Archivi tag: USA

la Yugoslavia ….e la nuova Europa dei fratelli Grimm

di Paolo Di Marco

1- l’intervento all’ONU di Vučić (da l’Antidiplomatico)

Il 20 Settembre, davanti ad un’assemblea generale delle Nazioni Unite tutta presa dal conflitto ucraino, il presidente serbo Vučić ha fatto un discorso di grande coraggio e lucidità

Sono davanti a voi come rappresentante di un Paese libero e indipendente, la Serbia, che si trova nel percorso di adesione all’Unione europea ma che, al tempo stesso, non è pronto a voltare le spalle alle sue tradizionali amicizie costruite da secoli )”. “Voglio alzare la voce a nome del mio Paese, ma anche a nome di tutti coloro che oggi, a 78 anni dalla fondazione delle Nazioni Unite, credono veramente che i principi della Carta delle Nazioni Unite siano l’unica difesa essenziale della pace nel mondo, del diritto alla libertà e all’indipendenza dei popoli e degli Stati. Ma anche di più: sono la garanzia della sopravvivenza stessa della civiltà umana. L’ondata globale di guerre e violenze che colpisce le fondamenta della sicurezza internazionale è una conseguenza dolorosa dell’abbandono dei principi delineati nella Carta delle Nazioni Unite […] Il tentativo di smembrare il mio Paese, formalmente iniziato nel 2008 con la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo è ancora in corso. Per la precisione, la violazione della Carta delle Nazioni Unite nel caso della Serbia è stato uno dei precursori visibili di numerosi problemi che tutti dobbiamo affrontare oggi, che vanno ben oltre i confini del mio Paese o il quadro della regione da cui provengo. Più in generale, dall’ultima volta che ci siamo incontrati qui, il mondo non è né un posto migliore né più sicuro. Al contrario, la pace e la stabilità globale sono ancora minacciate. […] Onorevoli colleghi, anche se da tre giorni da questo palco tutti giuriamo di rispettare i principi e le regole della Carta delle Nazioni Unite, proprio la loro violazione è all’origine della maggior parte dei problemi nelle relazioni internazionali – mentre l’implementazione di doppi standard è un aperto invito per tutti quelli che cercano di affermare i loro interessi con la guerra e la violenza, violando le norme del diritto internazionale ma anche le fondamenta della moralità umana.
Tutti i relatori finora, e credo tutti dopo di me, hanno parlato della necessità di cambiamenti nel mondo, menzionando il proprio Paese come esempio di moralità e rispetto della legge. Oggi non parlerò molto del mio Paese […] Ma parlerò dei principi che sono stati violati e che ci hanno portato alla situazione odierna, e non dai piccoli paesi, che spesso sono bersaglio di tali attacchi, ma dai paesi più potenti del mondo, soprattutto quelli che si sono arrogati il diritto di dare lezioni a tutto il mondo, esclusivamente dal proprio punto di vista, su politica e morale.”
E ancora “Qui in questa sala, appena due giorni fa, abbiamo potuto sentire dal Presidente degli Stati Uniti che il principio più importante nelle relazioni tra i paesi è il rispetto della loro integrità territoriale e sovranità – e solo come terzo fattore più importante ha menzionato i diritti umani. E mi è sembrato che tutti in questa stanza lo sostenessero. Io, come presidente della Serbia, l’ho accolto con palese entusiasmo. […] Sarebbe tutto bello se fosse vero. Quasi tutte le principali potenze occidentali hanno brutalmente violato sia la Carta delle Nazioni Unite sia la Risoluzione ONU 1244, che era stata adottata in questa Alta Camera, negando e calpestando tutti quei principi che oggi difendono, e ciò è accaduto ventiquattro anni fa e ancora quindici anni fa. Per la prima volta, senza precedenti nella storia del mondo, i diciannove paesi più potenti hanno preso una decisione senza il coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – lo ripeto, senza alcuna decisione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – di attaccare brutalmente e punire un Paese sovrano sul suolo europeo – come ebbero a dire – “per impedire il disastro umanitario” […]. E quando ebbero finito con questo lavoro, dissero che la situazione del Kosovo era un fatto di democrazia e che sarebbe stata risolta in base alla Carta della Nazioni Unite e al diritto internazionale. E poi, contraddicendo tutto questo e soprattutto contrariamente al diritto internazionale, nel 2008 hanno deciso di supportare l’indipendenza del Kosovo. La decisione illegale di secessione della provincia autonoma di Kosovo e Metohija dalla Serbia è stata presa dieci anni dopo la fine della guerra, senza un referendum o qualsiasi altra forma di consultazione democratica affinché i cittadini in Serbia o almeno nel Kosovo stesso, potessero dichiarare le loro intenzioni. Questa decisione è stata presa in un momento in cui la Serbia aveva un governo impegnato nell’integrazione europea ed euroatlantica […]. Tutto questo non ha impedito che la violenza politica e legale arrivasse proprio da coloro che oggi sono in prima fila nell’impartirci lezioni […]. La cosa peggiore è che tutti coloro che hanno contribuito all’aggressione contro la Serbia oggi ci danno lezioni sull’integrità territoriale dell’Ucraina. Come se non la supportassimo. Noi la supportiamo e continueremo a farlo perché noi non cambiamo le nostre politiche e i nostri principi, non ostante la nostra centenaria amicizia con la Federazione Russa. […] Sono il presidente della Serbia, al mio secondo mandato; in innumerevoli occasioni ho subito pressioni politiche, sono un veterano politico. Ciò che vi dico oggi è la cosa più importante per me: i principi non cambiano in base alle circostanze. I principi non si applicano solo ai forti, si applicano a tutti. Se non è così, non sono più principi”. […] Un’altra cosa importante è che la pace è diventata una parola proibita. Tutti loro (NDR, le grandi potenze) hanno i loro preferiti e i loro colpevoli. I soli valori che rimangono alle grandi potenze sono proprio i principi. Ma sono principi falsi: li invocheranno solo fin quando gli staranno bene.”

