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L’immigrazione italiana in Svizzera dal dopoguerra agli anni ’80

di Alessandro Le Goff

I brani qui pubblicati sono tratti da un’accurata e ben documentata tesina di maturità  di Alessandro Le Goff, uno studente svizzero figlio di immigrati (padre francese e  madre italiana). In essa ha trattato vari aspetti dell’emigrazione italiana in Svizzera  dal dopoguerra agli anni ’80 del Novecento: condizioni di vita e di lavoro, la fatica del viaggio, le difficoltà di integrazione, la costrizione delle rigide regole di ingaggio, specie degli stagionali, la condizione di clandestinità in cui erano tenuti i bambini dei lavoratori immigrati. Sono temi ben approfonditi dalla più recente storiaografia sulle migrazioni, ma  è importante vedere come  sono accolti e  rimodulati in un linguaggio chiaro e puntuale da un giovane che se ne serve per chiarire il suo passato familiare e la propria identità in costruzione. E anche i possibili legami (nonché le differenze) con le nuove migrazioni intercontinentali. [E.A.] Continua la lettura di L’immigrazione italiana in Svizzera dal dopoguerra agli anni ’80

Tre poesie

di Annamaria Locatelli

Un fiore
 
Di ritorno sul solito treno,
dopo commiati e pianti ricacciati,
risospinta lontano
in mare aperto
nella risacca di onde all’indietro...
....sul treno di ritorno,
una volta come tante,
un gran sferragliamento
e il convoglio s’arresto!
Uno scambio fulmineo? Un guasto?
No, una voce lieve di verità
in lenta carovana di sguardi
serpeggiò...
Nel vagone accanto,
sommessamente,
un uomo
la vita aveva lasciato,
il capo molle reclinato
sulla spalla
dell’ignoto vicino.
Mi prese un sussulto
di sgomento
per quell’insolito
anonimo destino,
ma infine mi rallegrai,
forse invidiai
quel cullato trapasso
dal vitale movimento
all’immoto centro
del nido agognato...




Volpina
 
Invano cercheresti
nel musetto a triangolo
la grazia del gatto..
Gli occhi sgranati
sanno la fame,
lunga eterna,
di Arlecchin Batocia
e Pulcinella.
L’affilato visetto
in piccole astuzie
trascina
l’esistenza clandestina.
Rosseggia la folta coda
nei boschi,
bersaglio in fasti di caccia.
La volpina bella
fugge
dal mondo crudele...
 
 
 
 
 
Amici dei fiori
 
Giardino di fiori e di piante
assoggettate al disegno dell’uomo
che ha mani sapienti
e stabilisce confini
assembla colori e aiuole
stabilisce la statura dell’erba
seleziona i contorni del verde
traccia meditati percorsi
ombreggia radure
soleggia tratti boschivi
...docili gli esseri vegetali!
 
...ed ora per sentieri montani
non tracciati
se non da serpi e scarponi
tra cespugli pietre e rovi
a svelare
i fiori sciolti d’altura
ritagli azzurri gialli rossi
oltre le vette irraggiungibili
e noi,
giardinieri metodici,
ad inchinarci
davanti a tanto respiro
sapiente e sconfinato
 
 
 
 
 
 
E’ quanto
 
Su una piccola mano
aperta
porgiamo quanto...
La mano
trema per la miseria
di quel quanto:
una manciata di semi
dispersi nel deserto
poi dal vento.
Eppure brillano,
raggi figli del sole,
e per un istante soltanto...
È quanto 

Il treno in Pasternàk: gli incontri, il destino,

Astapovo Station

1)

    L’infanzia di Pasternàk  ha come una ferita, come una folgore la presenza di Tolstòj. Non solo, ma anche l’andare su e giù dei treni alla stazione mentre Tolstòj muore nella stanzioncina influirà su tutta la poesia di Pasternàk. Il treno è tolstòjanamente uno dei problemi centrali della poesia di Pasternàk, il problema delle stazioni, dei razsluki, degli addii, il problema della ferraglia che cozza, delle vetture che si urtano l’una con l’altra; è quasi un riflesso del destino e quindi un lontano riflesso di Anna Karerina.

