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Guerra in Ucraina. Prese di posizione (12)

 

Il virus della guerra – L’antidoto della memoria

STRALCIO DALL’ARTICOLO DI MARCO REVELLI:

Lì il sottotenente Revelli, ricoverato per una brutta ferita rimediata il 25 settembre in un’azione di pattuglia sul Don, aveva incominciato a capire qualcosa del Paese che l’aveva mandato a uccidere o a morire, con lo spettacolo della corruzione, le ruberie da parte degli imboscati, il menefreghismo e il cinismo dei privilegiati a spese dei poveri cristi in prima linea, tanto da chiedere anzitempo di ritornare al suo caposaldo dove si rischiava ma non ci si vergognava. Così come quattro mesi più tardi, il 25 gennaio, poco più a nord, nella piana tra Nikitovka e Nikolaevka, nella “notte dei pazzi”, che precedette l’ultimo sfondamento disperato per uscire dalla sacca, nei 40 gradi sotto zero, con tutto che crollava intorno, le isbe in fiamme, i congelati abbandonati, l’immensa colonna di sbandati ormai senza guida, e gli occhi dei muli i soli a esprimere un’umanità ormai perduta dagli uomini, aveva – come scriverà e ripeterà infinite volte – “capito tutto”. Troppo tardi, ma capito cos’era il fascismo. E non solo. Quella notte, scriverà, il sottotenente degli alpini in servizio permanente effettivo Nuto Revelli, allievo scelto dell’Accademia militare di Modena, ufficiale modello considerato un “najone” per la serietà con cui interpretava il suo ruolo tanto da aver chiesto nella primavera del ’42 l’invio anticipato sul fronte russo, definito dai superiori “un tedesco”, una medaglia d’argento appena conferitagli, aveva urlato a sé stesso e perché tutti sentissero “Non farò mai più l’ufficiale” di quell’esercito. Allora, dichiarerà in un’intervista molto sofferta a Laura Pariani, “ho maledetto il duce, ho maledetto il re, ho maledetto (una breve pausa) l’esercito… Ho maledetto (una pausa più lunga, come se la parola non volesse uscire dai denti) la patria”. Era incominciata in fondo, allora, la sua “seconda vita” – morto l’alpino nasceva il partigiano che sarebbe diventato, come scriverà nella canzone dal titolo terribile, Pietà l’è morta -. La vita dedicata a combattere il fascismo, ma soprattutto, col fascismo che ne incarnava l’essenza, la GUERRA. Non avrebbe cessato mai di ripetermelo, tra le mura domestiche, e di ripeterlo ai tanti studenti incontrati nelle scuole, che la guerra è il male. Il male assoluto, o, forse meglio, universale. Ogni guerra, anche la più “giusta”, persino la guerra partigiana, che pur ebbe per lui un effetto catartico, di riscatto dei tanti morti lasciati nella steppa e dalla sensazione umiliante si sentirsi “un vinto”, persino quella – mi ripeteva -porta in sé un’ombra, ti lascia dentro cicatrici che fanno male. Perché la guerra trasforma gli uomini. Tira fuori il peggio che hanno dentro. Usava l’aggettivo “bestiale”, come antitesi dell’”umano”. Bisogna evitarla ad ogni costo, perché una volta scoppiata, il suo effetto di perversione non lo fermi più, negli altri, e anche in te stesso…

Nota
L’articolo si legge per intero cliccando  sul titolo “Il virus della guerra” (sopra) o  qui

Facebookando sull’assalto di Forza Nuova alla sede della CGIL


Appunti politici

di Ennio Abate

Questa è  la posizione  generale su vaccinazione e green pass che avevo espresso il  4 settembre 2021 in risposta a X su FB:

 Bisognerebbe essere cauti e non confondere il proprio discorso con quello degli avventurieri. Come singoli poi non vedo nessuna strada alternativa. O ti vaccini e fai il green pass. O ti associ e protesti con questo movimento ambiguo e senza un vero progetto alternativo.  Per me l’attuale “opposizione” sfrutta il malcontento, ma non ha una reale alternativa di governo della pandemia. Dire no, criticare le scelte (anch’esse ambigue o di parte) del governo non basta, purtroppo, a costruire un’alternativa. E ancheconsiderando soltanto il piano della salute, ammesso che le “terapie domiciliari”  siano scientificamente valide (per la maggioranza dei casi a rischio) non esiste oggi una forza politica organizzata per imporre questa scelta all’attuale governo. O fare un altro governo che cambi strategia. Con la realtà si fanno i conti. Non saltandola e guardando solo al malcontento.

Negli ultimi due giorni (9 e 10 ottobre)  ho  avuto modo di confrontarla (e confermarla) leggendo su FB le reazioni di alcuni tra i commentatori politici che seguo con più attenzione . E a chi mi ha fatto notare che a Roma in piazza c’era il “popolo” ho obiettato così:

'Popolo' è un termine ambiguissimo. Popolo sarebbe questo della foto, quello di piazza Venezia ai tempi di Mussolini, quello delle manifestazioni degli anni '70? Non è soltanto il numero a qualificare una folla come 'popolo'. Vanno considerati almeno gli obiettivi, la composizione sociale (ceti, classi o gruppi sociali), i leader che in esso agiscono più o meno approvati, le forme di lotta attuate.

Sulla solidarietà (critica e circoscritta a questa aggressione) alla Cgil non ci piove. Ma evitiamo di farla diventare “santa subito” soltanto perché assaltata dai neofascisti di Forza Nuova. Bisogna dirlo che da tempo non è più in grado di difendere gli interessi dei lavoratori.

APPENDICE

Qui di seguito una selezione dei commenti letti su FB

Vittorio Agnoletto

Tutta la mia solidarietà alla CGIL per il vergognoso attacco subito. Indecente e inaccettabile il comportamento della polizia che ha lasciato mano libera ai fascisti.

Conversazione con Adriano Sofri

L’assalto alla sede della Cgil da parte di manifestanti sedicenti No Green-pass è un episodio osceno all’interno di una vergognosa manifestazione di fascisti e di imbecilli al centro di Roma.


Massimo Tesei  

 su fascisti non c’è dubbio, basta guardare i ceffi di Forza nuova infiltrati in ogni iniziativa. Imbecilli non c’è dubbio perché nemmeno vi accorgete di essere sempre strumentalizzati dai fascisti, veri campioni di libertà e di democrazia.

 Cosimo Minervini 

Quello che è successo a Roma è gravissimo. Aver permesso l’assalto della sede della Ggil da parte della polizia è ancora più grave. I leader di queste manifestazioni sono noti fascisti. Non ci sono né scuse, né giustificazioni. I così detti no green pass si dissocino pubblicamente o sono complici dei fascisti. Tertium non datur.

Stefano G. Azzarà 

Capitanata dalle bande fasciste uscite a bella posta dalle fogne, la feccia piccoloborghese che ha nell’arbitrio assoluto il proprio unico credo tracima per le strade e assalta le sedi delle organizzazioni dei lavoratori, tirandosi dietro i lumpen di ogni classe sociale.

Speriamo che la Costituzione della Repubblica – la cui verità è l’equilibrata prevalenza dell’interesse generale sugli interessi particolari – sappia difendersi e venga difesa.

Purtroppo, in assenza di una sinistra seria tutta questa sceneggiata porterà a una ulteriore stabilizzazione dell’ordine grandeborghese.

Lino Di Martino 

REAZIONE SALUTARE DELLE FORZE POLITICHE E SINDACALI ANTIFASCISTE.

Ci contavo, perché i fatti di oggi sono gravissimi, ma radicati in una ‘distrazione’ di molti anni. Ottima l’idea di una manifestazione nazionale a Roma, ma soprattutto la volontà politica esplicita di mettere al bando, secondo Costituzione,le organizzazioni, sette e bande neofasciste e neonaziste. Necessarie una vigilanza antifascista permanente e una mobilitazione dell’Unione Europea. IMHO, of course.

Riccardo Rosati

 la mia non è una teoria, ma una valutazione. Le tutele sono venute a mancare gradualmente negli ultimi decenni con la sconfitta di un glorioso ciclo di lotte contro il capitale. Non mi importa se chi partecipa ad una protesta imbecille non sia tale perché possiede qualche talento individuale, resta un idiota sociale. Il punto di vista che difendo non è l’intelligenza astratta, ma quella degli interessi di classe, che per quanto di aperture larghe io sia, non credo vengano rappresentate da confuse bandiere new age, libertari del weekend, stregoni, terrapiattisti, impauriti senza criterio, esercenti di discoteche e cazzari vari. Chi non accetta la sconfitta non conosce più il nemico, chi non conosce il nemico si aggrappa a tutte le scorciatoie immaginabili, che non funzionano più, se non per assaltare una sede sindacale, che per quanto criticabile, non va assaltata al comando di una armata brancaleone di fascisti satolli

Nicola Lagioia

Gli intellettuali che, per puro narcisismo, per appannamento, per sopraggiunta anzianità, per orgasmo televisivo, per terrore di un passaggio del testimone, hanno portato avanti in questi mesi discorsi del tutto alieni alla ragione, al buon senso, alla statistica, persino alla matematica, si ritrovano oggi (nemmeno più cattivi maestri, ma utili idioti) branditi dai violenti, dovrebbero avere la decenza di riflettere un po’ di più, e l’intelligenza di fare ciò che non fanno da decenni: mettersi in discussione.

Francesco Bertolotti

Adesso i neofascisti stanno rompendo veramente i coglioni. Cosa c’entra il no Green pass, il no vax con assaltare la sede della CGIL e poi come si fa a caricare le forze di polizia che stanno garantendo la legge questi sono i prodromi del Fascismo

Marco De Guio

Questa volta non ci sarò. Il fascismo violento delle squadracce ha avuto un ruolo in un preciso periodo storico, alla fine di una guerra mondiale, in un contesto politico nel quale le forze di sinistra avevano una presenza non compatibile con i programmi del capitale di riconversione e sviluppo dell’apparato produttivo. Non credo che oggi il pericolo sia determinato dall’agire di qualche frangia violenta della destra estrema. Il controllo sociale è totale, il governo Draghi ha disarmato le organizzazioni della sinistra e imbrigliato i sindacati.

La mobilitazione contro la CGIL sembra un’arma di distrazione di massa a conferma delle linee tracciate dal governo e difese dalla cosiddetta sinistra. La condanna dei fatti di Roma da parte di tutti gli attori della scena politica ed economica mi lascia sconcertato.

