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Storia al biennio

dal diario 1982 di prof Samizdat a cura di Ennio Abate

24 settembre 1982

Cresce il mio interesse per la storia. È alimentato dal mio lavoro d’insegnante e dalla lettura dei manuali in uso, ma è disturbato e a volte bloccato dalla disattenzione e dall’indifferenza degli studenti. Finisco per leggermi e studiare il manuale per conto mio. Non ho altra scelta.  ma che frustrazione trovarmi di fronte a un manuale (autori Di Tondo e Guadagni) carico di nozioni e senza un filo di racconto  ben individuabile.

Ho fatto un confronto con il manuale di Vegetti: l’argomento della preistoria è svolto da Vegetti in 15 pagine, che comprendono anche 4 letture di approfondimento e sette pagine  illustrate.  La linea del manuale è precisa: no alla storia «archivio del potere» o «favola del progresso», no al mito dell’«obbiettività»; necessità di una «teoria» della storia antica che ne evidenzi la diversità dall’oggi; rifiuto del mito della classicità, intesa come momento di perfezione; lettura delle società antiche alla luce dei «modi di produzione e dei rapporti sociali» (Marx). Il materiale storico proposto è ridotto e spiegato con chiarezza; e la narrazione dei fatti è preceduta (e quindi subordinata) alla «descrizione dei quadri sociali» che permangono per vari secoli.

Quello di Di Tondo e Guadagni dedica allo stesso argomento ben 46 pagine, con 26 letture (distinte in documenti e problemi) e ha 24 pagine di illustrazioni. Dà molto spazio al racconto e dichiara una volontà di aggiornamento scientifico. Ha un’esposizione per problemi e pretende d’introdurre lo studente al lavoro storiografico. A me pare inutilizzabile dallo studente e poco adatto anche alle esigenze di aggiornamento dell’insegnante.

Non me la sento di trascurare le reazioni negative dei ragazzi né di predicare loro l’«oggettiva importanza» di studiare la storia. Mi sento solo di incoraggiarli a una lettura attenta di alcuni capitoli e fargli approfondire qualche argomento con un’interrogazione maieutica. E posso anche usare qualche loro domanda per coltivare e aumentare la loro curiosità. Nulla di più.

26 settembre 1982

[Ancora sul mio insegnamento della storia] Ho molte incertezze. Non so decidermi a far studiare la storia antica a ragazzi che non ne vogliono sapere né a scegliere tra un’impostazione e l’altra. Dietro la mia difficoltà di risolvere un problema didattico c’è anche la mia crisi di intellettuale che finora si era interessato soprattutto a un periodo limitato della storia: quella “contemporanea” e soprattutto della nascita e crescita del movimento operaio. Avevo fatto la tesi sui «Quaderni rossi», un tema collegato all’impegno politico degli anni Settanta. E nei primi anni d’insegnamento a ridosso del ’68-’69 avevo continuato a privilegiare la storia contemporanea anche quando insegnavo alle medie.  Approfittando della “sperimentazione” partivo dalla rivoluzione industriale e arrivavo alla cosiddetta attualità.

                La crisi della militanza politica mi ha portato ad accettare e rispettare il «programma» e a fare storia antica e medievale da sempre trascurate. Mi sono   accorto però dei limiti sia dei miei studi liceali sia di quelli universitari completati facendo il lavoratore-studente. All’università gli esami di latino e storia antica li ho fatti male. Quello di Storia medievale dovetti ripeterlo. Qundi ho due problemi: la resistenza dei ragazzi che rifiutano di studiare storia e la presenza di vuoti nella mia preparazione.

 

27 settembre 1982

[Appunti guida per lo studio della storia antica] 1) Non si può dare quasi per scontata e indiscutibile la “necessità” di studiare la storia (e la storia antica poi, nel caso del biennio) e i motivi che hanno spinto le generazioni passate a studiarla non valgono per quelle di oggi. 2) Perché oggi “noi” (studenti, insegnanti) dovremmo studiare la storia antica? Per vari motivi, ma uno fondamentale sta nella crisi dello  sviluppo dell’umanità. Il futuro è oscuro. L’idea di Progresso – una certezza per gli uomini dell’Ottocento – è smentita dai fatti. Anche la fiducia nella scienza si è incrinata. Insoddisfazione del presente e oscurità del futuro spingono a ripensare il passato, a rivolgersi ad altre culture (quelle orientali ad esempio) o a indirizzarsi a saperi finora trascurati o disprezzati (astrologia, occultismo, medicina popolare). 3) Lo stesso studio della storia risente di questo clima di crisi. E l’attenzione al passato storico preindustriale è cresciuta. Questo passato sta diventando persino di moda: film di fantarcheologia o come «Excalibur» o «Il romanzo della rosa» di Eco. 4) Accostarsi al passato è  davvero difficile. Si possono commettere vari errori. Ad esempio,  quello di renderlo simile al nostro presente, cancellando le sue diversità dai tempi antichi. Il consumo  di passato organizzato per le folle (es. le visite ai bronzi di Riace) annulla queste diversità, non arriva neppure per un attimo a rompere le nostre abitudini quotidiane e l’unicità dei bronzi e annullata o neutralizzata dalla loro riproduzione in oggetti ornamentali ubito commercializzati. Come facciamo a rendere gli antichi nostri contemporanei? Cancellando la loro diversità. Ad esempio, le strips dei fumetti presentano uomini preistorici nell’abbigliamento, che però sono assillati dai problemi della nostra  vita quotidiana.   Forse la storia è il campo della lotta tra quanti  vogliono scoprire la diversità del passato e quanti vogliono sterilizzarla.

Da “Atropo” di Lidia Are Caverni

di Lidia Are Caverni

PRIMAVERE


Poter dire l'incanto
di teneri occhi
tesori da stringere
nel pugno
il gatto bianco percorre
tetti
più che larve non trova
fra l'albeggiare del pesco
ormai sfiorito
le lamiere piangono muschi
su zampe di velluto
agglomerato di sopravvissuti
ghetti
assuefatti cortili.
Continua la lettura di Da “Atropo” di Lidia Are Caverni

Storia. Storie.

di Ennio Abate

Ahi, noi! I finti vivi
respiranti sazi e distratti
intenti alle proprie
- intere (crediamo) -
assorbenti storie!

Parziali racconti, invece.
Come ceneri del lusso
salgono in vecchi e illustri camini.

Fuori nuovi corpi migranti
s’affaticano in crani già più smussati.
Riprendono in lingue ibride
parole comuni
bisogni di sempre.
Guerreggiano in altre forme
sui nostri morti passati.
Prosciugano i riflessi di sole
nelle pozzanghere d’Occidente
dove la nostra finì.

Unici.
Insopportabili.
Inconcepiti.

I partigiani ieri.
I moribondi ieri a Baghdad.
Les banlieues ieri e oggi.

(2006/2023)

P.s.
Leggendo su FB i commenti di Maria G Meriggi e Lanfranco Caminiti sui fatti di Francia.

Lo spettro

di Rita Simonitto

Si sentiva vecchio e stanco. Ma non era tanto la vecchiaia a turbarlo. In fondo che erano quasi ‘ducentanni’ al confronto di altri spettri più anziani? Era la stanchezza a preoccuparlo di più. Lo avevano rivoltato in lungo e in largo come un calzino (“ecco qua un buco!”, “ma questo rammendo lascia un po’ a desiderare!”, ecc. ecc.). Però ciò che lo infastidiva maggiormente era quel loro storcere il naso: puzzava… dicevano. Ebbene, sì, quando si cammina i piedi sudano e non odorano certo di verbena! E magari si calpesta qualche cosa che non si dovrebbe…! Ma che cosa avrebbe dovuto fare? Stare fermo o andare invece a cercare gli eventi la cui natura (ovviamente évènementielle) è imprevedibile così come la loro concatenazione (“perché adesso?”) e quindi bisognava andarli a scovare…! Un simile trattamento non era stato riservato nemmeno all’altro ‘cristo’ che di cammino ne faceva abbastanza. Ma si sa. Noblesse oblige. C’è chi nasce da quotati lombi e chi invece no: Beh, certo, non poteva dire che anche lui non fosse dotato di certe ascendenze… ma forse aveva sbagliato nello scegliere gli influencer giusti. Continua la lettura di Lo spettro