Nei successivi incontri con la stampa, Vučić ha rivelato di esser stato “consigliato” di non menzionare l’aggressione della NATO contro la Serbia e la violazione del diritto internazionale implicita nella dichiarazione di indipendenza del Kosovo. “Hanno cercato di spiegarmi che era l’ultima occasione, per me, di diventare un politico del futuro e non un politico del passato” (sembra di sentire la Viktoria Nuland con Yanukovich) “e se non avessi voluto, ci sarebbero state queste fondazioni straniere pronte a sostenere i miei avversari politici, per portarli dove devono essere”.
in un mondo del genere, credo che ancora una volta, la Serbia, alzando la voce e combattendo per i valori universali e per i principi di inviolabilità dei confini internazionalmente riconosciuti, per l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza politica, offra l’esempio della battaglia per ciò che è giusto […] Non ci vuole una grande forza ma solo risolutezza e coraggio. […] È solo triste che i grandi paesi, che non sono interessati alla legge e alla giustizia, si appellino a principi diversi in base alle circostanze, ovvero ai principi che in quel momento gli convengono. Quando si segue questo tipo di politica, quando non c’è moralità nella politica, diventa chiaro che entreremo in un’era di grandi divisioni e grandi conflitti, non solo economici e politici ma anche militari. Proprio in una situazione così difficile, l’ONU rimane l’unica piattaforma reale che ci unisce […]. Forniamo pieno sostegno a tutti i processi di riforma delle Nazioni Unite, comprese le iniziative del Segretario generale per preservare la pace globale, per non rischiare di scomparire, tutti, in un conflitto darwiniano guidato dalle maggiori potenze […] La Serbia è sulla strada europea, pronta al cambiamento e alle riforme. Abbiamo buoni rapporti con gli Stati Uniti e credo che i nostri rapporti saranno ancora migliori. Allo stesso tempo preserveremo le nostre amicizie tradizionali, in tutti i continenti, e saremo orgogliosi dei nostri buoni rapporti con i paesi e i popoli in Africa, Asia e America Latina. […] Le nostre relazioni con Cina, Korea e Giappone, molti paesi arabi e musulmani, sono alla loro massima espressione storica. Non romperemo la nostra importante, storica amicizia con la Russia, nella convinzione che Il dialogo rimane l’unica strada per una soluzione di compromesso. […] Credo nel futuro […] e nella capacità di superare le differenze con sforzi congiunti. […] Voglio che costruiamo ponti, non muri.”