La mia parola d’ordine è sempre stata “scendere in piazza ogni volta che la destra provoca azioni violente”, ma questa volta non riesco a mobilitarmi, mi sento preso in giro, sento di avere di fronte solo le scelte che qualcun altro ha deciso di lasciarmi.

Non vengo al presidio e non parteciperà allo sciopero generale del sindacalismo di base che non ha avuto il coraggio di inserire nell’elenco delle rivendicazioni l’opposizione all’utilizzo del Green pass come elemento di discriminazione, dei lavoratori in primo luogo.

Giovanni Scirocco

Ulteriore domanda: come mai i capi di forza nuova, presenti a fare danni in tutte le manifestazioni, sono sempre a piede libero? E a coloro che si ritengono molto di sinistra e che marciano con costoro, una calda raccomandazione: attenti a non fare la fine degli anarchici e dei sindacalisti rivoluzionari finiti con Mussolini…

Antonio Moscato

i toni populisti e l’agire violento sono una replica in sedicesimo della violenza squadrista di cento anni fa. E’ bene essere chiari: questo tipo di violenza è sempre contro i lavoratori e le lavoratrici, anche quando sembra scagliarsi contro obiettivi istituzionali e rivendicare “libertà”. Forse i raid di questa sera turberanno l’armonia fra neofascisti dichiarati e settori di piccola borghesia che, fin dall’inizio della pandemia, si sono mostrati insofferenti alle misure di precauzione ma anche i cosiddetti settori pacifici sono del tutto estranei alle rivendicazioni di un servizio sanitario pubblico e di un reddito per tutte e tutti che, invece, sono state agite dai settori più avanzati dei movimenti sociali e del movimento operaio

Michele Corsi

TRE DOMANDE

a seguito dell’assalto fascista alla sede CGIL

  1. Cosa sarebbe accaduto se al posto dei no green pass ci fosse stato un corteo dei centri sociali o di metalmeccanici incazzati o di studenti mobilitati in manifestazioni non autorizzate?
  2. Cosa sarebbe accaduto se nel corso di una manifestazione di sinistra ci fossero stati atti di vandalismo e attacchi alla polizia?
  3. Cosa sarebbe accaduto se un gruppo di manifestanti di sinistra avesse fatto irruzione nella sede NAZIONALE di un partito di destra minacciando e devastando?

[…]

Siamo il Paese dove al G8 di Genova chi ha diretto il massacro è stato promosso, chi l’ha perpetuato, ha sequestrato e ha torturato non è nemmeno stato identificato, ma chi ha divelto un segnale stradale ha trascorso anni di carcere. Ma basta che uno sia di estrema destra e in questo Paese non gli succede mai assolutamente NIENTE. Quando le combinano proprio grosse e li mettono al gabbio, tornano fuori in men che non si dica e si rimettono a fare indisturbati le stesse cose.

E non mi si dica che là era pieno di poveri no green pass che sono tanto da comprendere. Non ho alcun rispetto per gente che manifesta contro il green pass come se fosse il grande problema su questa terra e se ne fotte allegramente che la gente venga licenziata e prenda stipendi da fame. Gente che non si accorge di essere manovrata come pupazzi dall’estrema destra per quel che mi riguarda può solo andare a farsi fottere. E non mi si dica che la CGIL non merita solidarietà perché non difende i lavoratori, dato che mi si dovrebbe spiegare perché non sono state assaltate le sedi della CISL o della UIL.

Ma quello che mi preoccupa è un centro sinistra imbelle che continua a stare dentro un governo DA CUI DIPENDONO LE DECISIONI ANCHE SULL’ORDINE PUBBLICO. Mentre l’estrema destra si organizza, si espande, saccheggia indisturbata assaltando le sedi del movimento sindacale. Allarmismo? NON è fantasia: perché E’ GIA’ ACCADUTO.

Brunello Mantelli

In merito all’assalto squadrista di ieri alla sede centrale della CGIL, a Roma:

Prego l’amico e compagno Andrea Colombo di non fare confusione, una confusione tipica della piccola borghesia (merdosa), tra mob, mass, e class. Il mob è quello dei linciaggi, il mass è quello dei mouvements, il class è quello che si riconosce come soggetto collettivo.

Il mob è strumento della reazione, il mass è ambiguo in sé, il class è rivoluzionario (se intendiamo per rivoluzione NON la presa di qualche palazzo d’inverno, ma un processo di trasformazione della società)).

Quello di ieri a Roma era mob, esattamente come, oltre due secoli fa, i “lazzaroni del cardinale Ruffo”.

Se questi ultimi ti dovessero piacere, caro Andrea Colombo, allora per favore fatti smettere di piacere Eleonora de Fonseca Pimentel; casomai scrivi che l’aristocratica e colta dama (tale era) se l’è cercata, ad essere contro quelle che tu chiami, sbagliando, “masse” (io invece mob).

Mi sa comunque che più che un seguace di Karl Marx sei un adepto di Gustave Le Bon. Saresti, lo sai, in ottima, calva e mascellare compagnia.

Marco Revelli

Condivido. Quelle sono piazze naturaliter fascistoidi. Chi non lo vede è cieco o in cattiva fede.

Alessandro Visalli

Chiariamo. Non ce ne sarebbe bisogno, ma forse è meglio scrivere due righe.Sono la stessa persona che nel lontano 2014 ha scritto un duro post di commento della famosa intervista di Luciano Lama alla Repubblica nel 1978. Ma non ho alcun dubbio a stare con la CGIL quando viene assaltata da una folla che urla “libertà” ed è guidata da FN.
E’ chiaramente più facile scaricare sul singolo lavoratore e affidare il controllo alle imprese. Più facile e più coerente con la costituzione materiale del nostro paese. Opporsi a questo è sacrosanto. Farlo per le ragioni sbagliate è disastroso, ci troveremo con un enorme rafforzamento del senso comune neoliberale.
Dunque nessun fascismo nella folla
Ma quando questa folla, unita dalla rabbia per le promesse tradite, si forma intorno al significante tutt’altro che “vuoto” della “libertà” mostra di essere piena della cultura del nostro tempo. Vera figlia del completo dominio neoliberale. Si tratta, è semplice dirlo, di una folla liberale. Come ogni altra, solitaria.Dunque il sono dalla parte della CGIL e non sono dalla parte delle folle solitarie liberali. Oggi.

Pino Timpani

La mia impressione è che questo inasprimento dipenda anche dal risultato elettorale delle amministrative, in cui i grenpassari hanno preso una solenne bastosta, come prevedibile. Peggio di tutti Paragone, con tutto quello che ha speso in propaganda e con l’alleanza con Grande Nord, costola fuoriuscita dalla Salvini Premier. Hanno dato “fuori di matto” come suol dirsi. E’ diventato, ora, evidentissimo quanto questo movimento sia profondamente reazionario, compresi quelli che portano sigle “comuniste” in questa pagliacciata grottesca. E’ il sintomo del delirio particolarista.

Pasquale Cirillo

Perché io dovrei lavorare a fianco di un non vaccinato aumentando la possibilità di crepare? Il mio diritto alla salute va prima della paura e della manipolazione di soggetti asociali deboli psicologicamente? Perché la CGIL dovrebbe difendere questa gente e non me?

Lanfranco Caminiti

1.

l’assalto di ieri alla cgil a roma – è la nostra giornata del 6 gennaio a washington alla casa bianca. non abbiamo jake angeli cornuto – ma di cornuti ce n’erano parecchi. lì c’erano QAnon e trump a guidare i “patiti del complotto mondiale”, qui c’erano i fasci e castellino e fiore a guidare quelli del no green pass. certo, dobbiamo capire – e c’è sempre un tempo per capire. c’è pure un tempo in cui finisce, la necessità di capire.

2.

non tutte le motivazioni dei “complottisti americani” sono strampalate. come, di certo, non tutte le motivazioni dei no-green pass. poi, c’è la questione “politica”: lì la voce era trumpista. qui la voce è progressivamente (e a roma, sempre) diventata fascista

3.

[…] a roma i fascisti hanno fornito l’ossatura e la militanza alla “gente comune” che non li ha di certo cacciati dalle manif ma li ha accolti (sono quelli delle bombe, delle stragi eccetera, ma non da ieri, non nell’ultima settimana, ma durante tutte le manif no-green pass di questi mesi). si poteva e doveva rompere – e non, gridare “libertà libertà” insieme ai fasci

4.

 […] sono mesi che castellino e i suoi scherani organizzano queste cose – e mesi che ci lavorano sui social. poi, c’erano famiglie, gente con bambini eccetera. potevano benissimo – costoro, che hanno diritto a manifestare e dire la loro, prendere le distanze e organizzarsi per conto proprio. fare da “copertura sociale” a castellino e fiore mi sembra un “ragionamento” fuori di testa. ieri, era tutto pensato e organizzato: i media non danno più lo spazio di prima a questa protesta e non danno più spazio a castellino e fiore. dovevano farla grossa per riconquistarlo – era questo il “segno” di tutto

5.

noi – e lo dico in senso molto vasto, largo – non siamo stati in grado dire una beneamata mazza di senso su tutta la questione della gestione del contagio, parcellizzandoci su questo o su quello, intessendo discorsi generici e generali sul capitalismo apocalittico. siamo rimasti “tagliati fuori” da ogni possibile soggettività su questa vicenda enorme, epocale. impauriti per un anno e mezzo, rintanati, mentre le piazze venivano lasciate a ristoratori e destre (politiche e di piazza). poi, ci siamo svegliati, appena hanno allentato un po’. la partita però – l’arbitro l’aveva già dichiarata chiusa e tutti negli spogliatoi. così è andata. ci sono ultras sugli spalti che fanno ancora casino ma la partita, questa partita è già finita da un pezzo

Renato Tassella

Comunque i fatti successi ieri sono stati paradossalmente utili. Quella gentaglia ha smesso di manifestare il sabato pomeriggio, almeno a Roma. Chiuso. Gli stronzi che hanno imitato i trumpisti, tra le ovazioni dei “compagni”, così come all’epoca di Capitol Hill, sono e saranno al gabbio, riconosciuti attraverso i loro stessi filmati in possesso della polizia che li ha già identificati.

