno di quei momenti in cui una specie di bonaccia inframezzava tempeste virulente di ordine sia familiare che di disagio sociale. E, come in un film, accompagnate da questa ‘colonna sonora’, scorrevano immagini provenienti da un mio passato infantile sovraccarico di emozioni contrastanti: disperazioni rabbiose ed ebbrezze magiche.

Ed ecco un cestino di vimini color acqua marina che usavo per portare la merenda alle elementari e che, come un contenitore fatato, volevo sempre con me. E allora capitava che, in certe particolari occasioni me lo tenessi ancora più stretto. E così, sedute su un prato primaverile, mia madre ed io, mentre io lo riempivo di pratoline lei, rammendando qualche cosa, cantava: “C’era una volta un merlo, il merlo del Perù. Era senza saperlo un modello di virtù. Un giorno il merlo disse purtroppo sono solo, almen se prendo moglie, la notte mi consolo. Allodola mia bella tu sei una mia sembiante, allodola mia bella sarai la mia amante”. E senza dubbio le strofe continuavano, ma per quanto mi sia sforzata di recuperare quel seguito, il tentativo è andato a vuoto.

Piuttosto ricordo che anni dopo, ormai ben più grandicella, casualmente riconobbi l’aria su cui si poggiava quella filastrocca. Aveva a che fare con il Fra’ Diavolo: “Quell’uom dal fiero aspetto, guardate sul cammino/lo stocco ed il moschetto/ha sempre a lui vicin./ Guardate un fiocco rosso/ei porta sul cappello/e di velluto indosso/ricchissimo mantel.//Tremate!/Fin dal sentiero del tuono/dall’eco viene il suono/”Diavolo, Diavolo, Diavolo.” La musica era proprio quella!

Che avevano da condividere questi due mondi completamente diversi? Mah!

Se ripenso ad allora, quella canzoncina mi arrivava disinvestita di particolare attenzione, impegnata com’ero a raccogliere margheritine per farne braccialetti da portare alla maestra elementare (una suora, suor Enrica, che spesso intercalava i discorsi con il suo “vabbene vabbene ggià ggià”). Eppure credo che, inconsciamente, mi si infiltrassero domande su come immaginarmi questo merlo del Perù, così speciale da essere un “modello di virtù”, dato che i merli che capitavano sotto il mio sguardo, pur apprezzati per i loro gorgheggi, non mi sembravano niente di che. Certamente c’era il becco di un arancione singolare che spiccava come una lama sul lustro piumaggio nero. Oppure gli occhietti mobilissimi bistrati di giallo. Ma non finiva lì. Se mi sforzo di ricordare, quell’alone di mistero si confrontava con altre esperienze singolari legate alle rare passeggiate nei campi assieme a mio padre, il quale si reggeva a stento sulle gambe quando tornava emaciato dai permessi temporanei che gli venivano concessi da un qualche sanatorio. Poi lui sembrava rivitalizzarsi, eccitandosi quando incocciavamo in un nido di merlo nascosto in una rosta. E allora gli prendeva una specie di frenesia, dovevamo subito allontanarci per evitare che la mamma merla, insospettita dalla nostra presenza, abbandonasse la cova. E doveva strattonarmi via dal mio desiderio di prendere in mano uno di quegli ovetti screziati, misteriosi perché dentro c’era una vita. E mi sgomentava la sua collera quando mi opponevo: “Così li uccidi, così li farai morire tutti!”. Passare per assassina non era certo il massimo così mi mettevo a piangere. Ma oggi mi chiedo, in quei suoi scoppi d’ira a quali assassini faceva riferimento? Chi potevano essere stati per lui i veri turbatori di nidi?

Poi la calma tornava e mi raccontava dei diversi periodi di cova, quando la merla passa, proprio per proteggere le sue uova, dal collocare il nido tra gli anfratti del terreno, perché gli alberi sono ancora spogli, alle nidificazioni successive ad altezze sempre superiori per essere protette dalla vegetazione. E mi parlava del merlo, il suo compagno, che stava di vedetta e vigilava, quando mamma merla si allontanava per cercare cibo: e se c’era un pericolo mandava un richiamo particolare. Ero affascinata da queste storie al punto tale che avrei voluto provocarle: sentire com’era fatto lo zirlo del merlo in presenza del pericolo, ma mi bloccava il timore di produrre delle catastrofi a causa della mia irrispettosa curiosità.

