Archivi tag: Walter Benjamin

Su “La ministeriale” di Mariella De Santis Robbins

Barbara Gabotto e Giacomo Guidetti: disegno a pag.73

di Ennio Abate

1.
Parto dalla trama de «LA MINISTERIALE. Intervista impossibile a un’onorata scrivania di potere», un libretto di 74 pagine  dell’amica Mariella De Santis Robbins. Continua la lettura di Su “La ministeriale” di Mariella De Santis Robbins

Criticare, non calpestare Walter Benjamin

a cura di Ennio Abate

Da tempo su FB sempre meno mi sento di entrare  in polemica con  persone che mi paiono intelligenti, preparate e  affrontano le stesse questioni  (globalizzazione, populismi, nazionalismi, imperialismo, neocolonialismo,   guerra in Ucraina,  oltrepassamento  o riconferma della distinzione  tra destra e sinistra, abbandono o ripensamento delle opere dei  nostri “antenati”), sulle quali – da isolato –  io pure continuo a riflettere.  Perché le posizioni  che si confrontano sono sempre più divaricate e inconciliabili. Eppure a volte mi chiedo. ma perché dargliela per vinta? perché tacere sulle differenze che – pur in una apparente ricerca comune –  vengono fuori?  E allora mi sento di intervenire e di ragionare in pubblico.  Pur sapendo che lo scambio è diseguale e viziato in partenza dai rapporti  (sfavorevoli) di potere tra me (un isolato) e loro (ben inseriti e appoggiati da solide istituzioni). E’ il caso di questa mezza discussione su Walter Benjamin con il filosofo Vincenzo Costa (qui).  Pubblico l’istruttiva cronaca  dello scambio. Che ripropone per me la domanda cruciale: criticare sì, ma in quali modi e per quale progetto.  Continua la lettura di Criticare, non calpestare Walter Benjamin

Der Erzähler refurbished. Benjamin revisionato da Baricco

di Marco Gaetani

Ripubblico questo saggio  già comparso sul vecchio sito non più accessibile di POLISCRITTURE 20210-2013 . Ricordo che è, però, presente  nel PDF del n. 8 di Poliscritture – rivista cartacea  del dicembre 2011 (scaricabile qui) [E. A.] Continua la lettura di Der Erzähler refurbished. Benjamin revisionato da Baricco

neppure i morti saranno al sicuro…

a cura di Samizdat

Ecco mi è tornata in mente:
“…neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”.
Era una frase di Walter Benjamin, il filosofo tedesco morto – pare – suicida per sfuggire alla cattura da parte dei nazisti, che avevano occupato la Francia dove si era rifugiato dalla Germania hitleriana.
Parole che possono far da titolo ancora oggi a questo video.

La Regola e il Caso – Storia visuale del Gioco dell’Oca

di Nilo Australi e Roberto Capozucca

Quello che segue è il capitolo introduttivo al libro La Regola e il Caso – Storia visuale del Gioco dell’Oca, un progetto scritto e realizzato da Nilo Australi e Roberto Capozucca per l’esame del Corso di “Cultura e grafica del design” della Docente Silvia Maria Sfiligiotti, relativo al Diploma accademico di II livello in Comunicazione e Design per l’editoria, ISIA di Urbino, 2021. Nella prima parte del libro i due autori sviluppano una riflessione, a mio avviso molto interessante, sul rapporto che, a cominciare dall’aspetto ludico, per tutto il Novecento ha coinvolto gli artisti nella ricerca di nuove strade da percorrere per definire un ruolo e un compito dell’arte. Una ricerca che per ritrovare motivazioni creative autentiche parte dalla riscoperta dell’universo dell’infanzia, e da qui leggere l’eterna conflittualità tra “regola e caso” cercando nuove forme di equilibrio, capaci di raccontare le contraddizioni di un secolo. Il libro nell’insieme parla del Gioco dell’Oca visto da vari punti di vista e corredato da un corposo e divertente apparato iconografico proveniente dalla collezione del dott. Luigi Ciompi e del prof. Adrian Seville. Chi non ha giocato a questo gioco almeno una volta nella sua infanzia? Per chi fosse incuriosito dall’argomento, il libro nel suo insieme può essere letto nell’archivio online www.giochidelloca.it. Il testo che segue è interessante perché tratta uno dei temi sui quali si è confrontata gran parte della cultura del secolo appena terminato, … a cominciare dalla letteratura. [A. A.]

 

Al di là delle condizioni atmosferiche ogni giorno il sole sorge, in un certo momento si trova al centro del cielo e comincia a discendere fino a tramontare. Poi arriva la notte, e si riparte da capo. Così è anche il ciclo della vita per ogni essere vivente: si nasce, di diventa adulti, si invecchia e si muore. Questo è un concetto immutabile della natura, della realtà, quindi non intercambiabile. Sono immutabili anche i cicli stagionali, molto importanti per leggere la struttura del tempo in anni: primavera, estate, autunno, inverno. L’uomo ha pianificato la sua esistenza su questo concetto di tempo circolare del quale non può che essere spettatore passivo, creandosi nell’immaginario delle identità superiori capaci di decidere il suo destino di giorno in giorno. Anche se nella sua storia il pensiero umano in pratica ha ristretto l’orizzonte sugli aspetti concreti e produttivi che ordinano una società (politica, lavoro, amore, economia, cultura, ecc…) il punto di partenza arcaico di questa evoluzione culturale si può ritrovare nel gioco. Ancora oggi, se pur molto spesso relegato alla sfera dell’infanzia, il gioco può essere un’azione libera, alla quale non è riconducibile un interesse “materiale”. Sono trascorsi millenni dall’era dell’uomo primitivo, ma il gioco tutt’oggi resta un atto puramente libero e istintivo che contiene in sé i geni originari del rapportarsi dell’uomo con la natura, quindi precede la nascita della “società culturale”, poiché anch’essa nella sua prima fase si è presentata in forma ludica.