Daniele De Stefano

Purtoppo ieri è stato uno schifo dappertutto. Ieri sono passato per sbaglio vicino la manifestazione no green pass a Piazza Dante. Hanno detto al microfono che non esiste il cambiamento climatico. Gli ho urlato contro d’istinto. Gente che parla di grande complotto, di abolire la scienza e i giornalisti. Cioè 30 anni di lotte sociali cancellate in un lampo: Le lotte ambientali in Campania e la giustizia climatica, le lotte universitarie per l’istruzione pubblica e la ricerca libera. Le lotte per l’informazione libera e dal basso. C’erano pure persone che giravano nei cortei sociali. Qui non è più tempo di fare analisi del disagio. Al microfono c’erano persone alfabetizzate e alcuni erano persone che stanno negli spazi o organizzazioni sociali, in più pare che fosse stata organizzata da studenti universitari contro il green pass. Le cose che sono state dette sono gravissime. Per me non è ne giustificabile, né sostenibile.

Fortini, la guerra, la pace

di Ennio Abate

Chi sta in alto dice: pace e guerra

sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
sono come il vento e la tempesta.

La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.

La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
è sopravvissuto.

(Bertolt Brecht, Poesie di Svendborg)


La Seconda guerra mondiale e Foglio di via La guerra entrò nella vita di Fortini  con il suo richiamo alle armi nel luglio 1941. Nei mesi seguenti egli riuscì ancora ad alternare servizio militare e studi universitari, ma lo sfascio dell’esercito italiano (8 settembre 1943) lo spinse a raggiungere con altri dispersi la Svizzera. Internato nel cantone di Zurigo con centinaia di fuggiaschi italiani ed europei, vi conobbe esponenti dell’immigrazione antifascista, lesse per la prima volta alcuni scritti di  Lenin, aderì al Partito socialista e incontrò Ruth Leiser, che diventò la donna della sua vita. Partecipò anche alla repubblica partigiana formatasi in Valdossola, che però era già in fase di ripiegamento.

I versi di Foglio di via, scelti tra i moltissimi scritti degli anni  ’40-‘44, sono il primo risultato poetico di Fortini giovane. Ricevettero poche recensioni (di Calvino e Ragionieri in particolare), ma scarsa attenzione da parte dei suoi amici letterati fiorentini.

Anni dopo, nella Prefazione del 1967 alla nuova edizione di Foglio di via e in alcune interviste, Fortini sottolineò quale forte cesura la Seconda guerra mondiale aveva segnato nella sua esistenza, sebbene gli eventi più tragici del conflitto mondiale l’avessero soltanto sfiorato e giudicasse ora (un po’ mortificandosi, come nel suo stile) quella sua esperienza “assolutamente trascurabile” se paragonata alle sofferenze di tanti coetanei deportati in Germania, in Africa o in India.

Lo stacco fra  il prima (adolescenza all’insegna dell’elegia, passione per l’arte e la letteratura, partecipazione sia pur diffidente e scalpitante ai Littoriali del regime fascista) e il dopo (servizio militare, sbando, internamento in Svizzera) fu netto e duro. I rapporti che stabilì, da isolato, con militanti politici antifascisti e formazioni partigiane non furono privi di esitazioni e il contatto con soldati e civili nelle caserme o per le vie delle città bombardate gli svelò l’insufficienza della sua cultura “piccolo borghese”. «Che cosa gli poteva servire aver letto Proust, Joyce, Rilke o Gide?», scriverà nella Prefazione del 1967; e in un’intervista aggiungerà poi: “È solo con l’esperienza del servizio militare, l’incontro con i contadini italiani vestiti da soldati, da fanti, che ho cominciato a capire qualcosa” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.511).

Nella crisi, quel “qualcosa” affiorava a fatica dal populismo tipico dell’epoca. Era sì sufficiente a staccarlo definitivamente dall’ambiente letterario fiorentino in cui s’era formato e ad unirsi a Elio Vittorini, che stava per fondare Il Politecnico, ma tenui sono le tracce  di una visione politica di classe del fascismo e della guerra. Essa maturerà negli anni successivi e, del resto, era quasi assente allora; e non solo fra i suoi coetanei intellettuali. Se rileggiamo, infatti, Agli italiani (8 febbraio 1944), una conferenza tenuta in Svizzera ai connazionali internati come lui in “quarantena” nel campo di Adliswill (cantone di Zurigo), notiamo che la denuncia dell’avventura fascista e la volontà di reagire si appellano soprattutto  ai valori della  patria distrutta.

Nella presentazione alla recente pubblicazione dei Saggi ed epigrammi di Fortini, Rossana Rossanda ha ricordato  i tanti tratti culturali che il giovane Fortini aveva in comune con tutta la generazione degli anni Venti: “stesse letture, stessi interrogativi, stesse frequentazioni, stesso fastidio per il fascismo, stesse incertezze a impegnarsi fino all’occupazione tedesca”. E Fortini, quasi a conferma, così aveva da parte sua rievocato quel clima culturale:

“L’antipatia nei confronti del regime fascista era strettamente collegata con gli atteggiamenti  intellettuali ed estetici di un giovane che allora si interessava soprattutto di arte e di letteratura. Ma questa non era soltanto la mia posizione. Era quella di tanti giovani di estrazione piccolo borghese o borghese che nella Firenze di allora amoreggiavano con la cultura d’avanguardia e con la poesia, amavano il cinema populista francese [...] e trovavano il fascismo soprattutto maleducato e volgare, banale e culturalmente rozzo. [...] L’antifascismo nostro di allora era un antifascismo che potremmo oggi chiamare di destra, cioè un antifascismo  che trovava ridicolo ed insopportabile il fascismo per i suoi atteggiamenti plebei”. (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p. 609)

La guerra gli si presenta, dunque, innanzitutto come viva esperienza del mondo dolente e confuso dei rifugiati conosciuti a Zurigo. Di questa realtà insospettata parla come di una “rivelazione”, sottolineando – e qui ha un peso coglie l’impronta fortemente letteraria della sua formazione – che quel periodo fu l’unico della sua vita in cui non avvertì più “nessuna differenza fra la parola stampata e quella detta”. Gli parve che una fluidità sorprendente si stabilisse fra la parola meditata  nell’assenza fisica di interlocutori, propria della poesia e della letteratura, e la parola più immediata e corporea della comunicazione orale con gente in situazioni materiali durissime o sfuggite allo sterminio nazista allora quasi inimmaginabile, come quel gruppo di ebrei dell’Europa orientale che in una cantina recitava preghiere “intollerabili come urla di gente che fosse tormentata e battuta”.

Fra 1944 e ’45, sempre a Zurigo, lesse anche alcuni testi dalla Resistenza francese, ricevendone un ulteriore incoraggiamento a compiere scelte radicali, come affermò nell’intervista del 1993 a Jachia (Fortini,  Leggere, scrivere).

Berardinelli, in uno dei primi studi sistematici dell’opera fortiniana (Berardinelli, Fortini), ha visto in quegli anni un passaggio del giovane scrittore da un “antifascismo dell’anima” ad un “antifascismo politico”, che riguardò le scelte morali e politiche, ma anche lo stile della sua scrittura; ed in   Foglio di via ne abbiamo la prima registrazione.

Nella raccolta, infatti, troviamo da una parte poesie dai toni duri e realistici e un linguaggio che mira all’oggettività e alla coralità e, dall’altra, la persistenza del clima assorto dell’educazione ermetica fiorentina.

 Sul piano letterario il realismo delle scelte linguistiche e stilistiche, spia di una forte tensione verso  l’impegno politico e storico,  è  tipico di quegli anni di guerra, alla cui durezza il giovane scrittore s’impone ora di non sfuggire più nemmeno in poesia, ma l’impronta della precedente educazione, classica ed etico-religiosa, s’interseca ora con i motivi resistenziali e non come elemento inerte; e si presenta – come ha visto acutamente Lenzini – sia come «momento ‘nichilistico’,  di deiezione e angoscia» sia – dialetticamente – come attesa e  speranza.

Fortini non passa, cioè, dalla precedente formazione al neorealismo che dominerà in vari modi dal ’45 fino agli inizi degli anni Cinquanta. Resta più isolato. E basti confrontare il populismo di  tanta letteratura della Resistenza (Pratolini, Viganò, ecc.)  con la ritrosia pensosa (non ostile) verso il “popolo”, evidente nel suo romanzo, Giovanni e le mani, pubblicato nel ’48.

Foglio di via  e Giovanni e le mani  passarono presto sotto silenzio. Non rientravano soprattutto nella retorica tutta «patriottica» della Resistenza, che, surrogando  presto la sconfitta reale dei partigiani, la presentò come lotta di tutto un popolo contro un’invasione straniera, cancellandone  gli aspetti più controversi di lotta di classe e di “guerra civile”, messi poi problematicamente in luce dallo storico Claudio Pavone. E il mutamento del clima politico negli anni Cinquanta portò in letteratura ad una svolta formalistica (la parabola di Vittorini  e il successivo neoavanguardismo  sono in proposito illuminanti), che svalutò la direzione di ricerca imboccata da Fortini, lontana dall’oleografia neorealistica e nazional-popolare eppure in contrasto con l’”americanizzazione” che poi ha trionfato in Italia e in Europa. Fortini dovrà proseguire sulla sua strada in un relativo isolamento e guardando altrove (verso Francia e Germania prima e poi verso la Cina).

L’esperienza della guerra e della Resistenza restano per lui fondamentali sul piano politico, etico ed estetico. Su di esse il suo marxismo si consolidò restando “critico” e il rapporto scoccato in quegli anni fra letteratura e storia non fu mai più sciolto.  Lo testimoniano tutte le sue opere successive e la prontezza con cui reagì alle prime avvisaglie del “revisionismo storico”. Ancora nel 1993, in alcuni incontri organizzati all’università Statale di Milano, Fortini, relazionando su Letteratura e Resistenza, nel suggerire ai giovani le prove letterarie più alte di quegli anni, ricordò ancora con nostalgia l’attenzione dei letterati a quella sorta di “letteratura orale” che nasceva sui treni, allora tanto lenti da facilitare i racconti delle proprie vicissitudini da parte di ogni viaggiatore ad altri sconosciuti.

Primo intervallo: sulla “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” in Fortini  Già  in Foglio di via emerge una feconda contraddizione, che agirà in tutta la laboriosa carriera dello scrittore e che maturerà attraverso scelte politiche e di studio.  Berardinelli ha parlato in proposito di “compresenza conflittuale di storia e trascendenza”. È una formula che mette in luce l’inquietudine mai placata della ricerca di Fortini fra le polarità della cultura occidentale cristiano-borghese (materialismo/idealismo, mondanità/religiosità).

