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Su nulla, perdita della speranza e saggezza

di Franco Nova

E’ IL NULLA, EPPUR SI FA

Viviamo e fatichiamo per
scordare il tempo tedioso.
Ci diamo alle scoperte come
fossimo noi stessi i creatori.
Tutti passiamo e ben pochi
saranno a lungo ricordati;
il che non significa esistere,
né vivere e godere qualcosa.
L’individuo ha solo il Nulla,
poi esteso al genere umano
e infine al grande Universo.
Viviamo di questo consapevoli,
facciamo cose assai soddisfatti,
non pensiamo al nostro destino.
Non importa se nulla resterà,
così siamo costruiti e quindi
così dobbiamo vivere e agire
pur se è un temporaneo agitarsi.
Non accettate che nulla resterà?
Non fate nulla, non siate uomini;
questi ben conoscono l’inutilità
del vivere. Eppure vivono e
si daranno sempre a qualcosa.
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La liquidazione del timor di Dio

Prontuario tascabile di letteratura francese (2)

di Elena Grammann

LETTERA R

Rousseau, Jean-Jacques

Le Confessioni di Rousseau sono un’opera di cui si può soltanto consigliare la lettura. Difficile immaginare qualcosa di più onesto nelle intenzioni, di più disonesto nella realizzazione e, come risultato di questi due vettori, di più “giusto” e affascinante[1]. Idealmente Le Confessioni, più ancora della Nuova Eloisa, spalancano le porte al romanticismo e all’età contemporanea; ma poiché sono scritte in francese da un autore di lingua francese, mantengono con l’empiria e con l’esposizione circonstanziata dei fatti un legame che l’autentico romanticismo certificato tedesco[2] non ha, non può e non vuole avere. Da un punto di vista didattico, inoltre, sono estremamente pratiche, perché in nemmeno venti righe dell’incipit condensano e esemplificano il passaggio d’epoca. Vediamo queste righe:

  1. Ho concepito un'impresa senza precedenti e la cui esecuzione non troverà imitatori. Intendo mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della natura; e quest'uomo sarò io. 
  2.  Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quelli che ho visto; oso credere di non essere fatto come nessuno di quanti esistono. Se pure non valgo di più, quanto meno sono diverso. Se la natura abbia fatto bene o male a spezzare lo stampo nel quale mi ha formato, si potrà giudicare soltanto dopo avermi letto. 
  3.  Che la tromba del giudizio finale suoni quando vorrà: Mi presenterò al giudice supremo con questo libro fra le mani. Dirò fermamente: «Qui è ciò che ho fatto, ciò che ho pensato, ciò che sono stato. Ho detto il bene e il male con identica franchezza. Nulla ho taciuto di cattivo e nulla ho aggiunto di buono, e se mi è occorso di usare, qua e là, qualche trascurabile ornamento, l'ho fatto esclusivamente per colmare i vuoti della mia debole memoria; ho potuto supporre vero quanto sapevo che avrebbe potuto esserlo, mai ciò che sapevo falso. Mi sono mostrato così come fui, spregevole e vile, quando lo sono stato, buono, generoso, sublime quando lo sono stato: ho disvelato il mio intimo così come tu stesso l'hai visto. Essere eterno, raduna intorno a me la folla innumerevole dei miei simili; ascoltino le mie confessioni, piangano sulle mie indegnità, arrossiscano delle mie miserie. Scopra ciascuno di essi a sua volta, con la stessa sincerità, il suo cuore ai piedi del tuo trono; e poi che uno solo osi dirti: «Io fui migliore di quell'uomo.»