Nel 1938 lo storico olandese Johan Huizinga, nel suo Homo Ludens, affermava che: La cultura sorge in forma ludica, la cultura è prima giocata. Nei giochi e con i giochi la vita sociale si riveste di forme sopra biologiche che le conferiscono maggior valore. Con quei giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo. Dunque ciò non significa che il gioco muta o si converte in cultura, ma piuttosto che la cultura, nelle sue fasi originarie, porti il carattere di un gioco, viene rappresentata in forme e stati d’animo ludici. In tale «dualità-unità» di cultura e gioco è il fatto primario, oggettivo, percettibile, determinato concretamente; mentre la cultura non è che la qualifica applicata del nostro giudizio storico al dato caso. Per Huizinga il gioco è un’azione che si compie all’interno di limiti ben definiti di tempo e di spazio, secondo una regola ben precisa che chi gioca decide di accettare e, nell’insieme, lo impegna in modo totale ed esclusivamente fine a se stesso.

Il gioco allora avvolge i partecipanti in una situazione di tensione e di gioia, dando la consapevolezza di trovarsi in un tempo diverso da quello della vita quotidiana. Anche se comunque costretti da rigide regole, con il gioco entriamo nel mondo non reale della finzione. Questa è la dimensione ideale dove si muove l’immaginazione dei bambini o quella di ogni forma di espressione creativa, lo stesso punto dal quale partiva l’approccio nella lettura della natura dell’uomo primitivo, che rappresentava gli animali nelle grotte prima di essere realmente cacciati. Anche Umberto Eco, pur partendo da presupposti letterari e semiotici, considera il gioco come uno dei cinque bisogni fondamentali dell’uomo, insieme a nutrimento, riposo, amore e chiedersi il perché delle cose. Facendo riferimento ai bambini, in una conversazione con Andrea Cortellessa (nella puntata Giocare della trasmissione Alfabeta, andata in onda su RAI 5 nel 2015), Eco affermava che per loro: […] è fondamentale l’elemento di far finta. Loro dicono infatti: “facciamo finta che io ero il capo dei pirati”. Usano l’imperfetto, non dicono mai io sono il pirata, ma io ero il pirata, perché è un modo distintivo di proiettare l’azione in un mondo possibile… È una narrazione. […] In fondo ogni narrativa è tutto un fare finta. C’è un elemento di gioco. Se leggo I promessi sposi “faccio finta” che siano esistiti quei personaggi, quel castello di Don Rodrigo. So benissimo che non è vero, ma prendo tutto per oro colato.

Il gioco quindi è sempre stato concepito, con il suo “far finta che” (John R. Searle) o “sospensione dell’incredulità” (Samuel T. Coleridge), come una realtà parallela che si sviluppa attraverso regole rigide, ma dove tutto diviene imprevedibile perché lasciato alla casualità degli eventi.

Nel tempo gioco e cultura sono quindi diventate due linee parallele che nella storia dell’umanità hanno sempre attraversato momenti di sovrapposizione. “Gioco come arte, arte come gioco”, scrive Hans G. Gadamer. Infatti il gioco non si può considerare solo come una forma d’arte, ma lo è nella sua sostanza originaria, capace di mostrarci che cosa contempla l’arte nella sua essenza. Il gioco va considerato come un’attività che significa di per sé un’azione circolare che rinasce in continuazione da se stessa, non ha uno scopo pratico e non ha importanza quali azioni si compiano né chi le compia, poiché è importante il gioco in sé. Infatti i giocatori sono sostituibili e possono appartenere a generazioni diverse, così come possono esserci o meno degli spettatori.  Il gioco riconferma la sua specificità di evento naturale, visto che proprio come la natura è in grado di riprodursi da sé. È in questa semplice “autorappresentazione mediale”, come la definisce Gadamer, che il gioco si intreccia all’arte (intesa nel suo carattere ludico, spontaneo, autonomo), e la natura, in quanto è un gioco che si rinnova sempre senza uno scopo, può apparire come modello culturale.

Questo bisogno dell’uomo di riconoscere il gioco nei suoi valori primari si è manifestato in modo preponderante avvicinandosi al XX secolo, quando gli intellettuali (artisti, filosofi, pedagoghi, psicologi, ecc…) hanno riscoperto che nell’originarietà del gioco erano racchiusi i segni in grado di contrapporsi alla crisi che affrontava la società borghese. In questo periodo è importante che la ricerca di un’autenticità primitiva sia coincisa anche con una diversa lettura del mondo dell’infanzia, dove il gioco acquista la sua centralità ludica. Non solo, viene addirittura capovolto il ruolo e richiesto in qualche modo all’adulto di ritornare bambino, per conoscere nella sua primitività una nuova dimensione della realtà attraverso la finzione del gioco. In questa nuova concezione, che poi avremo modo di approfondire, diventa emblematica la frase di Walter Benjamin: L’infanzia c’è solo se si è adulti: l’infanzia non è mai per il bambino. Il bambino è il mondo, l’adulto il tempo (Walter Benjamin, Figure dell’infanzia). Concezione fortemente rivoluzionaria quella di pensare che nell’infanzia si possono raccogliere tracce della vita in forma di figure da interrogare e smontare come un giocattolo, se intendiamo scoprire la forza propulsiva nella costruzione del nostro essere adulti, considerato che al suo tempo il bambino, fin dalla cultura greco-romana (su cui si fonda quella occidentale), è per natura messo in ombra, paragonato al cucciolo dell’uomo adulto e come tale avviato precocemente ai costumi che regolano la società. Questo destino del bambino non cambia neppure con il mutare delle classi sociali, anzi, per paradosso, se in quelle meno abbienti c’era più tolleranza verso il gioco infantile, in quelle nobiliari o agiate il ritmo dell’esistenza dei piccoli era segnato da obblighi e orari simili a quelli dell’adulto che lo costringevano a crescere il più in fretta possibile. Un precursore della diversa concezione dell’infanzia è il filosofo inglese John Locke con il suo Pensieri sull’educazione dei fanciulli (1693), il suo modo di scrivere dei giocattoli suona tutt’ora di straordinaria attualità, visto che propone che al bambino si diano elementi d’uso quotidiano, non giocattoli predisposti dagli adulti, ma oggetti di forme semplici, o addirittura inventati da loro, in grado di sviluppare nel fanciullo la creatività, il piacere del gioco e la finzione immaginativa.