Questa sua inquietudine è stata spesso ricondotta al facile luogo comune di un Fortini tormentato, oscuro, intollerante e ha legittimato riserve o giudizi contrastanti su di lui anche da parte di amici e studiosi importanti. Timpanaro, ad esempio, lo considerò solo “un religioso sia pure tormentato”(Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002) e mai un pensatore veramente materialista, mentre Ranchetti ha visto invece in lui “un’etica… non religiosa ma ricca di affetto struggente per le cose reali” (L’ultimo saluto, in Testimonianze 372 febbraio 1995).

La stessa Rossanda scorge nel suo “essere stato mezzo ebreo, mezzo protestante, mezzo antifascista, mezzo resistente” la probabile origine di un’intolleranza verso se stesso e gli altri  più che la molla di un suo orientamento comunista radicale, fertile specie nel panorama della cultura italiana ed europea del secondo Novecento, prima irrigidite dalle contrapposizioni della Guerra fredda e poi acquietatesi nei compromessi della “coesistenza pacifica”.

Isolato da tanti suoi coetanei, più tranquillamente calatisi negli schemi atei, illuministi, marxisti e cattolici (o in soluzioni eclettiche), che la storia dal ’45 in poi ha istituzionalmente offerto, è stato lo stesso Fortini ad esasperare spesso un suo sentimento di esclusione in modi quasi disarmati, come quando in un’intervista per Il messaggero del 7 gennaio 1984, confidò a Renato Minore:

“Pochi giorni fa mi sono trovato di fronte due persone della mia stessa età, fiorentine: una è stata medaglia d’oro della Resistenza; l’altro un vero fascista, molto importante. Queste persone erano cambiate come cambiano tutti negli anni. E io mi sono trovato nello stesso stato d’animo che avevo tra il ’38 e il ’41. Ho avuto un attacco d’angoscia, ero uno che si sente ancora escluso...” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pag 344).

Ma, evitando sintesi e sublimazioni, Fortini ha avuto il merito di affermare verità lucide e radicali su questioni (le sue “questioni di frontiera”!)  cruciali ma di solito ipocritamente stemperate dell’ebraismo, del protestantesimo, dell’antifascismo, della resistenza. E la sua verifica dei poteri è stata continua e rigorosa negli anni (non solo il titolo di un suo libro del 1965). Poche “trascendenze”, insomma, appaiono, come la sua, tanto calate  nella materialità degli eventi storici e capaci di non appiattirla positivisticamente.

La formula della “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” se non resta un’astrazione, ma aiuta ad  indagare le prese di posizione concrete, sempre chiarificatrici, di Fortini di fronte agli eventi quotidiani e storici e, nel nostro caso, di fronte alla guerra e alla pace, può, dunque, essere accettata. Fortini non ha mai smesso, infatti, di misurare il proprio sentire, la sua fede cristiana e la sua borghese “coscienza infelice” con il dramma storico e materiale, senza farne un alibi.

E perciò non “ha elevato in tutta la sua opera un altare di lugubre e tormentosa devozione barocca alle idee di guerra, guerra di classe, antagonismo, conflitto, contraddizione”  come scrisse Berardinelli, in Stili dell’estremismo (Diario 10 1993), iniziando, con un infelice autodafé, una revisione riduttiva non solo della figura di Fortini, ma della stessa formula di cui stiamo parlando, coniata tra l’altro dallo stesso Berardinelli. Quel suo saggio affronta temi psiconalitici interessanti da indagare (come aveva già fatto Remo Pagnanelli in Fortini), ma scolla completamente il fondamento psichico  della biografia e dell’immaginario di Fortini  dalla  storia sociale e politica del Novecento.

Eppure il costante ripudio della guerra (altro che “devozione barocca” ad essa!) da parte di Fortini non pare affatto originato da voglia di un interiore quieto vivere né da pulsioni inconsce di cui sia impossibile cogliere le radici storiche. L’inconscio di Fortini, per dirla con Jameson, è politico e   le metafore, che il poeta vi attinge e che Berardinelli giudica “ossessive”, si precisano meglio proprio alla luce di fatti reali e storici.

Una tale rimozione della realtà della violenza nella storia, ridotta da Berardinelli ad immaginario quasi privato poteva aver breve credito, assieme alle teorie della “società trasparente” e di un nuovo ordine imperiale pacificato e quasi augusteo, soltanto all’indomani della caduta del Muro di Berlino del 1989 e dell’implosione dell’ex Unione sovietica.

Ma tutto il “secolo breve” e il ritorno, nel suo scorcio, della guerra come mezzo normale di soluzione dei conflitti internazionali o come risposta ottusa ad oscuri terrorismi, smentiscono l’ottimismo frettoloso di una variegata generazione, comprendente sia Berardinelli  sia il Revelli di Oltre il Novecento e, per certa fiducia in una postmodernità imperiale dai tratti esageratamente progressisti, anche Negri e Hardt.

 Il vecchio Fortini, con la sua  inquietudine mai conciliata e la sua attenzione alla storia e per la volontà di tenere assieme le radicalità di due tradizioni (la cristiana e la marxiana), non ha sottovalutato l’aspetto tragico presente anche nella possibile (“il socialismo non è inevitabile”!) rivoluzione  socialista.

La guerra nel tempo della pace: Fortini e il Vietnam Il tema della guerra ritorna incessantemente in numerose poesie scritte da Fortini negli anni successivi alla Liberazione, quelli “di pace”, del “boom economico” e della falsa “coesistenza pacifica”.

Provando a scegliere dall’indice di Una volta per sempre (ediz. 1978, che raccoglie le poesie di Fortini fino al 1973) solo i componimenti in cui il tema della guerra è più esplicitamente trattato, troviamo l’attenzione al nemico che muore nel pieno della liberazione di Parigi (Quel giovane tedesco, pag. 75), alle stragi (Sono morti ormai,  pag. 126),  alle “notizie divine della guerra” (Science  fiction,  pag. 139), alla confusione e all’ansia dell’8 settembre del ‘43 (Una sera di settembre), alla tragedia  del corpo di spedizione italiano in Russia (Ai nostri caduti in Russia, pag 150).

Col tempo nelle poesie le tracce della guerra  sembrano diradarsi (Dalla mia finestra  pag. 215). Ma essa non è scomparsa, avviene  lontano ed è comunque spiata dalla gabbia della routine quotidiana occidentale (Primo riassunto, pag. 226) o attraverso  notizie filtrate da una sensibilità solitaria, che interiorizza senza false mediazioni partitiche  lo scontro politico altrove ancora armato (4 novembre 1956, pag 230).

La guerra è sottofondo che persiste,  ora in sordina ora minaccioso. Anche in un presente che concede  al poeta la confidenza amorosa e nostalgica (1944-1947 pag. 241) o  in qualche fugace immagine  di gioia, non casualmente legata alla figura femminile (Alla stazione di Minsk,  pag. 245). Per tornare ad essere rivissuta come incubo gelido e mortuario (La linea del fuoco,  pag. 275), attraverso la lettura delle pagine di scrittori amati (Dopo una strage da Lu Hsun, pag 285) o in incontri quasi onirici con una sorta di alter ego fantasmatico (Ricordo di Borsieri, pag 310).

Negli anni Sessanta, dunque, la guerra è in Italia e in Europa un ricordo sempre più rimosso. Si è trasferita nei paesi del Terzo Mondo. Là solo è tragedia quotidiana. Qui è oggetto di controversie politiche o  notizia da manipolare. Essa ridiventa però un punto di alto di contesa politica internazionale con l’aggressione americana al Vietnam.

       Fortini, intervenendo ad una manifestazione per la libertà del Vietnam, tenuta in Piazza Strozzi a Firenze il 23 aprile 1967, prova a scalfire la rimozione collettiva. Il marxismo gli mostra che la vicenda del Vietnam è “una metafora dei conflitti di classe nazionali” e  che un filo stringe quella  guerra lontana alla pace opulenta e falsa dell’Occidente: una medesima violenza di classe si esercita in Vietnam  nella forma della guerra e in Occidente nelle forme dello sfruttamento capitalistico del lavoro.

            Con un breve comizio in dodici punti ribalta l’opinione, prevalente  anche nella Sinistra, che i Vietnamiti  fossero delle vittime e che la “coesistenza” inaugurata dal rapporto di Kruscev fosse davvero “pacifica”. Paradossalmente a trovarsi in una situazione migliore sono proprio i vietnamiti, che almeno lottano apertamente, rischiando la morte, contro l’aggressione americana, e non gli italiani che hanno  accettato la servitù dagli Usa.

     I punti sono trattati con un massimo di assertività;  e più tardi, ritornando anche sugli aspetti formali del comizio, dirà che aveva voluto costruire l’intervento “in forma modulare con variazioni su di un numero definito e ricorrente di frasi” (in forma ampia il ricordo del 1971 è trattato in Memorie per dopo domani, Quaderni di Barbablù Siena 1984).

Quel comizio è rievocato anche nei suoi risvolti politici in un’intervista a “La stampa” del 13 sett. 91:

“Una piazza di Firenze nell’aprile del ’67, dove si tiene una manifestazione per il Vietnam, con Lelio Basso e Giorgio La Pira tornati dall’Asia. C’era un’aria di melassa, con tutti gli interventi ufficiali. Ma era avvenuto il colpo di Stato dei colonnelli greci e a Berlino uno studente era stato ferito dalla polizia. I gruppi maoisti cominciarono a contestare. Io ho letto il mio testo, concepito come testo letterario, ma che ha avuto un effetto opposto. Voglio rileggerne qualche passo. “Sul Vietnam non ci si unisce. Sul Vietnam ci si divide”. “Tra Usa e Vietnam non è solo un film dell’orrore: è un conflitto fra due classi di uomini”. “Non basta dire americani a casa: perché gli Usa se ne vadano dall’Asia devono sapere di avere popoli nemici in Europa”. Claudio Petruccioli, su  Rinascita parlò delle mie “locuzioni deliranti”. In perfetta continuità con la vera tradizione stalinista del Pci, che era l’opposizione a qualunque forma di sovversione marxista, o non, che non passasse per i corpi istituzionali”

Nell’intervista non sfugge alla domanda provocatoria del giornalista, che gli chiede se quel discorso lo riscriverebbe tale e quale dopo i massacri di Pol Pot in Cambogia. Fortini chiarisce che no, non riscriverebbe negli stessi termini quel discorso:

“Certo che no. Assolutamente oggi non lo riscriverei così. Tuttavia, attenzione, non per Pol Pot, per la Cambogia, per le altre cose tremende che sappiamo. Neppure perché è venuto meno il comunismo sovietico. Ma perché è caduta l’altra grande ipotesi antimperialista: quella di un accerchiamento delle città da parte delle campagne, dei paesi sviluppati da parte dei sottosviluppati. È venuto meno, cioè, il mito della Cina. I sottosviluppati si sono trasformati anch’essi in consumatori. Il grado di unificazione del mercato mondiale è incomparabilmente superiore a quello che prevedevamo” ( Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.622).