Esaminiamo la testa e la coda: dapprima viene stabilita l’unicità di Jean-Jacques. Ma poiché l’intenzione di Rousseau non può essere di affermare che Jean-Jacques è un alieno, l’unicità deve essere, in linea di principio, prerogativa di tutti gli individui. Si dirà: che nessun individuo è uguale a un altro è cosa che si sapeva. Certo, ma prima di Rousseau (e del romanticismo) non si sottolineava l’unicità individuale, bensì l’appartenenza a un gruppo: dal più vasto – l’intera umanità contrapposta al suo Creatore – ad altri più ristretti, ad esempio una classe sociale con determinati obblighi, prerogative e funzioni. E parimenti dopo Rousseau, mentre il romanticismo diventa sempre più marginale e malvisto, anche l’individuo in quanto portatore di unicità scivola al margine: un originale appena tollerato, un artista, magari uno scrittore – mentre l’individuo provvisto di senso e significato è di nuovo quello inserito in un gruppo che si profila ormai come una classe in conflitto insanabile con un’altra – conflitto necessario e talmente insanabile che l’identità del singolo non è nemmeno pensabile come indipendente dalle o non totalmente compresa nelle coordinate della classe di appartenenza. La quale classe di appartenenza, qualora sia la classe dominante, fa in modo – viene detto – di plasmare lo Stato a propria immagine; sicché, dall’altra parte, l’unicità dell’individuo assume la forma obbligata, stereotipa e tutta uguale della resistenza allo Stato.

Già nella prima parte del testo Rousseau aveva chiarito che per Jean-Jacques essere unico non significa essere migliore degli altri, e in effetti si accenna poi al male eventualmente fatto, a miserie e indegnità[3]. Ma in chiusura assistiamo a un ribaltamento: l’ammissione (generica) di colpa, il riconoscimento di non essere migliore di un altro si capovolge nella sfida – rivolta a chiunque – ad affermare di essere migliore di lui. Se accostiamo il testo alla parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14) noteremo che, benché non affermi apertamente una sua qualità “migliore”, nell’atteggiamento e nella postura Jean-Jacques assomiglia molto di più al fariseo che al pubblicano.

Ma il vero centro dell’argomentazione è il libro. Il libro che Rousseau si accinge a scrivere; e suoni quando vuole la tromba del Giudizio, egli non la teme poiché potrà presentarsi al sommo giudice munito di quel libro. Non come memoria difensiva, si badi, ma proprio in sostituzione dello sguardo giudicante (“ho disvelato il mio intimo così come tu stesso l’hai visto”). Come titolo per questo articolo avevo pensato, infatti, a “Liber scriptus”; poi ho preferito l’altro perché va subito al punto. Ma è chiaro che, da tuba mirum spargens sonum a liber scriptus proferetur, la scena di giudizio evocata da Rousseau ne richiama un’altra, classica, e ne capovolge le prospettive.

Dicevo prima della fruibilità didattica del brano. Arrivata a questo punto, di solito andavo alla lavagna e scrivevo la strofetta seguente:

Liber scriptus proferetur,
In quo totum continetur,
Unde mundus iudicetur

(sollievo di scrivere qualcosa in latino, un terreno solido sotto i piedi) e facevo notare come, ormai, il libro fosse passato di mano: mentre nella visione classica chi “apre il libro” è Dio, nella scena prospettata da Rousseau, paradossalmente, è lo iudicandus stesso che presenta il libro, redatto da lui medesimo, in base al quale chiede/propone/impone di essere giudicato. Coerentemente scompare ogni futuro tremor relativamente al tempo quando judex est venturus, / cuncta stricte discussurus; cancellato ogni terrore e tremore, evaporato il timor di Dio. Come si dice: non c’è più religione. Io cancellavo la strofetta e ne scrivevo un’altra:

Quod sum miser tum dicturus,
Quem patronum rogaturus,
Cum vix iustus sit securus ?

e invitavo la classe, che una perplessa curiosità, o al più tardi il Dies irae di Verdi, aveva destato dallo stato comatoso, a paragonare il “miser” con Jean-Jacques: forse che quest’ultimo è in imbarazzo su cosa dire? per caso gli mancano le parole? ha bisogno di un difensore? No. Ma andiamo più in là: si confronta, idealmente, con un “iustus”? Nemmeno, poiché, per quanto egli non definisca se stesso “giusto”, nessuno è comunque più giusto di lui.

I ragazzi fissano la lavagna, copiano i versi sul quaderno degli appunti, chiedono delucidazioni sul gerundivo o sulla perifrastica attiva. Qualcosa intravedono. Ma dalla loro propria prassi autogiustificatoria scolastica sono troppo abituati alle balle spaziali che venti secondi dopo essere state proferite diventano verità incrollabili, per apprezzare appieno la portata del cambiamento. Rousseau ha lavorato bene.