La natura delle cose

di Cristiana Fischer

Per qualche ragione che non so più ho preso in mano il poema “De rerum natura” di Lucrezio (vivente all’epoca in cui nacque la nostra era cristiana) restando profondamente stupita dal suo splendido naturalismo, da un lato, e dal suo sereno materialismo, dall’altro. Lucrezio ammette l’esistenza degli dei (e non di un Dio unico) ma li colloca – sereni e beati, indifferenti agli umani – negli intermundia (uno “spazio sottile come i loro corpi”) epicurei, inaccessibili a noi che viviamo nel/nei mondi popolati di atomi materiali. Tuttavia il suo materialismo introduce, nella caduta meccanica dei fondamentali elementi naturali, la possibilità di impercettibili variazioni, che giustificano, per noi umani, che possiamo avere libertà e piacere.
Questa visione filosofica, semplice e razionale, mi è parsa rispondere all’angoscia di cieche interrogazioni su cui mi affannavo, nello stesso tempo, circa l’aspirazione alla trascendenza che fa parte della nostra cultura.
Ho scritto questo poemetto per ripercorrere il percorso che ho sopra descritto, intrecciando versi di Lucrezio alle poesie in cui esprimevo l’angoscia del forse impossibile senso che cercavo per la nostra esistenza sulla Terra. Continua la lettura di La natura delle cose

Intervista ad Antonio Sagredo

Chiesa di S. Matteo a Lecce

a cura di Ennio Abate

Questa lunga intervista risale al 2015.  La considero un’intervista-duello. Da una parte ci sono le 9 domande preparate da uno come me, convinto che la poesia sia lavoro: da distinguere (non separare) da tutte le  forme (storiche) del lavoro umano. Esse mirano, perciò, a chiarire per quanto possibile le radici materiali (biografiche, storiche, geografiche,  culturali) del «fare versi». Dall’altra ci sono le risposte di Sagredo, che a volte eludono o contestano apertamente le domande; e teatralizzano una visione della Poesia come inattesa Visitatrice, che quasi sottopone a stalking il poeta («ho pregato più volte, l’anno scorso, la Poesia di non disturbarmi più… invano! L’ho pregata da quando iniziai due decenni fa»).
Il risultato mi pare, comunque, interessante: Sagredo  espone qui numerosi ricordi del suo «periodo infantile» o della sua «esperienza adolescenziale leccese-salentina»; rende note alcune fonti ispiratrici o guide della sua ricerca (Vanini, Ripellino, «il santo Federico» [Nietzsche], Tommaso Riccardo, Stirner, i formalisti russi, Andrzej Nowicki, Francesco P. Raimondi ,ecc.); esalta il cosmopolitismo culturale (novecentesco) contrapponendolo – a mio parere sin troppo – alla «mancanza d’aria» della poesia italiana; e rivendica una assoluta libertà («I miei versi sono nati nella massima e totale libertà e verità interiori, una sorta di creazione arbitraria senza zavorre culturali»).  Il lettore valuterà le ragioni delle due posizioni .

Continua la lettura di Intervista ad Antonio Sagredo

Su l’«Io» (senza il noi) di Massimo Parizzi

di Ennio Abate

                           «Io sono “io” (esisto) solo se posso dire noi»
                                                        (Jean-Luc Nancy)

«ciò che diviene sempre più visibile è l’avvenuta dissoluzione di quel We. L’esplosione, dispersione e dileguamento di quel Noi reticolare che, seppure non ha sconfitto il capitalismo, quantomeno era apparso potesse essere la base a partire dalla quale «vivere e lottare». È quella dissoluzione e le sue conseguenze la verità difficile da accettare, poiché alla fine del We mondiale ha poi corrisposto, a cascata nel tempo, la decomposizione di tutti i piccoli noi che attorno a quello erano fioriti».
                                   (We Are Winning di Marcello Tarì, qui)

 Lettore  Allora, dopo tutti questi appunti, ti sei deciso a scriverla  la recensione su «Io»?

Samizdat  Sì, ma è venuta troppo lunga, preferisco parlarne con te.

Lettore  Attacca pure.

Samizdat Parto da un sunto del libro.[1] Un bambino abita in una casa popolare, s’innamora di una bambina, Roberta, che abita di fronte a lui; e desidera salire con lei sulla «spianata» che si trova sul tetto di un garage, ma lei rifiuta. Della vita di famiglia veniamo a sapere che: padre e madre si amano poco o niente e danno al figlio un’educazione cattolica; intorno agli undici dodici anni il bimbo si fa l’idea che la madre soffre e suo padre è cattivo e si sente in colpa per questo;  ha una sorella, con la quale divide la camera, gioca e impara a leggere e a scrivere; va in vacanza dai parenti di sua madre, che è nata a Brindisi; un giorno con la chiave che il padre ha dimenticato apre un cassetto,  di solito chiuso, e scopre «i ricordi di suo padre del fascismo» (teste di Mussolini, la tessera della repubblica di Salò», ecc.). Il ragazzo, diventato giovane, abbandona  la “casa del grande garage” e  va a vivere da solo in una casa di ringhiera. Ha una fidanzata. Ha degli amici: Adriano, di vent’anni più grande, che ha avuto il padre torturato dai tedeschi; Johnny, che  ama le novità, a cui piace vivere  in città  e la gira con una radiolina transistor all’orecchio; un pittore astrattista, Milo, e sua moglie, che dopo la morte di Milo, si uccide. Al liceo s’avvicina all’associazione cattolica Gioventù Studentesca; vota con scarso entusiasmo l’occupazione della scuola; distribuisce volantini e partecipa ad assemblee e manifestazioni, s’innamora di una compagna di Lotta Continua. Lavora come intervistatore e traduttore.  Vive con Bianca, con altri amici e il «padre buono» di Bianca. Fa dei viaggi da turista in Vietnam, Messico e Laos. Partecipa alla  carovana  per la pace a Sarajevo. In breve, il libro narra di come è diventato adulto un bambino nato in Italia nel 1950, vissuto tra Milano, Reggio Emilia e Brindisi. E  frantuma questa vicenda in 14 capitoli.

Lettore  Come? Frantuma?

Samizdat  Sì, Parizzi ha scelto una forma, che richiama le scritture sperimentali degli anni ’60-’70 del Novecento. Non narra  i fatti in modo cronologico e lineare, non «segue il calendario», ma  procede per salti temporali e spaziali, a zapping.[2] È una frantumazione ordinata,  ben pensata, solo in  apparenza neoavanguardista. È facile, infatti, cogliere il senso dei singoli frammenti e dell’insieme. L’autore non vuole scandalizzare o sfidare il lettore, ma spiazzarlo appena un poco e sedurlo affabilmente.

Lettore  Ti è parso che la forma non aiuti a capire meglio la storia, il contenuto?

Samizdat La vedo un po’ in contrasto con la vicenda stessa. La formazione di questo «lui» è  quasi banale: innamoramento fanciullesco; vita familiare e parentale chiusa in sé,  da ceto medio  e senza scossoni;  rottura non traumatica con il padre fascista; ribellione al mondo cattolico che non lo porta a posizioni “estremistiche”. L’umanità intravista nei viaggi, da turista, è e resta opaca e lontana. C’è ben poco di romanzesco e molto autobiografismo appena velato. C’è un saggismo che accenna a problemi enormi ma non risponde. Le domande “metanarrative” sono troppo secche e le risposte elusive[3] o rimandate. Sono perplesso.  Parizzi avvicina la mano a molti fuochi, ma non si scotta mai. Forse ci gioca con grande abilità e leggerezza postmoderna.

Lettore Mah, concedo che la vicenda del protagonista sia normale  e somiglia a quella di tanti suoi coetanei o quasi. Ma questo a me pare un vantaggio: così sono tanti  quelli che possono  seguire i ricordi e i pensieri,  sinceri o appena velati, che Parizzi ha disseminato  in più di 200 pagine. E confrontarli coi propri. I suoi destinatari sono quelli come me, gente cresciuta in ambienti cattolici tradizionali, conservatori e forse reazionari e che si  è formata nella scuola di massa democratica.  Non sono certo gli “estremisti”, i nostalgici del ’68 o gli incontentabili come te. Scherzo, eh!