Ciò nonostante, percorrendo le frammentarie strade dell’inconscio, il merlo del Perù continuava ad alimentare i misteri e io non osavo porre domande anche perché, in quella sua nenia, sembrava che mia madre fosse persa in qualche suo sogno, mentre io, dall’altra parte, pur presa dalla mia attività di confezionatrice di monili floreali, non riuscivo a distogliermi da quella presenza enigmatica che lei rappresentava… Forse che lei da qualche parte aveva visto il merlo del Perù? Era forse lei quell’allodola che cantava con voce così armoniosa e…

O invece quel canto, come per magia, aveva il potere di far sparire la miseria nera del dopoguerra, le tragedie familiari di mariti-soldati tornati feriti non solo nel corpo ma anche nello spirito… pensava a questo mia madre mentre con sua figlia piccola accanto a sé cantava e chissà sognava un mondo di armonia nella natura o, tutt’al più, il vendicatore degli oppressi, Fra’ Diavolo? E perché il merlo del Perù si sentiva solo: era incomprensibile, a maggior ragione essendo lui un modello di virtù. Perché, perché, perché… Ma la stagione dei perché era finita da un bel pezzo. Non ininfluente il fatto che mio padre mi diceva: “invece di domandare sempre in modo così precipitoso, osserva, ascolta!” Ovviamente attitudini che lui non metteva in pratica!

E avrei voluto chiedergli che cosa si potesse fare poi con le osservazioni e con gli ascolti, ma ormai era già partito per altri ricoveri ospedalieri!

Ma come mai oggi mi tormenta non soltanto questa filastrocca ma il fatto di non ricordarne il seguito? Che cosa rispose l’allodola?

Forse perché la giornata di oggi è uggiosa di fuori e anche di dentro. O forse l’aver letto la statistica drammatica dell’entità crescente dei suicidi tra ragazzi mi ha sconvolto fin ogni dire. Uno su sette, si legge. In aggiunta, il drammatico quadro di nascite ridotte… e poi di quei figli che pur sono arrivati e che però abbandonano la partita mi scava dentro una ferita. Che sta succedendo? O che cosa può succedere quando non c’è un’idea di futuro? E nessun accompagnamento verso il futuro?

Una certa vulgata punta il dito accusatore sulla pandemia, sul come è stata gestita, i lock down limitativi … ma non credo che si tratti solo di questo. Perché tutto questo ha rappresentato l’emergente, la punta dell’iceberg… sotto c’era la parte nascosta che, non vedendosi, permetteva a tutti di continuare a ballare spensierati, come avvenne sul Titanic, fino all’ultimo secondo. Quello che non si vede (o non si vuole vedere) è come se ‘non ci fosse’. E ci si accorgerà della sua presenza solo quando il tragico impatto sarà avvenuto!

Ecco il ronzio del cellulare, un mio collega, ciao, ciao Guido, come va?

I soliti ‘rompighiaccio’ di prammatica. E’ da un po’ che non lo sento. Da quando si è trasferito di Regione. Ha immaginato che tornando là dove era cresciuto e aveva vissuto per molti anni sarebbe stato più in contatto con il territorio, con le sue peculiarità, “sai, nel nostro lavoro, anche questo è importante! Come parlare con la nostra lingua madre”.

Ne convengo. Anche se pure la lingua dei padri ha il suo peso, non solo psicoanaliticamente parlando, ma anche sotto l’aspetto della trasmissione dei valori. Si tratta solo di salvare nidi? O non anche di riconoscere ciò che diceva J. W. Goethe: “Ciò che avete ereditato dai vostri padri, guadagnatevelo, in modo da poterlo possedere”? Ma non ho voglia di parlarne con Guido adesso. La ‘dissonanza cognitiva’ (L. Festinger) oggi imperante, mi inibisce anche il più sano desiderio di confronto. So già che lotterò ad armi impari.

“Sei un po’ moscia, ti è successo qualche cosa?”

“No, no. Non mi è successo niente”.

Eppure qualche cosa si è mossa dentro di me. Ma non so come articolarla, come mettere assieme frammenti di passato ed una realtà che, violenta, fa irruzione in un quotidiano che sembra sonnecchiare, o, tutt’al più, avere rigurgiti di operatività, “dobbiamo fare qualche cosa”, “faremo così e così”. Ma sempre a valle e mai a monte. Mai un pensiero a monte. E allora l’esperienza storica (sì, anche quella personale) a che cosa ci serve?