    Pasternàk tramite il padre, famoso pittore, conosce un gran numero di pittori da Vrubel’ a Serov a Vacnecov, conosce scrittori come Gorkij, artisti stranieri, come il poeta fiammingo Verhaeren, che frequenta la sua casa e a cui spesso il padre fa il ritratto.

   Scrive Pasternàk: ” Nel 1913 Verhaeren era a Mosca. Mio padre gli fece un ritratto. …io gli chiesi timidamente se avesse sentito parlare di Rilke. Non pensavo che Verhaeren lo conoscesse. È il migliore poeta d’Europa, disse Verhaeren, lo considero il mio fratello prediletto”, in Boris Pasternàk – Autobiografia. op. cit. p.44.

(AMR – Corso su Pasternàk del 1972\73. pp.10-11)

   Rilke un giorno si recò a Jasnaja Poljana da Tolstoj. Ecco che il circolo si raccorda, tutto viene a chiudersi nella vita con raccordi. Scese dalla stanzioncina dove l’aspettava la carrozza mandata dai Tolstoj. Comunque Rilke era in stretto rapporto con la famiglia Pasternàk, si scriveva con il padre, fu ritratto dal padre, regalò al padre le prime raccolte, che poi furono lette da Pasternàk (padre) che conosceva il tedesco perfettamente, quasi quanto il russo. Rilke colpì la fantasia del giovane Pasternàk così come lo aveva colpito la lettura delle poesie di A. Blok.  Mentre diceva che Blok era il poeta della città, cioè di Pietroburgo; Rilke era per lui “il secondo grande lirico del secolo”, dopo Blok

——————

 Emil Verhaeren (1855-1916); un filo rosso lega questo autore a Tolstòj attraverso il padre di Boris Pasternàk, amico di entrambi… la morte per treno, il 27/11/1916, del poeta belga e del personaggio Karenina. Verhaeren, che aveva cantato la città ferrigna  sarà celebrato da Majakovskij,  di cui a proposito scrive in Tenebre (Mrak,1916): “Oggi il cielo se l’è presa con Verhaeren./ Il cielo avrà pensato: /Dai/ che te lo sistemo io!/ Santoiddio,/e chi scriverà adesso?/ Scebuev, forse?.” Essendo quest’ultimo un mediocrissimo giornalista.

(mia nota 37, p. 10)

Il treno in Pasternàk si fonde con la Natura. Con le rocce alpestri della Svizzera (in Esenin è in contrasto), quando entra nella città di Marburgo si fa medievale, come Marburgo [1] stessa, cioè il treno aspira a fondersi con le cose (a differenza di Tolstòj e di Esenin dove il treno è creazione del diavolo e nemico.

(AMR , idem, p. 11)

——

Il treno  in Majakovskij è differente: è rumore, tecnica, modernità… tutto fa pensare che nulla  sia legato a un destino, a una fatalità; e invece così il poeta risponde a Galina Katanjan (una sera di marzo 1926 a Tiflis), la quale gli aveva detto che la sua poesia  A casa  le ricordava alcuni versi di Esenin; e allora Majakovskij: ”… resta a lungo in silenzio, rigira nervoso un bicchiere con del vino rosso e con voce bassa, più a se stesso che a me (declama i suoi stessi versi:)…e, baciando le ginocchia delle traversine,/lieve/mi abbraccerà il collo la ruota d’una locomotiva”. Ecco che cosa mi ricordano quei versi (di Esenin), bimba mia”, in Lilia e le altre, op.cit. p. 178.  – I versi citati sono gli ultimi tre del prologo della Tragedia in due atti : V. Majakovskij [che il curatore di questo Corso tradusse nel 1971 (o 1973? ), stimolato proprio da Ripellino, poi che si pensava di metterla in scena, dopo la prima esperienza teatrale; vedi nota 2, p.3]. La sensazione che adesso possa toccare a lui di morire è netta, quasi un presagio già presente dal tempo giovanile della tragedia nel1913!. Mentre nella poesia Amore dello stesso anno, era stata quasi una “giocoleria”  la locomotiva: “Una fanciulla timidamente si imbacuccava in un pantano,/dilagavano sinistramente i motivi delle ranocchie,/nelle rotaie vacillava un rossiccio qualcuno,/e con aria di rimprovero con riccioli passavano le locomotive”.  Anche quando Majakovskij cita dei versi di Puškin, il riferimento è diretto a se stesso, al suo stato mentale e psicologico esasperato: ”Puškin è un poeta geniale, dato che ha scritto: La mia sorte è segnata, lo so,/ma perché la vita abbia un futuro/la mattina debbo essere sicuro/che prima di sera vi rivedrò”, in Lilia e le altre, op.cit. p. 246. Da ricordare che il pittore Vasilij Cekrygin muore giovanissimo, a 25 anni, per incidente ferroviario. Con Majakovskij si era incontrato la prima volta nel 1912; nacque subito un sodalizio artistico tra i due. (mia nota 39, p.11).