2-Kosovo

Una nota a margine: ricordiamo come Fronte di Liberazione del Kosovo non fosse altro che il nome preso dall’esercito privato dei trafficanti di droga albanesi, organizzazione che gli USA avevano-per una volta giustamente- messo nella lista dei gruppi terroristi; collocazione cambiata nel corso di una notte durante le elezioni albanesi; cosicchè il Kosovo è il primo narco-stato ufficiale. L’ovvio riconoscimento USA (fatto in funzione anti serba e anti sinistra albanese) è stato entusiasticamente accompagnato da molti altri paesi, Italia compresa.

3- La sanguinosa distruzione

Quello di cui Vučić non può parlare viene prima del Kosovo, ed è la storia di come la Yugoslavia sia stata distrutta. Lo facciamo noi, riprendendo l’analisi di Michel Chossudovsky°, la prima e più dettagliata (e informata) relazione sulla frantumazione della Jugoslavia con mezzi finanziari.

a) L’immagine del futuro
La Yugoslavia multietnica e socialista era una volta una potenza industriale regionale e un esempio di successo economico. Nelle due decadi anteriori al 1980 il PNL era cresciuto alla media del 6,1%, la sanità era gratuita, il tasso di alfabetizzazione era del 91% e l’aspettativa di vita di 72 anni. Ma dopo un decennio di prescrizioni economiche occidentali e cinque anni di disintegrazione, guerra, boicottaggio ed embargo le economie della ex Yugoslavia sono distrutte, i loro settori industriali smantellati.
L’implosione della Yugoslavia è stata in parte dovuta a macchinazioni statunitensi. Nonostante il non-allineamento di Belgrado e le sue estese relazioni commerciali con Europa ed USA, l’amministrazione Reagan ha preso di mira l’economia jugoslava in una direttiva ‘Segreta e Sensibile’ (NSDD 133: ‘La politica USA verso la Yugoslavia’) del 1984; una versione declassificata ma censurata del 1990 la mostrava come elaborazione della Direttiva NSDD 64 sull’Europa dell’Est, del 1992: questa promuoveva “sforzi aumentati per promuovere una ‘rivoluzione quieta’ per rovesciare governi e partiti comunisti” e contemporaneamente reintegrare i paesi dell’Europa orientale in una economia di mercato.
Gli USA si erano precedentemente uniti agli altri creditori internazionali di Belgrado nell’imporre un primo giro di riforme macroeconomiche nel 1980, poco prima della morte di Tito. Quel giro iniziale di ristrutturazioni fissava le linee guida; nel corso degli anni ’80 il FMI e la Banca Mondiale prescrivevano dosi ulteriori della loro amara medicina economica mentre l’economia jugoslava andava lentamente cadendo nel coma.
Fin dall’inizio i successivi programmi patrocinati dal FMI accelerarono la disintegrazione del settore industriale jugoslavo la cui produzione arrivò nel 1990 a un tasso di crescita negativo del 10% parallelamente allo smantellamento dello stato sociale, con tutte le prevedibili conseguenze sociali. Nel frattempo gli accordi di ristrutturazione del debito aumentavano il debito estero ed una svalutazione forzata della monetà colpì duramente i livelli di vita degli jugoslavi.”