Nel mio piccolo privato, come faccio a far stare assieme (ammesso che ci stiano assieme) e poi a comunicarlo, il “merlo del Perù” – con tutto l’apparato fantastico/storico che l’accompagna – con la crudezza apparentemente insensata di un suicidio giovanile? Non lo so. Forse sto, come si suol dire, partendo per la tangente? Forse, si!

Così il dialogo con Guido prosegue senza scarti emotivo/cognitivi di rilievo al di là della sua interessante idea di propormi per un tavolo di lavoro che coinvolga, trasversalmente, sociologi, psicologi e amministratori sanitari per la gestione della situazione pandemica (e, si auspica, post pandemica).

Nel mentre parlo, camminando su e giù per la stanza con il cellulare in mano, mi sorprendo a fermarmi ad una finestra che di fronte contempla un gelso, ormai vetusto, il quale, in modo surreale, sembra protendere i suoi nodosi rami, ormai depauperati dalle foglie, contro i vetri, verso di me: è una scena lugubremente minacciosa, tant’è che mi ritraggo spaventata da quegli artigli …

“Ehi, Giovanna, che c’è? Giovanna, Giovanna!” grida Guido.

“No. No. Non è niente. Solo il passato che ritorna”, gli rispondo, criptica.

Chiudiamo la conversazione che cerchiamo di stemperare con qualche battuta di spirito sulle odierne vicende politiche (la pensiamo diversamente ma ciò non ci impedisce di confrontarci, prendendo ciò che possiamo prendere e senza ostilità. Forse fa da base un antico affetto che ci lega). Solo che mi sovrasta l’immagine di quei rami di gelso, quelle scheletriche braccia che prepotentemente vogliono entrare nella stanza e mi sento tremendamente sola.

“Ah, Guido… Ascolta! Ma no, no. Ciao!”

E che? Gli avrei cantato le strofe del merlo del Perù? Magari ci avrebbe fatto su una sghignazzata. Soprattutto al passaggio “Un giorno il merlo disse, purtroppo sono solo, almen se prendo moglie la notte mi consolo”.

La grassa risata del mio amico che dilaga e contagia i presenti! Nello stesso tempo avrei voluto uscire dalla filastrocca e chiedergli: “Si consolerebbe davvero con la sua ‘sembiante’? Con quella che lui desidera come suo ‘simile’? Ma quale similitudine? Nel canto, forse? Tutti d’amore e d’accordo? Ma se tutti sono d’accordo, non c’è conflitto, non c’è evoluzione! E poi le sue merle, o la ‘sua’ merla?”. Voleva una avventura diversa? Già. Quanti veloci pensieri si sbattono impazziti nella mente…

E poi mia madre, la mia dolce madre, così fragile e indifesa, ragionevolmente stufa dei disagi all’interno di una coppia segnata dalle disastrose conseguenze di una guerra, forse avrebbe voluto per sé un amante, con cui cantare le stesse canzoni, vivere all’unisono in tutto e per tutto? Due cuori e una capanna?

E io? Che posto avrei avuto io in quel sogno così avviluppante, che li avrebbe stretti, avvolgendoli, su e su, di gorgheggio in gorgheggio fino a divenire due puntini nella vastità del cielo?

E dunque, io? Frutto invece dell’incontro importante tra due diversità… allora non ci sarei stata? E bla, e bla e bla.

Ma non avrei potuto parlargli di queste cose: “ah, ah, ah, ih, ih, ih” – la sua multiforme ridariola (tradotto in un più colto fou-rire, sfrenato) – “dai, Giovanna. Non stare ad arzigogolare! Concentrati sui problemi! Quelli ‘veri’, ‘minchiolina mia!’ (perché mi chiami ‘minchiolina’ non l’ho mai capito, né lui me l’ha mai saputo spiegare).

No, certo. So che non gli parlerò di questo, abbiamo tante altre cose su cui confrontarci. Non me la prendo, sicuramente! Ma percepisco un limite nel confronto, limite verso il quale sono (un po’, ma solo un po’) attrezzata. Oltretutto posso attingere ad altre risorse, la fantasia non mi manca. Pensarla diversamente rispetto ad un pensiero ‘unificato’ ovviamente mi dispiace ma non mi sconquassa.