In tempi e modalità diverse, Maria Montessori e successivamente nella seconda metà del XX secolo, Bruno Munari ed Enzo Mari, con i loro giochi, hanno dimostrato la stupenda verità di questa tesi.

La corrispondenza tra l’arte e il bambino diventa molto profonda a livello antropologico e si presenta come uno dei fenomeni culturali più importanti che è nato soprattutto grazie alle avanguardie artistiche del Novecento. In realtà tutto il secolo scorso ha insistito sull’azione creativa come capacità di ricostruire una diversa visione della realtà, iniziando dall’immaginario che hanno i bambini. Molti artisti che si sono affacciati sulla scena nei primi decenni del XX secolo, hanno riscoperto la semplicità dei segni e dei colori del disegno infantile per trovare una qualità poetica concreta e ricca di magiche suggestioni. Sono state proprio le avanguardie storiche che hanno riconosciuto nel mondo dei bambini quell’universo dalle potenzialità infinite, ormai soffocate e dimenticate dal mondo degli adulti. La legittimazione di questo mondo dell’infanzia è diventata così un elemento di verifica dell’arte stessa, come un punto di vista libero, non incanalato. Il collegamento tra l’artista e il bambino si è proiettato così per tutto il Novecento, ponendo in evidenza l’importanza dell’attività ludica nella definizione di una diversa visione del mondo. Il gioco, oltre che a permettere di impiegare il tempo libero, diventa importante anche per apprendere. Questa scoperta di un elemento comune all’uomo come agli animali, si è dimostrata come un punto di non ritorno rispetto alla cultura formativa precedente. Scrive Valerio Dehò, nel suo Il libro d’artista, pubblicato da Corraini nel 2016: Giocare vuol dire simulare i meccanismi della vita e della sopravvivenza, così si apre uno spazio per stimolare la fantasia e la capacità simbolica dei bambini. Arte e gioco sono giustamente considerati come un pilastro della conoscenza e la loro organizzazione in chiave di linguaggio trasmissibile, come un libro che sia anche gioco e avventura visiva e intellettuale, è allora il migliore investimento di energia creativa.

Questo primato delle avanguardie nella riscoperta del bambino ha un evidente legame con la rivoluzione pedagogica maturata nel secondo Ottocento, quando l’elaborazione del gioco è diventata per la prima volta strumento educativo e forma di espressione creativa. Per fare alcuni esempi, il legame tra la produzione di giochi con le opere d’arte è dimostrato, anche se non confermato da ricerche mirate in proposito, dal confronto tra Composizione in rosso, blu, nero, giallo e grigio, di Piet Mondrian del 1921 e il gioco della pedagogista italiana Maria Montessori, Blocchi per esercizi di psicoaritmetica del 1890, oppure dalla Finestra dell’Hotel Lake Geneve, dell’architetto Frank Lloyd Wright del 1902 con il gioco del pedagogista tedesco Friedrich Fröbel, Divided Square Puzzle, sempre del XIX secolo. Questi sono solo due casi in cui è evidente la convergenza che può esistere tra i giochi dell’infanzia e le successive scelte artistiche; sarebbe interessante approfondire questo studio più dettagliatamente

Entriamo ora in questo tempo delle avanguardie del primo Novecento, capace di sconvolgere tutti i luoghi comuni del pensiero dominante. Pablo Picasso, in un suo noto aneddoto afferma che ogni bambino è un artista. Il problema è come rimanere artista quando si cresce.

Questa affermazione di uno dei maggiori artisti moderni è in sintonia con quanto scriveva Benjamin riguardo all’infanzia. Le avanguardie di inizio secolo sembrano affermare che l’opera d’arte nasce e cresce seguendo un percorso regolamentato che è figlio di sé stesso e soggetto al caso. Facendo riferimento al caso, per esempio il critico Maurizio Calvesi fa risalire all’italiano “dado” il nome della corrente “Dada” (M. Calvesi, Un Coup Dada. Il caso nell’arte contemporanea, Feltrinelli, 1978). Non vi sono dubbi: il dado nel suo risultato numerico finale è intrinsecamente legato al caso. Un precedente per il gioco di parole dadaista lo troviamo in Un Coup de Dés jamais n’abolira le Hasard (Mai un lancio di dadi eliminerà il caso) di Stéphane Mallarmé, pubblicato nel 1897. La poesia è scritta in forma di calligramma, non come quelli di Guillaume Apollinaire che si avvicinavano ad un vero e proprio disegno, ma per indicare che i versi sono caduti casualmente sul foglio bianco. Tutto questo fa pensare a come l’educazione di un bambino possa condizionare le capacità creative dell’adulto, quanto la pedagogia possa plasmare l’estetica, quanto la cultura moderna possa trasformare la scuola in un laboratorio fantastico piuttosto che in una “prigione”.

Parlando di dadaismo non possiamo non soffermarci sull’esperienza di Marcel Duchamp che, pur non legandosi in modo specifico a nessuna delle avanguardie, prende il gioco come chiave di lettura della realtà tra ironia e dissacrazione, metamorfosi e interazione con il pubblico; nelle sue opere il caso, dettato da regole da lui stesso stabilite come in un gioco ludico, è elemento preponderante. Il sociologo francese Roger Caillois, nel suo saggio I giochi e gli uomini. La Maschera e la vertigine (1958), riesce a mettere in luce anche le componenti più oscure e ambigue del gioco, visto che esso non è dotato di un carattere unitario, i suoi molteplici aspetti possono essere ricondotti a quattro tipologie principali: Agon, Alea, Mimicry e Ilinx (competizione, caso, maschera e vertigine). Le categorie a sua volta sono suddivise in due insiemi dal carattere opposto e conflittuale: quello della paidia e quello del ludus. La paidia contiene in sé la natura fantasiosa e istintiva del gioco, il ludus invece, al suo opposto, ne contiene il carattere soggetto a regole ben precise che porta al superamento di ostacoli e ad ottenere un risultato.