Samizdat Scherza pure, ma considera il titolo. Lo trovo sfacciatamente seduttivo nella sua adesione al narcisismo dei mass media e dei social.  È come se dicesse: non ho nessuna esitazione a parlare di io. Basta con i noi (cattolici, socialisti, comunisti, anarchici, patriottici, sovranisti, ecc.). E basta pure con la psicanalisi che, da Freud a Lacan, ha spaccato il capello in quattro sulla crisi dell’io.  Io il mio io me lo tengo ben stretto.

 Lettore  Parizzi, a differenza di te, si è riposizionato da tempo sul presente. Ti ricordi la sua rivista? Si chiamava «Qui. Appunti dal presente».  Non si può rimanere a rovistare il passato o le «buone rovine» fino ai  nostri ultimi anni di vita, orsù!  Lui il suo passato l’ha digerito. Ed è falso che si sia  appiattito sulle mode o sul  vocio di massa. Anzi, io ho interpretato il titolo come un segnale di sincerità,  modestia e onestà. Piuttosto,  è come se avesse detto: vi parlo di quello che ho vissuto, pensato e immaginato; e solo di quello; e a modo mio. E poi scrivere il romanzo di formazione di un ragazzo “normale” in tempi di spettacolarizzare e di esaltazione a tutti i costi dei bordeline, non guasta.

Samizdat Vedi che con questo io così in primo piano – in fondo un io “liberale” perché il presupposto del libro è che «tutti sono io»[4] soltanto o soprattutto io – Parizzi sottovaluta non solo il noi d’allora, della nostra giovinezza, ma il problema del  noi di oggi. Che manca e si sentono le  pesanti conseguenze.

Lettore  Un io “liberale” quello di Parizzi? Esagerato! Tendi sempre a politicizzare troppo e tutto. A me pare bello anche se non originale che il protagonista sia un io bambino stupefatto, incantato, curioso di fronte al mondo, attento alle sensazioni. Non vedi come intuisce e soffre dei drammi familiari e parentali? In mezzo a  quella piccola borghesia o ceto medio urbanizzato  di una Italia avviata al boom economico matura e si autonomizza dagli adulti. E lo fa  con quieta dissimulazione, senza scenate. Allo stesso modo attraversa i turbamenti sessuali dell’adolescenza. Infine a me piace davvero – particolare storico e più che generazionale oggi non trascurabile – una grande passione per la lettura, che in quegli anni era quasi l’unico sfogo concesso a bambini solitari.

Samizdat  Anche a me questa parte di «Io» ha fatto  simpatia.  Ho pensato al fanciullino, a Peter Pan, al puer aeternus.

Lettore   Ma no! In «Io» non c’è  mai abbandono alla pura immaginazione o al fiabesco o alle oscurità misteriche. Parizzi procede per supposizioni ben meditate. Sui ricordi non ci ricama, li riporta con oggettività e realismo. Ed usa un linguaggio preciso, colloquiale, sciolto, secco, vicino al parlato e senza ideologismi.  E le sue sono sempre annotazioni sintetiche.  È lontanissimo dalle descrizioni sociologiche strabordanti della «Scuola cattolica» di Edoardo Albinati o dagli amarcord sentimentalistici.

Samizdat Ma che tipo di maturazione  ha questo io bambino? A me pare che passi  dall’educazione cattolica ad un generico progressismo utopistico. E a dirla tutta, da ex di quegli anni, tra  Gioventù studentesca e Lotta continua non c’erano poi grosse differenze. Populismo – religioso e laico – in fondo. C’è un pregiudizio in «Io» (mai esplicitato o teorizzato, anzi direi occultato proprio dalla mimesi seducente del parlato): che un bambino sia  più naturale e autentico dei “grandi”. In fondo Parizzi si rifà a Rousseau e a Schiller. Da lì trae l’ideale etico ed estetico di rapporti umani dignitosi per sé e per tutti; dell’amicizia;  di un fare sì, ma mai ben definito, che dovrebbe migliorare le condizioni di vita dell’intera umanità che abita la terra.  Belle parole. Questo ideale etico-estetico e magari oggi anche ecologico è senza base politica e sociale, senza noi (mi ripeto). Nel frattempo i conflitti, le guerre crescono.

Lettore Sempre dove  il dente ti duole torni, eh! Ogni sentimento o pensiero per  te, se non si traduce in politica, è vano. E poi dici  di non essere inchiodato a quel passato, quando vi  illudevate che  il noi politico dovesse essere “al posto di comando”!

Samizdat –  Stiamo  al libro. A un certo punto in «Io» si dice che «al mondo c’è da proteggere i bambini».[5] L’autore e il narratore, però, non si chiedono mai chi li può proteggere e se sia possibile proteggerli, se permangono e si acutizzano   guerre e conflitti sociali. Come fanno i bambini a crescere bene in una macelleria mondiale del genere? Mi accusi di nostalgia della nostra giovinezza, ma si può  anche restare ancorati al desiderio infantile dell’ «io non voglio diventare grande» e farne un principio.[6] 

Lettore  quando Parizzi narra del bambino irakeno che, alla caduta di Saddam, si ritrova in  «un gruppo di uomini che, tutti insieme, uscivano dalla piazza gridando» e corre e li raggiunge e si toglie una scarpa e inizia a «picchiare in testa  Saddam», costruisce una immagine potente che  spinge all’utopia.

 Samizdat  Quanti equivoci contiene quell’immagine! Estratta dalla storia tremenda della dissoluzione dell’Irak, è pura estetica, spettacolo. Tranquillizza la buona coscienza degli europei. I bambini non fanno la storia e anzi ne sono di continuo le vittime. La storia la fanno gli adulti; e in modi sempre terribili e a volte orrendi.   E quella è una statua, non Saddam! E l’hanno buttata giù proprio i “grandi” (i “Grandi della terra”) imbastendo una guerra sanguinosa e turpe nelle sue false motivazioni.

Lettore Ma Parizzi non sostiene che il bambino, picchiando il pezzo di statua con la scarpa, partecipa alla storia dei grandi. E, comunque, siamo un po’ noi quel bambino e l’immagine fa riflettere, scalda i nostri cuori.

Samizdat  Ma non ci aiuta a ragionare. Non so cosa pensasse il bambino reale, ma è certo che confondeva realtà e immaginazione. Or un travisamento del genere in lui posso sopportarlo. Ma perché l’autore o il narratore non riprende né commenta  né interpreta la scena da adulto e ci fa sapere cosa ne pensa lui?  Forse lui pure  si  è  lasciato attrarre dal lato estetico dell’episodio trasmesso  alla TV.   E poi – lo si capisce da  altri  brani saggistici di «Io» – legge i fatti soltanto sul piano morale. E ricorre alle categorie pre-machiavelliche di innocenza e di male.

Lettore Ma  è un romanzo. Non vedi il sottotitolo di «Io»?

Samizdat  Lo è? Fino a che punto?  Io riconosco che Parizzi, pur lavorando su frammenti eterogenei nel tempo e nello spazio, non ha rinunciato alla ricerca di una visione unitaria. Da romanzo, appunto. E trovo i vari brani collegati tra loro. Mi chiedo, però, perché così brevi le domande e spesso così elusive le telegrafiche risposte della parte “metanarrativa”, che dovrebbero funzionare da commento.

Lettore  Io, invece, ho trovate molto belle anche queste parti. Specie dal punto di vista della forma.  Mi paiono antifone o intervalli riflessivi ironici e spiazzanti. O quasi ipnotici refrain. O contrappunti a quanto appena detto dal narratore. O domande incalzanti da intervistatore. E in questo inseguirsi e riallacciarsi e ripetersi delle interrogazioni, oltre alla volontà di tener  desta l’attenzione del lettore, ci trovo proprio la ricerca di ricomposizione dei frammenti e di una  continuità tra tempi e spazi diversi. Da romanzo, dunque. Nella stessa direzione vanno anche le analogie che Parizzi  suggerisce in modi sempre allusivi. Ad esempio, tra una casa povera di  Napoli e  una casa di legno su palafitte in Thailandia. O tra il pittore Adriano e un anonimo pittore vietnamita. O tra l’elemosina negata al bambino a un semaforo di Milano e la vendita contrattata delle noccioline a Hué in Vietnam.

Samizdat Prevale troppo la quotidianità della vita familiare e parentale. Spesso la più delicata o persino edulcorata. Il quotidiano  rappacifica e incoraggia però la frantumazione di un discorso; e vela i punti drammatici dell’esistenza,  le falle, a volte le tragedie.