Ma un giovane di oggi? Che cosa può fare se deve confrontarsi con un massiccio modello uniformante? Che fa? Chi trova a sostenerlo? Si omologa? Entra in guerra? E con chi? Con se stesso perché si sente inadeguato? Diventerà lui il suo nemico da abbattere? E il suo corpo diventerà il suo campo di battaglia? Vincitori o vinti? No, non voglio continuare da sola con queste domande che ho già tentato di proporre ma con scarso o nullo successo.

Fuori è salito un vento turbinoso e freddo: mai vista una stagione così stranita, anche le tartarughe che dovrebbero apprestarsi al letargo sembrano disorientate da questi sbalzi di clima, dovremo tenerle d’occhio perché non possiamo metterle nel terrario per il loro sonno semestrale né troppo precocemente né troppo tardi.

Tutto sembra drammaticamente sovvertito! Sovvertito? Sì. Ma non perché c’è stata una legittima ‘rivoluzione copernicana’, in cui si condensano studi, sperimentazioni, ecc. ecc. No. E’ solo… no, non lo posso dire e quindi mi taccio!

I rami del gelso graffiano contro i vetri, spinti da quella forza rovinosa contro la quale non fanno resistenza. Sembra essere nella loro natura assecondarla.

Io, no.

Chiuderò gli scuri!

Conegliano 15.10.2021

Il Re Pescatore



di Elena Grammann

Nella Pieve erano conservate le reliquie di San Celestino. Soltanto il teschio però, diceva sua nonna. Perché quando lo scheletro del santo era stato trasportato sul fiume, se lo erano conteso due barche: una della riva destra e una della riva sinistra. E così, proprio nel mezzo del fiume, nessuno dei due voleva mollare ed era finita che a loro era rimasto il teschio e il resto era andato a quelli dell’altra riva.

Quando sentiva questa storia Viviana si immaginava un fiume molto diverso da quello che conosceva. Un fiume gonfio, lumeggiato di bianco, e al centro, su due barche immobili a forza di remi, alcuni uomini che con ostinazione tirano a sé le estremità del corpo santo.

Dovevano essere due barchette da niente, due gusci di noce per navigare in quel fiume che era un torrente. Viviana se le immaginava come la barca del Re Pescatore, così piccola che ci stavano soltanto un uomo che remava e, a prua, il re intento a pescare. Intento a pescare per dimenticare la sua ferita.

Il Re Pescatore pescava gamberi nel canale quando era in secca e li friggeva nel cortile della Fornace. Viviana aveva assistito alla trasformazione dei gamberi da grigi a rosso acceso. Del sapore non conserva alcun ricordo. Conserva invece l’esatta cognizione della ferita del Re Pescatore, di cui lui pare non accorgersi, e che è il disprezzo della madre.

Non ricorda se la pesca dei gamberi si ripeta in occasione di ogni prosciugamento del canale o se sia avvenuta una volta sola. Propende per la seconda ipotesi. Il padre non è uomo della costanza; è piuttosto il tipo dell’infatuazione passeggera e dell’impresa singola. Una volta recupera, da certi locali dismessi, le tubature di piombo per fonderle e farne lingotti da scambiare con cartucce già pronte. Viviana ricorda con precisione l’espressione di disprezzo e quasi di schifo con cui l’uomo della ferramenta, che è il padre di sua madre, prende i lingotti di piombo di cui non sa che farsi e gli dà le cartucce. Lui di sicuro, suo padre, non se ne accorge.

Se ora pensa a lui, Viviana lo pensa giovane, fra il fiume e il canale. Indica con la punta della scarpa, nel greto, le deiezioni secche e tonde delle lepri. Va a caccia col fucile. Una volta – non sono lontani da casa – la manda avanti, oltre il cartello di divieto di caccia, le dice di aggirare un campo di mais le pare, o di sorgo, e poi di tornare indietro e attraversarlo per alzare le pernici, o parare avanti le lepri, o quello che c’è, in modo che passi di qua dal cartello e lui possa sparargli. Viviana non si fida mica tanto, ha paura dello sparo, della rosa di pallini; ha paura che lui la pianti lì e se ne vada.