Nelle quattro categorie di gioco indicate da Caillois, si può trovare la presenza di entrambi i due insiemi. Il sociologo e antropologo francese inserisce i cruciverba, i giochi matematici e gli anagrammi nella sfera del ludus, dove però può anche manifestarsi la presenza dell’agon, cioè della competizione. Su questa linea i giochi di parole che propone Marcel Duchamp nei suoi ready-made, possono essere inseriti nella sfera del ludus inteso, nel raggiungimento di una soluzione finale, come superamento delle difficoltà poste dall’artista stesso; un po’ come avviene in una partita di scacchi, gioco molto amato dall’artista. Duchamp vuole però anche rivoluzionare le tradizionali regole del linguaggio, per cercare nuovi significati all’interno delle parole attraverso un gioco umoristico preciso e dettagliato; è lui stesso, a proposito dei giochi linguistici, che afferma, in una conversazione con Katherine Kuh: Si sa, i giochi di parole sono sempre stati considerati una bassa forma d’ingegno, ma io li trovo una fonte di stimolo sia per il loro suono attuale, sia per il significato inatteso legato ai reciproci rapporti tra disparate parole. Per me questo è un campo infinito di divertimento ed è a portata di mano. Qualche volta emergono quattro o cinque diversi livelli di significato.

Così questi giochi di parole sono da una parte forma di ingegno, dall’altra divertimento. È importante rilevare che riguardo alla risoluzione degli “enigmi” che costellano le sue opere, la competizione si manifesta anche nella sfida che l’artista lancia al fruitore (vedi ad esempio L.H.O.O.Q., Grande vetro, Fountain o altri ready-made), il suo è un invito ad osservare e a riflettere sulle infinite concatenazioni tra linguaggio e oggetto, tra parola e immagine. Nella stragrande maggioranza dei suoi “giochi” però non troviamo solo la dimensione dell’agon, ma anche quella dell’alea, del caso, così come viene naturale ravvisare la stessa componente anche nel resto della poetica dadaista, che spesso elegge il caso ad elemento principe di ogni processo creativo. Riguardo a questo è emblematico il testo Pour faire un poème dadaïste di Tristan Tzara, dedicato a Marcel Duchamp con le seguenti parole: Une goutte de hasard (Una goccia di caso), in cui l’autore invita a ritagliare parole di un articolo di giornale, inserirle in un sacchetto, agitarlo, ed infine estrarle, per disporle nell’ordine in cui sono uscite in modo da formare una poesia. Del resto l’artista francese in fatto di aleatorietà (caso) la sapeva lunga, se con l’opera 3 Stoppages Ètalon faceva cadere dall’altezza di un metro tre fili per tre volte su tele dipinte, dove questi, cadendo in modo casuale, generano linee ondulate e diverse che diventano delle unità di misura totalmente arbitrarie e fuori dalle comuni leggi della misurazione: Questa esperienza fu realizzata nel 1913 per fissare e conservare forme ottenute dal caso, dal mio caso (Marcel Duchamp, Riga 5. Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli, Marcos y marcos 1993).

In Duchamp il gioco si fa ironico al punto da vederlo cambiare nome, travestirsi e diventare donna (la mimicry di Caillois), da Marcel diventa Rose Sélavy e questo pseudonimo richiama, mediante l’anagramma di Rose, l’Eros. Così, con il continuo cambio di identità, dimostra la sua costante ricerca tesa a stimolare il fruitore per poter superare quello che comunemente vediamo, non solo negli oggetti dei suoi ready-made ma anche rispetto a sé stessi. Project for the rotary demisphere (1924) e i Rotorelieliefs (1935) sono invece gli studi che Duchamp fece nel campo del movimento e degli effetti che esso produce sulla percezione umana, e queste sue macchine rotanti producono movimenti rotatori che creano una spirale e generano nello spettatore un senso di stordimento e di vertigine (ilinx).

Il gioco degli scacchi rappresenta bene anche lo spirito surrealista, sono molti gli esponenti di questo movimento che, oltre a giocarci, li hanno progettati fino al punto di divenire opere d’arte, basti pensare alla Scacchiera surrealista di Man Ray del 1934, dove le normali caselle in bianco e nero sono sostituite con le fototessere degli artisti surrealisti, oppure quella progettata da Max Ernst per l’amico Duchamp nel 1944/1945. Duchamp aveva un’autentica ossessione per questo gioco, infatti a partire dal 1923 se ne occupa in modo quasi esclusivo, fino al punto di diventare capitano della squadra olimpica francese, al fianco del campione del mondo Alexander Alekhine. Per lui i pezzi degli scacchi sono L’alfabeto che plasma i pensieri, e questi pensieri esprimono la bellezza astrattamente. […] Sono arrivato alla conclusione personale che mentre non tutti gli artisti sono giocatori di scacchi, tutti i giocatori di scacchi sono artisti. […] C’è un fine mentale implicito quando si guarda l’ordine dei pezzi sulla scacchiera. La trasformazione dell’aspetto visivo in materia grigia è una cosa che avviene sempre negli scacchi e che dovrebbe avvenire nell’arte (Marcel Duchamp, La partita di Duchamp, Ferruccio Pezzuto, Ed. Messaggerie scacchistiche, 1994).

I surrealisti, a cominciare da Duchamp per finire a Dalì, condividevano tutti un profondo interesse per il gioco, amavano giocare con le parole e con le immagini, creando dei paralleli linguistici e visivi davvero innovativi.

Idea del gioco e dell’infanzia – diversa nei risultati – è quella su cui hanno lavorato i futuristi; Giacomo Balla, ma soprattutto Fortunato Depero, dimostrano che una ricostruzione futurista dell’universo creativo scatena una libertà e una fantasia del tutto nuove e originali nel mondo dell’infanzia e dei giochi. Nella costruzione dei suoi giocattoli in legno colorato, prodotti dalla sua Casa d’Arte, Depero era animato da quella allegria che pochi anni prima aveva ispirato il manifesto futurista: i suoi animali (i giocattoli il Pappagallino, l’Orso, la serie dei Rinoceronti, il Gatto nero, il Topo bianco, la Farfalla, le marionette la Gallina e la Scimmia), il Guerriero scudato, il Tamburo al “Teatro dei piccoli”, ecc…, tutti realizzati dal 1918 al 1923), oltre alla grande abilità e originalità, confermano il suo bisogno di creare un forte nesso tra arte e fantasia infantile. Giacomo Balla, nel manifesto Ricostruzione futurista dell’universo del 1915, afferma che: Per mezzo dei complessi plastici noi costruiremo dei giocattoli che aiuteranno il bambino: a ridere apertissimamente; all’elasticità massima; allo slancio immaginativo; a tendere infinitamente e ad agilizzare la sensibilità; al coraggio fisico. […] Il giocattolo futurista sarà utilissimo anche all’adulto, poiché lo manterrà giovane, festante, disinvolto, pronto a tutto, instancabile, istintivo e intuitivo.