b) Markovic va a Washington
“Nell’autunno del 1989, appena prima della caduta del Muro, il premier jugoslavo federale Ante Markovic si incontrò a Washington col presidente George Bush per concludere i negoziati per un nuovo pacchetto di aiuti finanziari. In cambio dell’assistenza la Yugoslavia acconsentiva a riforme economiche ancora più drastiche, inclusa una nuova svalutazione, un altro blocco dei salari, tagli drastici alle spese statali e l’eliminazione delle compagnie a proprietà sociale, gestite dai lavoratori. I dirigenti di Belgrado, con l’aiuto di consiglieri occidentali, aveva posto le basi per la missione di Markovic realizzando in amticipo molte delle riforme richieste, inclusa una estesa liberalizzazione della legislazione sugli investimenti esteri.
La terapia d’urto iniziò nel gennaio 1990. Sebbene l’inflazione avesse già mangiato parte dei salari, il FMI ordinò che i salari venissero congelati ai livelli di metà Novembre 89; i prezzi continuarono a salire senza sosta, e nei primi 6 mesi del 1990 i salari reali crollarono del 41%.
Il FMI controllava anche di fatto la Banca Centrale jugoslava; la sua politica di restrizioni monetarie paralizzava ulteriormente la sua capacità di finanziarne i programmi economici e sociali; entrate statali che avrebbero dovuto andare come trasferimenti alle repubbliche e alle provincie andavano invece al servizio del debito di Belgrado coi circoli di Parigi e Londra. Le repubbliche venivano lasciate largamente alle sole risorse proprie.
Con un un decisivo colpo di scopa i riformatori architettarono il collasso finale della struttura fiscale federale jugoslava provocando una ferita mortale alle sue situzioni politiche federali. Tagliando le arterie finanziarie tra Belgrado e le repubbliche le riforme alimentarono le tendenze secessionisti basate su fattori economici come su divisioni etniche, assicurando virtualmente la secessione de facto delle repubbliche.
La crisi di bilancio indotta dal FMI creò un fatto compiuto economico che aprì la strada alla secessione formale di Crozia e Slovenia nel Giugno 1991.”

c) Schiacciata dalla ‘Mano Invisibile’
Le riforme richieste dai creditori di Belgrado colpivano al cuore il sistema jugoslavo di imprese a proprietà sociali gestite dai lavoratori; l’obiettivo era di forzare una massiccia privatizzazione e smantellare il settore pubblico. La burocrazia del Partito Comunista, specialmente il settore militare e di spionaggio, fu oggetto di proposte mirate di appoggio politico ed economico a condizione dello smantellamento integrale del sistema di protezioni sociali dei lavoratori. Era un’offerta che una Yugoslavia disperata non poteva rifiutare. L’assalto all’economia socialista includeva anche una nuova legge bancaria mirata alla liquidazione delle ‘Banche Associate’ di proprietà collettiva; nel giro di due anni più della metà della banche del paese erano sparite, sostituite da nuove istituzioni ‘orientate al profitto’.
Nel 1990 l’andamento del PNL era passato a -7,5%; nel ’91 era sceso di un altro 15%; l’industria pesante era di fatto in liquidazione, con 2 milioni di lavoratori che avevano perso il posto; i salari erano in caduta libera, i programmi sociali erano collassati, la disoccupazione era galoppante. Lo smantellamento dell’economia industriale era di un’ampiezza e brutalità da togliere il fiato.

d) L’economia politica della disintegrazione
Qualcuno si unì per reagire alla distruzione della loro economia e politica. C’erano sacche di resistenza che superavano le linee di divisione etnica con Serbi, Croati, Bosniaci e Sloveni che lottavano spalla e spalla. Ma le difficoltà economiche acuivano le tensioni nelle relazioni tra repubbliche e tra le repubbliche e Belgrado.
La Serbia respinse totalmente il piano di austerità, e 650000 lavoratori serbi scioperarono contro il governo federale per aumenti di salario, le altre repubbliche seguirono strade differenti, con la Slovenia che sosteneva le riforme, la Croazia che si opponeva, e nelle elezioni del 1990 in Croazia, Slovenia e Bosnia vincono forze secessioniste. Così come il collasso economico aveva spinto alla frattura così a sua vece ka secessione accentuava la crisi economica; la cooperazione tra le repubbliche venne praticamente a cessare; e con le repubbliche che si azzannavano vicendevolmente alla gola tanto l’economia che la nazione si avviavano in una perniciosa spirale discendente. Il processo venne accelerato dalle dirigenze delle repubbliche che forzavano deliberatamente le divisioni sociali ed economiche per rafforzarsi. L’apparenza simultanea di milizie leali ai dirigenti secessionisti accelerò ulteriormente la discesa nel caos; queste milizie, prese in una spirale crescente di reciproche atrocità non solo spaccarono la popolazione lungo linee etniche ma frammentarono anche il movimento operaio.”