Non dobbiamo ridurci, sembra dire implicitamente, a ragionieri dell’orrore, né a scegliere il regime  in cui l’orrore è minore o meno appariscente (l’orrore americano al posto di quello vietnamita o sovietico o cinese?). Dobbiamo scegliere ipotesi politiche che mirano alla libertà e a conflitti più alti fra gli uomini contro ipotesi politiche che vogliono conservare privilegi antichi e moderni e abolire ogni conflitto. Questo è il senso della sua risposta, in aperto contrasto con l’”aritmetica dell’orrore” che purtroppo, sulla scia del revisionismo storico, si è imposta in questi nostri anni recenti (e di cui il “Libro nero del comunismo” è un esempio).

Secondo intervallo: il professore marxista e i “nipoti felici di verità tranquille” degli anni Sessanta Fortini cala spesso in poesia gli eventi storici da lui vissuti. In una poesia intitolata Vietnam, italiano e storia. 1966 (in  L’ospite ingrato primo e secondo, pag. 126) il presente – che vede la resistenza del Vietnam, il poeta che la segue attraverso le immagini televisive, facendo l’insegnante e chiedendo “un filo di consenso alle orde/ dei nipoti felici di verità tranquille” – è raccordato al passato: “Ricorda il Trentacinque le rose del liceo/ il professor Ugolini che non aveva la tessera.”

Il professore Ugolini di questa poesia sembra un autoritratto per interposta persona o comunque un’immagine di fermezza morale paterna e solitaria. E può  far riflettere un riscontro empirico, raccolto a distanza di tempo, all’indomani della morte dello scrittore. Esso chiarisce a sufficienza quanto fosse arduo recepire la sua pedagogia non neutra, da professore di lettere marxista, da parte di studenti degli anni Sessanta, che pur si risvegliarono nel ’68 dal loro torpore.

Trascrivo perciò alcuni brani della testimonianza-ricordo di un ex studente di  Fortini, Franco Romanò. Essa combacia quasi perfettamente con la situazione delineata nella poesia Vietnam, italiano e storia. 1966 e ci dà,  per così dire, il punto di vista dei «nipoti felici» di quegli anni:

“Conobbi Franco Fortini nel lontano 1965. Ero iscritto all’ultimo anno di ragioneria al Mosè Bianchi di Monza e lui era il nostro professore di lettere. Quando entrò in classe il primo giorno, lo sguardo era serio e severo; aveva una brutta borsa di pelle, identica a quella che gli avrei visto portare venti anni dopo. La mise sulla cattedra e poi, invece di sedersi, scese dal predellino e stando in piedi davanti a noi, ci guardò un po’ e poi iniziò un discorso che per quegli anni si può senz’altro definire memorabile:

“Mi chiamo Franco Lattes, sono di origine ebraica, durante la guerra fui costretto a riparare in Svizzera, tornai a Firenze con la liberazione. Poiché io voglio che ci si conosca bene senza sotterfugi vi dirò che sono marxista, sono stato iscritto al Partito socialista ma oggi non lo sono più, sono un poeta e uno scrittore, mi occupo di letteratura ma conosco anche l’industria. Ho stimato molto un grande industriale italiano, Adriano Olivetti, ho lavorato in quell’azienda, fui io a dare il nome alla prima macchina da scrivere, la lettera elle: il nome lexicon lo suggerii io.”

Dopo aver detto questo si sedette tranquillamente in cattedra. Tutti noi eravamo allibiti, ci lanciavamo occhiate perplesse, interrogative [....]

Altre volte si sedeva in cattedra e non parlava, se ne stava cupo e raccolto in sé; sapevamo, allora, che era successo qualcosa di grave nel mondo, da qualche parte. Fu così, per esempio, quando fu giustiziato da Franco l’anarchico Grimau; a Milano il giorno prima c’era stata una manifestazione credo anche con scontri, lui vi aveva partecipato. In questi casi al silenzio di una  decina di minuti seguiva una rapida spiegazione dei motivi della sua indignazione, poi la lezione cominciava” (in Testimonianze per Franco Fortini, Cologno Monzese 1966)


La contraddizione nelle proprie radici: Fortini e la guerra dei Sei giorni (1967)  Nel giugno 1967 le truppe israeliane e quelle egiziane si scontrarono nel deserto del Sinai; e in Italia e in altri paesi occidentali l’opinione pubblica si schierò subito con Israele, accettando la versione  che la guerra era stata una  risposta ad un’aggressione araba.

Fortini scrisse in quell’occasione I cani del Sinai. Il titolo  del libro derivava da un inesistente proverbio arabo: “Fare i cani del Sinai”, un’espressione che significa “correre in aiuto al vincitore”, “stare dalla parte dei padroni”, “esibire nobili sentimenti”.

Si tratta di un saggio composto di note politiche a caldo sugli eventi di quell’anno in aperta polemica verso i simpatizzanti dello Stato d’Israele, e di un austero resoconto autobiografico sulle proprie ascendenze di ebreo italiano, nel quale si sofferma su vicende di parenti e sulla sua stessa storia familiare e personale (i rapporti con i valdesi, la sua conversione).

 I cani del Sinai sottolinea che, con quella guerra contro gli arabi, “ebraismo, antifascismo, resistenza e socialismo”, fino ad allora pensabili come  “realtà contigue”, non lo sono più.  La guerra ancora una volta ha stravolto l’identità culturale del paese che la fa. Israele  è diventata altro da quello in cui si era sperato al momento della sua fondazione. È ora complice e punta avanzata in Medio Oriente dell’imperialismo statunintense.   E, quando la guerra dei  Sei giorni è diventata notizia, la sua manipolazione e  la sua sterilizzazione a chiacchiera da salotto è talmente imponente che gli stessi amici ebrei di Fortini,socialisti e comunisti, si mostrano sconcertati, indulgenti verso Israele e restii a prendere atto del cambiamento avvenuto. Solo lui insiste, isolato e malvisto, a trovare intollerabili le accuse rivolte agli arabi con argomentazioni – scrive – che trent’anni prima  erano state  usate dai nazisti contro gli ebrei. E mostrerà anche in seguito amicizia e solidarietà attiva verso i palestinesi, come provano le sue accorate riflessioni di un viaggio in Israele del 1989, raccolte in Un luogo sacro di Extrema ratio.

In un’intervista di Gad Lerner  del 1982 a Radio popolare (L’ospite ingrato, 2, 2003), che aveva come sfondo le stragi  israeliane in Libano di quell’anno (Sabra e Chatila, operazione “Pace in Galilea”), ritornano, filtrati dalla memoria e dalla meditazione su tante altre sconfitte, i temi politici de I cani del Sinai: la critica all’opinione democratica e colta, schierata comunque con Israele (“si pensa che gli israeliani esagerano; ma in sostanza, nel profondo, si pensa che sia meglio, possibilmente, cancellare i palestinesi”), quella alla funzione de-realizzante della comunicazione massmediale (“l’occhio dei mass-media è un occhio incaricato di non far vedere, quello che fa vedere viene  nello stesso tempo assorbito e annullato”), la presa d’atto che l’immensa tradizione culturale ebraica è ormai esaurita e che la storia e le vicende dello Stato di Israele nulla hanno più a che fare con essa.

Lerner vorrebbe vedere nel conflitto in Israele una “nuova grande ondata di irrazionalismo”. Ma Fortini gli ricorda che  esistono due razionalità, una cosciente, una meno cosciente, “ma che non per questo è meno razionale, e cioè meno adeguata ai fini che si vogliono raggiungere”.

 Per lui la classe dirigente israeliana strumentalizza le minoranze religiose estremiste, abbastanza esigue in Israele su una popolazione sostanzialmente laica e spesso atea. E respinge pure la tendenza, che in quegli anni di “crisi della ragione” si faceva strada da noi, ad abbandonare ogni lettura degli eventi storici basata sulla descrizione dello stato dei rapporti socio-economici; il che – aggiunge – “costituisce la riprova di una condizione di guerra: come quando nella guerra contro l’hitlerismo e il fascismo vi fu un momento in cui l’interpretazione canonica di tipo marxista venne omessa completamente […] per sottolineare la figura del cattivo, del non-uomo, del mostro”.

Terzo intervallo: la “regola del morto-vivo” in arte Anche se non si sofferma su una propria opera, ma sulla versione cinematografica del libro,  il film Fortini/cani, girato da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet nel 1976, in cui lo scrittore  legge  brani del suo stesso libro, la Nota 1978  all’edizione in francese de I cani del Sinai torna utile per chiarire come Fortini passa dalla riflessione politico-autobiografica su un evento storico  alla sua resa artistica (o più in generale alla poesia).

Siamo in tutt’altro clima rispetto a Foglio di via. Lì scelte linguistiche e stilistiche  tendenti al realismo. Qui, invece,  i fatti  trattati nel libro del ’67, pur giudicati indispensabili (“in loro assenza non si fa nulla”)   vengono allontanati e sono affrontati  come fossero spoglie che hanno perduto ogni passione  e immediatezza. La polemica politica ha ceduto il passo alla meditazione: “Fra qualche anno”, egli afferma, “nessuno comprenderà più che cosa sono stati la guerra in Vietnam e il conflitto arabo-israeliano”.

Gli eventi storici vengono guardati “come beni perduti per sempre e non a noi  destinati”. Ora interessano soprattutto “le lacune del reale” o “un reale senza fantasmi di consolazione”, senza lirismo e senza autobiografia.  Perciò sottolinea: quando nel film parlo di “realtà”, la mia voce si fa stridula, è “soverchiata dall’assenza” di realtà.