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Fortunato Depero, il Tamburo al “Teatro dei piccoli”, 1918

I questo panorama di inizio Novecento non possiamo non fermarci a parlare di Paul Klee, perché anche lui ha sentito in modo chiaro e inequivocabile la necessità di rifarsi al mondo fantastico e magico/primitivo dei bambini, non solo per la sua personale ricerca artistica, della quale ricordiamo Great Chess-Game (1937) dove, dipingendo una grande scacchiera colorata conferma la centralità del tema ludico, ma anche per il suo impegno come insegnante del Bauhaus insieme a Itten, Feninger, Schlemmer, che costruirono dei giochi per i propri figli, modelli indispensabili alla realizzazione dei successivi prototipi prodotti dai loro studenti Alma Buscher-Siedhoff ed Eberhard Schrammen che, oltre a essere un chiaro esempio delle linee portanti del Bauhaus, crearono giocattoli ancora oggi in produzione perché funzionali allo sviluppo psico-pedagogico del bambino. L’utilizzazione di forme geometriche di base come il triangolo, il quadrato e il cerchio (cubo, sfera, cilindro e cono) e dei tre colori primari (il giallo, il rosso e il blu), grazie a loro costituiscono l’adattamento di questi giochi alle esigenze di una produzione in serie che riforma la concezione del giocattolo. I giocattoli, non più costosi e preziosi manufatti da ammirare più che da manipolare, sono caratterizzati dalla semplicità e dalla molteplicità che permette la combinazione dei suoi elementi. Sono giochi componibili e scomponibili, pensati per adattarsi alla creatività e alla fantasia del bambino, come possiamo constatare nel Gioco di costruzione di Schrammen o nella Barca di Buscher-Siedhoff, che nel 1924 spiega così la sua concezione del giocattolo: Il nostro giocattolo (Bauhaus): la forma semplice, incontestabilmente chiara e precisa, molteplicità e stimoli li crea il bambino direttamente attraverso l’assemblare e il costruire. Quindi uno sviluppo che dura. La proporzione: stabilita dalla personale sensibilità, ma il più possibile reciprocamente armonizzabile. Il colore: utilizzare solo i colori fondamentali, giallo, rosso, blu, eventualmente anche il verde, ma prima di tutto il bianco per rafforzare la sensibilità cromatica del bambino e quindi la sua capacità di godere, un fattore chiave nell’educazione (Aldo Colonnetti, Bauhaus 100. Imparare fare pensare. Electa 2019).

Un altro artista che ha una forte rilevanza per il tema che stiamo affrontando è senz’altro l’americano Alexander Calder, non solo perché anche lui si è costruito la sua scacchiera d’artista (Assemblage, del 1941), ma perché, seguendo la gioiosità irriverente di Joan Mirò, riesce ad interpretare quelle tematiche ludiche in modo autentico ed originale, facendo in un certo senso “scuola”. Cirque Calder, realizzato tra il 1926 e il 1931, è la sintesi dalla quale emerge in modo esplicito la sua leggerezza poetica, che coincide realmente con il vero sentire di un bambino. Il circo è metafora della vita. Quanti bambini in passato hanno sognato di scappare con una compagnia circense, insieme agli acrobati, ai clown, ai domatori, agli elefanti, i leoni e le tigri? Questo desiderio indicava nel bambino uno strappo, la necessità di vivere qualcosa di diverso che nasceva dal gioco, pur di separarsi dalla noia della società degli adulti.  Questo è l’istinto che incoraggia a seguire la propria fantasia. Come disse una volta l’artista stesso del suo Cirque Calder: La semplicità dei materiali combinata a uno spirito audace nell’affrontare l’insolito e l’ignoto, danno vita a un’arte primitiva piuttosto che decadente (Ugo Mulas, Cirque Calder, Corraini 2014).

La manualità con sui sono costruiti questi personaggi del circo racchiuso in una valigia, la loro spoglia leggerezza, creano delle simpatiche sculturine articolate e movibili di filo di ferro, che costruiscono un universo magico di forme animate di poesia. Anche qui, dietro il gioco, il rapporto tra l’arte e il bambino riesce ad acquisire una sua profonda dimensione antropologica, in linea con tutti gli elementi culturali che hanno ispirato le avanguardie nel reinventare una visione della realtà.

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Alexander Calder, “Cirque Calder”

Dopo questi precursori il legame artista/gioco, pur non aggiungendo molto alla sua visione teorica, si è dimostrato di una grande fecondità nel campo dell’arte. Prima di tutto è stata messa sotto i riflettori l’Art Brut e Naif che nasceva istintivamente da un linguaggio ingenuo, puro, non filtrato dai canoni estetici del gusto.

Una linea di artisti segue l’esperienza di Duchamp, arrivando fino all’arte concettuale e alle sue recenti evoluzioni (dalle provocazioni di Piero Manzoni alla rilettura profana delle icone moderne di Andy Warhol, dai giochi di parole di Joseph Kosuth a quelli razionali di Giulio Paolini, dai vari giochi linguistici legati alla Poesia Visiva, con autori come Lamberto Pignotti, Emilio Isgrò, Emilio Villa, fino ad arrivare ai palloncini colorati e luccicanti a forma di animali di Jeff Koons e all’ironia dissacrante di Maurizio Cattelan o di Aiweiwei), dove il messaggio che stimola l’immaginazione del fruitore è racchiuso nell’idea primaria più che nel risultato e la partecipazione è fondamentale per il significato, così come si crea nei partecipanti di una qualsiasi attività ludica.