e) L’aiuto occidentale
Le misure di austerià avevano posto le basi per la ricolonizzazione dei Balcani. Se questo rendesse necessaria la rottura della Yugoslavia era oggetto di dibattito tra le potenze occidentali, con la Germania capofila della spinta secessionista e gli USA, timorosi di aprire il vaso di Pandora del nazionalismo, all’inizio favorevoli alla conservazione della Yugoslavia. A seguito della decisiva vittoria in Croazia di Tudjman, il ministro degli esteri tedesco Genscher, in contatto quotidiano con Zagabria, diede il via libera alla secessione; e non fu un sostegno passivo, chè la Germania forza la mano alla diplomazia internazionale per riconoscere Croazia e Slovenia; voleva avere mano libera dai suoi alleati per ‘acquisire il dominio economico dell’intera Europa di Mezzo”.
Il piano funziona male, anche per le difficoltà dell’unificazione tedesca e la crisi della Guerra del Golfo, mentre gli Americani si adattano alla tendenza in atto e scelgono di concentrarsi su Bosnia Macedonia e Croazia, sullo sfondo di quella che ormai è una sanguinosa e prolungata guerra civile.

4- dintorni

L’esempio yugoslavo è l’emblema della storia dell’Europa post muro e del suo allargamento.

In Polonia era intervenuto direttamente il Vaticano, con Woytila che svuota totalmente le casse per finanziare Solidarnosc e tutta la nomenclatura che doveva appoggiarne o tollerarne l’ascesa; alla fine la Polonia si troverà al potere non i portuali cattolici ma un’oligarchia fascista; ai confini con la Russia ci pensano gli americani, con una base di missili puntati direttamente su Mosca (è vero, sono missili antiaerei..solo che nel giro di 24 ore possono essere sostituiti da missili d’attacco a lungo raggio).

Dopo la caduta del muro Ungheria e Cecoslovacchia seguono alla fine una sorte simile.

In Ucraina l’inizio segue la falsariga del copione jugoslavo, con la Viktoria Nuland che impone a Yanukovich di seguire le prescrizioni del FMI -pena diventare ‘obsoleto’- cosa che dopo il rifiuto di Yanukovich (che non è solo come la Yugoslavia ma può contare sull’appoggio russo -per quanto limitato) si tramuta nel colpo di stato di piazza Maidan. La reazione dei russofoni vede la Crimea tenere un referendum che vota la secessione (e riunificazione con la Russia che con l’ucraino  Kruscev l’aveva scorporata e data all’Ucraina), seguita dal Donbass, dove però le milizie naziste bruciano schede e scrutatori e iniziano una repressione che fa 14000 morti. È un processo non limitato al Donbass, dato che l’Ucraina è un mosaico a due colori fra russofoni e ucrainofoni, ben separati agli estremi ma mescolati nel resto; e a poco a poco i russofoni vengono repressi, licenziati, cacciati, uccisi. Fino a che la marionetta del più grande mercante d’armi dell’est europeo diventa presidente, incarnando dal vero la parte che aveva imparato in televisione.

Si conclude con la proposta di adesione alla Nato la lunga partita iniziata con la caduta del Muro, che aveva visto tutte le torri dell’ex Patto di Varsavia cadere in mano al nemico e cambiare colore. Ma questa ultima è particolarmente dolorosa, non solo perchè l’Ucraina  è all’origine della Russia storica, non solo perchè è stata infranta l’ennesima promessa fatta dai presidenti americani a quelli russi, ma anche per la sua posizione strategica rispetto alle vie d’acqua e al raggio d’azione dei missili. Putin si trova in Zugzwang: qualunque mossa faccia è perdente. Sceglie non la ‘meno peggio’ ma quella che lascia alla Russia orizzonti temporali e spaziali più larghi. È l’ultima mossa di un lungo gioco di rimessa che ha visto la Russia privata a poco a poco di tutti gli orizzonti europei.

E gli USA prendono due piccioni con una fava, dato che il primo risultato, inaspettato nella sua rapidità e profondità, è la distruzione dell’Europa come entità ed anche del suo pilastro economico, la Germania, privata dell’energia che alimentava le sue industrie, spogliata di ogni credibilità di ‘guida’, schiacciata anch’essa dal ‘tallone di ferro’. E pure beffata dagli americani che fanno saltare i gasdotti russi Nordstream, mossa prima preparata come deterrente all’invasione ucraina e poi invece usata contro la Germania (come ci rivela Seymour Hersh) .