(mia nota 37, p. 11)

——

Ma il punto di partenza è sempre Tolstòj; questi treni che vanno su e giù davanti alla stanzioncina di Ostapovo significando la grandiosità, la dilatazione dimensionale della Russia di fronte alla morte di quest’uomo, l’indifferenza del ferro manovrato dagli uomini di fronte allo scrittore che si spegne.

(AMR , idem, p. 11)

——–

Come tutto questo contrasta con le stazioni e i treni di Delvaux (1897-1994), che niente hanno di grandiosità se non la fissità, ma viceversa stazionano fermi, immutabili, silenziosi, come statue greche, quasi che osservandoli si possa pensare ai loro sogni, ai loro misteri, insomma sono carichi dei simboli della staticità metafisica! (quasi come le statue di De Chirico); si può dire che non amano il movimento e il frastuono, ma la rêverie di cui discute Gaston Bachelard.

(mia nota 40, p. 11)

   C’è un viaggio nell’infanzia di Pasternàk che è importante ed è del 1900, quando il padre porta tutta la famigliola per l’estate a Odessa. Sono quelle famose partenze delle famiglie russe che Stanislavskij ha così ben descritto ne La mia vita nell’arte, quando si preparavano ceste, cestini, gerle piene di cibo e di vestiti e di medicine e di pillole e di canfora e di tolù e di sciroppi, che rappresentavano questa dolcezza patriarcale perduta.

   Il viaggio di Pasternàk è descritto ne Il salvacondotto e c’è il treno, quindi. Alla stazione incontrano un signore tedesco che parlava anche in russo, che è accompagnato da una signora “ che io non so chi fosse” dice Pasternàk  in  Ochrannaja gramota. Ma è facile saperlo. In treno questo signore – ricorda il bambino Pasternàk – viene a visitare nello scompartimento tutti i Pasternàk, compreso lui. Questo signore è il poeta tedesco Rainer Maria Rilke, la donna era evidentemente Lou Andreas Salomè

(AMR , idem, p. 11)

Stazione

Stazione, cassaforte incombustibile
dei miei congedi, incontri e congedi,
amica provata e mia guida,
a cominciare - non si finirebbe mai nel dire i tuoi meriti.
 
 
Accadeva che tutta la mia vita fosse  - in una sciarpa,
bastava che fosse bloccato alla banchina il convoglio,          
ed emanavano fuoco le museruole delle arpie,
velandoci gli occhi col vapore.
 
 
Accadeva che mi sedessi accanto - (a qualcuno)               
ed ero spacciato. Mi accostavo  e mi staccavo.
Addio, è tempo, mia gioia.
Adesso salterò giù, conduttore.
 
 
Accadeva che l’occidente si aprisse
nelle manovre delle intemperie e delle traversine
e si mettesse ad afferrare fiocchi,
per non finire sotto i respingenti.
 
 
E si placava il fischio ripetuto,
e di lontano ne echeggiava un altro,
e il treno spazzava per le banchine
con una sorda bufera di neve dalle molte gobbe.
 