Un altro esempio di artista che riteneva prioritario giocare con gli effetti del caso all’interno di regole prestabilite è John Cage, tra l’altro grande amante del gioco degli scacchi e che ha fatto anche delle partite insieme a Duchamp. Il suo 4’ 33” rappresenta l’insieme delle possibilità producibili dal caso in uno spazio e in un tempo definito. John Cage è vicino al movimento Fluxus che affermava in modo dissacratorio che tutto è arte e chiunque la può fare, il prodotto diventava la vita sostituendosi definitivamente all’opera intesa come oggetto di esposizione. La vita racchiusa in un’azione (musica, performance, happening) era solo rappresentabile attraverso la sua documentazione costruita sull’evento e contenuta – solitamente sciolta – in una scatola, sull’esempio della Scatola verde di Duchamp o del circo in valigia di Calder.

Le testimonianze potrebbero essere infinite, e con approcci sempre diversi, vorremmo citarne almeno alcune realizzate negli ultimi decenni del XX secolo, come le macchine mobili di Jean Tinguely, ricche di comicità burlesca, o i tarocchi abitabili della moglie Niki de Saint Phalle, Alighiero Boetti con il libro-gioco da colorare Da uno a dieci (1980), Il gioco degli scacchi (1988) di Enrico Baj, Mario Mariotti con le sue mani dipinte che si trasformano in personaggi vivi, e i luna park o gli scivoli di Carsten Höller, fino ad arrivare all’epoca post digitale con il videogioco The Night Journey di Bill Viola, fatto in collaborazione con Game Innovation Lab, nel 2018.

La maggior parte degli artisti finora ricordati si sono avvicinati al mondo dell’infanzia per portare avanti un’idea che contenesse le regole di una nuova necessità di ricerca espressiva, l’obiettivo primario quindi era l’opera d’arte, mentre il bambino faceva parte della dimensione ideale da cui partire, bisogna entrare nel mondo del design per trovare in Bruno Munari uno che ha finalizzato tutto il suo sforzo creativo verso il bambino e la dimensione del gioco. Munari incarna perfettamente la missione ludico-educativa dell’artista. È vicino al mondo dell’infanzia fin dal 1929, quando realizza il suo primo libro futurista, L’aquilotto implume. Questa è la sua tesi: L’interesse degli artisti verso l’infanzia si mostra in due modi: uno è quello di dipingere in modo evidente le sembianze e gli atteggiamenti dei bambini nell’ambiente dove vivono; l’altro è quello di esplorare la natura dell’animo infantile e cercare di esprimersi con la stessa naturalezza (Bruno Munari, I pittori dell’infanzia, Cappelli 1979). Il gioco diventa tema centrale di tutta la sua attività, come possiamo vedere dai libri da lui realizzati (Le macchine di Munari, la collana “I Libri Munari”, composta di sette volumi diversi con finestre apribili, Nella notte buia, Nella nebbia di Milano, la serie Cappuccetto rosso, verde, giallo, blu, bianco, ecc…) all’attività di graphic designer, fino alle opere d’arte vere e proprie (Le macchine inutili, Le sculture da viaggio, ecc…).

L’artista raccoglie la lezione delle scatole surrealiste e Fluxus, trasformando il libro in vero e proprio oggetto-gioco, in un contenitore di “sorprese” da percepire a 360°. Di rilevante importanza per il nostro argomento è la serie Architettura, (Scatola di Architettura MC1) pubblicata da Castelletti nel 1945 e costituita da mattoncini di legno componibili: in un’epoca in cui inizia la ricostruzione dell’Italia lui immagina i bambini come attori attivi della realizzazione del nuovo mondo che usciva dalle atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Seguono con coerenza questa linea i giochi: ABC con fantasia (1960), Aconà Biconbi (1961), Più o meno (1970), Strutture (1972), Otto sequenze (1973), Le foglie (1973) Trasformazioni (1975) e Immagini della realtà (1976). Il concetto di libro-gioco da percepire coinvolgendo tutti i sensi raggiunge la sua massima espressione nei Prelibri, editi da Danese nel 1980, in questa serie di dodici piccoli libri Munari mette in condizione i bambini di conoscere l’ambiente circostante attraverso la semplicità formale e la diversità dei materiali che possono stimolare tutti i ricettori sensoriali, non solo la vista e l’udito. La produzione di libri di Munari è davvero straripante, tuttavia non possiamo non citare ancora i suoi libri-gioco Guardiamoci negli occhi, del 1970, e La favola delle favole, del 1994, mentre diventa un vero e proprio libro-oggetto il suo Libroletto (1993), dove il libro, fatto con cuscini di stoffa e gommapiuma, diventa anche gioco interattivo, utilizzabile per dormire, giocare, coprirsi; questo libro-oggetto rappresenta la conseguenza estrema del processo di trasformazione da lui attuato attraverso la dilatazione delle possibilità di utilizzo. Con Bruno Munari si coglie in pieno quanto sia stato coinvolgente e rivoluzionario il gioco di finzione creativa messo in campo artistico nel XX secolo, perché grazie a lui riusciamo a percepire non solo mentalmente, ma anche con i sensi, il pieno compimento della congiunzione del gioco con la vita.

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 Bruno Munari, Libroletto, 1993

 La regola e il caso.
Come il giorno e la notte  
la regola e il caso sono due contrari
come la luce e il buio
come il rosso e il verde
come il caldo e il freddo
come l’umido e il secco
come il maschile e il femminile.
La regola dà sicurezza,
la geometria ci aiuta a conoscere le strutture
o a costruire un mondo nel quale
ci possiamo muovere senza paure.
Il caso è l’imprevisto
a volte terribile
a volte piacevole
l’incontro con una persona
con la quale si stabilisce subito
un contatto di simpatia e di amore,
l’esplosione di una idea risolutrice
la scoperta di un fenomeno.
La regola nasce dalla mente
si costruisce con la logica
tutto è previsto
con la regola si può pianificare
un programma.
Il caso nasce dal clima
delle condizioni ambientali, sociali,
geografiche, dai ricettori sensoriali.
Un odore di eucalyptus
 forma di un sasso
il ritmo delle onde del mare…
La regola, da sola, è monotona
il caso da solo rende inquieti.Gli
orientali dicono:
La perfezione è bella ma è stupida
bisogna conoscerla ma romperla.
La combinazione tra regola e caso
è la vita, è l’arte
è la fantasia, è l’equilibrio.