Lettore  E dalli con la frantumazione! Eppure hai detto tu stesso che è controllata.  Nessun flusso disordinato di coscienza o incoscienza, cavolo! Ti ricordi il punto in cui Parizzi parla di un sarto  bresciano, che ama e sa fare bene il suo lavoro, perché lo conosce bene? Ecco, secondo me questo sarto raffigura emblematicamente la sua scrittura. Che ha un’artigianalità ammirevole e non si lascia turbare dalla concorrenza della odierna e invadente comunicazione  massificata, ma con sapienza, anche monocorde,  cuce insieme e bene per tutte le 200 pagine i vari brani-pezzi di stoffa.

Samizdat  C’è ancora un’altra cosa che non mi ha convinto: la storia più vasta  entra soltanto nelle poche tracce  depositatesi nella vita dei familiari o  nella memoria, per forza di cose confusa e mitizzante, del protagonista-bimbo. Capisco che è nel mito che il bambino vive i primi  conflitti tra i suoi desideri (emblematico il salire sulla spianata)  e la realtà (Roberta che si rifiuta di seguirlo). Ma quando Parizzi deve passare dal noi ristretto e concreto – familiare o parentale o strettamente amicale –   al noi dei più, degli “estranei” o a un noi più astratto e universale (diciamo pure:  con ambigue pretese di universalità), esita e si arresta. Proprio nel punto, dunque, in cui il narratore  dovrebbe calarsi nel romanzo. E cioè dar conto dei conflitti maggiori del noi storico collettivo,  al quale per un po’ la sua generazione attorno al ’68  pur partecipò. Ti pare poco non rendere conto di quel tentativo  di re-immaginare addirittura  una “rivoluzione”, una rottura coi noi preesistenti e soffocanti?

Lettore   Mi vuoi dire che, quando si scrive un romanzo, l’autore è obbligato a occuparsi  di universale o di storia “vasta”? E chi lo dice?

 Samizdat  Nessun obbligo. Noto, però, che in «Io»  quel noi del ’68 è rappresentato in maniera sfocata. Cosa dicono, infatti, quei noi che fummo? Cose vaghe, che l’io/lui narrante (e in fondo l’autore, Parizzi) non capisce e poi neppure più ha tentato di capire. Prima avevamo un bambino,  poi abbiamo avuto un giovane. Entrambi  non si sono resi conto di cosa succedeva o vivevano. D’accordo. Chi può dire di avere  il faro della coscienza a disposizione in ogni  periodo della sua esistenza? Nessuno. Ora nel ’68  noi vediamo questo «lui» che distribuisce volantini, anche se «non ha molta voglia»; fa con altri studenti ripetizioni private ai figli degli operai; ha la spinta  a fondare una rivista che richiederebbe un lavoro in gruppo; è attratto da una  ragazza di Lotta Continua che gli piace. Poi va in vacanza e tutto sembra svanire nel nulla. Ancora d’accordo. Ma nella scrittura, a distanza di tanto tempo,  cosa dobbiamo pretendere dallo scrittore,  non più bambino  né più  giovane?

Lettore E che vorresti? Un bel poema alla Majakóvskij che esalti il coraggio dei militanti rivoluzionari di professione? Svegliati! Tanta gente ha vissuto quegli anni   con leggerezza, divertendosi. Erano pochi i seriosi o i fanatici.

Samizdat  Ma vuoi capire che  in «Io» non c’è una interrogazione sulle dottrine politiche o sulle ideologie che appassionarono o avvelenarono la mente di migliaia di operai, impiegati, studenti? E che il narratore guardava (per me scandalosamente!) a Proudhon non a Marx.? E che della politica marxista riecheggia slogan stereotipati? E che resta bloccato alle soglie del ’68, alle primissime manifestazioni, evitando di accennare al seguito, quasi a gustare, in coerenza con la sua visione roussoviana, l’alba “innocente” di quella storia?

Lettore-  Dai,  fra poco loaccuserai di rimozione o di tradimento piccolo borghese!

Samizdat – No, questo no.[11] Sono fesserie. E non  pretendo neppure che arrivasse a parlare delle tragedie degli anni Settanta fino all’assassinio di Moro. Ma mi delude in «Io» l’insistenza sull’infanzia.  Mi pare una scelta fondamentale, ma difensiva ed elusiva. Ordina tutta la narrazione, selezionando gli episodi in modo che alla fine tanto spazio  viene dato al familiare e parentale  e meno al pubblico-politico. Questo è il messaggio di fondo del libro per me.

 Lettore  Non condivido la tua opinione. E alla tua età dovresti aver chiaro anche tu cosa resta delle vostre biografie; e cosa di esse debba o possa farsi libro o romanzo. Parizzi con «Io» ha dato la sua risposta. Per lui resta un io che si sente in relazione con altri io, ipotizzati come a sé simili (o quasi).

Samizdat  Sì, ma è una relazione in forma emotiva o nella «forma oceanica»,  di cui parlarono Freud e Rolland agli inizi del Novecento.

Lettore  Per me invece dice una grossa verità: «i bambini, quello che è accaduto prima che nascessero lo sentono vero, magari, ma non proprio reale come quello che possono vedere, udire, toccare.[…]. Alla verità ci si potrà arrivare con la mente, ma per la realtà ci vuole il corpo».[12]    Ma, tanto per capirci fino in fondo, a te di quella storia cosa resta?

Samizdat Resta un io-noi sconfitto, forse dilaniato da fantasmi (gli  spettri di Marx?).  Questo io-noi sa che la polis non c’è (o non c’è mai stata) e che in questa epoca un altro noi non è definibile. Né la possibilità di una sua costruzione  è dimostrabile. Resta però che un altro noi è comunque necessario.

Lettore E cosa  ha di  tanto diverso il tuo io-noi dall’io di Parizzi? In entrambi i casi il noi di allora non c’è più e non lo puoi resuscitare!

Samizdat  In «Io» c’è una rinuncia per sempre a ogni possibile noi, perché il noi è sostituito da tanti io, che non faranno mai  più un noi.  Vanno in altra direzione.

Lettore E sarebbe una prospettiva così grave?

Samizdat Sì. Questi io non  sono pieni, maturi, adulti. Restano degli io-bambini, troppo bambini. Pochi giorni fa leggevo un’intervista a Nancy, morto di recente. Concordo con lui: un io si realizza solo in relazione al noi. Dev’essere un io-noi. Deve riconoscersi in una relazione reale e conflittuale con altri noi (o, forse, con altri  io-noi) avversari o nemici.  Solo così potrà partecipare responsabilmente ai conflitti della storia. Se questo noi oggi manca, è mancante anche l’io. (E la vecchia psicanalisi fa ancora bene a ricordarci che tutti questi io non sono più  “padroni in casa propria”, cioè pieni, maturi, adulti).

Lettore Quella di Parizzi sarà una visione “liberale”, ma nel suo empirismo è più realistica della tua. E poi non  è neppure così sicuro che Parizzi  abbia rinunciato a  pensare e a costruire un altro  noi. Il finale di «Io» resta indefinito e aperto: «che cosa ci sarà, dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto?».[13] Lo  sai forse tu?

Samizdat No.  Senza campi e colline e mari di fronte, ma davanti a questi palazzoni di periferia, non so dire o mostrare cosa  ci sarà.  Ma, dopo il composita solvatur che la nostra generazione ha vissuto, tengo fermo all’esigenza del noi: «contrariamente a quanto asserisce un senso comune deforme, la vita di gruppo è l’occasione di una ulteriore e più complessa individuazione. Lungi dal regredire, la singolarità si affina e tocca il suo acme nell’agire di concerto, nella pluralità delle voci, insomma nella sfera pubblica».[14]

Lettore-  Ah, sì?  Hai scommesso su un altro noi? Fa’ pure, ma a me sembri fuori epoca. Basta vedere  cosa accade del noi nel tuo gruppo di Poliscritture! Buona fortuna, comunque.

[1] SUNTO VELOCE DEI CAPITOLI

1.
Casa popolare. Piedi che camminano, corrono, saltellano. Gambe che scalano il Pizzo Nero. Malghe, temporale. Rachele e Edoardo scendono prima che piova. Pioggia, nuvole. A tavola con Rachele. Claude e Claire si lasciano. Gambe che pedalano a Reggio Emilia. Sui pattini. Gambe di ragazze. La terra calpestata da miliardi di piedi di donne e uomini. Ancora Claude e Claire. Parla la ragazza Roberta e dice io. Fidanzatina. Tu sei io? Ci saliresti sul tetto del garage (17). Il cielo (17, poi ripreso a pag. 182-183). Roberta va nel palazzo dei ricchi. Il bambino che si vuol far vedere. Il fiocco azzurro per il figlio che nasce, Leandro.