Solo così  le parole, dice, diventeranno “cibo di molti”.  È una visione dell’arte (e non solo del cinema, spunto della riflessione in questo caso), che Fortini deriva “da alcuni pochi e assoluti maestri” e si fonda sulla “regola del morto-vivo, dello zombie”. Un’immagine dell’artista che pare quasi modellarsi sul Cristo dell’ultima cena, la cui figura ben si concilia con le regole che qui Fortini sostiene.

Fortini e la prima Guerra del Golfo Sulla Guerra del Golfo del ’90, “operazione di polizia internazionale avallata dall’ONU” subito dopo la caduta del Muro di Berlino dell’anno prima, Fortini scrisse su il manifesto vari articoli.

Lo scritto più elaborato è Otto motivi contro la guerra (9 settembre 1990, ora in  L’ospite ingrato, 2, 2003). È un bilancio epocale dell’atteggiamento tenuto dai marxisti contro la guerra. E viene scritto in una situazione politicamente disastrosa, non dissimile da quella creatasi alla vigilia della Prima guerra mondiale: la maggioranza della Sinistra italiana – portavoce più autorevole Bobbio – è per la “guerra giusta” contro l’Irak di Saddam. L’unica debole opposizione è morale e proviene soprattutto dagli ambienti cattolici.

Il disastro è riconosciuto. A questo punto della storia del Novecento, che ha visto sconfitte le guerriglie terzomondiste e  il crollo della stessa Cina di Mao, Fortini ritiene davvero esaurite le risposte elaborate dalla tradizione socialista, che si aspettava il cambiamento dei rapporti di forza fra gli uomini dal lento evolvere dei meccanismi, e da quella comunista, per la quale la modificazione sarebbe avvenuta per via di coscienza ed organizzazione. E lo dice  nei suoi consueti modi drastici e senza rinunciare a testimoniare anche l’impotenza della sua generazione:

“Quello che è  crollato non è soltanto l’impresa comunista, l’Est, il muro: ciò che è crollato sono due secoli di cultura occidentale. Ciò che è stato demolito non è il comunismo, casomai è il comunismo come parte dell’eredità dell’illuminismo […] Al momento del “crollo” (partiti comunisti ufficiali, muro, Urss) e della “apocalisse”, ossia del discoprimento di ciò che avremmo dovuto vedere anche prima (guerra del Golfo, mutamento delle procedure internazionali) i ventenni andarono in cerca degli ultrasessanteni per farsi spiegare che cosa fosse successo. E abbastanza rapidamente, noi vecchi abbiamo esaurita la sequela delle spiegazioni e dei ricordi, perché il mondo era troppo mutato sotto i nostri medesimi occhi [...] Certo il marxismo di “Quaderni rossi” di trent’anni fa può aiutarci a capire il Giappone, la Corea, il Brasile, la ex Urss e gli stessi Usa, meglio dello pseudolaburismo [...] Ma in queste materie non basta capire [...] Bisogna avere tempo e forza di agire [...]  C’è stata una frattura, un mutamento dei codici [...] e siamo entrati in una situazione mondiale di autodistruzione, dei corpi e degli spiriti, degli equilibri fisici e mentali che unifica il pianeta” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pp. 709-711).

 Che fare, allora, contro questa guerra? I mutamenti indotti dalla superiorità tecnologica e militare degli Stati Uniti hanno svuotato l’indicazione leniniana: trasformare la guerra imperialistica in guerra civile è possibile, sottolinea Fortini,  “solo al di sotto di un certo livello di tecnologia degli armamenti”, ampiamente superato oggi.  E, commentando  il verso di una canzone anarchica (“La pace fra gli oppressi, la guerra agli oppressori”), lo aggiorna: quella pace non è più esente da contraddizioni e conflitti fra gli stessi oppressi e “quella guerra non è necessariamente da combattersi con le armi”.

Non siamo però, come potrebbe sembrare, all’accettazione del pacifismo o della non-violenza. Da marxista, Fortini al pacifismo continua a rimproverare una disattenzione verso “gli effetti distruttivi del modo presente di produrre e consumare” e la svalutazione della “mediazione politica”.

Il pacifismo, scrive, “non mi persuadeva allora [si riferisce agli anni  ‘50] né oggi” e ripubblica come se fosse ritornata attuale una sua lettera a Capitini di quarant’anni prima (1950), alla vigilia della guerra di Corea.

Fin troppo convinto forse che, se una grande confederazione sindacale fosse stata capace di proclamare lo sciopero generale contro la guerra americana, avrebbe avuto il consenso necessario, contrappone la scelta religiosa, morale o filosofica  contro la guerra a quella pratico-politica, per lui indispensabile. Bisogna “uscire dalla morale verso la politica”, scrive, sostituire alla morale dell’intenzione una morale del risultato, scegliere di “combattere politicamente l’impero del mondo”.

 Il bene, dunque, anche in questa situazione catastrofica per la sinistra, non sta nella non-violenza, nel rivendicare una impossibile assenza di conflitto, nel chiedere solo che tacciano le armi. E persino in alcuni passi, dove sembra avvicinarsi a quanti intendono la non-violenza come lotta e non arrendevolezza, ribadisce che la non-violenza può essere presa in considerazione soltanto se è un’arma contro la guerra, magari simbolica come l’Intifada.

L’accento è posto ripetutamente sul valore fecondo del conflitto e sul legame dialettico, anziché di netta separazione, tra conflitto e pace: “senza conflitto non si dà riposo o “pace””. I “facitori di pace” non sono quelli che negano o mistificano i conflitti, ma quelli che “spostano la frontiera degli inevitabili  e fecondi conflitti”. E non smette di  ricordare, contro ogni facile illusione, che il conflitto è sempre un “male” per ottenere un “bene”, il cui raggiungimento però non è garantito.

La sua visione delle cose resta radicale anche in una situazione  in cui non s’intravvede la via d’uscita politica da lui stesso auspicata. Fortini non distoglie la mente dalla tragicità dell’esistenza umana e ripete con altre parole verità scritte già in altra occasione, nel 1985,  ben prima della guerra del Golfo del ’90:

“A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin ‘che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi” ( Fortini, Non solo oggi, p.303)

L’assenza di conflitto non equivale, dunque, alla pace. La storia è conflitto. Compito politico non è sedare i conflitti, ma promuovere quei conflitti che facciano crescere gli uomini e trasformino il nemico prima in avversario e poi in collaboratore necessario e prezioso. E il nemico  che va trasformato oggi è quello “che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci”. Questo nemico era nel ’90, più che in passato, rappresentato per lui dagli Stati Uniti (Egli, in altra occasione, li definì un “regime abietto…da quarant’anni nemico del genere umano”).

 La sua critica coinvolge ora anche le posizioni di sinistra che considerano azione politica valida solo quella che si svolga nella metropoli, al “massimo livello di sviluppo produttivo”; e quindi dove la “realtà tecnologica del capitale internazionale che si esprime essenzialmente nella forma che noi chiamiamo americana” si è già affermata.

 Queste posizioni, secondo Fortini, accolgono senza andare per il sottile il “progresso tecnologico con tutte le sue conseguenze anche quelle che si possono prevedere aberranti o pericolosissime”, perché condividono con il nemico una morale “da signori”, basata sull’accettazione della “virile durezza della realtà” e, come i signori, disprezzano quanti nel mondo “non tengono il passo”, rimangono indietro, sono schiacciati dalla macchina” (vivono nella morale “del servo”).

Egli fa i nomi di Tronti, Asor Rosa, Negri e Cacciari e collega questa tendenza al trotzkismo.  Contro di essa scrive un articolo fortemente  polemico (Filoamericani di sinistra: colonizzati  e contentiil manifesto 3 mag. ‘91) respingendo l’illusione di una “superiorità della cultura e della tradizione occidentale”, dannosa e  facilmente, come possiamo vedere, preludio a soluzioni belliche.

Altri interessanti spunti sono sparsi in due recensioni: una a Türke, Nel sottoscala del diritto, la violenza della ragion di stato (il manifesto 21. giu. ‘91), la cui meditazione sulla violenza affrontava la “verità insostenibile del fondamento violento di ogni ordinamento civile”, compreso quello democratico; ed una ad un libro di sociologia delle comunicazioni (Rossella Savarese, Guerre intelligenti) dove  veniva denunciata la complicità inconfessata fra i consumatori e i produttori di informazioni e l’apoteosi del processo di de-realizzazione, che nella guerra del Golfo del ‘90 aveva raggiunto una “limpidezza iperrealista  o postmoderna”.

Ma ci sono anche altri interventi chiarificatori. In particolare ne La guerra in Europa (1993), pubblicato postumo in Jugoslavia perché, Gamberetti, Roma, 1995, ora in L’ospite ingrato, 2, 2003, Fortini  riassume e sembra condividere una serie di tesi  in circolazione  a partire dalla guerra del Golfo: fine delle guerre fra stati sostituite da operazioni di polizia, nascita di un “Impero unico e onnipotente”, svuotamento degli organismi internazionali divenuti agenti dell’unica potenza statunitense, rischi di distruzione fisica ed economica di una “parte anche grande del genere umano”, gestione dei mezzi d’informazione in modo da persuadere “una buona parte del mondo che una guerra del Golfo non c’era mai stata”. Ed arriva ad affermare “la fine tendenziale della nozione di imperialismo” e la costruzione di un potere distruttivo e coercitivo che “non si era mai dato nella storia del genere umano”.

Quarto intervallo: l’”ironia lacrimante” delle Sette canzonette del Golfo      Anche in occasione della prima guerra del Golfo, la riflessione di Fortini sugli avvenimenti è passata in poesia. Ne sono nate Sette canzonette del Golfo, una sezione di Composita solvantur, ultima raccolta edita dal poeta in vita, nel 1994, anno della sua morte. Ne vorrei parlare confrontandole con  la sua prima raccolta, Foglio di via, per cogliere il contrasto fra gli inizi e la conclusione della sua produzione poetica.

Si nota subito che gli elementi elegiaci di Foglio di via, come abbiamo visto, erano immersi in un contesto tragico ma carico di speranze collettive e fraterne, mentre quelli delle Sette canzonette del Golfo trovano intorno una situazione di solitudine e  di  sgomento e Fortini deve affidare all’ironia la sua non rassegnazione e la sua più solitaria speranza.