 

____________________

[1] Le radici (ben visibili nell’opera) del dissidio fra onestà dell’intenzione e inevitabile disonestà nella realizzazione non devono nemmeno essere cercate molto lontano. Si tratta del conflitto fra una radicale fedeltà a se stessi, e la pretesa che questa radicale fedeltà coincida naturalmente e senza sforzo alcuno (che sarebbe di per sé già un’infedeltà) con il tutto sommato tradizionale bonum. Da questo punto di vista Sade è più onesto; meno didattico però – e assai monotono.

[2] Peraltro il mio preferito.

[3] Ma termini come ‘miserie’ e ‘indegnità’ sembrano fare riferimento più all’aspetto della valutazione sociale che all’ambito propriamente morale.

Lea Melandri e Stefano Ciccone su ” Essere maschi”

Oggi su Facebook , capitato per caso sulla pagina di Lea Melandri, ho letto questo suo articolo del  30 aprile 2019 che mi era sfuggito e riproposto oggi (qui). Lo  riporto su Poliscritture assieme ad un commento dello stesso anno di Stefano Ciccone. Il tema è di quelli importanti e da ruminare a lungo accanto e assieme ad altre riflessioni. Indirettamente e chissà  quando, credo possa aiutare a spiegare, se non a sciogliere, anche certi nodi più o meno stretti o ingarbugliati che inceppano spesso le discussioni fra uomini e donne quando parlano d’altro. [E. A.]

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Su “Delitto e castigo” di Fëodor M. Dostoevskij

di Giorgio Riolo

Questa nota introduttiva a «Delitto e castigo» di Fëodor M. Dostoevskij è un esempio del lavoro di lettura guidata  di opere di narrativa e di poesia, che Giorgio Riolo svolge  in cicli annuali presso la Libera Università Popolare di Milano. Le conferenze e le discussioni non presuppongono nei partecipanti una formazione specifica o specialistica ma il sincero desiderio di  accostarsi al patrimonio letterario dell’umanità. La lettura  dell’opera di volta in volta  affrontata non mira solo  al piacere e al divertimento, ma diventa momento di formazione etica, culturale e politica dei partecipanti. [E. A.] Continua la lettura di Su “Delitto e castigo” di Fëodor M. Dostoevskij

Proletario del blog

di Roberto Bugliani

È uscita «Un’occhiata fuori»,  la seconda raccolta di racconti di Roberto Bugliani, amico e collaboratore di lunga di data di Poliscritture. Con l’autorizzazione dell’autore e della Apollo Edizioni di Bisignano (Cosenza) pubblicherò, distanziandoli  nel tempo, tre racconti. Questo primo è una riflessione amara ed ironica sulla sbornia da Internet di un comunissimo «proletario del blog», che ha le reazioni e le illusioni  in cui  tutti noi, frequentatori di  siti  più o meno incalliti, siamo passati. Speriamo, però, di evitare la sua finale «evanescenza corporea». [E. A.]

Aristide non sognava mai. O, per meglio dire, non è che propriamente non sognasse, perché in realtà non esiste nessuno che non sogni, come sostengono le persone acculturate che hanno letto Freud. Più semplicemente, al risveglio non riusciva a ricordare i sogni che lo avevano visitato durante la notte. Né tantomeno di giorno, da sveglio, Aristide sognava, per l’ovvio motivo che i sogni a occhi aperti non erano consentiti ai precari come lui. E Aristide precario lo era a tutti gli effetti: nel lavoro, nei sentimenti, nelle scelte esistenziali e perfino nel mondo virtuale dei blog. Siccome il precario d’oggi è il figliolo sfigato del proletario d’ieri, Proletario del blog era il nickname che s’era dato. E da buon proletario, oltre a non disporre d’una connessione adsl, non possedeva nemmeno un sito internet tutto suo, per cui doveva arrangiarsi con quelli degli altri, smanettando da visitatore con link, homepage e spazio commenti e saltellando qui e là a zigzag come un pulcino in cerca della chioccia.