2.
Appartamenti di famiglie della piccola borghesia. La “casa” povera di un vecchio in qualche vicolo di Napoli. Casa su palafitte in Thailandia. Quello accasciato e magro che in Messico abita una casa senza porta. Cosa si fa in una casa. Johnny e la sua casa di single. Lui vive da solo in una casa di ringhiera. La casa dei ricchi col marmo. La casa del grande garage (dei genitori). Nella casa fotografato coi suoi al momento della cresima. La mendicante che vorrebbe ballare. Gli amici del padre e il paese (a Samboseto di Parma). Mona, attivista egiziana, in piazza Tahrir al Cairo. Ricordi del padre e del suo amico Adamo: da bambini facevano la cacca nei campi. Freddezza dei rapporti tra  sua madre e  suo padre. [Verità e menzogna]. L’amico che lo ospita a Napoli lo porta a dormire in una casa di Bagnoli con una parete dipinta e un motto:”Quando l’uomo sarà un amico per l’uomo?”.

3.
La casa di Zita l’attrice. Adriano. Ada. Bianca con Leandro, il bambino, nel quartiere che sta cambiando (sedi di multinazionali, moda, digitale).  Ada, una sua ex fidanzata. Adriano è un amico di vent’anni più di lui, un narratore, un chiacchierone, e ha avuto il padre torturato dai tedeschi. [Un pittore a Hanoi]. Riflessioni sulla pietà e la crudeltà delle cose. Sul passato. Sulla leggerezza. Sulla malinconia. Camminare fino a stancarsi. In bicicletta per Crema. Con la carta stradale del Touring. [Che cosa ci sarà… (pag, 44) ripreso poi in altre pagine]. Johnny che gira per la città con la radiolina a transistor. Uno che studia nell’appartamento vicino. Johnny gira per la città ed è entusiasta delle novità e del presente (46) e non vuole “litigare” con il presente. Amare tutto anche la pubblicità. Tornando in bici da Crema è colto da un acquazzone. “Che cos’è il passato, Non lo so”.

4.
La sera da bambino con padre e madre e la preghiera serale. [Riflessione su innocenza e male].  Da bambino s’allaccia le scarpe al mattino e s’incanta. [Riflessioni sull’animo che non sa di storia e di politica a partire da una scena dei miliziani di Hamas che demoliscono un muro e ancora “s’incanta”]. Gioca con la sorella a fare il commerciante. [Riflessione sul contenuto di classe dei nomi: signora, donna di servizio]. Notizie su sua sorella Federica. Separazione  dei maschi dalle femmine. [Thailandia: il turista americano e la giovane thai]. Essere accolto nel gruppo dei maschi. Notizie sul fratello che si è sposato in chiesa. [Coppie che ballano, anche il vecchio balla].  Il trenino dei ballerini. [Lo scirocco]. La camera che divide con la sorella. Impara a scrivere. Impara a leggere. [il bambino che al semaforo chiede l’elemosina. Sconcerto. Rifiuto di fargli l’elemosina]. [A Hue il bambino che vende noccioline e abbassa il prezzo] [Riflessioni sui “rapporti umani”: essere guardato in faccia]. Quando si allontanerà dai genitori, parenti, dalla “casa  del grande garage”,  è per andare in strada e guardare il balcone di Roberta. Che vuol vedere senza essere visto. Immagine di lui che gattona. La prima casa di ringhiera in cui va ad abitare da solo. Vicini di casa: Nino e Cecilia da Livorno. Annotazioni su lui che esce di casa, traffico ingorgato, e lui si mette ad osservare passanti e donne ed è attirato da quella donna che incontra tutti i giovedì. Chi sono gli altri?  Uomini, donne bambini.  

5.
Parla di un Natale di quando lui era neonato e elenca i parenti. Lui che esplora il vano di una cristalliera con gli specchi dove sono conservate bottiglie di liquore.  Il mobile con il cassetto chiuso conserva i ricordi del padre fascista (teste di Mussolini, la tessera della repubblica di Salò, un libro di fotografie) (63). L’anno in cui era nato lui nascono altri amici suoi. Leandro, il bambino che ride. Ricordo del padre preoccupato e di sua madre che guarda il marito infastidita. [In viaggio per Finale ligure. Recita di Tanto gentile e tanto onesta pare]. Cena di famiglia da bambino: “Ma la focaccia col pomodoro”. Il padre in pensione e la medaglia della banca. Il padre gli ricorda che i comunisti hanno fatto morire il nonno. [Tradire.. ormai si è incamminato sulla strada del tradimento … stacco dal padre]. In pensione a Collio in montagna. Domande sul comportamento degli adulti. [Lavoro di intervistatore. Intervista a una donna]. Una casalinga (sua madre) gli prepara il sugo di pomodoro e la merenda del pomeriggio prima di guardare alla TV Rin Tin Tin. A undici- dodici anni si fa l’idea che la madre soffre e il padre è cattivo.  E lui si sente in colpa. Suoi coetanei quattordicenni ispirati dai film di James Bond fondano un’associazione: “Dall’Italia con amore”. Riunione. Un giornalista della radio registra. E lo riaccompagna a casa. Suo padre l’aggredisce, lanciandogli addosso la cesta di vimini coi giornali. Le paure della madre, quelle del padre. Taglio del soffitto di compensato di un mobile per rubare al padre le sigarette. Al liceo l’associazione cattolica Gioventù Studentesca. Il padre buono di Bianca, Giuse, che si è trasferito nello stesso palazzo dove abitano lui e Bianca. Giuse racconta del suo viaggio in Senegal e dei bambini denutriti. Sottoscrivono a loro favore. Il padrino di cresima, Adamo, buono a differenza di suo padre. E altri padri buoni di cui vorrebbe essere figlio. La prima volta che può acquistare dei mobili. Il fratello che ha fatto un viaggio in Bielorussia gli porta delle matriosche. Bambini  di Cernobyl  ospitati per qualche mese: “si dovrebbe far qualcosa al mondo, per renderlo più bello” (73). Nella casa dove vive da solo ascolta il giradischi e la Quinta di Beethoven. Un usignolo. [Laos. Canto dei galli]. Il Giuse, il padre buono, ora malato, dal medico. Ancora il ricordo del Natale da neonato: sorriso amorevole della madre, storto del padre. Si sente invaso da questa “sarabanda” di parenti. Altro che Natale: desiderio di evadere: di essere “irraggiungibile, sulla spianata del grande garage” (77). Perché quando taglia lo scomparto  chiuso che “è venuto a simboleggiare per lui la paura di suo padre e di sua madre”  sfida la paura (77). Lavavetri sulla circumvallazione a Milano, che risale la fila delle auto e dice con risentimento qualcosa. Assemblea al liceo per votare l’occupazione della scuola. Scarso entusiasmo.

6.
A Brindisi in casa dei parenti.[la domanda «Che cosa ci sarà dopo quei campi 79.., 100, 181, 195]. Nella chiesa prima di andare a messa. Il professore comunista sfoglia il libretto di preghiere che gli ha sequestrato. Roberta non lo caga. Desiderio di salire con Roberta sulla spianata. Il nonno di Brindisi: “quando si mangia si combatte con la morte”. L’elenco degli io da pag.86 a pag. 92: e la conclusione: «Ma  allora, tutti sono io? Sembra proprio di sì». Samboseto, funerali del nonno. Esita poi si mette nel gruppo dei maschi, orgoglioso di esservi ammesso. Litigi in famiglia, non dire ad “estranei”. La divisione dei ruoli: uomini al lavoro e donne casalinghe. [Altra intervista a un consulente di banca]. Messaggi di Roberta dal balcone.