(Bruno Munari, Verbale scritto, Il Melangolo, 1992)

Un’altra figura fondamentale in questo percorso di ricerca riteniamo che sia Enzo Mari, anche lui inizia come artista e si specializza come designer vero e proprio. Come Munari, nei suoi libri-gioco e nei suoi giochi, riprende l’approccio ludico-creativo mantenendo una coerenza impressionante rispetto al rigore etico del ruolo. Ha un profondo rispetto nei confronti dell’intelligenza dei bambini, tanto da non pretendere di imitarli, come altri hanno fatto: È ovvio che un bambino privo di tecnica realizzi schizzi tutti storti e sbilenchi, ma proprio non capisco perché un illustratore nel pieno delle sue facoltà debba imitarli pensando di renderli così più adatti alla cultura infantile (Enzo Mari, Venticinque modi di piantare un chiodo, Mondadori 2011).

Di Enzo Mari merita citare almeno 16 animali del 1961 (di cui è stata realizzata la versione in libro a leporello con il titolo L’altalena), Il gioco delle favole del 1965, e Il Posto dei Giochi del 1967, tutti prodotti da Danese, e diventati ormai dei veri e propri modelli di progettazione applicata ai giochi dell’infanzia. 16 animali è un gioco-puzzle componibile di legno, fornito di una struttura multipla a incastro e abilmente creato per ricavare da un’unica tavola rettangolare e con un unico taglio continuo, varie sagome di animali. Il gioco delle favole è invece un libro-gioco costituito da tavole sciolte di cartoncino, da comporre, scomporre, costruire, dalle inesauribili possibilità creative. Il Posto dei Giochi consiste in un foglio di cartone ondulato, lungo tre metri, e trasformato in un’unica parete merlata composta da dieci pannelli con forme e decorazioni diverse, per esercitare la fantasia del bambino ad inventare storie e personaggi sempre nuovi.

Ci sono almeno due autori che hanno ereditato la missione educativa della lezione di Bruno Munari. Il primo è il francese Paul Cox, l’altro il giapponese Katsumi Komagata. Cox è un’artista multidisciplinare che partendo dalla pittura ha realizzato libri per ragazzi e manifesti per il tetro e l’opera lirica, scenografie e installazioni ludiche, campagne pubblicitarie e giochi. Di lui è importante ricordare i libri realizzati nel 2002, Le livre le plus long (edito da Les Trois Ourses), e Intanto… il libro più corto del mondo (edito da Corraini), nonché il recente Gioco dell’amore e del caso (prodotto da Corraini nel 2019). Ne Le livre le plus long Cox rende omaggio a Bruno Munari con quattro pagine che ruotano attorno a una spirale: il tempo di una storia lunga quanto la vita del sole dall’alba al tramonto, che ogni giorno ricomincia, all’infinito. Intanto… il libro più corto del mondo, invece non ha un inizio e nemmeno una fine, ma solo un continuo di immagini che focalizzano lo stesso attimo nella vita di tante e tante persone, e il tutto è collegato da una sola parola: “intanto”; forse il libro più corto del mondo, iniziando e finendo nella stessa pagina, visto che rappresenta l’attimo, finisce per divenire il più lungo, addirittura nell’immaginario a toccare lui l’infinito. Sono naturalmente libri-gioco, che però inducono a rapportarsi con uno sguardo diverso sulla realtà. Komagata invece, con i suoi raffinati libri di forme ritagliate in grado di generare un forte stupore visivo, riesce a comunicare al lettore nozioni fondamentali che possono aiutarlo nella sua crescita, senza con ciò scendere a compromessi con la sua forte espressività poetica (vedi i dodici cofanetti pubblicati nella collana “Little Eyes” dell’editore Les Trois Ourses, Blue to Blue del 1994, L’endroit où dorment les étoilles del 2004 e A cloud del 2007).

Nella produzione di giochi degli ultimi anni è interessante ricordare l’esperienza del designer spagnolo Martì Guixé, che ha ideato dei veri e propri libri-gioco in forma di colouring book interattivi, quella del progettista grafico Lorenzo Bravi, del graphic designer Alessio D’Ellena, di Plan Toys, con i loro giochi ecosostenibili in planwood, e le realtà rappresentate dagli studi Parasite 2.0 e I Ludosofici.

Questa breve indagine con gli autori del XX secolo ci ha portato principalmente a considerare il gioco come elemento ludico da tavolo, o comunque da ambiente chiuso. Sappiamo benissimo che le categorie di gioco sono infinite, basta pensare agli eventi sportivi, al gioco d’azzardo, alla caccia o alla pesca, ma a noi interessava approfondire ciò che abbiamo accennato all’inizio di questo capitolo sulla paidia e il ludus, quindi l’aspetto fantasioso e incontrollato del gioco, e il suo opposto che costringe il soggetto a regole chiare, disciplinate, che portano al superamento di ostacoli e ad ottenere un risultato. Abbiamo messo a confronto l’arte con il gioco.

In questo i giochi da tavolo sono degli esempi principe, capaci di contenere entrambe le caratteristiche: la fantasia e la disciplina, il caso e la regola. Gli scacchi a quanto pare, con la loro peculiarità di un’alta preparazione, hanno affascinato molte generazioni (di artisti e non), ma tra i giochi da tavolo in molti sono di tradizione antichissima, come ad esempio il Backgammon o la dama, anche qui ci vuole destrezza oltre che fortuna. Entrambi sembrano giochi nati da un ceto sociale che può permettersi il tempo necessario per lo studio e la preparazione, il cosiddetto allenamento prima della partita.