Due brevi note: visto quello che è successo alla Jugoslavia -come anche alla Grecia- forse i regimi fasciooligarcici dell’est Europa rappresentano il modo più facile di chiudersi a riccio per evitare di essere stritolati da Fondo Monetario e BCE. Enti che d’altro canto hanno sempre ben davanti agli occhi l’obiettivo della lotta di classe: le loro prescrizioni, così come le misure antiinflazione, sono sempre caratterizzate da una esasperazione e pervicacia che appaiono gratuite se non fosse che  ai loro occhi l’obiettivo principale non è mai solo uscire dalle crisi (incluse quelle da loro provocate) ma mettere in ginocchio la classe operaia e tutti i proletari e poi, eventualmente, uscire dalla crisi. (Ce lo raccontano candidamente gli economisti del NYTimes quando descrivono i processi decisionali del Tesoro e della Banca Centrale americani).

Nella narrazione dei fuoriusciti dell’Officina Primo Maggio i proletari scompaiono, sostituiti dai popoli, in un’Europa immaginaria dove gli USA sono occupati altrove, dove il cattivo è già definito per carattere, indipendentemente dai fatti, e dove fra gli accadimenti fa capolino una Europ’Idea che fa di sè favola.

Sono un avido lettore di fantascienza, e negli ultimi anni anche di fantasy; così mi sono sorbito tutti i 14 volumi della ‘Ruota del Tempo’ di Robert Jordan, che nonostante la mole sono stati una piacevole lettura. Così quando Amazon ne ha fatto la versione per il piccolo schermo ho iniziato a vederla, ma  ho scoperto con amarezza che il beota dello sceneggiatore (già bersaglio dei milioni di fan della serie per un maldestro tentativo di trailer di anni fa) delle 14000 pagine di cui Amazon aveva comprato i diritti ne aveva usate solo 6: l’indice. Col risultato prevedibile di un pasticcio senza capo nè coda. La mia impressione è che i nostri moderni fratelli Grimm abbiano fatto lo stesso colla storia recente; anche se, come con tutte le storie dei Grimm, sotto sotto c’è sempre una morale. Anzi, alla fine resta solo quella, classica dei BildungRoman, col giovane (l’Europa) che attraversa prove difficili ma si rende conto alla fine che il suo destino si realizza solo accettando quello che il suo tutore (d’oltreoceano) gli prospetta. Potevano limitarsi a questo.

________________________________________
°Dismantling Yugoslavia; Colonizing Bosnia
by Prof. Michel Chossudovsky, Covert Action, No. 56, Spring 1996
Michel Chossudovsky è Professore di Economia, University of Ottawa.

Perché l’11 settembre 2001

di Raffaella Ferraiolo Depero

Questa nota va considerata un’appendice al mio precedente articolo (qui).
Perché è successo l’11 settembre? Molti hanno hanno scritto in proposito e più autorevolmente di me. Basti pensare all’articolo di Dario Fo o alle pacate risposte che Umberto Eco, Tiziano Terzani, Dacia Maraini, diedero a quella ignobile lettera di Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio. Quella che segue, perciò, è solo la mia opinione. Continua la lettura di Perché l’11 settembre 2001

la Grande Guerra di Biden

di Paolo Di Marco

Dopo aver provocato la guerra con la Russia che sta ora conducendo per interposta persona, Venerdì 7 Ottobre Biden ha dichiarato guerra alla Cina. Continua la lettura di la Grande Guerra di Biden

Il volto di MedUSA

di Paolo Di Marco

La danza Butoh proviene da Hiroshima; ci parla di lei, o forse siamo noi visti attraverso i suoi occhi. Trasforma il modo stesso in cui viene visto il corpo e la sua relazione col mondo e colle emozioni. Da quando ho visto i Sankai Juko molti decenni fa a Milano non ho più potuto vedere balletti e opere. C’è un coinvolgimento emozionale tale nel loro indicibile che brucia ogni altra esperienza simile. Continua la lettura di Il volto di MedUSA