    Ne Il poeta di nome Fortini, Lenzini ha messo in vista tale contrasto. Una “situazione d’attesa”,  la tendenza alla “coralità”, la presenza esemplare dell’immagine femminile – si tratta di una donna proletaria (A un’operaia milanese), una sorta di “angelo–nunzio della prossima liberazione”, accostabile anche al fanciullesco ladro di ciliegie  di Brecht e alla quale viene attribuita una funzione catartica e salvifica – caratterizzano Foglio di via: “un’umanità nuova” sembra annunciarsi.  Temperie storica e prospettiva “trascendente” si compenetrano. Brecht e Noventa, due degli autori di riferimento di Fortini,  si danno la mano. Tutta al singolare invece, calata in un privato di solitudine carico di sarcasmo, è la vena poetica delle Sette canzonette del Golfo. Assente ogni figura femminile, qui si ironizza amaramente sulla pace del vecchietto, una pace tra l’altro non conquistata, ma concessa dagli dei e che può  allietare solo chi si contenta di poco.

Questa falsa pace, contro la quale il Fortini “terzomondista” mosse tante volte le sue critiche, si consuma mentre “lontano lontano si fanno la guerra» e il «sangue degli altri  si sparge per terra”. Ma ora  questa lontananza sembra insuperabile dagli apatici occidentali: allarmati, essi si succhiano il dito che si sono punti durante qualche faccenduola casalinga, concedendo un pensierino alla guerra che li coinvolge quanto una storia a fumetti.

Una sproporzione abissale si è imposta fra fatti quotidiani e fatti storici. La “derealizzazione” è compiuta. Quel filo rosso che legava negli anni Sessanta la lotta del Vietnam alla possibile lotta di classe in Occidente si è spezzato. Fra socialismo e barbarie sembra abbia vinto proprio quest’ultima.

E la poesia? Essa non soltanto ha perso la benefica figura proletaria dell’operaia di Foglio di via, rimpiazzata dalle immagini scostanti di adolescenti ben nutriti e gaudenti di Aprile torna (“Godono pepsi cola ignude gole”), ma anche il ritmo percussivo e corale della prima raccolta.  Quello qui dominante sembra farsi “ninna-nanna per l’addormentamento, narcosi e ebetudine procurata” (Lenzini).

Come può un poeta ormai isolato, che vive in Occidente, indirettamente complice e beneficiario della “vittoria democratica” armata conquistata in Irak, piangere i morti arabi fatti da Usa e alleati occidentali, se nel suo paese contro le “guerre umanitarie” è venuta meno un’opposizione politica e la maggioranza dei suoi concittadini è favorevole alla “guerra giusta”? La sua poesia ormai non serve neppure come guanciale per i morti (“Potrei sotto il capo dei corpi riversi / posare un mio fitto volume di versi?”).

Vale la pena di notare, per contrasto, che di fronte alla prima guerra del Golfo uno scrittore arabo, sia pur molto “occidentalizzato”, come Ben Jalloun riconosceva ancora un alto valore civile alla poesia. Nel presentare un suo poemetto proprio su quella guerra del ‘90, Dalle ceneri, egli scrisse infatti: “La poesia s’intestardisce a dire. Il poeta grida o sussurra: sa che tacere potrebbe sembrare un delitto, un crimine”. Per Ben Jalloun la poesia, prendendo la parola “per gli insepolti, gli scorticati, gli impiccati, quelli gettati nelle fosse comuni”, ancora serve.

Il confronto non suoni irriverente verso Fortini:  egli fissa lucidamente come si è ridotto  nella gabbia del privato l’uomo occidentale post-comunista in questo fine secolo, qui, da noi. Una poesia epica o una poesia “civile” non ha senso dove l’epos e la civiltà vengono meno. E forse, dai tempi bui che stiamo vivendo, possiamo solo guardare altrove, come  il giovane Fortini guardava a “una folla di sconosciuti fratelli maggiori” nell’Europa sconvolta dal nazismo.

     Le Canzonette del Golfo sono pienamente integrate nei componimenti di Composita solvantur? O svelano sotto la loro ”ironia lacrimante” (l’espressione è di Fortini stesso) elementi più amari e pessimistici rispetto agli Otto motivi contro la guerra visti sopra o, in generale, rispetto alla visione marxista della storia?

L’ultimo Fortini suscita ancora una volta giudizi contrastanti. Luperini, ad esempio,  ha visto nelle Canzonette del Golfo o, più in generale, nella posizione di Fortini su questa guerra un abbandono del suo ottimismo storico sociale e un suo  finale accostamento a motivi ricorrenti e addirittura portanti del discorso di Sebastiano Timpanaro (Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002).

Per Lenzini invece, proprio nel momento più tragico, Fortini è ancora capace  di “ricerca e slancio utopico”, perché il suo pensiero dialettico sa che all’aumento della negatività e dell’oppressione corrisponde sempre lo sviluppo di “altro”.

Edoarda Masi ha ricordato che Fortini (come Lu Xun) ha sempre ironizzato sulla poesia, anche se per lui era in realtà la cosa più importante; e ritiene che  le Canzonette non siano affatto in contraddizione con il suo “proteggete le nostre verità”.

E Composita solvantur, anche secondo il parere di Rossanda, è una  piccola summa del pensiero fortiniano: “è come se avesse voluto tenere assieme una parte delle avanguardie del passato, il meglio del ’68 e il soldato sovietico che, sotto l’avanzata tedesca, grida ai compagni: non possiamo arretrare” (Rossanda, Ospite ingrato 1, pag 169)

Anche per me le Canzonette del Golfo  non sembrano una caduta dell’ultimo Fortini e stanno sullo stesso piano di Composita solvantur . Eppure mi pare che resti il problema d’intendere meglio l’accento in qualche modo diverso non solo  delle Canzonette ma di Composita solvantur rispetto alla precedente produzione. La poesia, anche in questo caso, aggiunge o toglie qualcosa alla prosa.

Non posso che riecheggiare dubbi e impressioni non solo miei e indagare con cautela. Si tratta solo di finzione poetica che, quasi temendo di essersi lasciato troppo andare,  Fortini  in un’appendice autocritica (Considero errore) metta sotto accusa la propria “complicità con avversari e interlocutori” delle Canzonette?

E se davvero la poesia è stata per Fortini la cosa più importante, come trascurare la sua tenacia per tanti anni a «mostrare a dito i limiti della poesia» o dichiarazioni come questa:«Non posso sapere quanto l’esitazione fra i due fantasmi del sé – quello che si rappresenta nell’atto poetico e quello che si figurava in un modo di essere piuttosto che in quello dello scrivere – abbia leso uno dei due o tutti e due» (Memorie per dopo domani, pp. 27-28) ?

A me pare che la coincidenza  fra la malattia che portò alla morte lo scrittore e l’esaurimento della prospettiva comunista in cui aveva lavorato per tutta la sua vita gli imposero quasi contemporaneamente un alt. Composita solvantur mi pare che registri quest’ultima cesura individuale e collettiva assieme: il futuro per la prima volta nella vita di Fortini era da affidare completamente e soltanto ad altri. I progetti che aveva composto per una vita erano minacciati. Non una “svolta”, dunque, non un ripiegamento sul materialismo timpanariano e tantomeno un abbandono nichilistico. Ma neppure più la presenza di un’inalterata “ricerca e slancio utopico” o l’idea della trasfigurazione o della rinascita.

L’inquietudine fortiniana si arrestava. La morte imminente e personale,  sentita più che pensata, mi pare preponderante in tutta la raccolta. Essa disfa le cose composte (dal poeta, dagli uomini in lotta nel tempo storico) e questo scioglimento delle cose personali e collettive va accettato (sopportato). Ma da qui anche l’allarme, la raccomandazione data dal moribondo in punto di morte ai vivi. La sua opera personale è compiuta. Il nuovo ordine sociale è più che mai a venire. Possibile ancora? Impossibile? Non so pronunciarmi. L’appello “proteggete le nostre verità” consegna ai vivi quello che è da salvare, quello che ha contato per l’individuo e per la storia  degli uomini con cui ha vissuto, compresa la verità del comunismo. Ma solo, ancora più drammaticamente, come possibilità.

Concludendo: nella “guerra permanente” a dieci anni dalla morte di Fortini  Nel percorso che abbiamo compiuto abbiamo visto la costanza del ripudio fortiniano della guerra (inconciliabile con l’idea di rivoluzione socialista) e la varietà di toni che esso ha assunto nel tempo: speranzoso e corale nel 1946; assertivo e tendente all’estremo (dire estremista sarebbe una concessione imperdonabile agli avversari di allora e di oggi di Fortini) nel 1967  di fronte all’aggressione americana al Vietnam o a quella israeliana contro gli arabi; allarmato e sempre più amaro nel ’90 davanti alla Guerra del Golfo.

Si delinea così nelle sue opere quasi una parabola che va dalla fine della Seconda guerra mondiale all’attuale precipizio della “guerra permanente”  con in mezzo il picco alto di speranze degli anni Sessanta (Cina,’68-’69).

Dieci anni dopo la morte di Fortini, la nostra rilettura dei suoi testi viene a coincidere con l’acutizzarsi della tragedia di un Medio Oriente sempre più divorato dalle bombe. Gli Usa continuano pervicacemente ad imporre il loro monopolio militare e la guerra “è tornata al centro di uno scenario mondiale che non ha precedenti nella modernità” (Rossanda). Persino i giornalisti più filoamericani avvertono: l’incubo della terza guerra mondiale “è già in corso” (Pirani). E sempre più drammatica è diventata l’assenza di un’opposizione non puramente simbolica alla guerra, mentre  il dibattito politico si è arenato proprio su quelle posizioni  pacifiste, combattute dall’ultimo Fortini. Per lo più, infatti, viene teorizzato il “grande rifiuto della politica”: la politica è “figlia della guerra» ha sostenuto la filosofa Cavarero; è “un fallimentare rimedio al disordine del male” aggiunge Revelli.