7.
Buttarsi nel lavoro. Il sarto bresciano. Una contadina nella Bassa. Un giovane in tuta. Il nonno squadrista di Busseto che scappa dai partigiani(101). Ricordi sfuocati. [La memoria è il cassetto dei morti]. Discorso con amici sui nazisti terribili. «Di quelle cose non sente la realtà sino in fondo. Sono accadute prima della sua nascita, e spesso, specialmente per i bambini, quello che è accaduto prima che nascessero non lo sentono davvero… Alla verità ci si potrà arrivare con la mente, ma per la realtà ci vuole il corpo» (103) Il Vietnam dopo la guerra]. Sradicamento  dal paese, sorriso storto in città del padre. [L’uomo che guarda di sbieco]. [Al mondo c’è da raddrizzare i sorrisi]. Anche la panettiera ha il sorriso storto. La tabaccaia col sorriso. Considerazioni ed esempi sulla spontaneità. Suo nonno ha ucciso? Il padre e il consuocero ricordano la caduta delle bombe durante la guerra. [Hue Vietnam] Quelli che non hanno fatto niente di male.

8.
I miliardi che vivono nel mondo. Per l’unica volta (110). Accenni agli abitanti di varie città nel mondo. Ancora sui tanti che camminano sui marciapiedi. Ancora Roberta dal balcone. Immagina Roberta in cucina che apre il rubinetto o a tavola coi genitori.[Discorsi tra amici su Narciso]. Gli piace fissare il balcone di Roberta più che incontrarla. Il sarto e i suoi problemi col padrone. Roberta non ha risposto al suo invito a salire sulla spianata. Sale sul Duomo. «Che cosa c’è in alto…» (117, 129, 152, 182). Le ragazzine thailandesi gli regalano una cavalletta di bambù. Al freddo e il libro di Peguy che girava in Gioventù Studentesca. Alfredo è l’incaricato di Gioventù Studentesca che  fa da guida spirituale ai giessini di una scuola. Nella casa di Alfredo ci sono tanti libri. Su Roberta e il suo bicchier d’acqua.

9.
Suo padre a capotavola. Racconta un episodio: doveva andare al lavoro e al bar la cameriera non gli portava il cappuccino. Visita ai genitori e freddezza. Competizione tra padre e madre sulla scelta del liceo per il figlio. [Adilah marocchino e il dolore di  perdere un lavoro che piace]. Scende dalla scala a chiocciola del Duomo. L’invecchiamento dei genitori. La madre morente (126). La madre morta. Difficoltà di dialogo col padre, ora vedovo: crede che sua moglie morta sia ancora ricoverata in ospedale. Morte del padre. Mirco e il doposcuola all’oratorio. Una processione. Uno studente svogliato. Da grande pensa di fare l’insegnante. Ancora a scuola: l’associazione studentesca. Uno scaricatore di porto: una vita da cani. Il sarto parla e vorrebbe cucire un abito per questo scaricatore (133). Parla  un becchino. [Un incendio di isbe e Mitja  che parla dei poveri]. Turisti su un pullman in Vietnam: gli zaini strappati a lui e a Bianca per costringerli ad andare in un certo albergo. Rifiuto.

10.
Giornata di neve. Ricordo della madre in cucina. Da piccolo sotto il tavolo dove i grandi non vanno mai. Un capriolo sulla stradina. Tanti mondi  e in Messico  un vecchio calzolaio, ipotesi sulla sua vita da povero. Ragazze che dicono io. Da Cesare il professore di  arabo. La ragazza dell’Arci Bellezza. Bambini che giocano alla campana. [Traghetto ad Haiphong].  Viaggio sul fiume in Laos. Il ragazzo decide di voler fare il traduttore. Al convegno nazionale  del movimento studentesco a Ca Foscari. Nell’università occupata lui  è col pigiamone azzurro. Il pittore astrattista Milo. Che cosa c’è da fare al mondo? Piantare giardini (148). Roberta, segretaria in una ditta di export-import. Lucrezia l’ecologista contro lo spreco dell’acqua. Il volantino dopo che «Allende è morto» scritto per i contadini e gli operai del PCI di Calice. Roberta ha trovato la “soddisfazione” nel lavoro (152). Piera la moglie del pittore Milo si uccide (152).

11.
Brindisi la città di sua madre ai tempi della guerra. Cenni alla storia di sua madre ragazza e delle sue sorelle. La nonna che fa le orecchiette. La passeggiata nel corso di Brindisi: maschi da una parte e femmine dall’altra. Imitazione del cugino. Timidezza. I ragazzi insinuano che sia “ricchione”. Ruggero un suo amico che frequenta la biblioteca e scrive di filosofia. Specchiolla, paesino di BrIndisi [Spiaggia del Vietnam] [La casa degli zii a Specchiolla]. Ascolto della musica senza pensieri. Lui, Bianca e il bambino Leandro. A Brindisi  in giro nella periferia dove abitano braccianti e muratori.

12.
Studenti  inquieti nella scuola. “Milano Studenti”, giornale dei GS. L’amico di San Vito dei Normanni che frequenta l’università Cattolica ed entra in urto col padre.  La società è indietro rispetto all’uomo (168). La rivoluzione. [Thailandia: una donna anziana e una giovane cariche di cataste di legna sulle spalle e i turisti]. A distribuire volantini davanti ad un ITIS di Milano. Partecipa ad assemblea in piazza Leonardo. L’operaio di Lotta Continua della Pirelli Bicocca. Vorrebbe fermarsi nella chiesa di un prete giesse, ma poi prosegue e va alla manifestazione. Corteo: braccia e piedi. Liceo Parini di Milano e attacco dei poliziotti. Manifestazione bella seguita in bici. Un poliziotto dall’aria spaventata vicino alla Statale. Uno armato di pistola. Lui si butta dietro un’auto.  I discorsi che si fanno: reificazione, immaginazione al potere, vogliamo tutto. Il dovere di volantinare alla Brion Vega. Non ha voglia di entrare a fare le ripetizioni ai figli degli operai (174). Cosa vuol fare? Una rivista. Miriam la compagna di Lotta Continua che gli piace. Fine delle lezioni ai figli degli operai. Vacanze.

13.
Zia Rosaria che l’accompagna a scuola in prima elementare. [Prima lezione d’italiano agli immigrati a Baggio]. Su una ringhiera davanti alla scuola elementare da ragazzo. Il carretto del venditore di castagne. Le strisce pedonali: era obbligatorio passarci. L’edificio massiccio della scuola elementare. Cosa ci sarà dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto? Descrizione di una folla: volti ossuti, etc. (181) [Hanoi]. Una festa ed esitazione a baciare una ragazza. Cosa c’è in alto e da lì cosa si vede: il bambino irakeno che picchia la scarpa sulla testa della statua di Saddam abbattuta e trascinata per strada. Parla il bambino. I mitra degli americani e il gioco da ragazzi di mitragliare [Huè, Vietnam: il figlio di un vietnamita che ha combattuto gli americani]. Ancora il bimbo  irakeno che racconta. Un amico d’infanzia figlio di un amico del padre. Timido lui e sfacciato l’altro. A confronto. Con l’amico sul terrazzo gioca a fare il processo di Perry Mason. Il padre mai andato in villeggiatura. Perché lascia la moglie e i figli in vacanze? La carovana  per la pace a Sarajevo. Il pullman coi partecipanti e gli olandesi  che  scambiano un funerale per una festa di matrimonio. Volevo vedere la guerra. Guido Puletti ucciso mentre consegnava aiuti ai profughi.

14.
Reggio Emilia scuola media. La lavagna verde. Spia con il binocolo e viene rimproverato.  “Non voglio diventare grande” dice Leandro. La foto della madre di lui in bici. In bici con gli amici e il vecchio che sbraita perché un figlio o nipote è stato investito da una bicicletta ed è morto. I vecchi di Reggio Emilia col garofano rosso. Con le maestre a teatro a vedere  «Canto di Natale» di Dickens. Maria Rosa malata di cancro dove i suoi vanno a mangiare a Natale. Greta che sciava ha un cancro ed è andata da lui e Bianca  in vacanza al mare.  Vito, il siciliano venuto dalle Madonie e che da ragazzo è stato morso da un’asina, cura capre e galline. [Il silenzio della montagna]. Una folla che si è riunita e gente incerta se andare e non andare “là oltre i campi, oltre la collina” (203). Una signora che spinge un passeggino e ancora un bimbo che dorme e succhia il ciuccio.