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Il Tonto e le fu elezioni prossime venture

Dialogando con il Tonto (21)

di Giulio Toffoli

Non ci si vedeva da qualche settimana, quasi che il tedio per quella condizione di quotidiana falsità che par governare, come un padrone indecifrabile ma insieme ben presente e imperscrutabile, le nostre esistenze ci spingesse a non mettere la testa fuori dalla porta.
Ciò nonostante la città è piccola e per puro caso un martedì mattina ecco che mi trovo proprio il Tonto fra i piedi in piazza della Vittoria. Anche lui sembra ciondolante e senza meta, ma visto che siamo proprio l’uno di fronte all’altro non possiamo che salutarci. Conoscendolo preferisco essere io a rompere il silenzio:
“Come va Tonto – gli dico – è da tanto che non ci vediamo …”. Continua la lettura di Il Tonto e le fu elezioni prossime venture

Costruire il Tempo

di Piero Del Giudice

Questo scritto di Piero Del Giudice  tocca temi (per es. le correnti migratorie)  presenti anche nel documento “Per Poliscritture 2” da poco pubblicato (qui, qui e qui). Con taglio, riferimenti, sottolineature ed esigenze non sempre coincidenti ma non del tutto dissimili. Spero e sollecito un serrato confronto. [E. A.]   

 Il presente e il progetto

È un periodo questo di tali possibilità di risorse disponibili e futuri immaginabili che – nonostante l’assetto sterile, renditiero, preindustriale della distribuzione della ricchezza e del potere (l’oligarchia delle 100 famiglie che detengono la metà dei beni globali) – ci sentiamo parte di una società in rapido sviluppo, in dinamico collegamento, ci sentiamo cioè trasportati e anche protagonisti di un analogo destino collettivo. Continua la lettura di Costruire il Tempo

Padri e figli: alla Pirelli di Figline Valdarno  

Due generazioni di operai a confronto sul lavoro 

Angelo Australi

Da molto avevo in mente di scrivere per Poliscritture qualcosa sul periodico culturale che tra il 1988 ed il 1990 ho ideato e diretto al mio paese. MICROmacro, questo il nome della testata che per oltre due anni, con i suoi dodici numeri (era un bimestrale), ha incoraggiato la ricerca di un’identità del territorio nel confronto con la città e i suoi centri di produzione. Continua la lettura di Padri e figli: alla Pirelli di Figline Valdarno  

Scrap-book dal Web. Classi sociali?

“Che fine hanno fatto le classi sociali?”
di Denise Celentano (da “Sinistra in rete”: qui)

a cura di Ennio Abate

Trovo particolarmente chiara ed efficace questa panoramica del dibattito attuale che ora contrappone ora tenta una conciliazione tra i due concetti di ‘lotta di classe’ e ‘ lotta per il riconoscimento’. Ne ho scelto  gli stralci che mi paiono  più importanti e con precisi riferimenti a opinioni espresse qui su Poliscritture sui concetti di ‘identità’, ‘differenze’, ‘integrazione’, ‘multiculturalismo’. [E. A.]

1.

L’idea stessa che le classi non esistano più riemerge regolarmente, giustificata dai più diversi argomenti. Si è parlato di una ‘cetomedizzazione’ della società – si pensi al Tony Blair di “we’re all middle class now” –, e di una generalizzazione di stili di vita prima riservati a fasce più ristrette di persone; una tesi piuttosto difficile da sostenere dopo la fine del Boom economico e a fronte della crescente polarizzazione delle diseguaglianze globali. Altri hanno parlato di “individualizzazione”: secondo Ulrich Beck, a fronte della logica sempre più individuale della modernità, quella di classe sarebbe una “categoria zombie” cui riservare degna sepoltura. Un “capitalismo senza classi”, dove ciascuno costruisce da sé la propria biografia, prenderebbe il posto dei vecchi pattern di diseguaglianza. Continua la lettura di Scrap-book dal Web. Classi sociali?

La società della comunicazione

PARTESANA LIBRO

Su “Il gioco delle parti. Ideologia e propaganda” di Ezio Partesana, Sensibili alle foglie 2016

di Donato Salzarulo

1.- “Propaganda” non è termine da dizionario filosofico. Neanche sociologico. Mi riferisco ai dizionari che ho in casa. Quello psicologico si limita a definire in poche righe l’attività (procedimento sistematico di persuasione di massa), indicare i canali di comunicazione che Continua la lettura di La società della comunicazione