Guerra in Ucraina. Prese di posizione (3)

Francis Bacon

Ennio Abate

Tra le analisi lette finora sulle pagine dei vari “amici FB” questa è sembrata a me la più calibrata e lucida ma, quando arrivo al punto in cui leggo: “Noi europei quindi siamo i veri destinatari del conflitto e del suo sciame di conseguenze. “, torna il buio e l’angoscia. “Noi europei”? Esagero ma mi fa pensare al “noi socialisti” prima dello scoppio della Grande guerra. Continua la lettura di Guerra in Ucraina. Prese di posizione (3)

Memento per i nipotini di Chiaromonte in crescita


Nei dintorni di Franco Fortini

a cura di Ennio Abate

In margine a questo articolo di Matteo Marchesini (qui)  e alla “riscoperta” di Nicola Chiaromonte. Per documentarsi e inquadrare meglio il testo di Fortini, oltre alla lettura del libro di Frances Stonor Saunders riportato nell’immagine, di cui si trovano on line varie recensioni, può servire anche  ascoltare un’intervista del 2015 ad Aldo Masullo sul clima di quegli anni (qui).
 
 
«A quella data non c’era ancora la rivista “Tempo presente”, diretta da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte (sarebbe comparsa due anni più tardi) ed “Encouter” in Gran Bretagna, diretta da Stephen Spender e- come non molti anni fa egli stesso ha dichiarato – finanziata dalla CIA. Una pubblicazione alleata a quelle usciva a Parigi, “Rencontres”. Quelle riviste erano collegate con l’associazione degli intellettuali *Per la libertà della cultura* che si opponevano frontalmente alle iniziative internazionali degli intellettuali che invece fiancheggiavano i comunisti. Fra gli animatori dell’associazione anticomunista erano presenti non pochi scrittori e artisti che erano stati attivi dalla parte della repubblica nel periodo della guerra civile spagnola: per l’Italia Chiaromonte e Garosci. Quando mi accadeva d’incontrarli non mancavano di lasciarmi intendere che mi consideravano una spia o un nemico. Il luogo ideologicamente e politicamente decisivo di tutti costoro era stato il progressismo americano rooseveltiano e filotrockista (non a caso Garosci è il traduttore di quel gran libro che è *Le memorie di un rivoluzionario* di Victor Serge in italiano nel 1956). La storia della loro attività e discendenza è uno dei più importanti episodi, credo, della storia della seconda metà del secolo.
Ne leggo in questi giorni su di una rivista piuttosto prossima agli ex comunisti sotto il titolo *Il Congresso per la libertà della cultura. Una storia della guerra fredda*. Ci si riferisce ad alcuni libri sull’argomento comparsi fra il 1989 e il 1990. Credo davvero che la ricerca storica sia il solo strumento capace di ricostruire quegli eventi, non solo intellettuali, di un quarantennio. Leggo che si dovrebbe uscire dalle interpretazioni “ideologiche”. È la solita solfa. È da una interpretazione ideologica, ossia di scelta e di parte, che può essere scritta, o riscritta, la storia della guerra fredda. Che dico: la storia. Leggo che quella del *Congresso per la libertà della cultura* sarebbe stata “una storia di obiettivi e tentativi non univoci che si intrecciarono e si sovrapposero: quello della Cia di usare la cultura democratica come grimaldello per incrinare l’egemonia degli intellettuali filosovietici; quello di dar vita ad un movimento politico fiancheggiatore dell’occidente (e quindi della politica statunitense) impegnato in una lotta che si riteneva mortale e frontale; quello di creare un polo di riferimento neutralista capace di resistere alla logica di schieramento prodotta dalla guerra fredda; quella di riaffermare l’impegno della cultura nella realtà contemporanea ponendo il rispetto per la verità e la difesa dei diritti e dei valori umani più universali come fondamento di un’azione degli intellettuali realmente autonoma da pressioni politiche”. (Marcello Flores, «Linea d’ombra», X, 67, gennaio 1992, p.17).
Se la materia non fosse così seria, ci sarebbe da ridere. E non per la “colpevole non curiosità” circa i finanziamenti di quella associazione internazionale, come la chiama Sidney Hook, con elegante eufemismo; ma perché erano inconciliabili l’appoggio alla politica degli Usa e il neutralismo, e inconcepibile una “azione” intellettuale autonoma da pressioni politiche. Chi, come me, ha vissuto col massimo possibile di coscienza critica l’età in cui si è sviluppata quella associazione e l’ha sempre considera avversaria; chi come me, era un “intellettuale filosovietico”, che – avessero potuto – i sovietici, ossia la loro polizia, avrebbero immediatamente deportato a morte, pensa che il discorso sia ancora quasi tutto da fare. Scrivo queste parole e mi rendo conto che, in versi o in prosa, le mie risposte le ho già date e che non sono state solo mie; ogni volta che si porranno scelte altrettanto intollerabili, altri torneranno a scoprire entro di sé non diverse dalle nostre le domande e le risposte».
1953
 