 
Ed ecco ormai il crepuscolo non ne poteva più,
ed ecco ormai dietro il fumo
si scatenavano il campo e il vento, -
oh, se anch’io fossi nel loro numero!
 
 
1913-1928

(trad. AMR)

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Questa poesia descrive anche  puntigliosamente il desiderio del poeta a voler far parte: o della bufera naturale che imperversa tra treni e vagoni e binari e traversine o di quella che la locomotiva, coi suoi sbuffi continui e fischi laceranti, e i treni, incrociandosi in moto, provocano, suscitando scompiglio anche nella sua mente: tutta questa identificazione è evidente nell’ultima strofa.

La distinzione tra Majakovskij e Pasternàk è per tante tematiche, marcata. (ancora una volta ho la sensazione che tra Pasternàk e Petrarca ci siano valide affinità: la cameretta come unica finestra di dove osservare il mondo…, p.e.). Tolstoj e Pasternàk vanno d’accordo, e come non potrebbe esserlo, anche sulla locomotiva, da entrambi vista qualche volta come congegno infernale; da Majakovskij (che sempre ha deriso Tolstoj nei suoi versi e nella prosa) è simulacro circense, folle (= sinonimo di rossiccio). Nella poesia Amore del 1913:  “il rossiccio qualcuno” è un pagliaccio qualsiasi; il treno: le locomotive hanno riccioli di fumo, (cfr. il treno in  Tolstoj e in Blok). Anche nella tragedia Vladimir Majakovskij (vedi nota2, p.3; e nota 39, p.11)  ci sono le locomotive e le vaporiere : “mi abbraccerà il collo la ruota di una locomotiva”, foriera anche in lui di disgrazie: non ci si può togliere dalla testa la fine di Anna Karerina e del primo poeta urbano, Emil Verhaeren. (vedi note 37 e 39, p.11).

    Il treno in Delvaux è monumento a un mito statico, quasi d’oltretomba¸ metafisica è la fissità di una locomotiva ancorata ad una stazione!

    Per la Cvetaeva, che non faceva altro che spostarsi da occidente a oriente e viceversa alla ricerca vana di una pace, il treno invece d’assumere sembianza di qualcosa in movimento, è apparentemente fermo… fisso è il viaggiatore sulla stazione poi che  partenza e arrivo sono attimi di staticità assoluta: è il dubbio angoscioso del partire oppure no che, appunto, ti pietrifica! E te ne stai fisso là, sulla stazione, e non sai se vi saranno incontri o congedi, arrivederci o addii: questo è anche la Cvetaeva!

   Che per Esenin il treno sia qualcosa di demoniaco non sorprende più di tanto: è visto dal poeta come un bisturi che taglia e sminuzza la sua campagna russa, quindi contro la tradizione rurale-pastorale: è dunque qualcosa che distrugge irreversibilmente, da cui non si può più tornare indietro.

   L’intento  del poeta Pasternàk:” Mi era necessario che soltanto una poesia contenesse la città di Venezia e che in un’altra fosse racchiusa la stazione di Brest, oggi stazione della Bielorussia e del Baltico”. Poi spiega la poesia:”…in lontananza, in fondo a binari e banchine, si levava nelle nubi, nel fumo, l’orizzonte d’addii della strada ferrata, oltre il quale scomparivano i treni; e dentro di sé racchiudeva la storia dei legami degli uomini, e incontri e commiati e avvenimenti di prima e di poi”. In B. Pasternàk-Autobiografia, Feltrinelli, 1967, pp. 67-68.    La quarta strofa forse allude al fatto che alla stazione di Brest avvengono alcune manovre: i binari in Russia hanno una carreggiata più stretta e allora bisogna sostituire le ruote, sollevando uno per uno tutti i vagoni e poi si riparte. /// Nel Corso al secondo verso della seconda strofa è scritto appiantato, che sta per fermato, fissato (da preferire bloccato) come se il convoglio non potesse assolutamente muoversi, andare