Una volta ha costruito per i conigli una grossa gabbia di legno senza fondo, che viene trascinata da un punto all’altro del prato affinché i conigli possano servirsi direttamente di erba. Loro però scavano buche e scappano.

Un’estate la madre va al mare con i figli, gli affida la cura delle galline. Quando torna non ce n’è più neanche una: il padre le ha vendute al macellaio.

In tutto questo tempo la sua ferita, che lui non sente neanche, continua a gocciolare.

Il fiume dove camminava suo padre era un largo, larghissimo greto in cui, di dieci chilometri in dieci chilometri, i frantoi ribaltavano la ghiaia. Era il punto più basso del paese; quello in cui si perde ogni determinazione. C’erano piste che non portavano da nessuna parte, impronte di copertoni, piccole depressioni dove il fango si mantiene bruno sotto una crosta cinerina che si accartoccia. Dappertutto arbusti di pioppi e di tremoli che la corrente ha stretto in isole. Più avanti, verso il centro del letto, grossi sassi sui quali si perde l’equilibrio; poi, finalmente, un ramo d’acqua grigia.

Nel fiume si bruciavano larghi cumuli di immondizia, ci abitava gente che le sembrava strana: robivecchi, ferraioli, gente che comprava in giro le pelli di coniglio e le inchiodava ad asciugare al sole. Era un luogo privo di riferimenti. Un grado zero.

Per tutte le cose ci deve essere – Viviana è convinta che ci debba essere – qualcosa come un grado zero: un livello, una soglia, a partire dal quale la cosa si manifesta nelle sue reali proporzioni, come vista dall’esterno e da un ottimo punto di vista, dal migliore in assoluto, quello che la rivela. Il loro grado zero, la prospettiva che li mostra quali essi stessi nemmeno sanno di essere, è la ferita del Re Pescatore.

Per il paese dove vivono, l’accozzaglia un po’ casuale di strade con o senza marciapiedi, con o senza lampioni, con o senza cartacce e coni smangiucchiati di gelato e cicche di sigarette lungo i marciapiedi o impigliati nelle erbacce, con le salite e le discese e le scorciatoie e le scalette, con le case vecchie e i cortili labirintici intorno alla piazza che vengono sostituti da condomini i cui garage hanno tetti catramati, sono una distesa di tetti catramati – per questo insomma che è il paese o il centro del paese, che è una cosa che sta già diventando incomprensibile e lo sarà sempre di più – incomprensibile e indifferente e necessariamente disperso nei chiusi cortili del privato – per tutto questo il grado zero è il fiume. Da lì, guardando verso l’alto, si vede esattamente il rilievo del paese come un paté di sabbia.

Ora questo naturalmente non significa nulla.

Il rilievo – come la memoria, i racconti e gli antenati – appartiene alla madre. Il padre predilige il grado zero, i luoghi piani, lo scivolare del tempo nella non-memoria. Non ha mai voluto trattenere. Gliene viene una noncuranza; la soddisfazione di vivere nel presente.

Del grado zero, Viviana eredita l’evidenza con cui si impongono certe cose. Ad esempio la ferita. Che lui la avverta o no, è a causa della ferita del Re Pescatore che la terra è desolata e sassosa, piena di fumi e di ossa come il greto di un torrente.

E a dirla tutta, il terreno del fiume è vasto e pauroso; ogni passo nasconde un pericolo, a ogni passo si scoprono cose non del tutto umane.

Una volta, quando era molto piccola, ci è andata con una più grande, che abitava in città ed era così stranamente compita. Aveva una carnagione molto bianca e delicata, come un soufflé. Videro lo scheletro completo, ripulito e in parte imprigionato nella sabbia di un grosso animale – forse un asino, o un vitello. Era perfettamente bianco e pareva strano che potesse starsene così, sotto il cielo.

Poco dopo la ragazza dalla carnagione delicata, vestita molto leggermente di bianco perché è estate, cade di peso in un cespuglio di rovi – una caduta inspiegabile se si esclude la stupidità o il destino. Fatica a rialzarsi e a districarsi e ripete con signorile autocontrollo: “Oddio sono caduta nei rovi. Oddio adesso sono caduta nei rovi”. Viviana pensa che il fiume finirà per mangiarsela – lei, il suo vestito bianco e la sua carnagione di soufflé.