Ora chi rileggesse il recente dibattito di LIBERAZIONE, La politica della non-violenza, dovrà ammettere onestamente che alla domanda posta da Ingrao alla sua apertura (“Come si risponde all’aggressione armata? Che cosa si fa contro la violenza armata dell’aggressore?”), le risposte, pur risalenti al ‘90 desumibili dalle posizioni di Fortini, specie dagli Otto motivi contro la guerra sono ancora oggi più lucide e meno elusive di quelle dei tanti intervenuti. (Anche se, personalmente, non mi sento di tacere dei dubbi:  ad esempio, cosa intendere in concreto per “una violenza con altri mezzi e senz’armi” o una “non-violenza eversiva”? In cosa essa si distingue dalla non-violenza attiva, di cui parla almeno una parte dei pacifisti? E ancora: d’accordo sull’”uscire dalla morale verso la politica”, ma oggi in concreto dove e come fare politica? Edoarda Masi, intervenendo su il manifesto, ha negato che la via da imboccare sia quella della politica in senso tradizionale. Bene. Ma il contributo di pensiero innovativo da lei auspicato da quali  soggetti   prevedibilmente potrebbe venire?)

Come mai, allora, tanto silenzio e disinteresse verso questi testi fortiniani e verso posizioni odierne (penso a Rossanda, alla Masi, a Tronti stesso) accostabili a quelle degli Otto motivi contro la guerra ?

 Si dirà che forse è sbagliato chiedere ai testi di Fortini del ’90 o  precedenti delle indicazioni politiche concrete e per una situazione ancora più deteriorata. O che egli non fu un politico puro.  Ma di sicuro in quei testi ci sono antidoti validi contro la cancellazione  della memoria storica di qualsiasi tradizione del comunismo, contro la sua riduzione a pura aspirazione o nostalgia o contro l’annebbiamento ideologico del capitalismo, che sarebbe diventato soltanto un «enorme guazzabuglio» e   si sarebbe «annullato diventando tutto» (Sofri). E anche contro la riduzione della politica a «militarizzazione o ceto politico autoriproducentesi»  (Rossanda).

Dobbiamo sapere che tanto silenzio non è legato a fattori contingenti. Quello calato su di lui è in buona parte lo stesso silenzio che incombe oggi sulle “rovine” del socialismo/comunismo, di cui egli chiese invano negli ultimi anni di vita un “buon uso” da parte della Sinistra italiana.

E proprio perché “lo scandaloso Fortini è così intrecciato con la storia – non solo culturale e non solo italiana – del Novecento” (Bonavita) e la storia del Novecento è stata scossa dai tentativi comunisti, a cui egli legò le sorti della sua persona e delle sue opere, dobbiamo anche sapere che quel silenzio non si romperà, se  non si riporranno in forme nuove e per il momento incognite quei problemi affrontati nelle esperienze comuniste.

Nel frattempo le nostre riletture dell’opera di Fortini dovrebbero evitare le  trappole dell’imbalsamazione o dei dissezionamenti. Non mi pare possibile ritagliare la sua figura dal difficile ripensamento della storia del comunismo.

Qualcuno, però, potrebbe obiettare col cinismo oggi di moda: “Ma dai, Fortini sarà stato comunista, ma il comunismo è morto, quindi anche una parte di Fortini è morta. Salviamo il poeta, il saggista intelligente, il polemista acuto; e lasciamo da parte il suo comunismo, il suo abbaglio, la sua fede. Viva è la sua poesia, come viva ancor oggi è la poesia di Dante.  Morta è la sua ideologia, come morto è il cattolicesimo di Dante”.

Direi  che bisognerà respingere questa semplificazione: troppo essenziale è, a mio avviso, quel legame fra Fortini e la vicenda comunista del Novecento, pur da lui declinata esistenzialmente in modi particolari. Un Fortini poeta e basta, un Fortini senza la sua volontà di essere comunista, da collocare in un contesto modernizzato e ipertecnologico  sarebbe  una decorazione, come lo è stato Dante in epoca moderna.

Meglio, allora, che resti anche lui un marziano: inattuale,  classico, ecc. piuttosto che alloggiato nei loculi predisposti per i “cattivi maestri” su Internet. Se arriveranno dei marziani comunisti, lo riconosceranno e tornerà a parlare.

Ennio Abate 6 settembre 2004

«Viva la sinistra» di Alessandro Dal Lago

 Letture in quarantena (5)

 di Donato Salzarulo 

Questa “Lettura d’autore”, annunciatami  da tempo dall’amico Salzarulo che la stava completando, capita nel pieno dell’acceso dibattito  scaturito dagli interventi di Luciano Aguzzi e dalle repliche ad essi (qui e qui). E’, però, una riflessione  autonoma e approfondita di un libro; e come tale va considerata. Al di là delle prese di posizione implicite o esplicite  che indirettamente dà ai dilemmi, agli aut-aut, alle ambivalenze con cui stiamo facendo i conti. Anche se, come suol dirsi, aggiunge altra (o troppa) carne al fuoco già acceso, mi parrebbe immotivato  rinviarne la pubblicazione [E. A.] Continua la lettura di «Viva la sinistra» di Alessandro Dal Lago

Riordinadiario sul finire del 2020

 

 Rileggere Ranchetti (1).

Appunti del 2004 sNon c’è più religione di Michele Ranchetti

 di Ennio Abate

Pubblico solo oggi questi appunti,  presi  dopo la lettura del libro di Ranchetti e della recensione di Massimo Cappitti. Li trovo  un po’ schematici e soprattutto ignari della  ricca e complessa discussione  che Ranchetti  già conduceva da decenni  con amici e studiosi di alta levatura.  Eppure in essi ponevo  un problema non irrilevante per chi veniva come me da una militanza comunista (ma non del PCI) degli anni Settanta:  c’era qualcosa da imparare da quel libro? Tra l’altro, dopo la morte di Fortini, speravo di poter discutere su quel tema del comunismo, anche per lui fondamentale, con i partecipanti (compreso lo stesso Ranchetti)  del Centro Studi dedicatogli dall’Università di Siena.  La  sensazione di una loro sordità – vi accenno negli appunti –  e il carattere  approssimativo delle mie riflessioni   mi  suggerirono di tenermele per me. L’anno dopo, però, le ripresi nelle domande che feci a Ranchetti stesso in una intervista (qui) [E. A.]

La mia prima reazione alla lettura di Non c’è più religione di Michele Ranchetti è stata istintivamente questa: bisognerebbe scrivere, a completamento, un Non c’è più comunismo altrettanto rigoroso e appassionato. Continua la lettura di Riordinadiario sul finire del 2020

Coronavirus ed esperti

  «Questo virus ci fa capire cose che in tempi normali
  si fatica a far capire.» Giuseppe Remuzzi                  

di Donato Salzarulo

1.- La delega alla scienza che deve farla “da padrona”. La parola agli esperti.

Il 22 febbraio 2020, all’indomani della scoperta dei “focolai” di Codogno e di Vo’, Luigi Ripamonti, giornalista scientifico del Corriere della Sera, pubblica un editoriale pieno di buon senso. Tra l’altro, scrive: «È il momento in cui la scienza dev’essere “padrona”. Ed è il momento in cui l’informazione ufficiale, e non, dev’essere trasparente e seguire le regole fondamentali della comunicazione del rischio, la prima delle quali è di non negare, nascondere, o sminuire mai i pericoli, perché mentire è il modo più semplice per perdere la fiducia, e senza fiducia qualsiasi messaggio sarà poi ignorato o respinto, con grave danno per la sicurezza pubblica. E la seconda regola è ammettere limiti e incertezze del sapere disponibile, che è, certo, in continua evoluzione, ma che è anche l’unico patrimonio sul quale contare per agire in modo razionale.»

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Migrazioni. Punti di vista in contrasto

“The Making of Domain Field: Antony Gormley at Baltic” (2003)

Pubblico da POLISCRITTURE FB questo scambio di opinioni tra me e Roberto Buffagni che su è svolto nell’ultima settimana sullo spunto della mia segnalazione di un articolo di Marco Rovelli, Gli specialisti del disumano” e ha fatto emergere anche i nostri diversi e contrapposti retroterra politici e culturali.  Lo faccio perché il problema è davvero complesso,  rischia di diventare ancora più tragico di come oggi si presenta e richiede  l’attenzione e l’intelligenza di tutti per approfondirlo. E anche uno sforzo  – almeno qui su POLISCRITTURE – per uscire dai veleni delle propagande contrapposte dei “buonisti e dei “cattivisti”. [E. A.]
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Il Novecento passato a contrappelo (2, 3, 4)

1914 18

Qui di seguito le tre  schede già comparse sul gruppo POLISCRITTURE FB.  Le successive saranno pubblicate  sul sito e su FB  contemporaneamente. [E. A.]

di Ennio Abate

GRANDE GUERRA: Essere soldati nella Prima guerra mondiale (1914-1918)

Nel suo «Il secolo breve», lo storico Eric Hobsbawm presenta così i campi di battaglia dove i soldati al fronte venivano a trovarsi:

«Milioni di uomini si fronteggiavano dalle opposte trincee, protette da sacchi di sabbia, dove vivevano come animali in mezzo ai topi e ai pidocchi. Di tanto in tanto i loro generali cercavano di rompere la situazione di stallo. Giorni, perfino settimane, di incessanti bombardamenti di artiglieria – che uno scrittore tedesco chiamò più tardi «tempeste d’acciaio» (Ernst Jünger, 1921) – dovevano “ammorbidire” la resistenza del nemico e costringerlo a ripararsi nei cunicoli sotterranei, finché al momento giusto ondate di uomini scavalcavano il parapetto della trincea, in genere protetto da rotoli e reticolati di filo spinato, entravano nella «terra di nessuno» , un’area piena di fango e di pozzanghere, di crateri provocati dalle granate, di mozziconi di alberi e di cadaveri abbandonati, per avanzare sotto il fuoco delle mitragliatrici che li falcidiavano. E sapevano benissimo di andare al massacro» (Erich Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, pag. 38, Milano 1994). Continua la lettura di Il Novecento passato a contrappelo (2, 3, 4)

Il Novecento passato a contrappelo (1)

1914 18

GRANDE GUERRA: Cominciando dai morti (da Poliscritture FB)

di Ennio Abate

Il poeta Andrea Zanzotto visse nei luoghi dove avvenne uno dei tanti massacri della Prima guerra mondiale e su di essa molto rifletté. Una volta fece una proposta: realizzare «un libro come fondamento delle bibliotechine di famiglia, di scuola ecc.: un puro elenco di nomi e relative date, sessanta righe a caratteri piccoli e stretti per ogni pagina: sarebbero circa 10.000 pagine. Solo per una guerra, per un Paese, e tralasciando gli impazziti i feriti i mutilati». Continua la lettura di Il Novecento passato a contrappelo (1)