(mie note 139,140,141,142,143,144 – p. 37)


“Il prossimo compleanno” di Lorenzo Mercatanti 

 

Lorenzo Mercatanti  Il prossimo compleanno  Pequod 2010

di Angelo Australi

Di Lorenzo Mercatanti mi ero già interessato in questa rubrica scrivendo una breve nota sul suo racconto Una giornata in anticamera, uscito nel 2019 per la collana di narrativa del Circolo letterario Semmelweis, e in precedenza, sulla rivista fiorentina Pianeta Poesia, recensendo il romanzo pubblicato da Italic peQuod nel 2014, che già dal titolo anticipava la dimensione ironica dei contenuti: Il babbo avrebbe voluto dire ti amo, ma lo zio ne faceva anche a meno. Di recente, per la precisione ad agosto di quest’anno, sempre per la casa editrice anconetana, è uscita la racconta di racconti Il prossimo compleanno, che consiglio vivamente di leggere. Continua la lettura di “Il prossimo compleanno” di Lorenzo Mercatanti 

alla stazione dei treni

 

di Angelo Australi

Era dalla morte di Zio Seneca che il mio vivere in campagna si era ossidato come una pila scarica, tutti quei luoghi visitati con lui adesso non stimolavano più la mia fantasia. Forse dire che li sentivo ostili è improprio, visto che da bambino avevo sempre trovato il modo di trasformarli in un pretesto per inventare dei giochi, ma dopo la sua morte, quando andavo al podere dei parenti, le giornate estive erano diventate interminabili perché certi scorci di paesaggio si dilatavano nella noia fino a comprendere le persone con i suoi umori alti e bassi. Quelle dieci frasi con le quali i parenti avevano sempre comunicato e che da bambino aspettavo a gloria di sentirmi dire, all’improvviso si erano trasformate in macigni che gravavano su uno strano e insopportabile sentimento di inquietudine che non riuscivo a capire. Dopo i diciotto anni tutto il mio vivere dai parenti si era annientato dentro altri interessi, avevo degli amici sparsi in alcune città e la campagna non entrava neanche in parte nelle nostre discussioni. Quando ci incontravamo per assistere al concerto di uno dei nostri gruppi rock preferiti, parlavamo ore sognando di cambiare il mondo attraverso quei suoni e poi, finiti i soldi, rientravo al paese convinto di aver fatto qualcosa di buono. Continua la lettura di alla stazione dei treni

Poesie inedite

Scimmia e bimba per poesie Locatelli

di Annamaria Locatelli

Questa pubblicazione di alcune poesie inedite di Annamaria Locatelli non è solo un omaggio ad una delle commentatrici più assidue e cordiali di Poliscritture, ma un invito a riflettere, a partire dal suo caso concreto, sulla tenacia con la quale una donna, senza lasciarsi intimidire dai tanti e contraddittori e quasi sempre inconcludenti discorsi che si fanno sulla poesia d’oggi, continua – schiva ma decisa – a coltivarla per suo conto. Annamaria cerca la sua poesia nel fiabesco, dove i fiumi che scorrono non possono essere che pigri e le pecore bianche non possono che brucare. E lì però non dimentica la paura dell’animale selvatico (la piccola volpe smarrita) costretta a nascondersi «in anfratti solitari». Domina nella sua ricerca la nostalgia di un mondo primitivo (quasi di una Rousseau al femminile invaghita di «Lucy l’antenata»?). La spinta  più sentita è quella di sfuggire al mondo delle merci per rinascere, cancellando il presente abitato da uomini ammaliati e ammalati di nuove tecnologie, e ritrovarsi all’unisono con una natura intatta e rassicurante. Si può o si deve recuperare il gesto antico e semplice dell’impastare il pane e tornare pronti a spartirlo con i bisognosi? Non si finirà malcapitati a imprecare cercando «un appiglio/ in coda all’ultimo tram»? Eppure questo è il sogno che la poesia di Annamaria cura e alimenta. E che ai più scettici pone una domanda ineludibile: perché esso persiste in tanti/e? [E. A.] Continua la lettura di Poesie inedite

L’avventura. Viaggio a Roma di settembre

goethe

di Donato Salzarulo

  1. – Contravvenendo al noto proverbio che “Di Venere e di Marte / né si sposa, né si parte / né si mette mano all’arte”, decido di salire su una freccia rossa da Milano Centrale per Roma Termini la mattina di venerdi 25 settembre, alle 10 e 15.