Quadro in ricordo del padre

Vincent Van Gogh, Natura morta con Bibbia e candelabro, 1885. Museo Van Gogh di Amsterdam

 

di Rosanna Galbiati

È un quadro strano, forte. Vorrei dire ambizioso. Vi campeggiano solo simboli che hanno una tale pregnanza da racchiudere entrambe le esistenze nella loro individualità e nella loro contrapposizione. È un giudizio lucido, distaccato, sull’esistenza conclusa del padre e insieme uno sguardo preveggente sul futuro del figlio. Continua la lettura di Quadro in ricordo del padre

Jamaica Rum

di Rita Simonitto

Quando mi chiamano Jamaica Rum certamente la cosa mi dà fastidio, anzi, dirò di più, li odio. Quel Rum che mi affibbiano addosso come nomignolo glielo verserei addosso e poi ci butterei sopra un fiammifero acceso: ecco i miei compagni ‘flambè’!. Ma poi mi ritraggo inorridito da queste mie fantasie, frutto dell’esasperazione a cui vengo portato. So che non lo fanno per ferirmi ma per giocare, loro si divertono così. Forse sono io che non so stare al gioco, non so reagire con ironia. Ma da quando mia madre è andata via con il mio fratellino faccio molta fatica a divertirmi anche se questo è accaduto quasi cinque anni fa, quand’ero ancora alle medie. Adesso sono all’ultimo anno di Liceo Scientifico e ho appena fatto la Maturità che è andata bene. Il Prof di Fisica, terminate le operazioni scrutinali (i nostri professori, dopo gli esiti, hanno voluto incontrarci e salutarci, non con la solita ‘pizzata’ di fine anno, ma con una specie di saluto personale, con un messaggio personale ad ognuno di noi. E questo l’ho molto gradito. Fors’anche perché non so se alla ‘pizzata’ ci sarei andato volentieri), il Prof. di Fisica, dicevo, mi aveva detto “Bravo Gia… Giorgio – so che stava per dire Giamaica, ma poi si era corretto. D’altronde lo avrà sentito anche lui quel nomignolo risuonare per i corridoi della scuola quando i miei compagni mi gridavano “Ehi, Jamaica! Jamaicarum che cosa aspetti ad arrivare…!” – sì, stavo dicendo che il Prof di Fisica si era complimentato per i miei risultati e voleva sapere quale indirizzo di Studi avrei intrapreso.

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Un gioco interrotto

di Marcella Corsi

Abbiamo fatto un bagno sontuoso e profumato io e mamma, poi curt banana. Così raccontasti a tuo padre quando tornò dal lavoro.

Non ti piaceva affatto entrare nella vasca  piena d’acqua, nonostante il tepore, il libro di gomma e la paperella gialla che ci galleggiavano. Così mi ci infilavo anch’io.  E diventava un bel gioco, anche senza troppa schiuma. Eri piccola piccola, spiritosa e dolcissima. L’acqua non ti piaceva: nel tuo primo giorno di vita qualcuno in clinica ti aveva messo sotto un rubinetto aperto in modo un po’ rude. Lo yogurt alla banana invece ti piaceva molto.

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Da “Percorrenze”

di Anna Leone

 RIDATEMI QUEI GIORNI
 
 
 
 Ridatemi quei giorni in cui bambina aspettavo una  
 carezza che non venne.
  
 Rimanga intatta la memoria della mia prima età
 con voci e vite che mi appartengono come pelle alle ossa.
  
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Dopoguerra

di Giorgio Mannacio

 IL PADRE DELL’EROE

                                                                                              (Regina: “ Amleto, mi hai spaccato il cuore in due “                       
 Amleto: “Buttane via la parte peggiore “                                                                    Shakespeare: Amleto, atto III scena IV )
 
  
 Il vecchio che troneggiava
 tra gli ascari schierati in sospettosa  gloria
 aveva appuntata al petto una medaglia.
 Si pensa che sia d’oro.
 La distanza di questa immagine
 dalla voragine
 di quello che divora tutto e niente
 divide in parti eguali  mente e cuore.
 Si può fino a che punto
 gettare nei cascami della storia
 la favola peggiore?
 Ma il dado è tratto e svela  
 i numeri della sorte.
 Il luogo, il giorno, l’anno,  
 persino, a volte,  l’ora
 e il senso mai chiarito del ritratto.
Continua la lettura di Dopoguerra