(Da Franco Fortini, Un giorno o l’altro, pagg. 134-135, Quodlibet, Macerata 2006)

L’attacco al Congresso americano. Conversando col mio parrucchiere

di Donato Salzarulo

1.- La mattina del 7 gennaio, alle 10, avevo un appuntamento col mio parrucchiere. Ci sono arrivato con i fotogrammi negli occhi di ciò ch’era accaduto a Washington il pomeriggio dell’Epifania. Scrivo “Washington” e penso alla buonanima dello zio Antonio che, quando pronunciava questa parola, si riempiva la bocca come fosse un luogo della Terra immacolato e irraggiungibile. Continua la lettura di L’attacco al Congresso americano. Conversando col mio parrucchiere

Agosto

© MIKHAIL ALAEDDIN / SPUTNIK / SPUTNIK VIA AFP
Esplosione a Beirut

Ospito questo intervento di Giuseppe Natale, che al mito del “mese principe delle vacanze e del meritato riposo e del desiderato svago” non può che accostare, purtroppo, un accorato richiamo alle tragedie passate e ai rischi attuali del mondo sempre più terribile in cui viviamo. [E. A.]

di Giuseppe Natale

E’ un Agosto, questo del 2020, davvero particolare con la pandemia ancora attiva nel mondo anche se assai meno aggressiva e letale. Il coronavirus non smette di ricordarci che la libertà di ciascuno/a non può e non deve danneggiare quella del prossimo. La si dovrebbe esercitare in equilibrio “ con il valore della vita, evitando di confondere la libertà con il diritto di far ammalare altri” (Presidente Sergio Mattarella, 31 luglio 2020).

Continua la lettura di Agosto

Su Piero Del Giudice. Tre note.

 

di Paolo Di Marco

La storia è sempre il prodotto di una collettività, ma nel ‘68 Piero Del Giudice è stato uno dei fulcri di quella fase della storia: se, quando anche gli asini  volavano, l’aria li ha sostenuti, è stato anche grazie a lui. Se il sindacato è passato dalla fase insieme infantile e senile delle commissioni interne a forme di partecipazione maggiore come i consigli di fabbrica, è dovuto anche a lui. E anche se il ‘68 è stato prima sconfitto poi dileggiato, quello che è rimasto aleggiando della sostanza del sogno contiene anche il suo. Un grande cuore, una grande sete di giustizia, una grande sete di verità. Continua la lettura di Su Piero Del Giudice. Tre note.

Appunti politici (15): Sinceramente

 

di Ennio Abate

Ai miei interlocutori in questo scambio su POLISCRITTURE FACEBOOK (qui)
e in difesa della verità quando sembra (o è) detta «con le parole dell’errore»
[1].

Non mi travesto da geopolitico, da storico o da politologo, ma col senno di poi vi pongo due domande: – quale altra soluzione sarebbe stata possibile alla crisi vissuta dal movimento e dalle neo-organizzazioni politiche (“nuova sinistra”, “sinistra rivoluzionaria”, “neocomuniste”) che a partire dal ’68-‘69 agirono in Italia per tutti gli anni ‘70; – le spinte in quegli anni ad usare la violenza nella ricerca di una soluzione erano (almeno in parte) endogene ai soggetti sociali e a quelli statuali (e parastatuali) che allora si mossero o del tutto esterne e immaginarie? Continua la lettura di Appunti politici (15): Sinceramente