Sono in compagnia di Lucia, la mia seconda figlia, conosciuta nella tribù famigliare per i suoi ritardi o per i suoi arrivi trafelati, all’ultimo minuto. Prendo perciò le mie precauzioni e le dico che il treno l’abbiamo alle dieci e che ci conviene partire dalla stazione metropolitana di Cologno Nord  verso le nove. «Così abbiamo anche il tempo di prenderci un caffè insieme». Continua la lettura di L’avventura. Viaggio a Roma di settembre

Il grande Torino

Grande Torinodi Marcellino Iovino

L’estate era al termine. Quell’anno era inaspettatamente finita in anticipo rispetto al solito.
Sulla banchina della stazione stavo conversando con un signore. Aspettavamo lo stesso treno.
“Guardi le foglie di quell’albero,” gli dissi ad un tratto, “stanno già cadendo e siamo solo all’inizio di settembre.” Continua la lettura di Il grande Torino

Hans il germanese

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di Giorgio Mannacio

A volte gli alberi, ignari, protendono i loro rami oltre il confine entro il quale sono stati piantati dal loro proprietario. Capita, dunque, che i loro frutti vadano a cadere sul terreno di un altro. I frutti, infatti, seguono la legge di gravità e si affidano al suolo. Anche loro, ignari come le piante che li hanno generati, non sanno a quante complicazioni si vada incontro per questo evento naturale. Continua la lettura di Hans il germanese

Fuoristrada

strade

di Alberto Mari

[Qui parla un narratore-poeta svagato, straniato, che monologa pacatamente per conto suo. Non si sa se viaggi senza «staccare il corpo dal letto» o si perda per le strade del vasto mondo. Abbraccia davvero la sua bella nei sedili del taxi? E se ne va in mezzo alla folla «spiazzata nel traffico»? O teme semplicemente, come tutti, di morire? Fa o immagina di fare queste e tante altre cose apparentemente di nessuna importanza ma che l’afferrano e lo fanno scrivere. Medita, osserva, s’interroga come un filosofo del vagabondare. Perché – dice – è «fuori strada» e va « verso l’unica strada possibile, immersa nell’unica nuvola che sta per diventare cielo». Noi lo seguiamo con simpatia, sperdendoci un po’ assieme a lui nel ritmo frammentato delle sue piccole visioni. (E.A.)]

…sei nel posto sbagliato, amico mio
è meglio che te la squagli
così l’unico suono che rimane
dopo che le ambulanze sono andate
è quello di Cenerentola che spazza
nel cammino della desolazione

Bob Dylan Desolation row

Nature morte e paesaggi e tutto quello che non rimane impresso malgrado la profondità delle strade di notte.
Sorpresi i passeggeri nella stanza della memoria, si agitano, parlano tutti insieme. Ogni cuore per conto suo percorre il proprio finestrino, ma non sa leggere i nomi che si intravedono agli angoli delle vie. Pareti, porte,vetrine sfilano nelle altezze ondulate del buio.
Aspetta la mano in tasca, la chiave introvabile. Cercano tra le monete le dita. Il collezionista di serrature, aspetta, aspetta, gli occhi sempre in ritardo, sentenze cupi rintocchi dell’aria.
Ma non c’è verso di staccare il corpo dal letto. Pensieri solidi reggono l’urto delle luci, lembi di essi si scollano e si piegano, ma basta poco per riprendersi dalle increspature e la carta fa la sua figura, nello scritto che trapela, le voci si confondono: “Parlate uno alla volta, che diamine!” E le voci si esercitano come in un balletto per assecondarlo, per poi interrompere il gioco di trattenersi. Continua la lettura di Fuoristrada