[2] Abati in una recensione su  “il manifesto”: ««L’opera si dispiega su tre piani, distinti anche graficamente. Il corpo centrale è costituito dalla narrazione in terza persona di frammenti di un «lui»; accanto ad esso frequenti fuori-campo in corsivo, in prima persona, che la nota d’autore dice «tratti per la maggior parte da miei diari e scritti, in molti casi pubblicati in Qui»; sopra di essi insistono brevissimi inserti di una riga, talvolta allineati a destra, sovente ripetuti a distanza, in funzione esplicitamente metanarrativa.» (qui)

[3] Pag. 47: «Che cos’è il passato? Non lo so.»

[4] Pag. 92.

[5] Pag. 183.

[6] Pag. 188 ripreso a pag. 194.

[7] Pag. 174.

[8]  Pag. 174.

[9] Pag. 175.

[10] Pag. 175.

[11] Anche se trovo sintomatico che l’unico cenno  a Fortini, che di quei “destini generali” sessantotteschi resta un simbolo, anche a Parizzi ben noto, in «Io» compaia solo per un episodio davvero minimo: «Ma lui, anche se lavora al computer tutto il giorno, il cellulare ce l’ha, e anche la smart tv eccetera, si annoia. Di più, si irrita. E, dopo averlo ascoltato un po’, finisce col rispondergli con la domanda che un poeta, un intellettuale che una volta andava ogni tanto a trovare, aveva scritto a matita sul margine di una rivista degli anni Sessanta che gli aveva prestato, accanto a un articolo che parlava entusiasta di autostrade e utilitarie: “In che senso un albero sarebbe più vecchio di una macchina?” (pag. 46).

[12] Pag. 103.

[13] Pag. 192.

[14] Mi aveva colpito la riflessione del filosofo francese Simondon, che non conoscevo e mi è arrivata attraverso la mediazione dell’articolo di  Paolo Virno apparso in «Derive Approdi» ( pag. 54, n.21,  primavera 2002). Da lì ho  preso questo stralcio.  Chiarisce ciò che a me pare  mancare in «Io» di Parizzi,  ma anche a me che ancora tento di una rivista-noi  malgrado “la polis che non c’e’”.