Vorremmo adesso focalizzare nei prossimi capitoli l’attenzione su quei giochi dove non è necessaria una preparazione strategica, perché il caso e la regola sono gli unici elementi che definiscono l’esito finale della vittoria o della sconfitta. Sono quei giochi dove veramente anche un bambino di pochi anni può competere con un adulto o un vecchio, uomo o donna che sia. Giochi che hanno sì affascinato i ceti medio-alti della società, arrivando ad avere vincite o perdite in denaro, ma anche alla portata dei ceti popolari e di quelli meno abbienti.

Tra questi giochi il più diffuso e antico è senz’altro quello dell’oca, è antichissimo ed ha percorso tutta la storia dell’umanità almeno dal tempo degli Egizi, avendo la capacità di trasformarsi ed adattarsi ai costumi che andavano cambiando, alle tecniche di stampa e diffusione, al contenuto grafico. Data la sua lontana origine, sembra perfino impossibile che le sue caratteristiche formali di base abbiano avuto delle variazioni minime, dove la sostanza è restata pressoché inalterata. Forse perché meglio di altri, nella sua semplicità, riesce a fingere di esprimere la metafora di un percorso esistenziale.

Del resto il Gioco dell’Oca, che sia composto di 90 o 63 caselle, nella sua circolarità fa pensare alla vita di un giorno dove il sole sorge, in un certo momento si trova al centro del cielo e comincia a discendere fino a tramontare. In fondo, nell’arco della giornata, la vita di un essere umano si carica di sorprese, positive e negative.

Riflessioni rapsodiche su “Il giardino dell’Eden”

di Franco Romanò

È consueto per il pensiero rivoluzionario immaginare l’utopia rivolgendosi al passato, specialmente quando il presente appare talmente desertificato d’avere almeno apparentemente cancellato tutte le tracce di utopie precedenti possibili. È quello che Walter Benjamin, nelle sue Tesi sulla storia, proponeva di fare in uno dei momenti più tragici per l’Europa alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Il filosofo tedesco aggiungeva però che occorre andare molto indietro nel tempo per ricercare i semi di una nuova utopia: Spartaco, oppure – citando Flaubert – resuscitare Cartagine. Il motivo, che si intuisce fra le righe di quello scritto così estremo, è che se si rimane troppo prossimi al momento storico che ci tocca di vivere, si rischia di rimanere impigliati, a volte senza rendersene ben conto, nelle code di pratiche politiche ormai esauste.

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Storia e cronaca dei fatti di Palestina

di Giorgio Mannacio

1.
Tempo  fa ebbi l’occasione di esprimere su Poliscritture le mie opinioni sull’eterno conflitto che brucia la terra di Palestina. Mi  considerai “filopalestinese “ secondo una formula molto generica ma- penso – sufficientemente significativa. I luttuosi e tragici fatti di queste ultime settimane mi rafforzano in quell’opinione e mi spingono verso alcune ulteriori considerazioni di tipo generale ma dotate  di una valenza specifica. Continua la lettura di Storia e cronaca dei fatti di Palestina

Riordinadiario 1998

Tabea Nineo, Nel bosco di Vicosoprano, 1992

di Ennio Abate

5 gennaio

Leggendo/rileggendo Fortini (Disobbedienze)

Pur leggendo i suoi articoli su il manifesto e Quaderni piacentini per tutti gli anni ’70, ero distante dal suo modo di pensare e problematizzare, condizionato parecchio dall’essere studente lavoratore e militante di Avanguardia Operaia. Non è stato un caso che cominciai a intendere meglio le sue critiche dal 1977. La mia lettura di Questioni di frontiera avvenne quando già ero uscito nel 1976 da Avanguardia Operaia che confluiva in Democrazia Proletaria.

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La pop-narrativa fessbucchiana di Lanfranco Caminiti

Foto presa dalla pagina FB di Lanfranco Caminiti

di Samizdat

Di Lanfranco Caminiti ho già pubblicato su Poliscritture un bel racconto (qui) sugli effetti dell’epidemia da coronavirus al Sud. Oggi voglio segnalare tre pezzi brevi che ho letto giorni fa sulla sua pagina Facebook. E che etichetterei (positivamente, eh!) come esempio pionieristico di pop-narrativa fessbucchiana. Per l’arguzia, la capacità di sfottere e sfottersi e di alleggerire gli argomenti complicati o drammatici senza mai lasciarsi sfuggire il loro nucleo serissimo e spesso tragico. Tra l’altro gli amici e le amiche che commentano sulla sua pagina sono davvero un “coro”, altrettanto capace di tenere botta alle sue acrobazie narrative e fare con lui “teatro” didattico-politico a beneficio di tutti. Mi azzardo a dire che sono riusciti a costruire su Facebook – luogo di alienazione e dannazione delle buone idee – non un salottino spocchiosetto di cicisbei e madamine saccenti, ma lo spazio elementare del narrare di cui parlò Benjamin a proposito di Leskov: L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi. (Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, Einaudi, Torino, 2011). Questa capacità di commentare episodi degni di nota e di condividerli con i propri simili, sviluppando una coscienza collettiva, è antichissima. Ho letto che i primi “narratori” della storia possono essere considerati gli uomini primitivi, i quali – ritrovatisi attorno al fuoco alla sera – scambiavano i propri racconti di vita fra loro, nella speranza di rendere più semplice il futuro agli altri membri del clan, mettendoli a conoscenza di possibili pericoli e nuove scoperte. Mi pare che quel rito si ripeta oggi su questa pagina di Facebook in forma originale e vivace. Auguri a Lanfranco e al suo “coro”. [E. A.]

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Di tutta l’erba un fascio

di Alessandro Scuro

Nel 1928, nel breve testo intitolato «La conquista dell’ubiquità», Paul Valéry scriveva: «Da vent’anni a questa parte né la materia, né lo spazio, né il tempo sono più ciò che da sempre erano». L’autore francese si riferiva alle profonde trasformazioni che uno sviluppo tecnico senza precedenti aveva indotto nei decenni precedenti, a partire dal principio del secolo, e a quelle imminenti, che ulteriori avanzamenti avrebbero provocato di lì a poco. A stimolare Continua la lettura di Di tutta l’erba un fascio