Sereni Impostori

di Ezio Partesana

Un complotto è un inganno ordito ai danni di chi non ne sa nulla, una cosa sotterranea che solo alcuni conoscono ma potrà avere grandi effetti, a patto che nessuno lo scopra; condizione indispensabile è che la vittima, una persona o molte, sia ignara. Non posso complottare contro me stesso, per esempio, né contro un lago o un albero di passo. All’intrigo è necessario ci siano due coscienze, una delle quali sa cosa sta progettando e l’altra lo ignora; l’ignorante è la vittima, il sapiente l’esecutore.
Un complotto può essere buono o cattivo, può essere teso a eliminare un uomo sanguinario che è al potere come a imporre un ordine conveniente là dove non ce n’è alcun bisogno. L’etimologia è incerta ma in ogni caso si tratta di una cosa segreta fatta da alcuni alle spalle di altri.
Alcuni tentativi, nella storia, sono andati a buon fine, altri no. Il primo punto è che la fiducia in una cospirazione prevede la convinzione che le azioni di alcuni uomini possano modificare il corso degli eventi, è una storia di individui quella di una trama ordita per ottenere questo o quest’altro. Su altro non si pensa: la forza di gravità non è un complotto come non lo sono le terzine di Dante. Non è un’aporia: un complotto deve sempre, in una qualche misura, essere politico perché abbia senso; può essere la politica minuscola di una lite in famiglia o quella enorme di uno sterminio, ma sempre di politica si tratta.
Il secondo, implicito, comandamento per un complotto è che sia difficile da scoprire e che dunque si debba agire contro di esso sulla base di indizi, supposizioni, induzioni. Si immagina ci sia qualche volontà tesa a farci del male – per suo personale guadagno o mera cattiveria, non importa – e che, come investigatori, si possa scoprirla solo seguendo le tracce del suo operare nascosto. Bisogna essere molto intelligenti per svelare la macchinazione, non c’è dubbio; un plotone di esecuzione non ha bisogno di cogliere di sorpresa il nemico, un colpo di stato sì.
L’assunzione, in tutti i casi, è che ci sia qualcosa che comanda la vita, e l’assunzione è corretta: un terremoto, una malattia, non è in nostro potere fermarli; si possono ridurre gli effetti, forse, non fare scomparire le cause. Letteralmente rispetto al mondo noi siamo il capro che devasta le vigne. Anche altre forme di dolore, però, sono tragedie che rendono la stessa misura di impotenza, ma hanno origine all’interno della sfera sociale: il censo, l’educazione, il lavoro, per esempio, o la geografia e le credenze.
Hanno tutte le caratteristiche di un complotto ai nostri danni le differenze di impiego, salario, conoscenze, e fuori da casa di etnia, acqua o cura, e vengono ovviamente percepite allo stesso modo, si cerca il colpevole, nascosto da qualche parte, in agguato. Poiché non sono stato io a scegliere di essere quello che sono e che non mi piace e mi fa soffrire, allora deve essere stato qualcun altro, che ha interesse a tenermi in questa condizione.
Quale condizione? È questa la domanda che dovrebbe venire per prima: Qual è la mia condizione. Per rispondere, però, sono necessarie molte cose; in primo luogo tempo per riflettere, poi informazioni sugli altri che sembrano essere come me, quindi accesso al sapere collettivo, capacità di ragionamento e via di seguito. Ma se la mia condizione è proprio quella di chi non può fare nessuna di queste cose, quale mai potrà essere la via d’uscita?
Rinnegare è una delle condizioni umane: fare finta di non essere poveri; spergiurare, tremando, di non avere paura; fingere di aver già saputo quel che in realtà ci ha colto di sorpresa. Di fronte a esami finali, tuttavia, la costruzione crolla e nel castello non si può più entrare; sono gli squarci dove si vede la trama del romanzo, la recitazione forzata degli attori o, semplicemente, il dominio della struttura sociale. Nessuna donna è un uomo, nessun uomo è un’isola, nessuna isola è in pace.
L’esperienza immediata è quella di uomini che agiscono contro altri come loro: il licenziamento è arrivato dal capo del personale, è lui il colpevole; gli anni di studio non hanno portato a nulla per l’invidia dei colleghi; perché non mi hanno accolto quando avrebbero potuto farlo? Qualcuno (non so chi) dovrà un giorno renderne conto. L’esperienza diretta è solo di individui, “storici” perché le loro azioni cambiano la nostra condizione, ma anche potenti per grazia ricevuta. Si intuisce, in una qualche forma confusa, che questi funzionari occupano un posto all’interno di una struttura, ma si immagina che siano essi a determinare quella e non viceversa.
Più la situazione è disperata e dolorosa, maggiori sono le spinte a cercare una soluzione veloce che, se solo fosse possibile praticare con risolutezza, rimetterebbe le cose a posto. È l’idea dell’assassino: un colpo ben assestato e tutti i miei problemi saranno risolti – la disperazione è parte della contraddizione, non una mera conseguenza. Ma se nonostante tutto questo nulla cambia allora deve esserci un complotto in atto, perché non è possibile che le condizioni di vita siano davvero come sembrano.
La distanza tra desideri e quotidiana vita è misurabile solo per quelli che possono disinteressarsi, o quasi, del quotidiano. Per gli altri, che non vedono ragione per la quale debbano essere gli ultimi a sapere e a poter fare, la lontananza è incolmabile, e è esattamente in quello spazio che si inserisce l’anima cattiva che ha la colpa di quel che accade.
Se gli uomini potessero vedere tutto d’un colpo, se fosse trasparente l’involucro che custodisce i motori e le catene della storia, allora il politico autoritario o il funzionario meschino sarebbero solo una curiosità che bisogna sì eliminare ma come si tolgono gli infestanti da un campo seminato a grano. Dacché siamo ciechi invece, si scruta il prossimo, il vicino, con una lente che lo restituisce cento volte più grande e seduto proprio là dove dovremmo essere noi, e dove certamente saremo una volta scoperto l’inganno. Poco importa che il diavolo sia da solo o si dedichi, piuttosto, a tirare le fila di schiere che obbediscono volenterose, svanisse la sua malvagità il mondo sarebbe più giusto e ognuno vedrebbe riconosciuti i diritti che ritiene di avere.
È l’illusione di una autonomia – ormai ridotta a scelte di consumo – che sprona gli individui a credere al complotto; vittime che di individuale non hanno quasi nulla compensano l’impotenza con una immaginaria potenza altrui, con una cattiva volontà che sovrasta persino la storia della scienza, l’organizzazione sociale e la conoscenza. Sono, letteralmente, seduti in una caverna e quel che vedono passare sono fantasmi, piccoli riflessi del lavoro che si sta svolgendo altrove e sopra il quale non hanno nulla da dire.
Una vendetta è necessaria. In primo luogo verso gli ubbidienti, i rassegnati che accettano supinamente quel che viene loro raccontato, e già questa è la riprova che noi non siamo come loro, non siamo il gregge; l’antico gesto dell’ostracismo diventa una forma di identità: si intuisce che così non può essere e dunque si è altrimenti, a qualunque costo. Non essere tra gli ultimi perché più svegli, più attenti, meglio informati, è un balsamo per l’Io disperso tra impegni e doveri, nonché la riprova che debba esserci qualche trama nascosta che mi fa assomigliare così tanto alla pletora dei sottoposti.
In primo luogo una scissione, dunque, che genera un Soggetto che è tale proprio perché possiede una facoltà di discernimento che gli altri, i generici altri soggetti, non hanno. La divisione però richiede il riconoscimento di un destino comune: prendere le distanze dal tetto della casa di fronte non ha alcun senso, dal mio vicino di casa sì, perché egli si trova nella mia stessa situazione ma non lo sa. In fondo chi crede ai complotti è un ottimista, smascherati quelli tutti nel mondo godrebbero di una vita piena e soddisfacente.
Dimostrare a se stessi di “non essere come gli altri” è un’impresa non facile perché la somiglianza è forte. Un tempo era il successo economico a fare da banco di prova o le famiglie di origine, anche un titolo di studio poteva andare bene, medico, avvocato, ingegnere, qualche cosa che non fosse accessibile a tutti insomma, un tratto distintivo notabile al volo, e sovente l’una qualità era legata all’altra: i nobili erano colti, gli avvocati ricchi e i medici possedevano un sapere indispensabile. Ma oggi nessuno si sente al sicuro dall’anonimato per il fatto di possedere beni costosi o avere conseguito una laurea. Così si è inventata dal nulla una nuova categoria: Non farsi ingannare. Chi non si fa ingannare dalla propaganda di regime – è tutta la conoscenza è regime – ha qualcosa in più degli altri che non può essere confuso con i soldi, la fama o il potere politico. È un dono che dipende solo da noi, nessuno studio è necessario, basta averne voglia. La cultura e il faticoso emergere di competenze diventano un segno di pigrizia intellettuale, un privilegio che non ha più motivo di essere da quando il mondo è governato da élite nascoste ai più e intente a portare a termine con ogni mezzo il proprio progetto. Peggio, chi scova i complotti è convinto che il primo sia proprio quello di far credere che per capire sia necessario sapere; il ceto intellettuale è una macchinazione della loggia segreta del potere.
L’idea che quel che non si vede non possa fare male è moderna e come tale sopravvive. Anche se oggi sappiamo che esistono oggetti e forze che non sono percepibili dai cinque sensi, e accettiamo serenamente di servircene nella vita quotidiana, esiste pur sempre un limite oltre il quale la nostra credenza non può andare ed è stabilito dalla tecnologia: quel che funziona esiste, anche se la maggioranza degli uomini non sa come o perché, il resto è un’invenzione diffusa a arte per renderci inermi, dunque non solo non serve ma è anzi dannosa. Secoli fa gli uomini professavano di temere gli dèi, oggi gli inganni del potere hanno avuto il loro Olimpo e a loro si fanno sacrifici per scampare la sorte.
Le diseguaglianze sono dolorose soprattutto per chi è sul piatto minore della bilancia. Per compensare è necessario aggiungere qualcosa dalla propria parte, ma poiché disparità sono reali e evidenti bisogna rendere altrettanto pesanti le convinzioni che spiegano la disparità come frutto di un complotto e contemporaneamente alleggerire il valore di quel che fa pendere la bilancia dalla parte opposta. Il primordiale meccanismo del disprezzo per quel che non si può raggiungere si salda con la certezza di aver trovato ben altro di cui andare fieri. L’arma che l’oppresso potrebbe impugnare contro il controllo viene felicemente gettata via per la paura che possa esplodere di colpo, e rivelare il trucco.
La vita amministrata procede per disillusioni; confessa, con il passare del tempo, la sempre crescente sfera dell’esistenza sulla quale è impossibile avere controllo. Il capitale si muove e replica se stesso senza il nostro consenso; la tecnica avanza e ci rende idioti speranzosi che tutto vada come previsto; il pianeta è esausto e non sarà certo un avanzo gettato nel cassonetto corretto a salvare l’esistenza; lo sfruttamento e la povertà concordano sul da farsi, qualunque sia il giudizio sul mercato multinazionale; l’età spaventa come allora, anche se è la nostra adesso.
Il complotto è la forma contemporanea dell’impotenza, è una fuga in equazioni a portata di mano, semplificazione che si sogna e infine spostamento della totalità e condensazione in un’unica parte, indifferente e inutile. Chi complotta è chi svela sono la stessa persona, uguali nella fiducia smisurata in un Sé che non esiste, e solidali nel riconoscersi l’un l’altro come i veri artefici di quel che accade. All’apparenza concreta e radicata, come ogni “qui e ora”, la lotta contro gli intrighi universali che dominerebbero il mondo si rivela così astratta che neanche l’esperienza individuale può scalfirla. È un riassunto, per così dire, che mette insieme tutto quel che non va e poi lo distribuisce non in base a ragione ma sopra indefiniti gruppi di potere che sono tutto e niente.
Lo spostamento è evidente: ci si accontenta di colpevoli verosimili e astratti – immigrati, multinazionali, ebrei, poco cambia – buoni sino a che non hanno nulla a che fare con noi; chi immagina raggiri non pensa mai di essere un collaborazionista ma solo una potenziale vittima che ha scoperto l’inganno. “Non siamo stati noi” è il motto che sventola sopra ogni bandiera nei cortei degli indignati a vita in marcia verso la liberazione. Fatto questo l’assoluzione è duplice: il singolo non ha colpe ma neanche il modo sociale di riproduzione è responsabile del disastro che pure è sotto gli occhi di tutti.
La gratificazione di essere dalla parte dei buoni nonostante l’infame servizio dei giornali, servi del potere, e del sapere confiscato dai pochi per proprio tornaconto, è sufficiente a arrestare qualunque ulteriore sviluppo. Le espressioni diventano stereotipe: la “storia ufficiale”, i “dogmi della scienza”, il “coraggio di pochi”, le “voci fuori dal coro”, e l’odio si riversa su coloro che esprimono perplessità sopra quel miracoloso risveglio. A chi ricordasse loro che il costo del lavoro è il risultato di una lotta politica, non il trucco di un disonesto, i seguaci delle cospirazioni toglierebbero volentieri la parola sostenendo che anche l’economia è una bugia raccontata per farci star buoni.
Una volta consegnato il mondo a poche menti perverse, lo spazio per altro si riduce sino quasi a scomparire. Se politica, cultura, organizzazione e studio non sono altro che un inganno, sul campo schierate in formazione restano solo la rabbia e il compiacimento. Si accusa quel che manca di essere la causa della miseria e ci si libera del poco che pure sarebbe rimasto, a favore di un risorgimento tutto personale, esibendo pace interiore e compiaciuti ritornelli di circostanza. Con queste maniera si fugge, è vero, la condizione umana del presente storico, ma si abbandona anche ogni principio di speranza: se non sono gli uomini a fare la storia, chi mai potrà salvarsi?
La teoria del complotto è la versione facile della coscienza politica, senza classi, senza mezzi di produzione e senza strategia. Garantisce un illimitato credito verso se stessi, con una parvenza di soggettività, e protegge, a un tempo, dalla inquietante scoperta di far parte – né più né meno di altri – delle procedure autonome di alienazione. Due secoli fa si scriveva che gli uomini assegnavano a Dio tutto quel che di bene ancora non c’era in terra e poi credevano a quel che avevano proiettato perché il bene, in qualche forma, volevano. Oggi si aliena il male al Diavolo e si combatte un fantasma, nella convinzione che comunque tutto sia perduto. La disperazione dei complotti è tutta qui, nel gesto con il quale si irride la conoscenza e si ingrassa un vitello che non è più nemmeno fatto d’oro.